LE PORTE DELLA MENTE
a cura della dott.ssa Celeste Mangraviti
Semplici regole per l'auto-consapevolezza.
dott.ssa Celeste Mangraviti
Quando l'autostima è basilare per la nostra vita.
L’autostima è uno degli aspetti che maggiormente condiziona la psiche umana, dove con essa si intende la valutazione che ognuno di noi dà di se stesso. In questa sorta di giudizio interiore che diamo di noi sono implicati anche la soddisfazione per noi stessi, la consapevolezza del nostro valore e la fiducia nelle nostre stesse capacità. Quando abbiamo stima per noi stessi non mettiamo in discussione la nostra importanza e le nostre capacità, non proviamo eccessivi timori nell’intraprendere attività nuove e difficili, siamo tendenzialmente ottimisti e sicuri di poter attingere alle nostre risorse. Le situazioni difficili non sono percepite come barriere, ma come sfide stimolanti che generano energia e voglia di fare. Per chi ha una bassa autostima la situazione invece è opposta.
Ogni piccola prova può generare ansie e paure che spingono alla fuga piuttosto che ad un maggiore impegno. I dubbi sulle proprie capacità di riuscita influenzano la performance e diminuiscono la spinta motivazionale. Questo stato di tensione favorisce un fallimento che rinforza ulteriormente le convinzioni della persona creando un circolo vizioso. Tutto questo influisce sull’ atteggiamento generale nei confronti della vita. In particolare l’autostima è strettamente connessa al rapporto che costruiamo con gli altri: solo se abbiamo rispetto per noi stessi, i nostri bisogni e le nostre potenzialità possiamo costruire un rapporto costruttivo con le altre persone. I principali sintomi che si avvertono quando una persona ha un’autostima “bassa” sono i seguenti: Ansia cronica; senso di autocritica; invidia verso gli altri; sintomi fisici quali tachicardia, tremori, balbuzie, rossore e sudorazione. Per tale motivo è fondamentale trovare le giuste strategie per risolvere/alleviare questo problema e ricercare uno stato di maggior benessere e qualità di vita.Il primo passaggio è quello di accettare i propri fallimenti e le proprie delusioni pensando che sono soltanto dei momenti passeggeri, ciclici e spesso normali della Il secondo passaggio è quello di “imparare” ad esprimere il proprio punto di vista, ritenendolo legittimo e meritevole di essere espresso, anche quando non coincide con quello degli altri.
Infine, in un’ottica evolutiva, è necessario porre chiarezza dentro se stessi, rispetto a quelli che sono i propri desideri e obiettivi: “Cosa voglio veramente per me? Cosa desidero raggiungere?”. Iniziare a comprendere chi siamo e cosa vogliamo davvero è un passaggio complesso, che pochi di noi sono abituati a fare. È certamente molto difficile questo lavoro, soprattutto per chi vive da sempre questo tipo di disagio interiore e magari ha accumulato una serie di situazioni spiacevoli o “fallimentari” - nella vita personale o professionale - che determinano una biografia di vita spesso dolorosa.Partendo dal presupposto che non è mai troppo tardi per rimettersi in gioco e cambiare, se non si riesce a farcela da soli, allora il consiglio è quello di rivolgersi ad uno specialista che sarà in grado di accompagnarci in una riflessione più profonda, permettendoci soprattutto di vedere tutte le nostre risorse nascoste a cui poter attingere; quelle risorse che non ci eravamo mai accorti di avere: per riconoscerle, valorizzarle e metterle in campo facendole davvero nostre.
L’autostima è uno degli aspetti che maggiormente condiziona la psiche umana, dove con essa si intende la valutazione che ognuno di noi dà di se stesso. In questa sorta di giudizio interiore che diamo di noi sono implicati anche la soddisfazione per noi stessi, la consapevolezza del nostro valore e la fiducia nelle nostre stesse capacità. Quando abbiamo stima per noi stessi non mettiamo in discussione la nostra importanza e le nostre capacità, non proviamo eccessivi timori nell’intraprendere attività nuove e difficili, siamo tendenzialmente ottimisti e sicuri di poter attingere alle nostre risorse. Le situazioni difficili non sono percepite come barriere, ma come sfide stimolanti che generano energia e voglia di fare. Per chi ha una bassa autostima la situazione invece è opposta.
Ogni piccola prova può generare ansie e paure che spingono alla fuga piuttosto che ad un maggiore impegno. I dubbi sulle proprie capacità di riuscita influenzano la performance e diminuiscono la spinta motivazionale. Questo stato di tensione favorisce un fallimento che rinforza ulteriormente le convinzioni della persona creando un circolo vizioso. Tutto questo influisce sull’ atteggiamento generale nei confronti della vita. In particolare l’autostima è strettamente connessa al rapporto che costruiamo con gli altri: solo se abbiamo rispetto per noi stessi, i nostri bisogni e le nostre potenzialità possiamo costruire un rapporto costruttivo con le altre persone. I principali sintomi che si avvertono quando una persona ha un’autostima “bassa” sono i seguenti: Ansia cronica; senso di autocritica; invidia verso gli altri; sintomi fisici quali tachicardia, tremori, balbuzie, rossore e sudorazione. Per tale motivo è fondamentale trovare le giuste strategie per risolvere/alleviare questo problema e ricercare uno stato di maggior benessere e qualità di vita.Il primo passaggio è quello di accettare i propri fallimenti e le proprie delusioni pensando che sono soltanto dei momenti passeggeri, ciclici e spesso normali della Il secondo passaggio è quello di “imparare” ad esprimere il proprio punto di vista, ritenendolo legittimo e meritevole di essere espresso, anche quando non coincide con quello degli altri.
Infine, in un’ottica evolutiva, è necessario porre chiarezza dentro se stessi, rispetto a quelli che sono i propri desideri e obiettivi: “Cosa voglio veramente per me? Cosa desidero raggiungere?”. Iniziare a comprendere chi siamo e cosa vogliamo davvero è un passaggio complesso, che pochi di noi sono abituati a fare. È certamente molto difficile questo lavoro, soprattutto per chi vive da sempre questo tipo di disagio interiore e magari ha accumulato una serie di situazioni spiacevoli o “fallimentari” - nella vita personale o professionale - che determinano una biografia di vita spesso dolorosa.Partendo dal presupposto che non è mai troppo tardi per rimettersi in gioco e cambiare, se non si riesce a farcela da soli, allora il consiglio è quello di rivolgersi ad uno specialista che sarà in grado di accompagnarci in una riflessione più profonda, permettendoci soprattutto di vedere tutte le nostre risorse nascoste a cui poter attingere; quelle risorse che non ci eravamo mai accorti di avere: per riconoscerle, valorizzarle e metterle in campo facendole davvero nostre.
DCA e lo strano legame uomo e cibo.
dott.ssa Celeste Mangraviti
Quando il rapporto col cibo diventa davvero patologico.
I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono una categoria di disturbi inerente tutte quelle problematiche che concernono il rapporto tra l’individuo e il cibo. Tra i DCA più diffuse nella nostra società vi sono: l’Anoressia nervosa, la Bulimia nervosa, il Disturbo dell’alimentazione incontrollata. In questi disturbi l’alimentazione si trasforma in qualcosa di incontrollabile ed ossessivo, con rituali tali da compromettere la possibilità di consumare un pasto in modo "normale". Secondo un recente ricerca del Dipartimento di Psicologia Clinica di Roma sono circa due milioni i giovani italiani tra i 14 e i 26 anni affetti da disturbi del comportamento alimentare. Ma diamo un'occhiata nello specifico.
Anoressia nervosa: è caratterizzata dal rifiuto del cibo e dalla ricerca esasperata della magrezza. Si manifesta con una ossessionante preoccupazione per il proprio peso, con una distorta percezione corporea e con un alterato rapporto con il cibo, percepito come un nemico che può danneggiare o trasformare il corpo. Questo disturbo ha come conseguenza un drastico calo di peso, che può arrivare a compromettere seriamente la salute della persona.
Bulimia nervosa: è caratterizzata da ricorrenti "abbuffate" alimentari, legate alla sensazione di perdita di controllo e seguite da condotte di compensazione, come digiuno, vomito auto-indotto, uso di purganti o lassativi, o energici esercizi fisici che, nelle intenzione della persona, avrebbero lo scopo di eliminare le calorie assunte durante le abbuffate. Le conseguenze mediche delle condotte compensative, specialmente nel caso del vomito, variano da patologie del cavo orale e del tratto digerente, a squilibri elettrolitici (principalmente ipopotassiemia) e possono determinare la necessità di ospedalizzazione. La bulimia condivide con l’anoressia la distorsione dell’immagine corporea (anche se generalmente minore) e il terrore di ingrassare: molto spesso pazienti anoressici presentano condotte bulimiche e sono frequenti i casi di trasformazione in senso bulimico di quadri di anoressia nervosa.
Disturbo da Alimentazione Incontrollata: è caratterizzato da episodi ricorrenti di "abbuffate" non accompagnati dalla messa in atto di strategie per compensare l’ingestione del cibo in eccesso. L’abbuffata compulsiva è caratterizzata da perdita di controllo, velocità nel mangiare, sensazione di pienezza eccessiva, introduzione di grandi quantitativi di cibo in mancanza della sensazione di fame, segretezza nell’ atto del mangiare, disgusto e ribrezzo verso sé stessi, stati di ansia e forte agitazione espressi anche a livello motorio.
I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono una categoria di disturbi inerente tutte quelle problematiche che concernono il rapporto tra l’individuo e il cibo. Tra i DCA più diffuse nella nostra società vi sono: l’Anoressia nervosa, la Bulimia nervosa, il Disturbo dell’alimentazione incontrollata. In questi disturbi l’alimentazione si trasforma in qualcosa di incontrollabile ed ossessivo, con rituali tali da compromettere la possibilità di consumare un pasto in modo "normale". Secondo un recente ricerca del Dipartimento di Psicologia Clinica di Roma sono circa due milioni i giovani italiani tra i 14 e i 26 anni affetti da disturbi del comportamento alimentare. Ma diamo un'occhiata nello specifico.
Anoressia nervosa: è caratterizzata dal rifiuto del cibo e dalla ricerca esasperata della magrezza. Si manifesta con una ossessionante preoccupazione per il proprio peso, con una distorta percezione corporea e con un alterato rapporto con il cibo, percepito come un nemico che può danneggiare o trasformare il corpo. Questo disturbo ha come conseguenza un drastico calo di peso, che può arrivare a compromettere seriamente la salute della persona.
Bulimia nervosa: è caratterizzata da ricorrenti "abbuffate" alimentari, legate alla sensazione di perdita di controllo e seguite da condotte di compensazione, come digiuno, vomito auto-indotto, uso di purganti o lassativi, o energici esercizi fisici che, nelle intenzione della persona, avrebbero lo scopo di eliminare le calorie assunte durante le abbuffate. Le conseguenze mediche delle condotte compensative, specialmente nel caso del vomito, variano da patologie del cavo orale e del tratto digerente, a squilibri elettrolitici (principalmente ipopotassiemia) e possono determinare la necessità di ospedalizzazione. La bulimia condivide con l’anoressia la distorsione dell’immagine corporea (anche se generalmente minore) e il terrore di ingrassare: molto spesso pazienti anoressici presentano condotte bulimiche e sono frequenti i casi di trasformazione in senso bulimico di quadri di anoressia nervosa.
Disturbo da Alimentazione Incontrollata: è caratterizzato da episodi ricorrenti di "abbuffate" non accompagnati dalla messa in atto di strategie per compensare l’ingestione del cibo in eccesso. L’abbuffata compulsiva è caratterizzata da perdita di controllo, velocità nel mangiare, sensazione di pienezza eccessiva, introduzione di grandi quantitativi di cibo in mancanza della sensazione di fame, segretezza nell’ atto del mangiare, disgusto e ribrezzo verso sé stessi, stati di ansia e forte agitazione espressi anche a livello motorio.
Allucinazioni.Origine e percorso.
dott.ssa Celeste Mangraviti
Analisi psicopatologica del fenomeno allucinatorio.
La parola allucinazione deriva dal verbo latino allucinere, che significa “vagare nella mente”.In psicopatologia le allucinazioni sono classificate in modo chiaro tra i disturbi della percezione e sono diverse dalle allucinosi, percezione allucinatoria di cui è riconosciuta la natura patologica, e dalle illusioni, distorsione di una percezione sensoriale, causata dal modo in cui il cervello organizza e interpreta le informazioni ricevute. I Disturbi allucinatori furono affrontati in modo serie ed analitico nel 1575 da Fernel che usò, per la prima volta, il termine allucinazione, per definire delle affezioni oculari. Successivamente, nel 1817, Esquirol definì l’allucinazione come la convinzione intima di una sensazione attualmente percepita. L’allucinazione, dunque, deriverebbe da un’intensificazione dell’immagine in aggiunta a un’eccitazione degli organi sensoriali imputati alla ricezione della stessa, ma l’esatto meccanismo fisiologico sottostante rimane ancora non chiaro.
Spesso, l’allucinazione è accompagnata dal delirio che è fondamentale nel determinare forma e tipo di allucinazione, ad esempio il paranoide tende ad avere allucinazioni visive nelle quali sente di essere minacciato. Le allucinazioni si manifestano nel 10-27% della popolazione generale in assenza di una condizione medica generale o di assunzione di sostanze stupefacenti.Le allucinazioni possono verificarsi anche in presenza di una condizione medica generale, con malattie psichiatriche e neurologiche. Inoltre possono essere causate dall’assunzione di sostanze stupefacenti o da farmaci. Si riconoscono anche fenomeni allucinatori non patologici in presenza di deprivazione da sonno o di disturbo post traumatico da stress. Le teorie sulla genesi delle allucinazioni sono numerose e derivano dall’osservazione di quanto avviene nel corso di patologie neurologiche.
Quindi, da un punto di vista biologico si ha un’ irritazione che si traduce in iper-funzionamento di alcune zone del cervello che provocherebbero una interpretazione non veritiera di una serie di stimoli sensoriali.Invece, le allucinazioni presenti in soggetti in stato confusionale, per esempio da astinenza acuta da alcol o droghe, sono causate da un’alterazione diffusa dell’attività elettrica dell’intero encefalo.Esiste, anche, una ipotesi dopaminergica nella schizofrenia, in cui le allucinazioni deriverebbero da un iperfunzionamento delle vie mesolimbiche.In condizioni di deprivazione sensoriale, al contrario, le allucinazioni costituiscono una difesa dell’organismo in carenza di stimoli, poiché il cervello lavora sempre e, non potendo spegnersi, genera false percezioni. Inoltre, la terapia cognitivo-comportamentale aiuta nella riduzione e gestione del sintomo, ovvero riconoscimento dell’allucinazione, distanziamento critico e padroneggiamento da parte del paziente. Si ottiene in questo modo una maggiore consapevolezza del disturbo che favorisce l’attuazione della terapia farmacologica. Inoltre, è utile anche potenziare le abilità metacognitive del paziente e incrementare le abilità sociali, mediante i social skill training.
La parola allucinazione deriva dal verbo latino allucinere, che significa “vagare nella mente”.In psicopatologia le allucinazioni sono classificate in modo chiaro tra i disturbi della percezione e sono diverse dalle allucinosi, percezione allucinatoria di cui è riconosciuta la natura patologica, e dalle illusioni, distorsione di una percezione sensoriale, causata dal modo in cui il cervello organizza e interpreta le informazioni ricevute. I Disturbi allucinatori furono affrontati in modo serie ed analitico nel 1575 da Fernel che usò, per la prima volta, il termine allucinazione, per definire delle affezioni oculari. Successivamente, nel 1817, Esquirol definì l’allucinazione come la convinzione intima di una sensazione attualmente percepita. L’allucinazione, dunque, deriverebbe da un’intensificazione dell’immagine in aggiunta a un’eccitazione degli organi sensoriali imputati alla ricezione della stessa, ma l’esatto meccanismo fisiologico sottostante rimane ancora non chiaro.
Spesso, l’allucinazione è accompagnata dal delirio che è fondamentale nel determinare forma e tipo di allucinazione, ad esempio il paranoide tende ad avere allucinazioni visive nelle quali sente di essere minacciato. Le allucinazioni si manifestano nel 10-27% della popolazione generale in assenza di una condizione medica generale o di assunzione di sostanze stupefacenti.Le allucinazioni possono verificarsi anche in presenza di una condizione medica generale, con malattie psichiatriche e neurologiche. Inoltre possono essere causate dall’assunzione di sostanze stupefacenti o da farmaci. Si riconoscono anche fenomeni allucinatori non patologici in presenza di deprivazione da sonno o di disturbo post traumatico da stress. Le teorie sulla genesi delle allucinazioni sono numerose e derivano dall’osservazione di quanto avviene nel corso di patologie neurologiche.
Quindi, da un punto di vista biologico si ha un’ irritazione che si traduce in iper-funzionamento di alcune zone del cervello che provocherebbero una interpretazione non veritiera di una serie di stimoli sensoriali.Invece, le allucinazioni presenti in soggetti in stato confusionale, per esempio da astinenza acuta da alcol o droghe, sono causate da un’alterazione diffusa dell’attività elettrica dell’intero encefalo.Esiste, anche, una ipotesi dopaminergica nella schizofrenia, in cui le allucinazioni deriverebbero da un iperfunzionamento delle vie mesolimbiche.In condizioni di deprivazione sensoriale, al contrario, le allucinazioni costituiscono una difesa dell’organismo in carenza di stimoli, poiché il cervello lavora sempre e, non potendo spegnersi, genera false percezioni. Inoltre, la terapia cognitivo-comportamentale aiuta nella riduzione e gestione del sintomo, ovvero riconoscimento dell’allucinazione, distanziamento critico e padroneggiamento da parte del paziente. Si ottiene in questo modo una maggiore consapevolezza del disturbo che favorisce l’attuazione della terapia farmacologica. Inoltre, è utile anche potenziare le abilità metacognitive del paziente e incrementare le abilità sociali, mediante i social skill training.
Chirurgia plastica.I motivi psicologici.
di Celeste Mangraviti
Quando sono le ragioni inconsce della psiche a spingere dal chirurgo.
Da anni si ritiene a ragione che esiste un legame indelebile tra la chirurgia estetica e ricostruttiva e la psicologia. Già nell'antica Grecia, l'artista Policleto, scultore greco del periodo classico fu uno dei precursori definendo le regole per scolpire la figura umana secondo gli ideali della bellezza fisica, affermando che tutto doveva essere in un perfetto equilibrio di corpo e spirito. In molti casi le persone si rivolgono al chirurgo estetico per motivazioni dettate da esigenze fisiologiche, ovvero nel caso in cui vi sia un difetto fisico che ostacola funzioni vitali dell’organismo (come la respirazione) , oppure nel caso in cui sia necessaria la correzione di malformazioni congenite o postumi di traumi, incidenti o malattie. In altri casi invece le necessità del paziente sono di tipo puramente estetico; altre volte il paziente presenta entrambe queste esigenze. Molto spesso la richiesta di un intervento di chirurgia estetica trova motivazioni psicologiche palesi e/o inconsce.
Ed ecco allora che al parziale cambiamento della nostro aspetto esteriore ottenuto dopo un intervento di chirurgia estetica, si assiste molto spesso ad una rielaborazione della propria immagine interiorizzata, ma nello stesso tempo proiettata all’esterno, e questa rielaborazione incide a livello psicologico talvolta in maniera sostanziale.In tal modo la chirurgia incide sul proprio benessere psicofisico, modificando la percezione che il soggetto ha di sé stesso, come componente di una coppia, di una famiglia, di una comunità. Generalmente quasi tutti desiderano essere più belli perchè la bellezza è spesso sinonimo di successo e di gratificazione e un aspetto piacevole e bello aiuta ad avere maggior fiducia in noi stessi e nel rapporto con gli altri, con il mondo esterno e per questo siamo disposti a ricorrere alla chirurgia estetica.Le motivazioni che inducono una persona a ricorrere alla chirurgia estetica a volte nascono da una ricerca spasmodica di raggiungere una certa perfezione estetica o parametri di bellezza elevati e osannati dai mass media, sollecitando nelle donna e negli uomini senso di inferiorità ed inadeguatezza.
Non ci sono differenze motivazionali significative fra uomini e donne, tutti hanno alla base il bisogno di vedersi in modo diverso da come sono soprattutto quando la società ci induce a credere che occorra diventare bellissimi per essere “qualcuno”. E’ fondamentale analizzare attentamente le motivazioni all’intervento, la consulenza psicologica procede con l’esplorazione del vissuto emotivo legato all’intervento chirurgico. In particolare si mettono in evidenza le paure o le ansie legate all’intervento stesso ma anche le paure legate alla nuova immagine corporea. Molto spesso queste paure alimentano le aspettative “miracolistiche” sull’intervento soprattutto quando il paziente nel suo immaginario si aspetta di cambiare totalmente il proprio stato fisico. Aiutare il paziente a controllare la sua paura lo aiuta a sostenere meglio i fastidi del post operatorio ma anche ad accettare meglio i cambiamenti del proprio corpo, per quanto tanto desiderati ed immaginati.
Da anni si ritiene a ragione che esiste un legame indelebile tra la chirurgia estetica e ricostruttiva e la psicologia. Già nell'antica Grecia, l'artista Policleto, scultore greco del periodo classico fu uno dei precursori definendo le regole per scolpire la figura umana secondo gli ideali della bellezza fisica, affermando che tutto doveva essere in un perfetto equilibrio di corpo e spirito. In molti casi le persone si rivolgono al chirurgo estetico per motivazioni dettate da esigenze fisiologiche, ovvero nel caso in cui vi sia un difetto fisico che ostacola funzioni vitali dell’organismo (come la respirazione) , oppure nel caso in cui sia necessaria la correzione di malformazioni congenite o postumi di traumi, incidenti o malattie. In altri casi invece le necessità del paziente sono di tipo puramente estetico; altre volte il paziente presenta entrambe queste esigenze. Molto spesso la richiesta di un intervento di chirurgia estetica trova motivazioni psicologiche palesi e/o inconsce.
Ed ecco allora che al parziale cambiamento della nostro aspetto esteriore ottenuto dopo un intervento di chirurgia estetica, si assiste molto spesso ad una rielaborazione della propria immagine interiorizzata, ma nello stesso tempo proiettata all’esterno, e questa rielaborazione incide a livello psicologico talvolta in maniera sostanziale.In tal modo la chirurgia incide sul proprio benessere psicofisico, modificando la percezione che il soggetto ha di sé stesso, come componente di una coppia, di una famiglia, di una comunità. Generalmente quasi tutti desiderano essere più belli perchè la bellezza è spesso sinonimo di successo e di gratificazione e un aspetto piacevole e bello aiuta ad avere maggior fiducia in noi stessi e nel rapporto con gli altri, con il mondo esterno e per questo siamo disposti a ricorrere alla chirurgia estetica.Le motivazioni che inducono una persona a ricorrere alla chirurgia estetica a volte nascono da una ricerca spasmodica di raggiungere una certa perfezione estetica o parametri di bellezza elevati e osannati dai mass media, sollecitando nelle donna e negli uomini senso di inferiorità ed inadeguatezza.
Non ci sono differenze motivazionali significative fra uomini e donne, tutti hanno alla base il bisogno di vedersi in modo diverso da come sono soprattutto quando la società ci induce a credere che occorra diventare bellissimi per essere “qualcuno”. E’ fondamentale analizzare attentamente le motivazioni all’intervento, la consulenza psicologica procede con l’esplorazione del vissuto emotivo legato all’intervento chirurgico. In particolare si mettono in evidenza le paure o le ansie legate all’intervento stesso ma anche le paure legate alla nuova immagine corporea. Molto spesso queste paure alimentano le aspettative “miracolistiche” sull’intervento soprattutto quando il paziente nel suo immaginario si aspetta di cambiare totalmente il proprio stato fisico. Aiutare il paziente a controllare la sua paura lo aiuta a sostenere meglio i fastidi del post operatorio ma anche ad accettare meglio i cambiamenti del proprio corpo, per quanto tanto desiderati ed immaginati.
La depressione e i suoi angoli oscuri.
di Celeste Mangraviti
Analisi del fenomeno partendo dalla persona.
Davvero tanto è ciò che è stato scitto sulla depressione, sviscerando caratteristiche patologiche e peculiarità cliniche; molto più utile è però cercare di analizzare la depressione mettendo al centro del percorso analitico la presona, l’individuo nelle sue mille sfaccettature. La persona affetta da depressione ha una visione di se e del futuro molto negativa, quasi come se non ci fossero soluzioni ai problemi che la avvolgono; molti bisogni primari come lo stato d’appetito, il sonno o la libido sessuale vengono alterati o spariscono quasi del tutto. Gli interessi esistenti prima svaniscono rapidamente e sentimenti come tristezza e apatia divengono gli stati d'animo prevalenti. Viene meno la voglia di fare, di stare con gli altri, di vivere. Si riducono le attività e le interazioni con amici e familiari, di conseguenza diminuiscono le occasioni di provare emozioni positive e di sperimentare le proprie capacità. Col tempo la persona si convince che non è e non potrà mai essere felice, che è inadeguata, incapace e colpevole.
Gli altri e il mondo appaiono sempre più distanti da sé. La speranza nel futuro si affievolisce sempre di più, fino a diventare disperazione. In questo modo si instaura un circolo vizioso che allontana sempre di più la persona dalla realtà oggettiva, avvicinandola e incastrandola nella sua personale visione distorta della realtà. Questo modo di vedere porta necessariamente a un ulteriore aumento delle emozioni negative di tristezza e disperazione. Il modo di pensare diventa così rigido e inflessibile che non permette di vedere e tener conto degli aspetti positivi e potenzialmente piacevoli di sé e della propria vita. La mente seleziona i ricordi spiacevoli e non è in grado di ricordare le esperienze positive. È come se si entrasse in un tunnel che si restringe progressivamente, diventando sempre più buio, con la consapevolezza di non poterne più uscire. Il disturbo della depressione ruota intorno a un problema cognitivo. Il tema che domina nei pensieri del depresso riguarda la perdita, che può essere reale, come la morte di una persona cara, la perdita del lavoro, un problema di salute. Se la persona tende a considerare la perdita come totale e irreversibile, è possibile che si generi una depressione.
Ciò che caratterizza maggiormente il disturbo sono però le pseudo perdite, cioè l'atteggiamento di considerare, senza motivi reali e oggettivi, ogni evento come una mancanza. Nella depressione si instaura una reazione a catena in cui un evento viene interpretato come una perdita assoluta e irrimediabile, ciò determina un umore negativo che attiva i pensieri di fallimento, autocritica e mancanza di fiducia nel mondo e nel futuro. Il concentrarsi su questi pensieri produce un ulteriore calo dell'umore che mantiene la visione negativa, rendendo sempre più accentuato il disturbo. La terapia cognitivo-comportamentale lavora su pensieri, emozioni e comportamenti con l'obiettivo di aiutare le persone a capire che possono influenzare il loro umore, principalmente individuando e modificando i pensieri e le convinzioni disfunzionali (aspettative negative su di sé, del mondo e sul futuro), sostituendoli con altri più funzionali e reali. Anche agire sui comportamenti è fondamentale, attraverso la definizione di obiettivi e la programmazione di attività piacevoli, per superare l'apatia e la demotivazione caratteristiche della depressione
Davvero tanto è ciò che è stato scitto sulla depressione, sviscerando caratteristiche patologiche e peculiarità cliniche; molto più utile è però cercare di analizzare la depressione mettendo al centro del percorso analitico la presona, l’individuo nelle sue mille sfaccettature. La persona affetta da depressione ha una visione di se e del futuro molto negativa, quasi come se non ci fossero soluzioni ai problemi che la avvolgono; molti bisogni primari come lo stato d’appetito, il sonno o la libido sessuale vengono alterati o spariscono quasi del tutto. Gli interessi esistenti prima svaniscono rapidamente e sentimenti come tristezza e apatia divengono gli stati d'animo prevalenti. Viene meno la voglia di fare, di stare con gli altri, di vivere. Si riducono le attività e le interazioni con amici e familiari, di conseguenza diminuiscono le occasioni di provare emozioni positive e di sperimentare le proprie capacità. Col tempo la persona si convince che non è e non potrà mai essere felice, che è inadeguata, incapace e colpevole.
Gli altri e il mondo appaiono sempre più distanti da sé. La speranza nel futuro si affievolisce sempre di più, fino a diventare disperazione. In questo modo si instaura un circolo vizioso che allontana sempre di più la persona dalla realtà oggettiva, avvicinandola e incastrandola nella sua personale visione distorta della realtà. Questo modo di vedere porta necessariamente a un ulteriore aumento delle emozioni negative di tristezza e disperazione. Il modo di pensare diventa così rigido e inflessibile che non permette di vedere e tener conto degli aspetti positivi e potenzialmente piacevoli di sé e della propria vita. La mente seleziona i ricordi spiacevoli e non è in grado di ricordare le esperienze positive. È come se si entrasse in un tunnel che si restringe progressivamente, diventando sempre più buio, con la consapevolezza di non poterne più uscire. Il disturbo della depressione ruota intorno a un problema cognitivo. Il tema che domina nei pensieri del depresso riguarda la perdita, che può essere reale, come la morte di una persona cara, la perdita del lavoro, un problema di salute. Se la persona tende a considerare la perdita come totale e irreversibile, è possibile che si generi una depressione.
Ciò che caratterizza maggiormente il disturbo sono però le pseudo perdite, cioè l'atteggiamento di considerare, senza motivi reali e oggettivi, ogni evento come una mancanza. Nella depressione si instaura una reazione a catena in cui un evento viene interpretato come una perdita assoluta e irrimediabile, ciò determina un umore negativo che attiva i pensieri di fallimento, autocritica e mancanza di fiducia nel mondo e nel futuro. Il concentrarsi su questi pensieri produce un ulteriore calo dell'umore che mantiene la visione negativa, rendendo sempre più accentuato il disturbo. La terapia cognitivo-comportamentale lavora su pensieri, emozioni e comportamenti con l'obiettivo di aiutare le persone a capire che possono influenzare il loro umore, principalmente individuando e modificando i pensieri e le convinzioni disfunzionali (aspettative negative su di sé, del mondo e sul futuro), sostituendoli con altri più funzionali e reali. Anche agire sui comportamenti è fondamentale, attraverso la definizione di obiettivi e la programmazione di attività piacevoli, per superare l'apatia e la demotivazione caratteristiche della depressione
Schema Therapy.Un nuovo metodo.
di Celeste Mangraviti
Grandi novità nella metodologia psicoterapeutica.
Si chiama Schema Therapy ed è un particolare sistema di psicoterapia che si adatta ai pazienti con disturbi psicologici cronici e radicati.Recenti e qualificati studi rilevano la sua efficacia anche sui pazienti con disturbi psicologici che hanno mostrato resistenza ad altre forme di terapia, in particolar modo i Disturbi di Personalità. La Schema Therapy è una vera fusione tra aspetti della Terapia Cognitivo Comportamentale, della Psicanalisi, del Costruttivismo, della Terapia della Gestalt, della Terapia Focalizzata sulle Emozioni e dell’Attaccamento, basandosi soprattutto su un modello esplicativo del disturbo estremamente chiaro ed efficace. I problemi vengono affrontati su un piano emotivo, cognitivo e comportamentale, con l’applicazione di numerose tecniche tratte dalle diverse terapie.
La domanda però potrebbe sorgere spontanea, ovvero per quale motivo la Schema Therapy risulta essere così efficace? In questa terapia il focus iniziale è costituito da ciò che la persona che soffre porta nel colloquio con lo psicoterapeuta. Lo psicoterapeuta quello che fa è indagare quelli che sono i pattern, le costanti problematiche, nella vita del paziente partendo dal presente e procedendo all’indietro nella storia della persona in terapia. Ciò fino al momento in cui tali problematiche si sono formate, ovvero nell’infanzia. Poi si cerca di capire insieme alla persona cosa è capitato nella sua infanzia che lo ha portato a stare male e si individuano quindi i bisogni emotivi che non sono stati soddisfatti. Tale non soddisfacimento dei bisogni emotivi da bambina costituisce un trauma ripetuto che porta alla formazione di quelli che vengono chiamati schemi maladattivi precoci. Gli schemi maladattivi precoci sono ciò che ci porta a vedere il mondo in un modo specifico facendoci provare emozioni, a volte terribilmente intense.
Una volta che il bambino prova emozioni molto negative tende a mettere in atto una serie di comportamenti per cercare di gestire la sofferenza nel tentativo di sfuggire da essa o da ridurla. Generalmente tentando di “disattivare” gli schemi stessi. Lo Psicoterapeuta che utilizza la Schema Therapy cerca innanzi tutto di essere genuino e sincero. Questo è il prerequisito che serve per creare con la persona che soffre un legame “vero” una buona relazione all’interno del contesto terapeutico. Partendo da questa posizione di genuinità e costruendo un buon legame lo Psicoterapeuta cerca di dare alla persona quello che la persona da un punto di vista emotivo non ha mai ricevuto cercando quindi di soddisfare i suoi bisogni emotivi primari.
Si chiama Schema Therapy ed è un particolare sistema di psicoterapia che si adatta ai pazienti con disturbi psicologici cronici e radicati.Recenti e qualificati studi rilevano la sua efficacia anche sui pazienti con disturbi psicologici che hanno mostrato resistenza ad altre forme di terapia, in particolar modo i Disturbi di Personalità. La Schema Therapy è una vera fusione tra aspetti della Terapia Cognitivo Comportamentale, della Psicanalisi, del Costruttivismo, della Terapia della Gestalt, della Terapia Focalizzata sulle Emozioni e dell’Attaccamento, basandosi soprattutto su un modello esplicativo del disturbo estremamente chiaro ed efficace. I problemi vengono affrontati su un piano emotivo, cognitivo e comportamentale, con l’applicazione di numerose tecniche tratte dalle diverse terapie.
La domanda però potrebbe sorgere spontanea, ovvero per quale motivo la Schema Therapy risulta essere così efficace? In questa terapia il focus iniziale è costituito da ciò che la persona che soffre porta nel colloquio con lo psicoterapeuta. Lo psicoterapeuta quello che fa è indagare quelli che sono i pattern, le costanti problematiche, nella vita del paziente partendo dal presente e procedendo all’indietro nella storia della persona in terapia. Ciò fino al momento in cui tali problematiche si sono formate, ovvero nell’infanzia. Poi si cerca di capire insieme alla persona cosa è capitato nella sua infanzia che lo ha portato a stare male e si individuano quindi i bisogni emotivi che non sono stati soddisfatti. Tale non soddisfacimento dei bisogni emotivi da bambina costituisce un trauma ripetuto che porta alla formazione di quelli che vengono chiamati schemi maladattivi precoci. Gli schemi maladattivi precoci sono ciò che ci porta a vedere il mondo in un modo specifico facendoci provare emozioni, a volte terribilmente intense.
Una volta che il bambino prova emozioni molto negative tende a mettere in atto una serie di comportamenti per cercare di gestire la sofferenza nel tentativo di sfuggire da essa o da ridurla. Generalmente tentando di “disattivare” gli schemi stessi. Lo Psicoterapeuta che utilizza la Schema Therapy cerca innanzi tutto di essere genuino e sincero. Questo è il prerequisito che serve per creare con la persona che soffre un legame “vero” una buona relazione all’interno del contesto terapeutico. Partendo da questa posizione di genuinità e costruendo un buon legame lo Psicoterapeuta cerca di dare alla persona quello che la persona da un punto di vista emotivo non ha mai ricevuto cercando quindi di soddisfare i suoi bisogni emotivi primari.
Cos'è il senso di colpa patologico?
di Celeste Mangraviti
Molto spesso avere il senso di colpa è vera patologia.
Molto spesso accade a noi o anche ad altridi essere sconvolte da ingiustificati e immotivati sensi di colpa. Ci chiediamo il motivo di un tale sentimento di fronte ad una situazione in cui non c'erano oggettive responsabilità personali. Ma le emozioni, si sa, sono "pre-cognitive" e così prevalgono spesso sulla vera coscienza prima ancora che noi si possa fare, dire, pensare. Esiste per caso una sorta di senso di colpa primario, biologico, che vince sulla razionalità? Eppure la vita è e dovrebbe essere pienezza, benessere, piacere. Tutti elementi che il senso di colpa non può farci apprezzare ma, anzi mina e corrode alla radice, la stessa voglia di vivere. Non a caso la depressione è definita anche come "rabbia autodiretta". Naturalmente non mi riferisco ad un sentimento di colpa di tipo biologico che avvertiamo ogni volta che abbiamo arrecato un danno ad un nostro conspecifico. In questi casi tale sentimento consente di 'riparare' la relazione e di proseguire nei rapporti interpersonali con rinnovata fiducia.
Rapporti interpersonali che sono la "matrice" dalla quale l'uomo emerge come "persona" e da cui nessuno può prescindere. Il senso di colpa a cui ci riferiamo, come avrete compreso, è quello "patologico". Un sentimento che non porta al superamento dei nostri inevitabili 'errori relazionali', come fare un torto ad un amico, oppure non essersi presi cura di un nostro simile in difficoltà o in condizione di oggettivo bisogno di cure (la madre nei confronti del bambino). Il senso di colpa è tanto malato quanto inutile perché ci tiene ancorati al nostro passato fatto di sofferenza e dolore. E' simile ad una zavorra: ci impedisce di crescere, di evolvere. Anzi sembra essere funzionale al mantenimento della nostra felicità. Le sue radici affondano nelle pregresse relazioni affettive e significative di cui il soggetto è costretto ad assumersene le responsabilità come se il non essere stato amato e/o accettato per quel che si era fosse la conseguenza di una propria intrinseca mancanza. E del resto un bambino, privato delle necessarie cure e attenzioni materne, non può che attribuirsi la colpa paradossale di "non essere stato amato". Pertanto se proprio si vuole individuare un'origine "biologica" di quel sentimento di colpa 'esistenziale', lo dobbiamo cercare nel mancato accudimento da parte della figura di attaccamento.
Il sentimento di colpa, allora, potrà configurarsi come la presa di coscienza della propria "Non Amabilità". Con questo costrutto si vuole intendere quel sentimento della propria incapacità ad attirare l'attenzione protettiva dell'altro. In altre parole è come dire: "se l'altro non mi accudisce e non si prende cura di me è perchè non sono capace ad attirare le sue attenzioni affettive e protettive" ergo...e' COLPA MIA SE... Da qui tutta una "cascata" di processi cognitivi disfunzionali e irrazionali. Fino ad arrivare ad attribuire una sorta di valore espiatorio alla propria stessa sofferenza, convinti di essere causa del proprio male. Niente di più sbagliato. Ma tant'è, il senso di colpa permea la nostra stessa cultura e informa la nostra stessa educazione morale, civile e religiosa. Non ci è stato forse insegnato che ogni bimbo nasce con un "peccato originale"? Purtroppo i condizionamenti subiti prima ancora che potessimo pensare e, soprattutto, quando ci sono inculcati da figure significative, li consideriamo "cose ovvie", "normali". Essi vanno incontro ad una "auto propaganda non consapevole" Ma è proprio così? Pensiamoci, ne va della nostra felicità e del nostro benessere
Molto spesso accade a noi o anche ad altridi essere sconvolte da ingiustificati e immotivati sensi di colpa. Ci chiediamo il motivo di un tale sentimento di fronte ad una situazione in cui non c'erano oggettive responsabilità personali. Ma le emozioni, si sa, sono "pre-cognitive" e così prevalgono spesso sulla vera coscienza prima ancora che noi si possa fare, dire, pensare. Esiste per caso una sorta di senso di colpa primario, biologico, che vince sulla razionalità? Eppure la vita è e dovrebbe essere pienezza, benessere, piacere. Tutti elementi che il senso di colpa non può farci apprezzare ma, anzi mina e corrode alla radice, la stessa voglia di vivere. Non a caso la depressione è definita anche come "rabbia autodiretta". Naturalmente non mi riferisco ad un sentimento di colpa di tipo biologico che avvertiamo ogni volta che abbiamo arrecato un danno ad un nostro conspecifico. In questi casi tale sentimento consente di 'riparare' la relazione e di proseguire nei rapporti interpersonali con rinnovata fiducia.
Rapporti interpersonali che sono la "matrice" dalla quale l'uomo emerge come "persona" e da cui nessuno può prescindere. Il senso di colpa a cui ci riferiamo, come avrete compreso, è quello "patologico". Un sentimento che non porta al superamento dei nostri inevitabili 'errori relazionali', come fare un torto ad un amico, oppure non essersi presi cura di un nostro simile in difficoltà o in condizione di oggettivo bisogno di cure (la madre nei confronti del bambino). Il senso di colpa è tanto malato quanto inutile perché ci tiene ancorati al nostro passato fatto di sofferenza e dolore. E' simile ad una zavorra: ci impedisce di crescere, di evolvere. Anzi sembra essere funzionale al mantenimento della nostra felicità. Le sue radici affondano nelle pregresse relazioni affettive e significative di cui il soggetto è costretto ad assumersene le responsabilità come se il non essere stato amato e/o accettato per quel che si era fosse la conseguenza di una propria intrinseca mancanza. E del resto un bambino, privato delle necessarie cure e attenzioni materne, non può che attribuirsi la colpa paradossale di "non essere stato amato". Pertanto se proprio si vuole individuare un'origine "biologica" di quel sentimento di colpa 'esistenziale', lo dobbiamo cercare nel mancato accudimento da parte della figura di attaccamento.
Il sentimento di colpa, allora, potrà configurarsi come la presa di coscienza della propria "Non Amabilità". Con questo costrutto si vuole intendere quel sentimento della propria incapacità ad attirare l'attenzione protettiva dell'altro. In altre parole è come dire: "se l'altro non mi accudisce e non si prende cura di me è perchè non sono capace ad attirare le sue attenzioni affettive e protettive" ergo...e' COLPA MIA SE... Da qui tutta una "cascata" di processi cognitivi disfunzionali e irrazionali. Fino ad arrivare ad attribuire una sorta di valore espiatorio alla propria stessa sofferenza, convinti di essere causa del proprio male. Niente di più sbagliato. Ma tant'è, il senso di colpa permea la nostra stessa cultura e informa la nostra stessa educazione morale, civile e religiosa. Non ci è stato forse insegnato che ogni bimbo nasce con un "peccato originale"? Purtroppo i condizionamenti subiti prima ancora che potessimo pensare e, soprattutto, quando ci sono inculcati da figure significative, li consideriamo "cose ovvie", "normali". Essi vanno incontro ad una "auto propaganda non consapevole" Ma è proprio così? Pensiamoci, ne va della nostra felicità e del nostro benessere
Psicologia esistenziale.Lineamenti base.
di Celeste Mangraviti
Un nuovo metodo psicodinamico utilissimo per il paziente.
La psicologia esistenziale prende avvio dall’opera “Essere e tempo” di Martin Heidegger (1927) il quale pone in rilievo la struttura fondamentale dell’esistenza vista come essere-nel-mondo. Si inaugura cosi una nuova concezione antropologica in cui l’uomo è visto come creatore di un mondo personale di valori e di significati. Questo movimento venne anche definito la “terza forza” della psicologia in quanto corrente teorica capace di porsi come alternativa alla psicanalisi e al comportamentismo. Si alleò, come espressione tipicamente europea alla psicologia umanistica americana, dando alla luce la psicologia esistenziale-umanistica. L’esistenza come potenzialità. Gli psicologi esistenzialisti affermano che l’esperienza del Dasein (consapevolezza di essere), non può essere intesa come la soluzione del problema del paziente, anche se è una condizione preliminare necessaria e indispensabile.
In modo silenzioso e poco appariscente il pensiero esistenzialista ha influenzato negli anni le varie impostazioni psicoterapeutiche, che hanno assorbito elementi centrali e fondamentali quali l’importanza della relazione e l’unicità della persona. L’ intento è quindi di porre in maggior rilievo, evidenziandone le radici filosofi che esistenziali, aspetti che fanno ormai parte indiscutibile, e irrinunciabile, della scienza psicoterapeutica, indipendentemente dallo sfondo teorico di riferimento. L’ approccio fenomenologico rigoroso alla psicopatologia rende a volte difficile una trasposizione nell’ area operativa della psicoterapia, il che non permette di parlare facilmente di una psicoterapia fenomenologica. Per questo consideriamo la fenomenologia, e gli Autori che verranno citati, uno strumento parziale in grado però di fornire una base teorico-pratica fondamentale alla psicoterapia clinica. La psicoterapia esistenziale viene considerata una psicoterapia psicodinamica, che tiene in particolare considerazione gli aspetti conflittuali intrapsichici ma soprattutto quelli relativi alla relazione terapeuta-paziente, con interpretazioni del transfert e delle resistenze del paziente, e del contributo controtransferale del terapeuta.
Nell’ analisi di quelli che sono gli elementi fondamentali della psicodinamica esistenziale vengono infatti considerati aspetti quali l’inconscio e le sue dinamiche interne, l’ importanza della relazione e l’ intersoggettività, insieme a elementi più peculiari dell’ analisi esistenziale quali il progetto esistenziale e la progettualità, la dimensione temporale, la centralità dell’ angoscia e il valore unico dell’ esperienza soggettiva. Per quanto riguarda la pratica clinica non vi sono aspetti tecnici che si differenzino in maniera rilevante dall’ approccio psicoanalitico classico, che viene mantenuto anche se rivisto e aggiornato in una luce esistenzialista. Infatti la terapia esistenziale non deve essere intesa come un particolare sistema psicoterapeutico ma come un quadro di riferimento, un paradigma mediante il quale si può vedere e comprendere la sofferenza di un paziente in un modo particolare.
La psicologia esistenziale prende avvio dall’opera “Essere e tempo” di Martin Heidegger (1927) il quale pone in rilievo la struttura fondamentale dell’esistenza vista come essere-nel-mondo. Si inaugura cosi una nuova concezione antropologica in cui l’uomo è visto come creatore di un mondo personale di valori e di significati. Questo movimento venne anche definito la “terza forza” della psicologia in quanto corrente teorica capace di porsi come alternativa alla psicanalisi e al comportamentismo. Si alleò, come espressione tipicamente europea alla psicologia umanistica americana, dando alla luce la psicologia esistenziale-umanistica. L’esistenza come potenzialità. Gli psicologi esistenzialisti affermano che l’esperienza del Dasein (consapevolezza di essere), non può essere intesa come la soluzione del problema del paziente, anche se è una condizione preliminare necessaria e indispensabile.
In modo silenzioso e poco appariscente il pensiero esistenzialista ha influenzato negli anni le varie impostazioni psicoterapeutiche, che hanno assorbito elementi centrali e fondamentali quali l’importanza della relazione e l’unicità della persona. L’ intento è quindi di porre in maggior rilievo, evidenziandone le radici filosofi che esistenziali, aspetti che fanno ormai parte indiscutibile, e irrinunciabile, della scienza psicoterapeutica, indipendentemente dallo sfondo teorico di riferimento. L’ approccio fenomenologico rigoroso alla psicopatologia rende a volte difficile una trasposizione nell’ area operativa della psicoterapia, il che non permette di parlare facilmente di una psicoterapia fenomenologica. Per questo consideriamo la fenomenologia, e gli Autori che verranno citati, uno strumento parziale in grado però di fornire una base teorico-pratica fondamentale alla psicoterapia clinica. La psicoterapia esistenziale viene considerata una psicoterapia psicodinamica, che tiene in particolare considerazione gli aspetti conflittuali intrapsichici ma soprattutto quelli relativi alla relazione terapeuta-paziente, con interpretazioni del transfert e delle resistenze del paziente, e del contributo controtransferale del terapeuta.
Nell’ analisi di quelli che sono gli elementi fondamentali della psicodinamica esistenziale vengono infatti considerati aspetti quali l’inconscio e le sue dinamiche interne, l’ importanza della relazione e l’ intersoggettività, insieme a elementi più peculiari dell’ analisi esistenziale quali il progetto esistenziale e la progettualità, la dimensione temporale, la centralità dell’ angoscia e il valore unico dell’ esperienza soggettiva. Per quanto riguarda la pratica clinica non vi sono aspetti tecnici che si differenzino in maniera rilevante dall’ approccio psicoanalitico classico, che viene mantenuto anche se rivisto e aggiornato in una luce esistenzialista. Infatti la terapia esistenziale non deve essere intesa come un particolare sistema psicoterapeutico ma come un quadro di riferimento, un paradigma mediante il quale si può vedere e comprendere la sofferenza di un paziente in un modo particolare.
Personalità e temperamento.Le differenze.
di Celeste Mangraviti
Analisi delle varie forme di temperamento e personalità.
Il temperamento è un elemento della personalità studiato solo in maniera marginale nella psicologia moderna e contemporanea.Tuttavia, il concetto di temperamento trae origini antiche nella storia delle scienze mediche,poiché già in passato si era osservato che il temperamento era in grado di far comprendere al meglio le differenze individuali non solo nel campo della psicologia, ma anche della psicopatologia in generale.Recentemente, agli inizi del secolo scorso nell’ambito del movimento pedagogico Waldorf, fondato da Steiner in Germania, si individua una importante trattazione sui temperamenti umani. Steiner riprese e perfezionò ulteriormente la teoria dei quattro temperamenti ippocratici, sganciandola dalla anacronistica e obsoleta spiegazione dei quattro umori, e basandola sulla concezione che l’essere umano è tripartito, ovvero formato dalla unione dei tre elementi sostanziali, quali: corpo, anima, spirito.I quattro temperamenti, secondo Steiner, diventano: flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Anche per Steiner il temperamento è espressione di uno squilibrio, poiché nell’individuo equilibrato sono presenti in diversa misura tutte e quattro i temperamenti.
Il temperamento, dunque, risulta essere pertanto una sorta di base caratteriale, dipendente dalla salute fisica del soggetto, che si mantiene per tutta la vita psichica dell’individuo.Analiticamente, si ottengono i seguenti temperamenti: il temperamento sanguigno, caratterizzato da interesse e sensibilità agli stimoli esterni, poca forza interna, mutabilità di interessi e propensione al cambiamento. Il temperamento flemmatico, scarsa forza e poca sensibilità agli stimoli esterni, tendenza alla pigrizia e all’ozio. Il temperamento collerico, rappresenta il più irruente dei temperamenti e chi lo ha manifesta elevata reattività, estrema sensibilità agli stimoli esterni, molta forza, impeto e impulsività. Il temperamento malinconico, infine, si manifesta con forza e scarsa sensibilità agli stimoli esterni, scarsa capacità di tenere a freno i propri istinti e tenacia nel raggiungere i propri obiettivi senza farsi distrarre dagli eventi esterni.
Invece Personalità: deriva dal latino persona, cioè maschera dell’attore. La Personalità è l’immagine, il volto, che ognuno di noi mostra agli altri, che esprime o cela quanto avviene realmente nel suo essere. La Personalità, dunque, è la combinazione tra Temperamento e Carattere, per cui è da considerarsi un concetto tipicamente dinamico nell’arco di vita di una persona. Durante l’arco della vita si è costretti ad affrontare situazioni cruciali che inevitabilmente sfociano in una serie di tratti che caratterizzeranno i comportamenti agiti della persona. Quindi dire a qualcuno che è un narcisista significa che è una persona molto concentrata su se stesso, che crede molto nelle sue capacità, e che degli eventi significativi accaduti l’hanno indotto ad assumere tale atteggiamento o personalità o maschera.
Il temperamento è un elemento della personalità studiato solo in maniera marginale nella psicologia moderna e contemporanea.Tuttavia, il concetto di temperamento trae origini antiche nella storia delle scienze mediche,poiché già in passato si era osservato che il temperamento era in grado di far comprendere al meglio le differenze individuali non solo nel campo della psicologia, ma anche della psicopatologia in generale.Recentemente, agli inizi del secolo scorso nell’ambito del movimento pedagogico Waldorf, fondato da Steiner in Germania, si individua una importante trattazione sui temperamenti umani. Steiner riprese e perfezionò ulteriormente la teoria dei quattro temperamenti ippocratici, sganciandola dalla anacronistica e obsoleta spiegazione dei quattro umori, e basandola sulla concezione che l’essere umano è tripartito, ovvero formato dalla unione dei tre elementi sostanziali, quali: corpo, anima, spirito.I quattro temperamenti, secondo Steiner, diventano: flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Anche per Steiner il temperamento è espressione di uno squilibrio, poiché nell’individuo equilibrato sono presenti in diversa misura tutte e quattro i temperamenti.
Il temperamento, dunque, risulta essere pertanto una sorta di base caratteriale, dipendente dalla salute fisica del soggetto, che si mantiene per tutta la vita psichica dell’individuo.Analiticamente, si ottengono i seguenti temperamenti: il temperamento sanguigno, caratterizzato da interesse e sensibilità agli stimoli esterni, poca forza interna, mutabilità di interessi e propensione al cambiamento. Il temperamento flemmatico, scarsa forza e poca sensibilità agli stimoli esterni, tendenza alla pigrizia e all’ozio. Il temperamento collerico, rappresenta il più irruente dei temperamenti e chi lo ha manifesta elevata reattività, estrema sensibilità agli stimoli esterni, molta forza, impeto e impulsività. Il temperamento malinconico, infine, si manifesta con forza e scarsa sensibilità agli stimoli esterni, scarsa capacità di tenere a freno i propri istinti e tenacia nel raggiungere i propri obiettivi senza farsi distrarre dagli eventi esterni.
Invece Personalità: deriva dal latino persona, cioè maschera dell’attore. La Personalità è l’immagine, il volto, che ognuno di noi mostra agli altri, che esprime o cela quanto avviene realmente nel suo essere. La Personalità, dunque, è la combinazione tra Temperamento e Carattere, per cui è da considerarsi un concetto tipicamente dinamico nell’arco di vita di una persona. Durante l’arco della vita si è costretti ad affrontare situazioni cruciali che inevitabilmente sfociano in una serie di tratti che caratterizzeranno i comportamenti agiti della persona. Quindi dire a qualcuno che è un narcisista significa che è una persona molto concentrata su se stesso, che crede molto nelle sue capacità, e che degli eventi significativi accaduti l’hanno indotto ad assumere tale atteggiamento o personalità o maschera.
I bisogni nello sviluppo dell'individuo.
di Celeste Mangraviti
Uno sguardo al percorso di realizzazione dell'individuo.
Il completo benessere della persona si può raggiungere esclusivamente capendo i reali bisogni e le aspettative individuali dalle quali non si può prescindere perché costituiscono i cardini di una società fondata sui diritti della costituzione. Quando citiamo i cosiddetti bisogni degli esseri umani parliamo dell’essenza della loro vita. Lo studio della motivazione e del comportamento fino a qualche decennio fa era orientato a far emergere le potenzialità individuali e la spinta interiore verso l’autorealizzazione. Nello sviluppo evolutivo i bisogni primari sono il benessere fisico e la sicurezza.
Il benessere fisico è appagato quando sono soddisfatte le necessità fisiologiche come la fame, la sete, il sonno. Nei primi anni di vita i genitori hanno il compito di assistere materialmente il proprio figlio ma anche di avviare nel bambino un processo di autodeterminazione e di consapevolezza che sono le basi per la costruzione della propria identità. I bisogni secondari costituiscono un livello successivo in cui i sentimenti, le conoscenze e l’autorealizzazione sono i campi di ampliamento formativo che si evolvono in parallelo con la crescita fisica e intellettuale. Queste necessità si riferiscono alla sfera emotiva ed affettiva: desiderio di sentirsi compresi ed accettati dalle persone vicine con le quali si stabiliscono relazioni di fiducia e stima reciproci. La spinta all’autorealizzazione porta il soggetto a cercare attività consone alla sua natura e alle sue attitudini orientando le personali abilità nel contesto sociale di appartenenza.
I bisogni superiori sono inerenti alla sfera interpersonale e soddisfano i bisogni estetici e culturali.Secondo Maslow l’uomo ha indirizzato il suo sviluppo evolutivo adattandosi progressivamente all’ambiente di vita e sviluppando le caratteristiche proprie della sua specie. E’ chiaro come il soddisfacimento dei bisogni primari sia fondamentale perché se essi non vengono soddisfatti non è possibile attingere alla spinta motivazionale dei bisogni secondari; le carenze economiche e sociali influenzano negativamente la sfera di arricchimento intellettuale, non c’è spazio per fruire di interessi e cultura se i problemi contingenti sono pressanti e vitali. Evoluzione biologica e culturale sono fortemente legate e interdipendenti, fattori genetici e ambientali si integrano per sviluppare comportamenti adattativi di cui l’uomo è stato protagonista e testimone nel corso della sua storia. L’individuo si realizza attraverso la progressione dei vari livelli della gerarchia organismica, un percorso di crescita che spinge l’essere umano a sviluppare competenze relative al “saper fare” e ad arricchire i propri valori e ideali nell’ambito della dimensione metacognitiva.
Il completo benessere della persona si può raggiungere esclusivamente capendo i reali bisogni e le aspettative individuali dalle quali non si può prescindere perché costituiscono i cardini di una società fondata sui diritti della costituzione. Quando citiamo i cosiddetti bisogni degli esseri umani parliamo dell’essenza della loro vita. Lo studio della motivazione e del comportamento fino a qualche decennio fa era orientato a far emergere le potenzialità individuali e la spinta interiore verso l’autorealizzazione. Nello sviluppo evolutivo i bisogni primari sono il benessere fisico e la sicurezza.
Il benessere fisico è appagato quando sono soddisfatte le necessità fisiologiche come la fame, la sete, il sonno. Nei primi anni di vita i genitori hanno il compito di assistere materialmente il proprio figlio ma anche di avviare nel bambino un processo di autodeterminazione e di consapevolezza che sono le basi per la costruzione della propria identità. I bisogni secondari costituiscono un livello successivo in cui i sentimenti, le conoscenze e l’autorealizzazione sono i campi di ampliamento formativo che si evolvono in parallelo con la crescita fisica e intellettuale. Queste necessità si riferiscono alla sfera emotiva ed affettiva: desiderio di sentirsi compresi ed accettati dalle persone vicine con le quali si stabiliscono relazioni di fiducia e stima reciproci. La spinta all’autorealizzazione porta il soggetto a cercare attività consone alla sua natura e alle sue attitudini orientando le personali abilità nel contesto sociale di appartenenza.
I bisogni superiori sono inerenti alla sfera interpersonale e soddisfano i bisogni estetici e culturali.Secondo Maslow l’uomo ha indirizzato il suo sviluppo evolutivo adattandosi progressivamente all’ambiente di vita e sviluppando le caratteristiche proprie della sua specie. E’ chiaro come il soddisfacimento dei bisogni primari sia fondamentale perché se essi non vengono soddisfatti non è possibile attingere alla spinta motivazionale dei bisogni secondari; le carenze economiche e sociali influenzano negativamente la sfera di arricchimento intellettuale, non c’è spazio per fruire di interessi e cultura se i problemi contingenti sono pressanti e vitali. Evoluzione biologica e culturale sono fortemente legate e interdipendenti, fattori genetici e ambientali si integrano per sviluppare comportamenti adattativi di cui l’uomo è stato protagonista e testimone nel corso della sua storia. L’individuo si realizza attraverso la progressione dei vari livelli della gerarchia organismica, un percorso di crescita che spinge l’essere umano a sviluppare competenze relative al “saper fare” e ad arricchire i propri valori e ideali nell’ambito della dimensione metacognitiva.
Adolescenza e rabbia.Un mix pericoloso.
di Celeste Mangraviti
La rabbiosa lotta dell'adolescente verso la propria identità.
L’ adolescenza è senzadubbio una delle età più complicate dell'esistenza.In essa l'individuo non è ancora ma è procinto di diventare, ma non è ancora quello che sarà. Il disagio nasce dal fatto che egli è ricco di ansie e di prospettive su quello che sarà, trasformazioni continue sia relative al fisico sia alla definizione e al mantenimento delle relazioni con gli altri. Il problema è che l'adololescente però non ha ancora acquisito la capacità di padroneggiare tutti gli strumenti necessari per tale scopo e, per di più, senza quel sostegno familiare e sociale che gli era stato fornito fino a qualche tempo prima. Dentro al suo animo si assiste ad una vera lotta tra il desiderio di autonomia e quello d’indipendenza: in definitiva la meta del processo adolescenziale consiste nel trovare una propria identità. Questa fase della vita diventa critica poiché intorno ad essa confluiscono e si concentrano molteplici fattori strutturanti che interagiscono e definiscono una tappa fondamentale nel processo di organizzazione della personalità.
Nella fase adolescenziale gli individui sviluppano quei sentimenti di ambivalenza verso se stessi, verso i genitori e verso gli altri, scaturiti dall’intrinseco bisogno d’indipendenza, da una parte, e dal bisogno di sicurezza e fiducia, dall’altra, propri di uno stato d’animo travagliato. Vi è inoltre la tendenza ad affrontare autonomamente esperienze che rappresentano la scoperta del nuovo nella relazionalità, contrapposta, però, all’insicurezza che proprio il vissuto di scoperta dell’ignoto produce. In questo processo di crescita l’adolescente pone sé stesso al centro delle proprie aspettative d’esperienza con il desiderio di essere gratificato da un atteggiamento di fiducia da parte degli altri e, in primo luogo, degli adulti. Questa esigenza, però, è quasi sempre frustrata dall’atteggiamento iperprotettivo dei genitori che in modo più o meno volontario tendono a mantenere uno stretto controllo sulle azioni dell’adolescente, azione vissuta da quest’ultimo come segnale di negazione di quella fiducia che invece egli cerca incondizionatamente. Ciò porta all’esasperazione della necessità di affermazione della propria autonomia e all’insorgere di comportamenti contrapposti rispetto a quelli dei genitori, i quali incarnano la “società dei grandi”, fino a sostenere, a volte, uno spirito di rivalsa nei loro confronti.
E’, quindi, attraverso questo atteggiamento di sfida dell’adolescente nei confronti dei genitori che egli cerca situazioni relazionali alternative ai modelli offerti dal proprio nucleo famigliare, dove convogliare i sentimenti di condivisione delle proprie aspettative di successo e della voglia di autoaffermazione. Il gruppo dei coetanei acquista così una rilevanza fondamentale per la vita dell’adolescente; ha la sua valenza sia nell’ambito dei processi di socializzazione, sia a livello di una costruzione di sé. E’ nel gruppo che l’adolescente fa esperienza del vivere sociale, dei ruoli e delle relazioni: nel gruppo si mette in gioco, osserva come gli altri reagiscono, sperimenta come è visto dall’altro e le aspettative che essi hanno da lui. Inoltre la repressione della rabbia, considerata ancor più pericolosa dell’aggressività, conduce al rancore (alla rabbia si aggiunge paura e disprezzo) che, dopo la fase embrionale di chiusura, sempre più frequentemente esplode in gesti di inaudita violenza. E’ giusto ribadire che, pur non essendo un percorso non obbligato, rappresenta comunque una modalità evolutiva insita nella natura dello sviluppo psicofisico dell’individuo. Le varianti che intervengono a caratterizzare i singoli casi contribuiscono a delineare i concetti cardine di un prassi sostanzialmente comune. L’adolescenza è un quadro composito di aggressività e debolezza, paura e ardire, leggerezza e dubbio, curiosità e certezza, bramosia e inerzia, devozione e indolenza. E’ il momento della vita in cui ogni individuo supera l’autocoscienza attraverso un periodo esistenziale, contraddittorio e stimolante, che conduce alla delicata fase finale dell’auto-affermazione
L’ adolescenza è senzadubbio una delle età più complicate dell'esistenza.In essa l'individuo non è ancora ma è procinto di diventare, ma non è ancora quello che sarà. Il disagio nasce dal fatto che egli è ricco di ansie e di prospettive su quello che sarà, trasformazioni continue sia relative al fisico sia alla definizione e al mantenimento delle relazioni con gli altri. Il problema è che l'adololescente però non ha ancora acquisito la capacità di padroneggiare tutti gli strumenti necessari per tale scopo e, per di più, senza quel sostegno familiare e sociale che gli era stato fornito fino a qualche tempo prima. Dentro al suo animo si assiste ad una vera lotta tra il desiderio di autonomia e quello d’indipendenza: in definitiva la meta del processo adolescenziale consiste nel trovare una propria identità. Questa fase della vita diventa critica poiché intorno ad essa confluiscono e si concentrano molteplici fattori strutturanti che interagiscono e definiscono una tappa fondamentale nel processo di organizzazione della personalità.
Nella fase adolescenziale gli individui sviluppano quei sentimenti di ambivalenza verso se stessi, verso i genitori e verso gli altri, scaturiti dall’intrinseco bisogno d’indipendenza, da una parte, e dal bisogno di sicurezza e fiducia, dall’altra, propri di uno stato d’animo travagliato. Vi è inoltre la tendenza ad affrontare autonomamente esperienze che rappresentano la scoperta del nuovo nella relazionalità, contrapposta, però, all’insicurezza che proprio il vissuto di scoperta dell’ignoto produce. In questo processo di crescita l’adolescente pone sé stesso al centro delle proprie aspettative d’esperienza con il desiderio di essere gratificato da un atteggiamento di fiducia da parte degli altri e, in primo luogo, degli adulti. Questa esigenza, però, è quasi sempre frustrata dall’atteggiamento iperprotettivo dei genitori che in modo più o meno volontario tendono a mantenere uno stretto controllo sulle azioni dell’adolescente, azione vissuta da quest’ultimo come segnale di negazione di quella fiducia che invece egli cerca incondizionatamente. Ciò porta all’esasperazione della necessità di affermazione della propria autonomia e all’insorgere di comportamenti contrapposti rispetto a quelli dei genitori, i quali incarnano la “società dei grandi”, fino a sostenere, a volte, uno spirito di rivalsa nei loro confronti.
E’, quindi, attraverso questo atteggiamento di sfida dell’adolescente nei confronti dei genitori che egli cerca situazioni relazionali alternative ai modelli offerti dal proprio nucleo famigliare, dove convogliare i sentimenti di condivisione delle proprie aspettative di successo e della voglia di autoaffermazione. Il gruppo dei coetanei acquista così una rilevanza fondamentale per la vita dell’adolescente; ha la sua valenza sia nell’ambito dei processi di socializzazione, sia a livello di una costruzione di sé. E’ nel gruppo che l’adolescente fa esperienza del vivere sociale, dei ruoli e delle relazioni: nel gruppo si mette in gioco, osserva come gli altri reagiscono, sperimenta come è visto dall’altro e le aspettative che essi hanno da lui. Inoltre la repressione della rabbia, considerata ancor più pericolosa dell’aggressività, conduce al rancore (alla rabbia si aggiunge paura e disprezzo) che, dopo la fase embrionale di chiusura, sempre più frequentemente esplode in gesti di inaudita violenza. E’ giusto ribadire che, pur non essendo un percorso non obbligato, rappresenta comunque una modalità evolutiva insita nella natura dello sviluppo psicofisico dell’individuo. Le varianti che intervengono a caratterizzare i singoli casi contribuiscono a delineare i concetti cardine di un prassi sostanzialmente comune. L’adolescenza è un quadro composito di aggressività e debolezza, paura e ardire, leggerezza e dubbio, curiosità e certezza, bramosia e inerzia, devozione e indolenza. E’ il momento della vita in cui ogni individuo supera l’autocoscienza attraverso un periodo esistenziale, contraddittorio e stimolante, che conduce alla delicata fase finale dell’auto-affermazione
Illusione percettiva.Un vero paradosso.
di Celeste Mangraviti
Quando un errore di percezione diventa realtà vera.
Spesso dei manuali di psicilogia clinica sentiamo parlare di illusione percettiva.Ma cos'è e quali sono le sue peculiarità.Le illusioni sono situazioni percettive anomale in cui tutti i datiche derivano da stimoli esterni, reali, portano ad una non veritiera interpretazione dell’oggetto o di un evento da cui proviene lo stimolo. Le illusioni percettive risultano quindi essere la somma di interpretazioni errate di una serie di dati sensoriali fino al limite tale che diventa possibile percepirle in contrasto con i reali dati provenienti dalla realtà.La dottrina dominante ritiene che si venga a creare una specie di errore nell’elaborazione dell’informazione sensoriale in ingresso a carico del sistema nervoso centrale. Tutto questo potrebbe essere dovuto a stimoli sensoriali in competizione tra loro che influenzano il significato dello stimo stesso, come, a esempio, quando il conducente di un’auto percepisce i propri fari riflessi nella vetrina di un negozio, sperimentando l’illusione che un altro veicolo sta procedendo verso se stesso, anche se è cosciente che non vi è alcuna strada di fronte.recettori sensoriali presenti nel cervello sono in grado di rilevare luce, suono, profumo, temperatura, e ogni altro stimolo sensoriale.
Ognuno di essi possiede aree specifiche sul corpo imputate al riconoscimento dello stimolo, come: occhi, orecchie, naso, mani, etc. Da questi organi di senso il cervello riceve stimolazioni sensoriali, che il più delle volte interpreta adeguatamente, ma se così non fosse, allora, si verifica una illusione sensoriale. Da ora in poi, ci focalizzeremo non su tutte le illusioni sensoriali (ogni organo di senso potrebbe incappare in una illusoria interpretazione dello stimolo) ma solo di quelle percettive.Un’ illusione percettiva consiste in un’immagine che concretamente non corrisponde a quella realmente percepita perché appare diversa.Un’illusione può verificarsi in seguito a una stimolazione visiva prolungata, come osservare per molto tempo una fonte luminosa. L’immagine che rimane impressa sulla retina quando si distoglie lo sguardo dalla fonte è una illusione fisiologica. La percezione, dunque, può essere modificata a causa di uno squilibrio causato da una over o ipo stimolazione dei recettori presenti sulla retina portando così al verificarsi di uno squilibrio percettivo.
Un’ illusione percettiva dunque può essere di tre tipi: ambigua, distorta, e paradossale.Le illusioni percettive ambigue sono immagini o oggetti che permettono allo spettatore di avere due interpretazioni valide di ciò che l’oggetto rappresenta. L’osservatore è solitamente in grado di visualizzare mentalmente un’interpretazione subito e, infine, la seconda, dopo un certo tempo. nfine, un’ illusione paradosso o illusione di finzione è un’immagine o un oggetto che è semplicemente impossibile da rappresentare tridimensionalmente ma diventa tale raffigurandola bidimensionalmente. Uno dei migliori esempi di una illusione paradosso è la scala di Penrose. Si tratta di una immagine bidimensionale ma la percepiamo come tridimensionale. Questa illusione è possibile poiché nella figura si riesce a falsificare la prospettiva angolare al punto da far emergere una dimensione inesiste nella figura.
Spesso dei manuali di psicilogia clinica sentiamo parlare di illusione percettiva.Ma cos'è e quali sono le sue peculiarità.Le illusioni sono situazioni percettive anomale in cui tutti i datiche derivano da stimoli esterni, reali, portano ad una non veritiera interpretazione dell’oggetto o di un evento da cui proviene lo stimolo. Le illusioni percettive risultano quindi essere la somma di interpretazioni errate di una serie di dati sensoriali fino al limite tale che diventa possibile percepirle in contrasto con i reali dati provenienti dalla realtà.La dottrina dominante ritiene che si venga a creare una specie di errore nell’elaborazione dell’informazione sensoriale in ingresso a carico del sistema nervoso centrale. Tutto questo potrebbe essere dovuto a stimoli sensoriali in competizione tra loro che influenzano il significato dello stimo stesso, come, a esempio, quando il conducente di un’auto percepisce i propri fari riflessi nella vetrina di un negozio, sperimentando l’illusione che un altro veicolo sta procedendo verso se stesso, anche se è cosciente che non vi è alcuna strada di fronte.recettori sensoriali presenti nel cervello sono in grado di rilevare luce, suono, profumo, temperatura, e ogni altro stimolo sensoriale.
Ognuno di essi possiede aree specifiche sul corpo imputate al riconoscimento dello stimolo, come: occhi, orecchie, naso, mani, etc. Da questi organi di senso il cervello riceve stimolazioni sensoriali, che il più delle volte interpreta adeguatamente, ma se così non fosse, allora, si verifica una illusione sensoriale. Da ora in poi, ci focalizzeremo non su tutte le illusioni sensoriali (ogni organo di senso potrebbe incappare in una illusoria interpretazione dello stimolo) ma solo di quelle percettive.Un’ illusione percettiva consiste in un’immagine che concretamente non corrisponde a quella realmente percepita perché appare diversa.Un’illusione può verificarsi in seguito a una stimolazione visiva prolungata, come osservare per molto tempo una fonte luminosa. L’immagine che rimane impressa sulla retina quando si distoglie lo sguardo dalla fonte è una illusione fisiologica. La percezione, dunque, può essere modificata a causa di uno squilibrio causato da una over o ipo stimolazione dei recettori presenti sulla retina portando così al verificarsi di uno squilibrio percettivo.
Un’ illusione percettiva dunque può essere di tre tipi: ambigua, distorta, e paradossale.Le illusioni percettive ambigue sono immagini o oggetti che permettono allo spettatore di avere due interpretazioni valide di ciò che l’oggetto rappresenta. L’osservatore è solitamente in grado di visualizzare mentalmente un’interpretazione subito e, infine, la seconda, dopo un certo tempo. nfine, un’ illusione paradosso o illusione di finzione è un’immagine o un oggetto che è semplicemente impossibile da rappresentare tridimensionalmente ma diventa tale raffigurandola bidimensionalmente. Uno dei migliori esempi di una illusione paradosso è la scala di Penrose. Si tratta di una immagine bidimensionale ma la percepiamo come tridimensionale. Questa illusione è possibile poiché nella figura si riesce a falsificare la prospettiva angolare al punto da far emergere una dimensione inesiste nella figura.
Priming.Una particolare visione mnemonica.
di Celeste Mangraviti
La sensorialità cognitiva nelle sue sfaccettature.
In dottrina viene definito Priming una forma di riconoscimento mnemonico non cosciente che consente a un determinato stimolo, al quale si è stati esposti una prima volta, di essere identificato durante le successive esposizioni senza averne consapevolezza. E' una vera capacità evolutiva tipica dell’essere umano e comporta importanti effetti sull’interpretazione e sulla valutazione dell’informazione.Il concetto di priming traela sua linfa teorica dalla psicologia cognitiva e consiste in una situazione di stimolo sensoriale, che potrebbe essere verbale, uditivo, visivo, al quale si è stati esposti in passato, che influenza la percezione delle successive esposizioni allo stesso stimolo in futuro.L’effetto priming, ampiamente studiato in vari ambiti della psicologia cognitiva, e usato in diversi studi di neuroscienze, consiste in un effetto di preparazione dell’esposizione allo stimolo. In inglese to prime significa innescare una serie di meccanismi che portano alla attivazione di informazioni presenti in memoria preparando e facilitando il soggetto nell’elaborazione cognitiva dello stimolo successivo.In sostanza, con effetto priming si intende l’attivazione di determinate rappresentazioni mentali, scorciatoie, euristiche prima di compiere un’attività.
Il Priming dunque si avvale dell’ euristica del riconoscimento, secondo la quale ogni notizia è memorizzata all’interno dello schema mentale,, costruito nel tempo collegando a essa altre informazioni ricevute rispetto alla prima notizia acquisita. Quando un nuovo stimolo si presenta, a esempio una nuova notizia riguardante il tema di interesse, chi legge la notizia richiama alla mente l’intero schema interpretativo a essa collegato. Uno degli effetti ritenuti più importanti nel richiamare lo schema mentale alla memoria è dato dalla frequenza con la quale la notizia è presentata al lettore.n termini neuropsicologi il priming consiste nell’attivazione di gruppi di neuroni circondati da connessioni poco forti tra loro. Quando questi neuroni sono attivati dalla percezione di un oggetto già visto il segnale si propaga immediatamente e diventa prioritario rispetto agli altri in arrivo. In questo modo, si innesca il ricordo che rappresenta l’informazione in arrivo e nella nostra mente si attivano una serie di immagini correlate all’oggetto in questione.
Ad esempio se l’informazione riguarda il mare si attiveranno tutte le immagine contenenti mare presenti in memoria a scapito di altre che raffigurano oggetti diversi.il priming subliminale, ha effetto solo se si manifestano particolari condizioni: la motivazione e la consapevolezza di chi riceve lo stimolo devono essere definite e esplicite, poiché determinano l’efficacia della risposta data (Randolph-Seng e Nielsen, 2009). Per aumentare l’accessibilità dell’informazione attraverso il priming, lo scopo deve essere immediatamente disponibile, altrimenti il priming, da solo, non porta a fare cose che le persone non vogliono fare. È stato largamente dimostrato da studi psicologici che non si possono indurre scopi e obiettivi nei soggetti se non già presenti in loro. Infatti, gli effetti della comunicazione dei mass-media sono sempre mediati da variabili personali e sociali. Una influenza maggiore si verifica solo se si attivano o si manipolano gli scopi di cui gli individui sono già in possesso. La ricerca scientifica di matrice psicologico-sociale-cognitiva ha quindi recentemente dimostrato sperimentalmente quali sono le circostanze in cui gli stimoli presentati subliminalmente possono influenzare i bisogni dell'essere umano.
In dottrina viene definito Priming una forma di riconoscimento mnemonico non cosciente che consente a un determinato stimolo, al quale si è stati esposti una prima volta, di essere identificato durante le successive esposizioni senza averne consapevolezza. E' una vera capacità evolutiva tipica dell’essere umano e comporta importanti effetti sull’interpretazione e sulla valutazione dell’informazione.Il concetto di priming traela sua linfa teorica dalla psicologia cognitiva e consiste in una situazione di stimolo sensoriale, che potrebbe essere verbale, uditivo, visivo, al quale si è stati esposti in passato, che influenza la percezione delle successive esposizioni allo stesso stimolo in futuro.L’effetto priming, ampiamente studiato in vari ambiti della psicologia cognitiva, e usato in diversi studi di neuroscienze, consiste in un effetto di preparazione dell’esposizione allo stimolo. In inglese to prime significa innescare una serie di meccanismi che portano alla attivazione di informazioni presenti in memoria preparando e facilitando il soggetto nell’elaborazione cognitiva dello stimolo successivo.In sostanza, con effetto priming si intende l’attivazione di determinate rappresentazioni mentali, scorciatoie, euristiche prima di compiere un’attività.
Il Priming dunque si avvale dell’ euristica del riconoscimento, secondo la quale ogni notizia è memorizzata all’interno dello schema mentale,, costruito nel tempo collegando a essa altre informazioni ricevute rispetto alla prima notizia acquisita. Quando un nuovo stimolo si presenta, a esempio una nuova notizia riguardante il tema di interesse, chi legge la notizia richiama alla mente l’intero schema interpretativo a essa collegato. Uno degli effetti ritenuti più importanti nel richiamare lo schema mentale alla memoria è dato dalla frequenza con la quale la notizia è presentata al lettore.n termini neuropsicologi il priming consiste nell’attivazione di gruppi di neuroni circondati da connessioni poco forti tra loro. Quando questi neuroni sono attivati dalla percezione di un oggetto già visto il segnale si propaga immediatamente e diventa prioritario rispetto agli altri in arrivo. In questo modo, si innesca il ricordo che rappresenta l’informazione in arrivo e nella nostra mente si attivano una serie di immagini correlate all’oggetto in questione.
Ad esempio se l’informazione riguarda il mare si attiveranno tutte le immagine contenenti mare presenti in memoria a scapito di altre che raffigurano oggetti diversi.il priming subliminale, ha effetto solo se si manifestano particolari condizioni: la motivazione e la consapevolezza di chi riceve lo stimolo devono essere definite e esplicite, poiché determinano l’efficacia della risposta data (Randolph-Seng e Nielsen, 2009). Per aumentare l’accessibilità dell’informazione attraverso il priming, lo scopo deve essere immediatamente disponibile, altrimenti il priming, da solo, non porta a fare cose che le persone non vogliono fare. È stato largamente dimostrato da studi psicologici che non si possono indurre scopi e obiettivi nei soggetti se non già presenti in loro. Infatti, gli effetti della comunicazione dei mass-media sono sempre mediati da variabili personali e sociali. Una influenza maggiore si verifica solo se si attivano o si manipolano gli scopi di cui gli individui sono già in possesso. La ricerca scientifica di matrice psicologico-sociale-cognitiva ha quindi recentemente dimostrato sperimentalmente quali sono le circostanze in cui gli stimoli presentati subliminalmente possono influenzare i bisogni dell'essere umano.
Ansia.Fenomenologia di un problema.
di Celeste Mangraviti
Interventi precisi sui soggetti affetti da ansia ossessiva.
L’ansia è un concetto esclusivamente umano poichè necessita di un sistema cognitivo in grado di fare previsioni a medio e lungo termine. Per il breve termine e il presente immediato è forse più giusto parlare di timore collegato all'elemento percettivo.I vari disturbi d’ansia vengono di solito divisi in base alla gamma di eventi temuti dunque in altre parole per lo scopo minacciato.Trattandosi di errori di valutazioni probabilistiche si deduce che anche l'elemento statistico ha la sua importanza di fondo. Purtroppo tali errori si fondano su specifici bias cognitivi, errori sistematici che si sono rivelati utili per salvare la pelle ai nostri antenati. Il compito che la psicologia terapeutica si deve porre è sanza dubbio quello di sottolinearli e renderli evidenziati in modo da arginarne gli effetti e talvolta correggerli.
Inoltre, come già proposto in numerosa dottrina, utilizzarli in modo concreto a vantaggio del lavoro terapeutico.Nel suggerire possibili tecniche è utile distinguere gli interventi delle prime fasi di ansia da quelli sull'ultimo stadio che è particolarmente presente nel DOC dove la sovrastima del possibile controllo sull’evento temuto genera un ulteriore circolo vizioso secondo cui se è possibile , è anche doveroso e colpevole non farlo che è esso stesso (essere colpevole) l’evento temuto dagli ossessivi. Partiamo proprio dai suggerimenti specifici per l'ansia ossessiva. In essa è presente una sorta di ipertrofia funzionale del raziocinio. Lo stadio 2, per non essere colpevole di negligenza, riesamina senza sosta i prodotti dell’intuizione e siccome non accetta margini di incertezza, non vuole lasciare la minima probabilità al dubbio, si impegna in un lavorio incessante che tuttavia assorbe molte risorse ed è incompatibile con altri lavori. Poiché l’autocontrollo volontario diminuisce necessariamente quando si è sotto sforzo mentale e persino fisico, in presenza di compulsioni impegnarsi in un qualsiasi lavoro fisico o mentale è di grande aiuto.
Il vissuto di impotenza che si sperimenta nello scoprire l’importanza del caso e del fortuito e dunque la scarsa influenza che abbiamo nel determinare l’andamento delle cose, è un vero sollievo per l’ossessivo che in effetti mostra una riduzione sintomatologica nelle situazioni manifestamente al di fuori del suo controllo.Per convincerlo di ciò, è importante che comprenda a fondo il concetto di regressione verso la media (effetto su cui anche i terapeuti dovrebbero riflettere prima di prendersi i meriti dei miglioramenti o le colpe dei peggioramenti). In realtà la maggior parte delle cose avviene fuori da ogni nostro controllo. A tal proposito può essere utile costruire durante l'incontro col soggetto una torta delle cause (cosa diversa dalla torta delle probabilità che riguarda invece gli esiti) in cui il terapeuta imponga la presenza di una porzione denominata caso e ne fornisca diversi esempi prima di farne stimare al paziente il peso percentuale.
L’ansia è un concetto esclusivamente umano poichè necessita di un sistema cognitivo in grado di fare previsioni a medio e lungo termine. Per il breve termine e il presente immediato è forse più giusto parlare di timore collegato all'elemento percettivo.I vari disturbi d’ansia vengono di solito divisi in base alla gamma di eventi temuti dunque in altre parole per lo scopo minacciato.Trattandosi di errori di valutazioni probabilistiche si deduce che anche l'elemento statistico ha la sua importanza di fondo. Purtroppo tali errori si fondano su specifici bias cognitivi, errori sistematici che si sono rivelati utili per salvare la pelle ai nostri antenati. Il compito che la psicologia terapeutica si deve porre è sanza dubbio quello di sottolinearli e renderli evidenziati in modo da arginarne gli effetti e talvolta correggerli.
Inoltre, come già proposto in numerosa dottrina, utilizzarli in modo concreto a vantaggio del lavoro terapeutico.Nel suggerire possibili tecniche è utile distinguere gli interventi delle prime fasi di ansia da quelli sull'ultimo stadio che è particolarmente presente nel DOC dove la sovrastima del possibile controllo sull’evento temuto genera un ulteriore circolo vizioso secondo cui se è possibile , è anche doveroso e colpevole non farlo che è esso stesso (essere colpevole) l’evento temuto dagli ossessivi. Partiamo proprio dai suggerimenti specifici per l'ansia ossessiva. In essa è presente una sorta di ipertrofia funzionale del raziocinio. Lo stadio 2, per non essere colpevole di negligenza, riesamina senza sosta i prodotti dell’intuizione e siccome non accetta margini di incertezza, non vuole lasciare la minima probabilità al dubbio, si impegna in un lavorio incessante che tuttavia assorbe molte risorse ed è incompatibile con altri lavori. Poiché l’autocontrollo volontario diminuisce necessariamente quando si è sotto sforzo mentale e persino fisico, in presenza di compulsioni impegnarsi in un qualsiasi lavoro fisico o mentale è di grande aiuto.
Il vissuto di impotenza che si sperimenta nello scoprire l’importanza del caso e del fortuito e dunque la scarsa influenza che abbiamo nel determinare l’andamento delle cose, è un vero sollievo per l’ossessivo che in effetti mostra una riduzione sintomatologica nelle situazioni manifestamente al di fuori del suo controllo.Per convincerlo di ciò, è importante che comprenda a fondo il concetto di regressione verso la media (effetto su cui anche i terapeuti dovrebbero riflettere prima di prendersi i meriti dei miglioramenti o le colpe dei peggioramenti). In realtà la maggior parte delle cose avviene fuori da ogni nostro controllo. A tal proposito può essere utile costruire durante l'incontro col soggetto una torta delle cause (cosa diversa dalla torta delle probabilità che riguarda invece gli esiti) in cui il terapeuta imponga la presenza di una porzione denominata caso e ne fornisca diversi esempi prima di farne stimare al paziente il peso percentuale.
Cos'è il Disturbo d'Identità di Genere?
di Celeste Mangraviti
Le categorie di genere e le loro interpretazioni.
Una delle questione più dibattutte di sempre è la cosiddetta percezione del proprio sesso che risulta essere certamente un'elemento fondamentale dell’identità umana.Non sempre però il sesso biologico e il ruolo di genere, il comportamento sessuale e il riconoscimento sociale sono in pieno accordo. Molte e complicate sono le possibili combinazioni delle identità di genere e i relativi vissuti psicologici, affettivi e relazionali.Nella nostra cultura occidentale domina da sempre la tendenza a considerare accettabili solo due modalità alternative di presentazione sessuale: maschile o femminile a seconda dell’aspetto esteriore del corpo biologico.
Uno specifico aspetto e determinati comportamenti vengono associati a specifiche categorie di genere. Quindi gli stereotipi culturali relativi al genere sono, ancora oggi, molto diffusi e particolarmente rigidi.Il Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) e Transessualismo sono le parole usate per indicare la condizione di un soggetto che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto; in particolare, il disturbo consiste in un’intensa e persistente identificazione col sesso opposto, in persone che non presentano alcuna anomalia fisica. Tale condizione si presenta con malessere e disagio profondo (la cosiddetta disforia di genere) nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.
Il processo di acquisizione dell’identità di genere è la risultante di una collaborazione tra natura e cultura, vale a dire tra la maturazione biologica, che a partire dal sesso cromosomico produce, tramite la secrezione ormonale, la diversificazione sessuale del cervello e dell’organismo e il comportamento delle persone circostanti, che dopo l’assegnazione del sesso alla nascita, si comportano nei confronti del soggetto secondo le regole sociali e le aspettative congruenti al genere attribuito. Solitamente identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale sono tra loro coerenti.
Una delle questione più dibattutte di sempre è la cosiddetta percezione del proprio sesso che risulta essere certamente un'elemento fondamentale dell’identità umana.Non sempre però il sesso biologico e il ruolo di genere, il comportamento sessuale e il riconoscimento sociale sono in pieno accordo. Molte e complicate sono le possibili combinazioni delle identità di genere e i relativi vissuti psicologici, affettivi e relazionali.Nella nostra cultura occidentale domina da sempre la tendenza a considerare accettabili solo due modalità alternative di presentazione sessuale: maschile o femminile a seconda dell’aspetto esteriore del corpo biologico.
Uno specifico aspetto e determinati comportamenti vengono associati a specifiche categorie di genere. Quindi gli stereotipi culturali relativi al genere sono, ancora oggi, molto diffusi e particolarmente rigidi.Il Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) e Transessualismo sono le parole usate per indicare la condizione di un soggetto che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto; in particolare, il disturbo consiste in un’intensa e persistente identificazione col sesso opposto, in persone che non presentano alcuna anomalia fisica. Tale condizione si presenta con malessere e disagio profondo (la cosiddetta disforia di genere) nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.
Il processo di acquisizione dell’identità di genere è la risultante di una collaborazione tra natura e cultura, vale a dire tra la maturazione biologica, che a partire dal sesso cromosomico produce, tramite la secrezione ormonale, la diversificazione sessuale del cervello e dell’organismo e il comportamento delle persone circostanti, che dopo l’assegnazione del sesso alla nascita, si comportano nei confronti del soggetto secondo le regole sociali e le aspettative congruenti al genere attribuito. Solitamente identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale sono tra loro coerenti.
Trauma precoce e psicopatologie relative.
di Celeste Mangraviti
I traumi precoci come predisposizione e fattori di rischio.
Il verificarsi di un trauma precoce rappresenta senza dubbio uno dei fattori più ampiamente studiati e dibattuti nell’eziologia dei disturbi psicotici.La co-partecipazione dei fattori ambientali nell’eziologia dei disturbi psicotici è un elemento certo e ormai consolidatosi nella scienza tecnica.Tra questi, gli eventi di vita precoci – early life event – rappresentano uno dei fattori più presi in considerazione dagli esperti.I traumi precoci sono elementi di predisposizione, fattori di rischio, e comprendono una serie di accadimenti verificatisi nei primi 17 anni di vita tra cui abuso sessuale e/o fisico, neglect, perdita dei genitori .I tipi di trauma precoce più analizzati in psicologia sono stati i seguenti: abuso sessuale, abuso fisico, abuso emotivo, neglect, bullismo, perdita dei genitori (morte di un genitore prima dei 18 anni o separazione dai genitori per un periodo di almeno due settimane).
Dall’integrazione dei diversi studi si evidenzia una significativa associazione tra trauma precoce e psicosi, in particolare soggetti con trauma precoce hanno un rischio circa tre volte maggiore di insorgenza di sintomi psicotici rispetto a soggetti senza traumi precoci.Tale associazione risulta significativa indipendentemente da variabili demografiche (tra cui età, genere) e/o cliniche (tra cui comorbilità psichiatrica, uso di cannabis) di confondimento. Rispetto alla tipologia di eventi precoci, fatta eccezione per la perdita/separazione dai genitori, tutti gli eventi indagati sono risultati associati ad un incremento del rischio di psicosi. Tale risultato supporterebbe l’ipotesi del ruolo aspecifico della tipologia dell’evento nella relazione trauma-psicosi.
Quali meccanismi possono spiegare la relazione traumi precoci e psicosi? Da un parte alcuni modelli teorici focalizzano l’attenzione su meccanismi biologici di regolazione dello stress, tra cui l’ iperattivazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene altri propongo una spiegazione in termini di interazione gene-ambiente, altri considerano determinante l’azione di meccanismi di dissociazione, schemi e processi cognitivi.Infatti pazienti psicotici con trauma precoce, rispetto ai non traumatizzati, mostrano tendenzialmente un peggior outcome funzionale in termini di: peggiore funzionamento cognitivo (funzioni esecutive e memoria di lavoro), maggiore gravità dei sintomi maggiore resistenza ai trattamenti. I pazienti psicotici con trauma precoce sembrano, quindi, presentare un profilo clinico e funzionale differente rispetto ai pazienti non traumatizzati.
Il verificarsi di un trauma precoce rappresenta senza dubbio uno dei fattori più ampiamente studiati e dibattuti nell’eziologia dei disturbi psicotici.La co-partecipazione dei fattori ambientali nell’eziologia dei disturbi psicotici è un elemento certo e ormai consolidatosi nella scienza tecnica.Tra questi, gli eventi di vita precoci – early life event – rappresentano uno dei fattori più presi in considerazione dagli esperti.I traumi precoci sono elementi di predisposizione, fattori di rischio, e comprendono una serie di accadimenti verificatisi nei primi 17 anni di vita tra cui abuso sessuale e/o fisico, neglect, perdita dei genitori .I tipi di trauma precoce più analizzati in psicologia sono stati i seguenti: abuso sessuale, abuso fisico, abuso emotivo, neglect, bullismo, perdita dei genitori (morte di un genitore prima dei 18 anni o separazione dai genitori per un periodo di almeno due settimane).
Dall’integrazione dei diversi studi si evidenzia una significativa associazione tra trauma precoce e psicosi, in particolare soggetti con trauma precoce hanno un rischio circa tre volte maggiore di insorgenza di sintomi psicotici rispetto a soggetti senza traumi precoci.Tale associazione risulta significativa indipendentemente da variabili demografiche (tra cui età, genere) e/o cliniche (tra cui comorbilità psichiatrica, uso di cannabis) di confondimento. Rispetto alla tipologia di eventi precoci, fatta eccezione per la perdita/separazione dai genitori, tutti gli eventi indagati sono risultati associati ad un incremento del rischio di psicosi. Tale risultato supporterebbe l’ipotesi del ruolo aspecifico della tipologia dell’evento nella relazione trauma-psicosi.
Quali meccanismi possono spiegare la relazione traumi precoci e psicosi? Da un parte alcuni modelli teorici focalizzano l’attenzione su meccanismi biologici di regolazione dello stress, tra cui l’ iperattivazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene altri propongo una spiegazione in termini di interazione gene-ambiente, altri considerano determinante l’azione di meccanismi di dissociazione, schemi e processi cognitivi.Infatti pazienti psicotici con trauma precoce, rispetto ai non traumatizzati, mostrano tendenzialmente un peggior outcome funzionale in termini di: peggiore funzionamento cognitivo (funzioni esecutive e memoria di lavoro), maggiore gravità dei sintomi maggiore resistenza ai trattamenti. I pazienti psicotici con trauma precoce sembrano, quindi, presentare un profilo clinico e funzionale differente rispetto ai pazienti non traumatizzati.
Anoressia.Un male subdolo e pericoloso.
di Celeste Mangraviti
Quando il corpo diventa una vera ossessione psichica.
L'anoressia è un termine che spaventa,una patologia silente che arreca danni immensi fino alla morte stessa di chi ne è affetto.Appartiene alla grande categoria dei disturbi alimentari insieme alla ugualmente grave bulimia. Esiste, inoltre, una terza categoria residuale in cui confluiscono i casi clinici che rispettano alcuni ma non tutti i criteri per la diagnosi dei due disturbi maggiori.In psichiatria la prassi suole prevedere a livello diagnostico alcuni tipici criteri descrittivi, mancando la possibilità di individuare lesioni specifiche di organi interni. I disturbi, quindi, non corrispondono a entità definite in base alla sicura individuazione di una causa, ma a descrizioni sulle quali la comunità scientifica ha raggiunto un accordo. Questi criteri descrittivi raccolti nel cosiddetto DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) enumerano comportamenti e stati mentali la cui composizione definisce una sindrome psichiatrica.
Per la diagnosi di anoressia i criteri diagnostici stabiliti dal DSM sono quattro: il peso insufficiente, il disturbo dell’immagine corporea, il timore di ingrassare e l’amenorrea.Tradotto letteralmente il termine anoressia si riferisce alla perdita di appetito. Tuttavia, il significato di questo disturbo psicologico non è l’inappetenza bensì la repulsione volontaria e ossessiva nei confronti del cibo, generata da un intenso timore di ingrassare o addirittura dalla percezione distorta del proprio peso che sfocia nella convinzione erronea di essere sovrappeso. In genere il soggetto agisce di nascosto e può andare avanti per anni senza che nessuno se ne accorga. Gli atteggiamenti compensatori hanno lo scopo di “neutralizzare l’abbuffata”, nel tentativo di attenuare il senso di colpa e di ridurre al minimo l’aumento di peso che potrebbe aver luogo a seguito dell’abbuffata stessa.
I comportamenti di compensazione, presumibilmente, sono più distruttivi dell’abbuffata per due ragioni: innanzitutto, presentano un più rilevante numero di rischi medici e fisici; in secondo luogo, aiutano a giustificare l’abbuffata, eliminando l’eccessiva quantità di cibo ingerita e aumentano la possibilità che gli episodi bulimici si ripetano in futuro.I comportamenti possono variare molto da persona a persona. Laddove alcuni soggetti si abbuffano e ricorrono a comportamenti compensatori parecchie volte al giorno, altri lo fanno solo sporadicamente. Cambia anche il significato che si attribuisce ad “abbuffata”. Per alcuni può significare cinquemila calorie di cibi dolci, per altri può voler dire mangiare qualunque cibo che non sia a basso contenuto calorico. Mentre la maggior parte delle persone affette da bulimia tende ad autoindursi il vomito, altre vomitano raramente, altre mai. Molte abbinano più metodi di compensazione: il vomito e l’abuso di lassativi, il digiuno, l’attività fisica eccessiva o l’abuso di diuretici.Una cosa è certa.L'anoressia è diventata una delle patologie psichiche più complicate e difficili da combattere nell'epoca moderna.
L'anoressia è un termine che spaventa,una patologia silente che arreca danni immensi fino alla morte stessa di chi ne è affetto.Appartiene alla grande categoria dei disturbi alimentari insieme alla ugualmente grave bulimia. Esiste, inoltre, una terza categoria residuale in cui confluiscono i casi clinici che rispettano alcuni ma non tutti i criteri per la diagnosi dei due disturbi maggiori.In psichiatria la prassi suole prevedere a livello diagnostico alcuni tipici criteri descrittivi, mancando la possibilità di individuare lesioni specifiche di organi interni. I disturbi, quindi, non corrispondono a entità definite in base alla sicura individuazione di una causa, ma a descrizioni sulle quali la comunità scientifica ha raggiunto un accordo. Questi criteri descrittivi raccolti nel cosiddetto DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) enumerano comportamenti e stati mentali la cui composizione definisce una sindrome psichiatrica.
Per la diagnosi di anoressia i criteri diagnostici stabiliti dal DSM sono quattro: il peso insufficiente, il disturbo dell’immagine corporea, il timore di ingrassare e l’amenorrea.Tradotto letteralmente il termine anoressia si riferisce alla perdita di appetito. Tuttavia, il significato di questo disturbo psicologico non è l’inappetenza bensì la repulsione volontaria e ossessiva nei confronti del cibo, generata da un intenso timore di ingrassare o addirittura dalla percezione distorta del proprio peso che sfocia nella convinzione erronea di essere sovrappeso. In genere il soggetto agisce di nascosto e può andare avanti per anni senza che nessuno se ne accorga. Gli atteggiamenti compensatori hanno lo scopo di “neutralizzare l’abbuffata”, nel tentativo di attenuare il senso di colpa e di ridurre al minimo l’aumento di peso che potrebbe aver luogo a seguito dell’abbuffata stessa.
I comportamenti di compensazione, presumibilmente, sono più distruttivi dell’abbuffata per due ragioni: innanzitutto, presentano un più rilevante numero di rischi medici e fisici; in secondo luogo, aiutano a giustificare l’abbuffata, eliminando l’eccessiva quantità di cibo ingerita e aumentano la possibilità che gli episodi bulimici si ripetano in futuro.I comportamenti possono variare molto da persona a persona. Laddove alcuni soggetti si abbuffano e ricorrono a comportamenti compensatori parecchie volte al giorno, altri lo fanno solo sporadicamente. Cambia anche il significato che si attribuisce ad “abbuffata”. Per alcuni può significare cinquemila calorie di cibi dolci, per altri può voler dire mangiare qualunque cibo che non sia a basso contenuto calorico. Mentre la maggior parte delle persone affette da bulimia tende ad autoindursi il vomito, altre vomitano raramente, altre mai. Molte abbinano più metodi di compensazione: il vomito e l’abuso di lassativi, il digiuno, l’attività fisica eccessiva o l’abuso di diuretici.Una cosa è certa.L'anoressia è diventata una delle patologie psichiche più complicate e difficili da combattere nell'epoca moderna.
Autismo.Teorie e pratiche educative.
di Celeste Mangraviti
Lo strano universo della mente di una persona autistica.
L'autismo è un complicatissimo fenomeno del quale restano sconosciute cause e motivazioni.Per questo motivo la diagnosi viene ancora effettuata in base ad indicatori comportamentali. Questo vuol dire che come sintomi vengono considerati specifici comportamenti del paziente. Codesta maniera di classificazione e diagnosi del ''disturbo autistico'' è quella attualmente adottata dai due manuali diagnostici più utilizzati: il DSM IV e l'ICD 10. Da tali manuali possiamo dedurre una griglia d'osservazione che lo specialista riuscirà poi a tramutare in vera diagnosi. In questo dato momento i livelli sintomatici differenti vengono designati con il termine autismo. Per questo si preferisce spesso parlare più genericamente di disturbi dello spettro autistico. All'interno di tale definizione si fanno oggi rientrare tutte quelle patologie caratterizzate da gravi alterazioni del comportamento, della comunicazione e dell'interazione sociale.
Questo tipo di disturbi è classificato dall'American Psychiatric Association (DSM IV) col nome di Disturbi generalizzati dello sviluppo, poiché alterano diffusamente la normale evoluzione della personalità. Le persone con autismo presentano spesso problemi comportamentali che nei casi più gravi possono esplicitarsi in atti ripetitivi, anomali, auto o etero-aggressivi. La persona utilizza il linguaggio in modo bizzarro o appare del tutto muta; spesso ripete parole, suoni o frasi che sente pronunciare. Anche se le capacità imitative sono integre, queste persone spesso hanno notevoli difficoltà ad impiegare i nuovi apprendimenti in modo costruttivo in situazioni diverse.Non è infrequente che bambini affetti da autismo siano inizialmente diagnosticati come sordi, perché non mostrano alcuna reazione, come se non avessero udito appunto, quando sono chiamati per nome.
Di solito un limitato repertorio di comportamenti viene ripetuto in modo ossessivo e si possono osservare sequenze di movimenti stereotipati. Queste persone possono manifestare eccessivo interesse per oggetti o parti di essi, in particolare se hanno forme tondeggianti o possono ruotare. Si riscontra una resistenza al cambiamento che per alcuni può assumere le caratteristiche di un vero e proprio terrore fobico. Gli interventi più efficaci risultano spesso essere quelli effettuati in età precoce e sono basati innanzitutto su un training altamente strutturato e spesso intensivo adattato individualmente al bambino. I terapisti lavorano sullo sviluppo delle capacità sociali e di linguaggio. L'impiego dei farmaci è volto alla riduzione o all'estinzione di alcuni comportamenti problematici o di disturbi associati come l'epilessia e i deficit di attenzione, col fine di evitare ulteriori aggravamenti.
L'autismo è un complicatissimo fenomeno del quale restano sconosciute cause e motivazioni.Per questo motivo la diagnosi viene ancora effettuata in base ad indicatori comportamentali. Questo vuol dire che come sintomi vengono considerati specifici comportamenti del paziente. Codesta maniera di classificazione e diagnosi del ''disturbo autistico'' è quella attualmente adottata dai due manuali diagnostici più utilizzati: il DSM IV e l'ICD 10. Da tali manuali possiamo dedurre una griglia d'osservazione che lo specialista riuscirà poi a tramutare in vera diagnosi. In questo dato momento i livelli sintomatici differenti vengono designati con il termine autismo. Per questo si preferisce spesso parlare più genericamente di disturbi dello spettro autistico. All'interno di tale definizione si fanno oggi rientrare tutte quelle patologie caratterizzate da gravi alterazioni del comportamento, della comunicazione e dell'interazione sociale.
Questo tipo di disturbi è classificato dall'American Psychiatric Association (DSM IV) col nome di Disturbi generalizzati dello sviluppo, poiché alterano diffusamente la normale evoluzione della personalità. Le persone con autismo presentano spesso problemi comportamentali che nei casi più gravi possono esplicitarsi in atti ripetitivi, anomali, auto o etero-aggressivi. La persona utilizza il linguaggio in modo bizzarro o appare del tutto muta; spesso ripete parole, suoni o frasi che sente pronunciare. Anche se le capacità imitative sono integre, queste persone spesso hanno notevoli difficoltà ad impiegare i nuovi apprendimenti in modo costruttivo in situazioni diverse.Non è infrequente che bambini affetti da autismo siano inizialmente diagnosticati come sordi, perché non mostrano alcuna reazione, come se non avessero udito appunto, quando sono chiamati per nome.
Di solito un limitato repertorio di comportamenti viene ripetuto in modo ossessivo e si possono osservare sequenze di movimenti stereotipati. Queste persone possono manifestare eccessivo interesse per oggetti o parti di essi, in particolare se hanno forme tondeggianti o possono ruotare. Si riscontra una resistenza al cambiamento che per alcuni può assumere le caratteristiche di un vero e proprio terrore fobico. Gli interventi più efficaci risultano spesso essere quelli effettuati in età precoce e sono basati innanzitutto su un training altamente strutturato e spesso intensivo adattato individualmente al bambino. I terapisti lavorano sullo sviluppo delle capacità sociali e di linguaggio. L'impiego dei farmaci è volto alla riduzione o all'estinzione di alcuni comportamenti problematici o di disturbi associati come l'epilessia e i deficit di attenzione, col fine di evitare ulteriori aggravamenti.
Regolazione emotiva.Analisi e connessione.
di Celeste Mangraviti
Come le esistenze sono influenzate fin da subito.
Si definisce regolazione emotiva uno dei maggiori costrutti più conosciuti e utilizzati nell’ambito della psicologia cognitiva, sia da un punto di vista diagnostico che prognostico, che esplicativo della psicopatologia. In teoria quindi quando nasciamo siamo portati in modo naturale a compiere un insieme di atti e di comportamenti al fine di assicurarci la vicinanza con chi ci fornisce le cure (solitamente la mamma); uan specie di vera strategia per sopravvivere.Nella migliore delle ipotesi i genitori rispondono in un modo adeguato e pertinente alle richieste del figlio, aiutandolo a regolare le emozioni, alleviando il suo disagio e proteggendolo dai pericoli. Fin qui nulla questio.Quando invece la mamma per qualche motivo non è in grado di rispondere in modo consono alle richieste di vicinanza del bambino, questo mette in atto il piano B, che consiste in strategie di regolazione delle emozioni (cioè strategie per non rimanere angosciati a lungo) diverse dalla ricerca dell’adulto e che possono sfociare in una relazione di attaccamento che viene definita insicura. Dall’altra parte, un bambino che ha percepito una mamma distante e non disponibile si sposterà verso un attaccamento evitante, caratterizzato dalla tendenza a arrangiarsi e a contare solo su di sé, nella sensazione generale che le relazioni di vicinanza siano in realtà una fregatura inutile e pericolosa; in quest’ottica, svilupperà delle strategie di gestione delle emozioni che portano a una distanza dall’altro, insieme al tentativo di sopprimere ricordi dolorosi e brutti pensieri (lontano dagli occhi lontano dal cuore).
Si è poi visto che questi tre stili di attaccamento (sicuro, ansioso e evitante) vengono imparati dal bambino e immagazzinati come modelli che influenzano a loro volta il modo in cui una persona adulta cerca di gestire le proprie emozioni e i propri comportamenti, e che si riflettono nelle relazioni significative da grandi. Quando siamo adulti, volenti o nolenti, in qualche modo le emozioni impariamo a gestirle. In questo senso si parla di “regolazione emotiva” per descrivere quel processo con cui moduliamo le emozioni, e cioè impariamo a non farci sopraffare dal dolore di una perdita e a non andare nel panico se siamo preoccupati per qualcosa. Ci sono sostanzialmente due tipi di regolazione emotiva: quella utile (adattiva) e quella non utile (maladattiva).Un esempio di regolazione emotiva utile si ha quando cerchiamo il lato positivo delle situazioni, quando analizziamo le cose in modo costruttivo, quando sappiamo mettere in campo le nostre capacità di problem solving. La regolazione poco utile (e a volte dannosa) consiste invece per esempio nella soppressione delle emozioni e dei pensieri e nell’evitamento, così come nella tendenza a mantenere un’eccessiva distanza dagli altri o nella propensione a concentrarci sui problemi facendoci le domande sbagliate, che non ci portano a risolverli ma a affondarci dentro.
Questo risultato da una parte esclude un pericoloso pseudo-determinismo. Visto che non abbiamo molta possibilità di decidere noi quale tipo di attaccamento sviluppare nell’infanzia, il fatto che quello non determini lo stato emotivo adulto ci dà qualche speranza. Dall’altra parte, da un punto di vista clinico, questo ci dice che è preferenziale, in terapia, insegnare al paziente strategie diverse e più utili di regolazione delle emozioni, piuttosto che addentrarci in interventi ben più intensivi (e delicati per il paziente) finalizzati a correggere gli effetti di esperienze di attaccamento precoci.Come dire, per capire dove stiamo andando è importante sapere da dove veniamo, ma è più importante sapere dove siamo ora e che strada possiamo intraprendere.
Si definisce regolazione emotiva uno dei maggiori costrutti più conosciuti e utilizzati nell’ambito della psicologia cognitiva, sia da un punto di vista diagnostico che prognostico, che esplicativo della psicopatologia. In teoria quindi quando nasciamo siamo portati in modo naturale a compiere un insieme di atti e di comportamenti al fine di assicurarci la vicinanza con chi ci fornisce le cure (solitamente la mamma); uan specie di vera strategia per sopravvivere.Nella migliore delle ipotesi i genitori rispondono in un modo adeguato e pertinente alle richieste del figlio, aiutandolo a regolare le emozioni, alleviando il suo disagio e proteggendolo dai pericoli. Fin qui nulla questio.Quando invece la mamma per qualche motivo non è in grado di rispondere in modo consono alle richieste di vicinanza del bambino, questo mette in atto il piano B, che consiste in strategie di regolazione delle emozioni (cioè strategie per non rimanere angosciati a lungo) diverse dalla ricerca dell’adulto e che possono sfociare in una relazione di attaccamento che viene definita insicura. Dall’altra parte, un bambino che ha percepito una mamma distante e non disponibile si sposterà verso un attaccamento evitante, caratterizzato dalla tendenza a arrangiarsi e a contare solo su di sé, nella sensazione generale che le relazioni di vicinanza siano in realtà una fregatura inutile e pericolosa; in quest’ottica, svilupperà delle strategie di gestione delle emozioni che portano a una distanza dall’altro, insieme al tentativo di sopprimere ricordi dolorosi e brutti pensieri (lontano dagli occhi lontano dal cuore).
Si è poi visto che questi tre stili di attaccamento (sicuro, ansioso e evitante) vengono imparati dal bambino e immagazzinati come modelli che influenzano a loro volta il modo in cui una persona adulta cerca di gestire le proprie emozioni e i propri comportamenti, e che si riflettono nelle relazioni significative da grandi. Quando siamo adulti, volenti o nolenti, in qualche modo le emozioni impariamo a gestirle. In questo senso si parla di “regolazione emotiva” per descrivere quel processo con cui moduliamo le emozioni, e cioè impariamo a non farci sopraffare dal dolore di una perdita e a non andare nel panico se siamo preoccupati per qualcosa. Ci sono sostanzialmente due tipi di regolazione emotiva: quella utile (adattiva) e quella non utile (maladattiva).Un esempio di regolazione emotiva utile si ha quando cerchiamo il lato positivo delle situazioni, quando analizziamo le cose in modo costruttivo, quando sappiamo mettere in campo le nostre capacità di problem solving. La regolazione poco utile (e a volte dannosa) consiste invece per esempio nella soppressione delle emozioni e dei pensieri e nell’evitamento, così come nella tendenza a mantenere un’eccessiva distanza dagli altri o nella propensione a concentrarci sui problemi facendoci le domande sbagliate, che non ci portano a risolverli ma a affondarci dentro.
Questo risultato da una parte esclude un pericoloso pseudo-determinismo. Visto che non abbiamo molta possibilità di decidere noi quale tipo di attaccamento sviluppare nell’infanzia, il fatto che quello non determini lo stato emotivo adulto ci dà qualche speranza. Dall’altra parte, da un punto di vista clinico, questo ci dice che è preferenziale, in terapia, insegnare al paziente strategie diverse e più utili di regolazione delle emozioni, piuttosto che addentrarci in interventi ben più intensivi (e delicati per il paziente) finalizzati a correggere gli effetti di esperienze di attaccamento precoci.Come dire, per capire dove stiamo andando è importante sapere da dove veniamo, ma è più importante sapere dove siamo ora e che strada possiamo intraprendere.
Lo stalking al femminile.Le cause reali.
di Celeste Mangraviti
Quando a perseguitare è lei e non lui.
Lo stalking è un fenomeno serissimo,un vero reato penale cui spesso si associa l'idea di un uomo che perseguita un ex compagna, incapace di accettare la fine del rapporto.Molto meno conosciuto è il fenomeno inverso ovvero lo stalking di una donna verso un uomo o verso anche un'altra donna.Non sempre vittima delle azioni di molestia è un ex amante, a volte può trattarsi anche di una collega di lavoro o di un ex amica,una vicina di casa, una collega, il proprio medico curante.In rari casi la vittima può essere un conoscente o una persona con cui la stalker non ha un rapporto diretto ( per esempio la compagna dell’uomo di cui è innamorata).Lo stalking al femminile raramente sfocia in vera violenza fisica anche se questa eventualità non è drasticamente da escludere ma nonostante ciò le conseguenze sulla vita della vittima possono essere ugualmente rovinose.La stalker donna non è portata a distruggere la sua vittima fisicamente come la controparte maschile ma il suo scopo è vendicarsi in modo indiretto colpendo l’altro in ciò che ha di più caro.
Nel rapporto di coppia, nelle amicizie, sul lavoro o infangando la sua reputazione.Gli atti più diffusi sono la calunnia, la diffamazione e il pettegolezzo ma in alcuni casi estremi si può arrivare al ricatto, alla denuncia e persino al tentativo di sucidio e all’ aggressione fisica.Il profilo psicologico della stalker donna possiede tante similitudini con quello dello stalker uomo.Anche se gli studiosi non hanno individuato un profilo di personalità univoco, molte stalker potrebbero presentare i criteri per la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità.Le persone con questo disturbo non hanno un senso di sè molto forte e possono avvertire di essere realizzate solo in una relazione simbiotica con una persona che le supporta costantemente.E’ qualcosa che non ha nulla a che fare con l'amore ma con la patologia relazionale.
La persona di riferimento affettivo diventa, per l’individuo con questa problematica, assolutamente vitale, di conseguenza, di fronte alla possibilità di un abbandono, la persecutrice si sente completamente persa e avverte una sensazione di annientamento e di angoscia profonda.Il rapporto stretto tra una stalker e la sua vittima nasce spesso come una conoscenza casuale che diventa nel giro di breve tempo un rapporto molto stretto.La persecutrice è portata ad idealizzare la relazione con la sua vittima, avvertendola come più importante e significativa di quanto non sia: per esempio, considera come la sua migliore amica una ragazza che conosce da poche settimane.In pochissimo tempo la stalker stabilisce con la sua vittima un rapporto simbiotico, monopolizzando completamente il suo tempo e rivendicando da essa una disponibilità senza limiti.
Lo stalking è un fenomeno serissimo,un vero reato penale cui spesso si associa l'idea di un uomo che perseguita un ex compagna, incapace di accettare la fine del rapporto.Molto meno conosciuto è il fenomeno inverso ovvero lo stalking di una donna verso un uomo o verso anche un'altra donna.Non sempre vittima delle azioni di molestia è un ex amante, a volte può trattarsi anche di una collega di lavoro o di un ex amica,una vicina di casa, una collega, il proprio medico curante.In rari casi la vittima può essere un conoscente o una persona con cui la stalker non ha un rapporto diretto ( per esempio la compagna dell’uomo di cui è innamorata).Lo stalking al femminile raramente sfocia in vera violenza fisica anche se questa eventualità non è drasticamente da escludere ma nonostante ciò le conseguenze sulla vita della vittima possono essere ugualmente rovinose.La stalker donna non è portata a distruggere la sua vittima fisicamente come la controparte maschile ma il suo scopo è vendicarsi in modo indiretto colpendo l’altro in ciò che ha di più caro.
Nel rapporto di coppia, nelle amicizie, sul lavoro o infangando la sua reputazione.Gli atti più diffusi sono la calunnia, la diffamazione e il pettegolezzo ma in alcuni casi estremi si può arrivare al ricatto, alla denuncia e persino al tentativo di sucidio e all’ aggressione fisica.Il profilo psicologico della stalker donna possiede tante similitudini con quello dello stalker uomo.Anche se gli studiosi non hanno individuato un profilo di personalità univoco, molte stalker potrebbero presentare i criteri per la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità.Le persone con questo disturbo non hanno un senso di sè molto forte e possono avvertire di essere realizzate solo in una relazione simbiotica con una persona che le supporta costantemente.E’ qualcosa che non ha nulla a che fare con l'amore ma con la patologia relazionale.
La persona di riferimento affettivo diventa, per l’individuo con questa problematica, assolutamente vitale, di conseguenza, di fronte alla possibilità di un abbandono, la persecutrice si sente completamente persa e avverte una sensazione di annientamento e di angoscia profonda.Il rapporto stretto tra una stalker e la sua vittima nasce spesso come una conoscenza casuale che diventa nel giro di breve tempo un rapporto molto stretto.La persecutrice è portata ad idealizzare la relazione con la sua vittima, avvertendola come più importante e significativa di quanto non sia: per esempio, considera come la sua migliore amica una ragazza che conosce da poche settimane.In pochissimo tempo la stalker stabilisce con la sua vittima un rapporto simbiotico, monopolizzando completamente il suo tempo e rivendicando da essa una disponibilità senza limiti.
La fototerapia contro la depressione.
di Celeste Mangraviti
Usare la luce per combattere la depressione.
Ormai l'inverno ci ha raggiunto,i giorni si accorciano, le temperatura diminuiscono e allo stesso tempo anche il nostro umore ne risente. Con il freddo che ci circonda si manifesta il riacutizzarsi di molte forme depressive poichè l'inverno rappresenta un periodo a rischio per l’insorgere della Depressione Stagionale.La Sindrome Affettiva Stagionale ( SAD) e’ un vero disturbo caratterizzato da specifici sintomi simili a quelli della depressione che insorge in particolari periodi dell’anno ( solitamente tra ottobre e novembre quando le giornate cominciano ad accorciarsi) e scompare con l’arrivo della primavera.Le persone colpite da SAD accusano spesso apatia e svogliatezza, malinconia e irritabilità, calo della libido ed un forte desiderio di dolci o carboidrati che può condurre ad un aumento di peso indesiderato.Un altro sintomo davveri frequente è poi l’eccessiva stanchezza che non scompare neppure dopo una notte di sonno. I pazienti che soffrono di SAD affermano che dormono a lungo ma al risveglio sono spesso piu’ stanchi di quando sono andati a letto.
La relazione tra luce solare e’ tono dell’umore e’ ben documentata. Nei paesi nordici , per esempio, caratterizzati da un inverno lungo e rigido, il tassi di depressione sono superiori a quelli dei paesi del sud del mondo.Nel caso della Depressione Stagionale si e’ ipotizzato che che la minore esposizione alla luce solare che si ha durante la stagione invernale possa causare,nelle persone predisposte, un alterazione della chimica celebrale.Nello specifico sembra che la carenza di luce solare influenzi il livello di Serotonina del sistema neuropsicologico, con il conseguente calo di umore ed energie e che porti ad una diminuzione della quantità di Melatonina, un ormone fondamentale alla base dei ritmi psico-biologici vitali dell’individuo.La fototerapia e’ la migliore arma contro questo specifico disturbo consiste nell’esporsi a grandi quantità di luce naturale simulata, attraverso un apparecchio denominato “LightBox.”
La light box e’ una lampada che emette un intensità di luce di 10.000 lux , pari a quella della luce esterna poco dopo l’alba e 10 o 20 volte superiore a quella della normale luce artificiale.La fototerapia sembra avere un benefico effetto anche sull’insonnia dei pazienti depressi. L’esposizione ad una luce ad ampio spettroo anticipa l’orologio biologico che regola il ritmo veglia-sonno che nei pazienti depressi pare abbia una desincronizzazione interna in ritardo.
Ormai l'inverno ci ha raggiunto,i giorni si accorciano, le temperatura diminuiscono e allo stesso tempo anche il nostro umore ne risente. Con il freddo che ci circonda si manifesta il riacutizzarsi di molte forme depressive poichè l'inverno rappresenta un periodo a rischio per l’insorgere della Depressione Stagionale.La Sindrome Affettiva Stagionale ( SAD) e’ un vero disturbo caratterizzato da specifici sintomi simili a quelli della depressione che insorge in particolari periodi dell’anno ( solitamente tra ottobre e novembre quando le giornate cominciano ad accorciarsi) e scompare con l’arrivo della primavera.Le persone colpite da SAD accusano spesso apatia e svogliatezza, malinconia e irritabilità, calo della libido ed un forte desiderio di dolci o carboidrati che può condurre ad un aumento di peso indesiderato.Un altro sintomo davveri frequente è poi l’eccessiva stanchezza che non scompare neppure dopo una notte di sonno. I pazienti che soffrono di SAD affermano che dormono a lungo ma al risveglio sono spesso piu’ stanchi di quando sono andati a letto.
La relazione tra luce solare e’ tono dell’umore e’ ben documentata. Nei paesi nordici , per esempio, caratterizzati da un inverno lungo e rigido, il tassi di depressione sono superiori a quelli dei paesi del sud del mondo.Nel caso della Depressione Stagionale si e’ ipotizzato che che la minore esposizione alla luce solare che si ha durante la stagione invernale possa causare,nelle persone predisposte, un alterazione della chimica celebrale.Nello specifico sembra che la carenza di luce solare influenzi il livello di Serotonina del sistema neuropsicologico, con il conseguente calo di umore ed energie e che porti ad una diminuzione della quantità di Melatonina, un ormone fondamentale alla base dei ritmi psico-biologici vitali dell’individuo.La fototerapia e’ la migliore arma contro questo specifico disturbo consiste nell’esporsi a grandi quantità di luce naturale simulata, attraverso un apparecchio denominato “LightBox.”
La light box e’ una lampada che emette un intensità di luce di 10.000 lux , pari a quella della luce esterna poco dopo l’alba e 10 o 20 volte superiore a quella della normale luce artificiale.La fototerapia sembra avere un benefico effetto anche sull’insonnia dei pazienti depressi. L’esposizione ad una luce ad ampio spettroo anticipa l’orologio biologico che regola il ritmo veglia-sonno che nei pazienti depressi pare abbia una desincronizzazione interna in ritardo.
Quando l'ormone condiziona la mente.
di Celeste Mangraviti
Stress,rabbia e depressione possono dipendere dagli ormoni.
Una recente ricerca della University of Carolina ha scientificamente provato che la donna al mattino appena sveglia, sembra sia più tendente ad essere di malumore che non l’uomo , se le ore di sonno sono poche o il sonno è insoddisfacente. Tutto ciò sarebbe dovuto al fatto che la donna ha bisogno delle sue ore di sonno (otto se normodormiente, o di più se lungo dormiente), molto più dell'uomo.Se non le ottiene, allora diviene più ostile e arrabbiata.Al malumore, la rabbia, o l’ostilità di alcune donne al mattino, dopo una nottata di sonno inadeguata per la salute, c’è una spiegazione scientifica: è tutto collegato all'universo degli ormoni. L’umore alterato è il sintomo più evidente.Per tentare di spiegare l’ostilità mattutina di alcune donne, i ricercatori hanno coinvolto 200 persone di ambo i sessi per poi analizzare il comportamento mattutino di maschi e femmine, dopo aver dormito lo stesso numero di ore.Ebbene, a parità di ore di sonno, si è osservato che le donne erano più di malumore, ostili, o arrabbiate.
Si è scoperto attraverso lo studio, che la causa che sottende a tutto ciò è uno squilibrio nel funzionamento degli ormoni.Le differenze ormonali tra donne e uomini sarebbero pertanto le responsabili del buono o cattivo umore al mattino, dopo una notte dedicata al sonno per uno stesso numero di ore – che, in questo caso, risultano insufficienti per il gentil sesso.In sostanza, quello che si deduce da questo studio pubblicato su Brain, Behavior and Immunity è che la donna necessita delle sue ore di riposo che non l’uomo. Le donne infatti, scrivono gli autori, soffrono di più sia mentalmente che fisicamente se non ottengono un buon sonno notturno, rispetto agli uomini. Le donne infatti abbisognano di mantenere un maggior equilibrio ormonale. Non solo: lo studio ha anche messo in evidenza come le donne abbiano una maggiore probabilità di sviluppare malattie cardiache o problemi psicologici se non dormono bene.
Questo studio suggerisce che poco sonno (misurato nel livello, i risvegli durante la notte e quanto tempo ci vuole per addormentarsi) può avere gravi conseguenze sulla salute più per le donne che per gli uomini.Per le donne, poco sonno è associato ad elevati livelli di stress psicologico e di sentimenti di ostilità, depressione e rabbia. Al contrario, non è stato associato con lo stesso grado di disordine nei maschi.Dormire bene, concludono i ricercatori, è associato a una buona salute fisica e mentale, che si tratti di maschi o di femmine. Tuttavia, noi donne ne risentiamo maggiormente.
Una recente ricerca della University of Carolina ha scientificamente provato che la donna al mattino appena sveglia, sembra sia più tendente ad essere di malumore che non l’uomo , se le ore di sonno sono poche o il sonno è insoddisfacente. Tutto ciò sarebbe dovuto al fatto che la donna ha bisogno delle sue ore di sonno (otto se normodormiente, o di più se lungo dormiente), molto più dell'uomo.Se non le ottiene, allora diviene più ostile e arrabbiata.Al malumore, la rabbia, o l’ostilità di alcune donne al mattino, dopo una nottata di sonno inadeguata per la salute, c’è una spiegazione scientifica: è tutto collegato all'universo degli ormoni. L’umore alterato è il sintomo più evidente.Per tentare di spiegare l’ostilità mattutina di alcune donne, i ricercatori hanno coinvolto 200 persone di ambo i sessi per poi analizzare il comportamento mattutino di maschi e femmine, dopo aver dormito lo stesso numero di ore.Ebbene, a parità di ore di sonno, si è osservato che le donne erano più di malumore, ostili, o arrabbiate.
Si è scoperto attraverso lo studio, che la causa che sottende a tutto ciò è uno squilibrio nel funzionamento degli ormoni.Le differenze ormonali tra donne e uomini sarebbero pertanto le responsabili del buono o cattivo umore al mattino, dopo una notte dedicata al sonno per uno stesso numero di ore – che, in questo caso, risultano insufficienti per il gentil sesso.In sostanza, quello che si deduce da questo studio pubblicato su Brain, Behavior and Immunity è che la donna necessita delle sue ore di riposo che non l’uomo. Le donne infatti, scrivono gli autori, soffrono di più sia mentalmente che fisicamente se non ottengono un buon sonno notturno, rispetto agli uomini. Le donne infatti abbisognano di mantenere un maggior equilibrio ormonale. Non solo: lo studio ha anche messo in evidenza come le donne abbiano una maggiore probabilità di sviluppare malattie cardiache o problemi psicologici se non dormono bene.
Questo studio suggerisce che poco sonno (misurato nel livello, i risvegli durante la notte e quanto tempo ci vuole per addormentarsi) può avere gravi conseguenze sulla salute più per le donne che per gli uomini.Per le donne, poco sonno è associato ad elevati livelli di stress psicologico e di sentimenti di ostilità, depressione e rabbia. Al contrario, non è stato associato con lo stesso grado di disordine nei maschi.Dormire bene, concludono i ricercatori, è associato a una buona salute fisica e mentale, che si tratti di maschi o di femmine. Tuttavia, noi donne ne risentiamo maggiormente.
Il disturbo post-traumatico da stress.
di Celeste Mangraviti
Quando un evento drammatico provoca danni inimmaginabili.
Oggi parliamo di un particolare tema:il Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) che rappresenta una intensa reazione ad eventi traumatici quali catastrofi naturali, lutti complessi, aggressioni fisiche e sessuali, abusi, conflitti bellici ed incidenti gravi.Secondo l'ormai celebre Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali,elabotato dalla nota Associazione Americana di Psichiatria una persona si ritiene affetta da PTSD solo se risulta esposta ad un evento traumatico dove essa ha assistito o vissuto tale evento e questo ha causato la morte o la minaccia di morte, gravi lesioni o danni all'integrita' fisica di se' o di altri. Nel PTSD: i sintomi d'orrore, paura intensa ed impotenza durano per lungo tempo e l'evento traumatico viene rivissuto costantemente sotto forma di ricordi intrusivi spiacevoli, incubi e flashback.Questo determina veri disturbi del sonno, ipervigilanza, irritabilita' e ad un'intensa reattivita' fisiologica a fattori interni od esterni che strutturalmente riportano all'evento grave vissuto.
Per colpa di questi specifici disagi la persona tende ad assumere un comportamento evitante verso stimoli che sono associati al trauma vissuto.Il disturbo e' spesso collegato a ulteriori fattori come depressione, abuso di sostanze, disturbi alimentari, condotte autolesionistiche e suicidarie, dolore cronico ed ansia.Inoltre, a seguito delle dinamiche verificatesi durante l'evento traumatico, spesso accade che la persona si trova a provare intense emozioni di vergogna e sensi di colpa.Per diagnosticare il PTSD, è necessario che tali sintomi perdurino per almeno un mese e la loro intensita' deve causare un disagio significativo nel funzionamento sociale e lavorativo dell'individuo.Il disturbo descritto in queste righe può essere di tipo acuto, se i sintomi persistono per meno di tre mesi, cronico, se la durata dei sintomi e' pari o superiore a tre mesi, o ad esordio ritardato quando i sintomi si manifestano dopo sei mesi dall'evento.
Nel lontano 1985 in Canada venne sviluppato l'EMDR ovvero una tecnica metodologica di natura psicologica creata dalla psicologa ricercatrice americana Francine Shapiro. Il trattamento consiste nel rielaborare specifici aspetti che rappresentano l'evento traumatico ed i fattori che scatenano la corrispondente reattivita' fisiologica attraverso una stimolazione bilaterale (movimenti ritmici delle dita, tapping, oppure utilizzando strumenti sonori e visivi). La tecnica EMDR viene oggi utilizzata molto non solo nei casi di PTSD ma anche in patologie la cui origine risale ad un evento traumatico. Questo approccio e' strutturato ed orientato alla comprensione ed al cambiamento dei pensieri disfunzionali che determinano le emozioni negative, sintomi somatici e comportamenti non adattivi.Questo particolare modello teorico cognitivo ha dimostrato che la reazione post traumatica perdura quando gli individui percepiscono l'evento traumatico come una minaccia grave ed imminente.
Oggi parliamo di un particolare tema:il Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) che rappresenta una intensa reazione ad eventi traumatici quali catastrofi naturali, lutti complessi, aggressioni fisiche e sessuali, abusi, conflitti bellici ed incidenti gravi.Secondo l'ormai celebre Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali,elabotato dalla nota Associazione Americana di Psichiatria una persona si ritiene affetta da PTSD solo se risulta esposta ad un evento traumatico dove essa ha assistito o vissuto tale evento e questo ha causato la morte o la minaccia di morte, gravi lesioni o danni all'integrita' fisica di se' o di altri. Nel PTSD: i sintomi d'orrore, paura intensa ed impotenza durano per lungo tempo e l'evento traumatico viene rivissuto costantemente sotto forma di ricordi intrusivi spiacevoli, incubi e flashback.Questo determina veri disturbi del sonno, ipervigilanza, irritabilita' e ad un'intensa reattivita' fisiologica a fattori interni od esterni che strutturalmente riportano all'evento grave vissuto.
Per colpa di questi specifici disagi la persona tende ad assumere un comportamento evitante verso stimoli che sono associati al trauma vissuto.Il disturbo e' spesso collegato a ulteriori fattori come depressione, abuso di sostanze, disturbi alimentari, condotte autolesionistiche e suicidarie, dolore cronico ed ansia.Inoltre, a seguito delle dinamiche verificatesi durante l'evento traumatico, spesso accade che la persona si trova a provare intense emozioni di vergogna e sensi di colpa.Per diagnosticare il PTSD, è necessario che tali sintomi perdurino per almeno un mese e la loro intensita' deve causare un disagio significativo nel funzionamento sociale e lavorativo dell'individuo.Il disturbo descritto in queste righe può essere di tipo acuto, se i sintomi persistono per meno di tre mesi, cronico, se la durata dei sintomi e' pari o superiore a tre mesi, o ad esordio ritardato quando i sintomi si manifestano dopo sei mesi dall'evento.
Nel lontano 1985 in Canada venne sviluppato l'EMDR ovvero una tecnica metodologica di natura psicologica creata dalla psicologa ricercatrice americana Francine Shapiro. Il trattamento consiste nel rielaborare specifici aspetti che rappresentano l'evento traumatico ed i fattori che scatenano la corrispondente reattivita' fisiologica attraverso una stimolazione bilaterale (movimenti ritmici delle dita, tapping, oppure utilizzando strumenti sonori e visivi). La tecnica EMDR viene oggi utilizzata molto non solo nei casi di PTSD ma anche in patologie la cui origine risale ad un evento traumatico. Questo approccio e' strutturato ed orientato alla comprensione ed al cambiamento dei pensieri disfunzionali che determinano le emozioni negative, sintomi somatici e comportamenti non adattivi.Questo particolare modello teorico cognitivo ha dimostrato che la reazione post traumatica perdura quando gli individui percepiscono l'evento traumatico come una minaccia grave ed imminente.
Alla scoperta della neuroscienza cognitiva.
di Celeste Mangraviti
Quando la scienzia si fonde con le nuove tecnologie.
Uno dei settori alleati empiricamente della psicologia cognitiva è la neuroscienza cognitiva. Lo studio scientifico della soggettività e dell’intersoggettività è lo scopo principale delle neuroscienze cognitive attuali e garantisce un mezzo utilissimo per la psicanalisi.La storia delle neuroscienze cognitive, nasce dalla ricerca neuroscientifica più tradizionale e deve essere collegata con la fine del ventesimo secolo e l'invenzione dei computer,con i quali si riesce a simulare il funzionamento mentale umano. Questa proiezione iniziale è ancora attuale all’interno del sistema teorico base delle principali teorie cognitivo-comportamentali.
Molti autori ritengono che l’approccio psicoanalitico e quello cognitivo-evoluzionista sul tema della “coscienza”, sia fortissimo e sarebbe connesso con il concetto di “elaborazione implicita” come alternativa cognitivista al concetto psicoanalitico classico dell’inconscio.Quindi si ritiene che nell’ambito cognitivo-evoluzionista, anche se in modalità diverse da quelle della psicoanalisi dell’intersoggettività, si è arrivati alla medesima conclusione e cioè che studiare la mente individuale in modo solato è impossibile.Il preambolo epistemologico tra cognitivismo e psicoanalisi è ancora molto lontano.
Alcune scuole scientifiche della psicologia moderna, hanno comunque nel tempo evoluto concetti grandemente relazionali rispetto ai cognitivismi degli anni ’60, sino a inserire anche sistemi e modelli operativi più tipicamente psicoanalitici, come transfert e contro-transfert, seppure in un senso qualitativamente differente da quello psicoanalitico.Nel XXI secolo però siè avuto un enorme sviluppo delle neuroscienze cognitive, sino alle più recenti scoperte delle tecnologie di brain imaging, come ad esempio la risonanza magnetica funzionale (FMRI), capace di condurre l'analisi (non invasiva) del cervello umano sino a limiti impensabili solo alcuni anni fa. Queste scoperte scientifiche potranno sicuramente contribuire col tempo ad assottigliare le differenze tra le varie teorie cliniche,spesso in contrasto totale.
Uno dei settori alleati empiricamente della psicologia cognitiva è la neuroscienza cognitiva. Lo studio scientifico della soggettività e dell’intersoggettività è lo scopo principale delle neuroscienze cognitive attuali e garantisce un mezzo utilissimo per la psicanalisi.La storia delle neuroscienze cognitive, nasce dalla ricerca neuroscientifica più tradizionale e deve essere collegata con la fine del ventesimo secolo e l'invenzione dei computer,con i quali si riesce a simulare il funzionamento mentale umano. Questa proiezione iniziale è ancora attuale all’interno del sistema teorico base delle principali teorie cognitivo-comportamentali.
Molti autori ritengono che l’approccio psicoanalitico e quello cognitivo-evoluzionista sul tema della “coscienza”, sia fortissimo e sarebbe connesso con il concetto di “elaborazione implicita” come alternativa cognitivista al concetto psicoanalitico classico dell’inconscio.Quindi si ritiene che nell’ambito cognitivo-evoluzionista, anche se in modalità diverse da quelle della psicoanalisi dell’intersoggettività, si è arrivati alla medesima conclusione e cioè che studiare la mente individuale in modo solato è impossibile.Il preambolo epistemologico tra cognitivismo e psicoanalisi è ancora molto lontano.
Alcune scuole scientifiche della psicologia moderna, hanno comunque nel tempo evoluto concetti grandemente relazionali rispetto ai cognitivismi degli anni ’60, sino a inserire anche sistemi e modelli operativi più tipicamente psicoanalitici, come transfert e contro-transfert, seppure in un senso qualitativamente differente da quello psicoanalitico.Nel XXI secolo però siè avuto un enorme sviluppo delle neuroscienze cognitive, sino alle più recenti scoperte delle tecnologie di brain imaging, come ad esempio la risonanza magnetica funzionale (FMRI), capace di condurre l'analisi (non invasiva) del cervello umano sino a limiti impensabili solo alcuni anni fa. Queste scoperte scientifiche potranno sicuramente contribuire col tempo ad assottigliare le differenze tra le varie teorie cliniche,spesso in contrasto totale.
Effetto placebo.Teoria e pratica clinica.
di Celeste Mangraviti
Forse il trattamento farmacologico più antico.
Quando si dice effetto placebo si parla del più efficace trattamento terapeutico mai esistito in natura.Ma risulta interessante comprendere in che modo le aspettative dell'uomo sulla propria guarigione inneschino un vero e proprio miglioramento terapeutico nel nostro corpo.La domanda è capire se il solo credere che qualcosa possa aiutarci a guarire riesca a far partire un vero effetto curativo. Il proprio atteggiamento mentale positivo può riuscire ad influenzare il nostro corpo in modo tale da aiutarci nel decorso di una malattia fino alla guarigione? Negli ultimi anni molte sono state le diatribe scientifiche fatte sull’effetto placebo e oggi ci aiutano a capire che la risposta è si,inequivocabilmente se la mente ed il corpo sono interconnessi,nei processi di salute/malattia la guarigione è più veloce.L’effetto placebo da molti viene descritto come il modo in cui cambiamenti benefici, fisici e psicologici, avvengono nelle persone, provocati dalle loro aspettative consce o inconsce di guarigione, indipendentemente dall’intervento di farmaci o dai piani terapeutici attivi.
L’effetto placebo del resto è una sorta di antichissimo trattamento terapeutico,il primo conosciuto dall’uomo. Anche oggi, possiamo affermare che non esiste sul mercato un potere curativo così come accade con l’effetto placebo su ogni malattia.Ogni atto che mira a produrre un valore terapeutico si fonde su aspettative di guarigione in grado di influenzare la fisiologia del corpo. Esse sono totalmente separate dalla cultura e dai relativi rituali terapeutici. Partendo nel concetto dalla medicina occidentale, farsi visistare in uno studio medico, assumere dei farmaci, ricoverarsi in ospedale, sottoporsi ad un’operazione chirurgica, sono tutte azioni che secpmdp studi recenti sono in grado di realizzare un effetto placebo senza che il medico arrici a imporre una cura che abbia una specifica azione terapeutica attiva. Soltanto in alcuni casi,l’azione farmacologica specifica di un trattamento finisce con il produrre effetti marginali.
Un discorso a parte merita l'utilizzo di prodotti omeopatici che hanno un effetto simile a quello placebo. Lo stesso si può affermare per buona parte dei farmaci attualmente in uso che non si discostano significativamente dagli effetti di un placebo. Ma ovviamente un'azione terapeutica veramente efficace non deve mirare solo alla portata biochimica della malattia. I farmaci più efficaci e le tecnologie medicali sono basilari poichè nelle mani del medico diventano utili per alleviare i sintomi più fastidiosi ed intervenire nelle situazioni cliniche gravi. Lo studio dell’effetto placebo ci aiuta a capire quello che le antiche culture hanno sempre saputo, e cioè che le emozioni, le paure e le angoscie dell’uomo finiscono ovviamente con il produrre un’influenza diretta sugli aspetti biologici e sulle dinamiche delicatissime tra guarigione/malattia.
Quando si dice effetto placebo si parla del più efficace trattamento terapeutico mai esistito in natura.Ma risulta interessante comprendere in che modo le aspettative dell'uomo sulla propria guarigione inneschino un vero e proprio miglioramento terapeutico nel nostro corpo.La domanda è capire se il solo credere che qualcosa possa aiutarci a guarire riesca a far partire un vero effetto curativo. Il proprio atteggiamento mentale positivo può riuscire ad influenzare il nostro corpo in modo tale da aiutarci nel decorso di una malattia fino alla guarigione? Negli ultimi anni molte sono state le diatribe scientifiche fatte sull’effetto placebo e oggi ci aiutano a capire che la risposta è si,inequivocabilmente se la mente ed il corpo sono interconnessi,nei processi di salute/malattia la guarigione è più veloce.L’effetto placebo da molti viene descritto come il modo in cui cambiamenti benefici, fisici e psicologici, avvengono nelle persone, provocati dalle loro aspettative consce o inconsce di guarigione, indipendentemente dall’intervento di farmaci o dai piani terapeutici attivi.
L’effetto placebo del resto è una sorta di antichissimo trattamento terapeutico,il primo conosciuto dall’uomo. Anche oggi, possiamo affermare che non esiste sul mercato un potere curativo così come accade con l’effetto placebo su ogni malattia.Ogni atto che mira a produrre un valore terapeutico si fonde su aspettative di guarigione in grado di influenzare la fisiologia del corpo. Esse sono totalmente separate dalla cultura e dai relativi rituali terapeutici. Partendo nel concetto dalla medicina occidentale, farsi visistare in uno studio medico, assumere dei farmaci, ricoverarsi in ospedale, sottoporsi ad un’operazione chirurgica, sono tutte azioni che secpmdp studi recenti sono in grado di realizzare un effetto placebo senza che il medico arrici a imporre una cura che abbia una specifica azione terapeutica attiva. Soltanto in alcuni casi,l’azione farmacologica specifica di un trattamento finisce con il produrre effetti marginali.
Un discorso a parte merita l'utilizzo di prodotti omeopatici che hanno un effetto simile a quello placebo. Lo stesso si può affermare per buona parte dei farmaci attualmente in uso che non si discostano significativamente dagli effetti di un placebo. Ma ovviamente un'azione terapeutica veramente efficace non deve mirare solo alla portata biochimica della malattia. I farmaci più efficaci e le tecnologie medicali sono basilari poichè nelle mani del medico diventano utili per alleviare i sintomi più fastidiosi ed intervenire nelle situazioni cliniche gravi. Lo studio dell’effetto placebo ci aiuta a capire quello che le antiche culture hanno sempre saputo, e cioè che le emozioni, le paure e le angoscie dell’uomo finiscono ovviamente con il produrre un’influenza diretta sugli aspetti biologici e sulle dinamiche delicatissime tra guarigione/malattia.
Un nuovo metodo di stimolazione empatica.
di Celeste Mangraviti
Nuove ricerche e scoperte sul tema delicato dell'empatia.
Il concetto di empatia è alla base della moderna psicologia clinica.Si chiama empatia la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, i pensieri dell’altro, creando un sincero legame interpersonale. Essa è alla base di tutti i comportamenti pro-sociali. Detto ciò è pur vero che non tutti sono in grado di provarla, almeno non allo stesso modo.Un team di neuroscienziati dell'Istituto IDOR ha dimostrato clinicamente che l'empatia può essere allenata nel corso degli anni. Scopo della ricerca era indagare se le persone coinvolte riuscivano a controllare volontariamente le attivazioni cerebrali associate all’empatia e alle emozioni di affiliazione come la compassione e la tenerezza.Già altri studi in passato hanno svelato che ricevere un feedback visivo mediante una Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), potesse amplificare notevolmente la capacità di modulazione volontaria dell’attivazione cerebrale stessa collegata alle emozioni centrali sia positive che negative.
Il problema era che mancavano delle chiare dimostrazioni scientifiche circa la possibilità che le persone potessero fare altrettanto anche con stati emotivi complessi come quelli che influenzano l’empatia.Con questo nuovo studio guidato dal dottor Moll e colleghi si dimostra che la medesima tecnica può essere adoperata anche per facilitare l’induzione di stati mentali empatici. A circa 30 persone infatti era stato chiesto, in fase preparatoria, di concentrarsi su 3 eventi autobiografici in cui fossero presenti sentimenti di tenerezza, orgoglio e uno emotivamente neutro. Si è cercato poi di richiamare questi stati d’animo durante l’esperimento, mediante la presentazione scritta di termini chiave e poi sono state compiute le sessioni di scanning di fMRI. I partecipanti sono stati divisi in due lati: al gruppo sperimentale veniva dato un feedback in tempo reale della loro attività neurale durante i ricordi “empatici”, al gruppo di controllo invece non veniva dato nessun feedback ma venivano sottoposti alla visione di stimoli random.
I risultati hanno effettivamente confermato l’ipotesi di partenza: confrontando l’ultima sessione con la prima, il gruppo sperimentale aveva un enorme aumento della percentuale di prove correttamente classificate come caratterizzate da tenerezza, al contrario del gruppo di controllo. Il feedback visivo delle proprie attivazioni cerebrali dimostra effetti significativi. Tale risultato scientifico è utilissimo perché dà la reale possibilità di studiare e sviluppare interventi per potenziare stati psicologici sani e funzionali e combattere quindi comportamenti disadatti collegabili alla mancanza di empatia, soggetti che spesso finiscono con l'essere resistenti ad un impatto psicologico, farmacologico e anche sociale.
Il concetto di empatia è alla base della moderna psicologia clinica.Si chiama empatia la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, i pensieri dell’altro, creando un sincero legame interpersonale. Essa è alla base di tutti i comportamenti pro-sociali. Detto ciò è pur vero che non tutti sono in grado di provarla, almeno non allo stesso modo.Un team di neuroscienziati dell'Istituto IDOR ha dimostrato clinicamente che l'empatia può essere allenata nel corso degli anni. Scopo della ricerca era indagare se le persone coinvolte riuscivano a controllare volontariamente le attivazioni cerebrali associate all’empatia e alle emozioni di affiliazione come la compassione e la tenerezza.Già altri studi in passato hanno svelato che ricevere un feedback visivo mediante una Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), potesse amplificare notevolmente la capacità di modulazione volontaria dell’attivazione cerebrale stessa collegata alle emozioni centrali sia positive che negative.
Il problema era che mancavano delle chiare dimostrazioni scientifiche circa la possibilità che le persone potessero fare altrettanto anche con stati emotivi complessi come quelli che influenzano l’empatia.Con questo nuovo studio guidato dal dottor Moll e colleghi si dimostra che la medesima tecnica può essere adoperata anche per facilitare l’induzione di stati mentali empatici. A circa 30 persone infatti era stato chiesto, in fase preparatoria, di concentrarsi su 3 eventi autobiografici in cui fossero presenti sentimenti di tenerezza, orgoglio e uno emotivamente neutro. Si è cercato poi di richiamare questi stati d’animo durante l’esperimento, mediante la presentazione scritta di termini chiave e poi sono state compiute le sessioni di scanning di fMRI. I partecipanti sono stati divisi in due lati: al gruppo sperimentale veniva dato un feedback in tempo reale della loro attività neurale durante i ricordi “empatici”, al gruppo di controllo invece non veniva dato nessun feedback ma venivano sottoposti alla visione di stimoli random.
I risultati hanno effettivamente confermato l’ipotesi di partenza: confrontando l’ultima sessione con la prima, il gruppo sperimentale aveva un enorme aumento della percentuale di prove correttamente classificate come caratterizzate da tenerezza, al contrario del gruppo di controllo. Il feedback visivo delle proprie attivazioni cerebrali dimostra effetti significativi. Tale risultato scientifico è utilissimo perché dà la reale possibilità di studiare e sviluppare interventi per potenziare stati psicologici sani e funzionali e combattere quindi comportamenti disadatti collegabili alla mancanza di empatia, soggetti che spesso finiscono con l'essere resistenti ad un impatto psicologico, farmacologico e anche sociale.
L'alleanza terapeutica e le sue peculiarità.
di Celeste Mangraviti
Un alleato importante nel percorso psico-analitico del paziente.
Nel settore clinico e psicoterapeutico un concetto molto trattato è quello di alleanza terapeutica, una frase molto diffusa tra i professionisti ma che spesso è poco approfondita mentre invece ha un'importanza basilare e focale nel percorso terapeutico. Essa si sviluppa e si consuma all’interno di una dimensione cognitiva – evoluzionista che serve come una base teorica.Innanzitutto servono delle precisazioni: cos'è la relazione terapeutica e cosa invece l'alleanza terapeutica? Solitamente, sono termini usati in maniera interscambiabile, ma, in realtà, si riferiscono a concetti gerarchicamente diversi.Infatti, la relazione terapeutica è un punto sovraordinato, composto da diverse parti tra cui l’alleanza terapeutica. Quest’ultima rappresenta solo una delle componenti da cui poi nascerà la vera relazione terapeutica,fondamentale per valutare l’efficacia della psicoterapia.
Il concetto di alleanza terapeutica, dunque, nasce in ambito psicoanalitico e riguarda la nascita della relazione terapeutica nel qui ed ora, ed è formata da tre elementi: gli obiettivi terapeutici, i compiti reciproci durante il trattamento e il legame affettivo costituito da fiducia e da rispetto.L’alleanza terapeutica si rafforza e diventa molto utile quando entrambe i membri della diade terapeutica sono cooperativi nel perseguire i tre punti sopra citati. In questo caso, il mondo interiore e motivazionale che si attiva è quello cooperativo che aiuta a mantenere salda l’alleanza terapeutica.Se nel caso in cui durante la terapia venisse a sorgere il sistema dell’attaccamento, si assisterebbe ad un cambiamento, ovvero si passerebbe dal sistema cooperativo ad uno degli altri sistemi motivazionali. Questo evento quasi sempre porta alla manifestazione di forme di forti crisi all’interno dell’alleanza terapeutica.
Ogni crisi dell’alleanza terapeutica si delinea e struttura lungo un continum di gravità,partendo da una flessione, incrinazione senza rottura del rapporto, per arrivare ad una vera e propria rottura della stessa, con conseguente fine della relazione.Per ricomporre bene l’alleanza è necessario ripristinare il sistema della cooperazione utilizzando due tecniche chiare: dirette o indirette. Quelle dirette partono dall'analisi delle dinamiche motivazionali che si sono manifestate e utilizzate nella relazione terapeutica, mentre quelle indirette si fondono sull’analisi degli stili interpersonali del paziente in relazioni diverse da quella terapeutica.In sostanza, ricreare l’alleanza terapeutica significa analizzare bene e correggere le distorsioni della percezione interpersonale che si sono venute a generare tra il terapeuta e il paziente. Questo percorso di analisi conduce a dei cambiamenti cognitivo-interpersonali e aiuterà a far fuoriuscire il disturbo per il quale il paziente aveva avanzato la richiesta terapeutica. Per tale motivo ricomporre l'alleanza terapeutica diventa un passo decisivo per il buon esito dell'intero percorso psico-analitico.
Nel settore clinico e psicoterapeutico un concetto molto trattato è quello di alleanza terapeutica, una frase molto diffusa tra i professionisti ma che spesso è poco approfondita mentre invece ha un'importanza basilare e focale nel percorso terapeutico. Essa si sviluppa e si consuma all’interno di una dimensione cognitiva – evoluzionista che serve come una base teorica.Innanzitutto servono delle precisazioni: cos'è la relazione terapeutica e cosa invece l'alleanza terapeutica? Solitamente, sono termini usati in maniera interscambiabile, ma, in realtà, si riferiscono a concetti gerarchicamente diversi.Infatti, la relazione terapeutica è un punto sovraordinato, composto da diverse parti tra cui l’alleanza terapeutica. Quest’ultima rappresenta solo una delle componenti da cui poi nascerà la vera relazione terapeutica,fondamentale per valutare l’efficacia della psicoterapia.
Il concetto di alleanza terapeutica, dunque, nasce in ambito psicoanalitico e riguarda la nascita della relazione terapeutica nel qui ed ora, ed è formata da tre elementi: gli obiettivi terapeutici, i compiti reciproci durante il trattamento e il legame affettivo costituito da fiducia e da rispetto.L’alleanza terapeutica si rafforza e diventa molto utile quando entrambe i membri della diade terapeutica sono cooperativi nel perseguire i tre punti sopra citati. In questo caso, il mondo interiore e motivazionale che si attiva è quello cooperativo che aiuta a mantenere salda l’alleanza terapeutica.Se nel caso in cui durante la terapia venisse a sorgere il sistema dell’attaccamento, si assisterebbe ad un cambiamento, ovvero si passerebbe dal sistema cooperativo ad uno degli altri sistemi motivazionali. Questo evento quasi sempre porta alla manifestazione di forme di forti crisi all’interno dell’alleanza terapeutica.
Ogni crisi dell’alleanza terapeutica si delinea e struttura lungo un continum di gravità,partendo da una flessione, incrinazione senza rottura del rapporto, per arrivare ad una vera e propria rottura della stessa, con conseguente fine della relazione.Per ricomporre bene l’alleanza è necessario ripristinare il sistema della cooperazione utilizzando due tecniche chiare: dirette o indirette. Quelle dirette partono dall'analisi delle dinamiche motivazionali che si sono manifestate e utilizzate nella relazione terapeutica, mentre quelle indirette si fondono sull’analisi degli stili interpersonali del paziente in relazioni diverse da quella terapeutica.In sostanza, ricreare l’alleanza terapeutica significa analizzare bene e correggere le distorsioni della percezione interpersonale che si sono venute a generare tra il terapeuta e il paziente. Questo percorso di analisi conduce a dei cambiamenti cognitivo-interpersonali e aiuterà a far fuoriuscire il disturbo per il quale il paziente aveva avanzato la richiesta terapeutica. Per tale motivo ricomporre l'alleanza terapeutica diventa un passo decisivo per il buon esito dell'intero percorso psico-analitico.
La Psicologia Transpersonale e la sua utilità.
di Celeste Mangraviti
Un metodo di indagine alternativo sulla rappresentazione dell'Io.
In psicologia risulta degno di menzione un nuovissimo protocollo d'intervento che va sotto il nome di metodo transpersonale.Allinenadoci alla definizione di Charles Tart,esso mira a garantire una più veloce realizzazione del Se', per favorire la rinascita della natura spirituale di ogni individuo e delle sue qualita' piu' genuinamente umane.Il metodo transpersonale adoperato per la prima volta in psicologia fu merito del dottor Roberto Assagioli, il creatore della psicosintesi, e alcuni anni dopo venne usato da Gustav Jung.Lo scopo principe diventa allora far emergere quelle zone della realta' psichica che si allargano verso l'identificazione con la personalita' individuale.La psicologia transpersonale, pertanto, si presta ad essere concepita come quel metodo psicologico che si occupa dello studio e della cultura della spiritualita' e delle esperienze spirituali in un contesto di tipo psicologico.Tale approccio è divenuto metodo nel campo della psicologia verso la fine degli anni settanta grazie a A. Maslow, il quale per primo iniziò a concepire una psicologia "evolutiva" che considerasse lo "sviluppo delle potenzialita'", "la soddisfazione graduale dei bisogni", la relazione tra "persona e persona" nel rapporto terapeutico, l'esperienza mistica, come momenti basilari ed utili di un sentiero interiore di auto-realizzazione.
La psicologia transpersonale secondo molti esperti ha contribuito ad una forte comprensione dell'esperienza interiore di ordine trascendente.Esperienza che nel corso dei secoli era denominata in modo diverso come estasi mistica, esperienza cosmica, coscienza cosmica, esperienza oceanica, peak experience, nirvana, regno dei cieli, corpo del sogno, nagual,a seconda delle origini e delle tradizioni.Oggi moltisisme teorie psicologiche definiscono questi concetti come pure fantasie o addirittura patologie della mente.Seguendo i vari orientamenti teorici della psicologia, queste fantasie sono state concepite come una specie di desiderio del soggetto di farsi accudire e proteggere da un essere superiore e buono; come la conseguenza di un'anormalita' dell'attivita' neurale, oppure come il segno di un Io fragile ed incapace di distinguere tra realta' esterna ed interiore.Oggi la psicologia transpersonale subisce una forte influenza dalle piu' recenti acquisizioni della fisica moderna e della biofisica ed e' in diretto collegamento con altre scienze nuove come la sofrologia, la sociologia, l'antropologia e la parapsicologia.
In base agli approcci teorici degli ultimi anni la psicologia transpersonale sembra connotarsi come un grande movimento di pensiero e di ricerca che mira a dare un'integrazione tra principi psicologici e pratiche spirituali o rituali sciamanici, per fornire una sintesi tra la mente, la meditazione, la spiritualita' e la trascendenza,facendo emergere gli stati di coscienza ordinari e non ordinari, gli stati mistici ed estatici.In Italia gli esperti che maggiormente hanno contribuito alla elaborazione teorica e alla diffusione del movimento transpersonale sono Laura Boggio Gilot, Arturo De Luca, Filippo Falzoni Gallerani.La dr.ssa Boggio Gilot soprattutto nei suoi test ha esplorato la psicologia transpersonale in relazione alla psicosintesi e alla meditazione.Arturo De Luca invece ha concetrato i suoi studi sulla dimensione transpersonale filtrata dal rebirthing e dalla respirazione olotropica.
In psicologia risulta degno di menzione un nuovissimo protocollo d'intervento che va sotto il nome di metodo transpersonale.Allinenadoci alla definizione di Charles Tart,esso mira a garantire una più veloce realizzazione del Se', per favorire la rinascita della natura spirituale di ogni individuo e delle sue qualita' piu' genuinamente umane.Il metodo transpersonale adoperato per la prima volta in psicologia fu merito del dottor Roberto Assagioli, il creatore della psicosintesi, e alcuni anni dopo venne usato da Gustav Jung.Lo scopo principe diventa allora far emergere quelle zone della realta' psichica che si allargano verso l'identificazione con la personalita' individuale.La psicologia transpersonale, pertanto, si presta ad essere concepita come quel metodo psicologico che si occupa dello studio e della cultura della spiritualita' e delle esperienze spirituali in un contesto di tipo psicologico.Tale approccio è divenuto metodo nel campo della psicologia verso la fine degli anni settanta grazie a A. Maslow, il quale per primo iniziò a concepire una psicologia "evolutiva" che considerasse lo "sviluppo delle potenzialita'", "la soddisfazione graduale dei bisogni", la relazione tra "persona e persona" nel rapporto terapeutico, l'esperienza mistica, come momenti basilari ed utili di un sentiero interiore di auto-realizzazione.
La psicologia transpersonale secondo molti esperti ha contribuito ad una forte comprensione dell'esperienza interiore di ordine trascendente.Esperienza che nel corso dei secoli era denominata in modo diverso come estasi mistica, esperienza cosmica, coscienza cosmica, esperienza oceanica, peak experience, nirvana, regno dei cieli, corpo del sogno, nagual,a seconda delle origini e delle tradizioni.Oggi moltisisme teorie psicologiche definiscono questi concetti come pure fantasie o addirittura patologie della mente.Seguendo i vari orientamenti teorici della psicologia, queste fantasie sono state concepite come una specie di desiderio del soggetto di farsi accudire e proteggere da un essere superiore e buono; come la conseguenza di un'anormalita' dell'attivita' neurale, oppure come il segno di un Io fragile ed incapace di distinguere tra realta' esterna ed interiore.Oggi la psicologia transpersonale subisce una forte influenza dalle piu' recenti acquisizioni della fisica moderna e della biofisica ed e' in diretto collegamento con altre scienze nuove come la sofrologia, la sociologia, l'antropologia e la parapsicologia.
In base agli approcci teorici degli ultimi anni la psicologia transpersonale sembra connotarsi come un grande movimento di pensiero e di ricerca che mira a dare un'integrazione tra principi psicologici e pratiche spirituali o rituali sciamanici, per fornire una sintesi tra la mente, la meditazione, la spiritualita' e la trascendenza,facendo emergere gli stati di coscienza ordinari e non ordinari, gli stati mistici ed estatici.In Italia gli esperti che maggiormente hanno contribuito alla elaborazione teorica e alla diffusione del movimento transpersonale sono Laura Boggio Gilot, Arturo De Luca, Filippo Falzoni Gallerani.La dr.ssa Boggio Gilot soprattutto nei suoi test ha esplorato la psicologia transpersonale in relazione alla psicosintesi e alla meditazione.Arturo De Luca invece ha concetrato i suoi studi sulla dimensione transpersonale filtrata dal rebirthing e dalla respirazione olotropica.
Il Disturbo Disformico.Sintomi e cura.
di Celeste Mangraviti
La visione soggettiva tra realtà e patologia psichica.
Quando la percezione del nostro aspetto fisico risulta distorta e non combacente con la realtà, portando all'insorgenza di problematiche psicologiche e disagi comportamentali,ci troviamo dinanzi a quella che gli esperti definiscono disturbo disformico o anche dismorfia.La parola trae origine dal greco “dis-morfè”che letteralmente indica “cattiva forma,bruttezza”.Nello specifico questo disturbo indica la soggettiva sensazione di essere particolarmente brutti, impresentabili, o di possedere un grave difetto fisico in una parte del corpo tale da suscitare l'attenzione degli altri; ma ovviamente ad un'analisi reale, il difetto risulta minimo o addirittura assente.La dismorfia si manifesta a volte come sintomo transitorio soprattutto nel periodo adolescenziale, in questa età infatti è vero che il corpo subisce trasformazioni fisiche dovute alla pubertà ma tali modifiche fisiche vengono rifiutate dall’individuo e vissute con angoscia.Ne sorge un quadro psicopatologico dove il rifiuto del proprio aspetto, del proprio corpo o parti di esso, può diventare vera fobia che disturba profondamente la formazione della personalità.Il disturbo disformico può fossilizzarsi nella psiche o come un’idea ossessiva, o peggio ancora come un delirio di trasformazione corporea nei casi più gravi.Nella dismormia fobica il soggetto ha una forte alterazione dell’esperienza corporea.
Il corpo diventa uno strumento ritenuto non all'altezza della vita e ricco di profonda inadeguatezza interna ed esistenziale,nella mente esplodono forme di disagio interiore spesso seguite da stress emozionale e incapacità di instaurare relazioni sociali e sessuali, con relativo isolamento e forte pericolo di nuove e più gravi patologie.In certi casi, la persona si sente tranquilla solo di notte,al buio,quando non può essere vista, oppure decide di rimanere chiusa in casa per anni. In molti soggetti si sono verificati casi di abbandono del lavoro o della scuola,casi di poco impegno in ogni attività svolta,difficoltà coniugali,o anche divorzi a causa dell'inadeguatezza del ruolo di moglie o marito.La dismorfia può ritrovarsi associato con il Disturbo Depressivo Maggiore,il Disturbo Delirante (incentrato sul corpo), la Fobia Sociale, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, la Tricotillomania, i Disturbi Somatoformi ed infine i Disturbi del Comportamento Alimentare.
CURA - Le modalità di cura variano a seconda dei casi.La patologia necessita, a seconda della gravità, di un ciclo a medio termine di consulenze psicologiche e di un focalizzato intervento psicoterapico. La terapia della dismorfofobia va strutturata in base anche alla personalità del soggetto e collegata anche alla situazione familiare e sociale. Similari valutazioni vanno fatte anche sulla cura psicofarmacologica.Lo psicologo deve sottolineare e far emergere dal caso la comprensione del “valore del sintomo” che, talvolta, è una specie di difesa ultima che il soggetto utilizza a causa della disorganizzazione psicotica. In questa situazione non serve concentrarsi solo sulla terapia della dismorfofobia ma, piuttosto, si tratta di individuare la cura terapeutica che permetta al soggetto di raggiungere un vero equilibrio interiore.
Quando la percezione del nostro aspetto fisico risulta distorta e non combacente con la realtà, portando all'insorgenza di problematiche psicologiche e disagi comportamentali,ci troviamo dinanzi a quella che gli esperti definiscono disturbo disformico o anche dismorfia.La parola trae origine dal greco “dis-morfè”che letteralmente indica “cattiva forma,bruttezza”.Nello specifico questo disturbo indica la soggettiva sensazione di essere particolarmente brutti, impresentabili, o di possedere un grave difetto fisico in una parte del corpo tale da suscitare l'attenzione degli altri; ma ovviamente ad un'analisi reale, il difetto risulta minimo o addirittura assente.La dismorfia si manifesta a volte come sintomo transitorio soprattutto nel periodo adolescenziale, in questa età infatti è vero che il corpo subisce trasformazioni fisiche dovute alla pubertà ma tali modifiche fisiche vengono rifiutate dall’individuo e vissute con angoscia.Ne sorge un quadro psicopatologico dove il rifiuto del proprio aspetto, del proprio corpo o parti di esso, può diventare vera fobia che disturba profondamente la formazione della personalità.Il disturbo disformico può fossilizzarsi nella psiche o come un’idea ossessiva, o peggio ancora come un delirio di trasformazione corporea nei casi più gravi.Nella dismormia fobica il soggetto ha una forte alterazione dell’esperienza corporea.
Il corpo diventa uno strumento ritenuto non all'altezza della vita e ricco di profonda inadeguatezza interna ed esistenziale,nella mente esplodono forme di disagio interiore spesso seguite da stress emozionale e incapacità di instaurare relazioni sociali e sessuali, con relativo isolamento e forte pericolo di nuove e più gravi patologie.In certi casi, la persona si sente tranquilla solo di notte,al buio,quando non può essere vista, oppure decide di rimanere chiusa in casa per anni. In molti soggetti si sono verificati casi di abbandono del lavoro o della scuola,casi di poco impegno in ogni attività svolta,difficoltà coniugali,o anche divorzi a causa dell'inadeguatezza del ruolo di moglie o marito.La dismorfia può ritrovarsi associato con il Disturbo Depressivo Maggiore,il Disturbo Delirante (incentrato sul corpo), la Fobia Sociale, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, la Tricotillomania, i Disturbi Somatoformi ed infine i Disturbi del Comportamento Alimentare.
CURA - Le modalità di cura variano a seconda dei casi.La patologia necessita, a seconda della gravità, di un ciclo a medio termine di consulenze psicologiche e di un focalizzato intervento psicoterapico. La terapia della dismorfofobia va strutturata in base anche alla personalità del soggetto e collegata anche alla situazione familiare e sociale. Similari valutazioni vanno fatte anche sulla cura psicofarmacologica.Lo psicologo deve sottolineare e far emergere dal caso la comprensione del “valore del sintomo” che, talvolta, è una specie di difesa ultima che il soggetto utilizza a causa della disorganizzazione psicotica. In questa situazione non serve concentrarsi solo sulla terapia della dismorfofobia ma, piuttosto, si tratta di individuare la cura terapeutica che permetta al soggetto di raggiungere un vero equilibrio interiore.
La follia per eccellenza:la Schizofrenia.
di Carmen Mennillo
Una malattia nota su cui c'è ancora molto da scoprire.
La schizofrenia che dal greco significa “mente divisa”, rappresenta una malattia nella quale la mente umana opera in modo particolare ed eccezionale , al punto tale da rendere molto ardua la comprensione dell’esperienza psicologica che vive il paziente. Entrare anche semplicemente in contatto con una persona con tale disturbo risulta molto complesso , qualsiasi parola o gesto può essere sbagliato e assumere una valenza misteriosa e incomprensibile per il paziente stesso. Spesso non si riesce a capire il significato che potrà acquisire per il paziente quel gesto o quella parola , e anche solo uno sguardo , un contatto visivo possono essere fonte di angosce persecutorie depressive , ossessive o dissociative. Le sensazioni provate dal paziente, anche se non direttamente espresse con deliri e allucinazioni , ci fanno sfiorare anche solo per un istante , il sapore difficile delle emozioni che egli prova .L’età di esordio della schizofrenia si colloca in un range di età che va dai 18 ai 35 anni , meno frequentemente può insorgere in età adulta (dopo i 45).
La maggior parte dei pazienti schizofrenici ha una scarsa consapevolezza del proprio disturbo (anosognosia) , il soggetto non distingue ciò che appartiene al mondo esterno da ciò che deriva dal mondo interno. Lo schizofrenico quindi vive le sue allucinazioni come normali o reali, tutto ciò lo allontana dalla realtà condivisa e lo rende inaccessibile al dialogo e alla cooperazione. Allo stato attuale, uno dei sistemi maggiormente utilizzati per formulare una diagnosi di schizofrenia è il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Nel “DSM” la Schizofrenia viene distinta in due grandi categorie : la sintomatologia positiva e la sintomatologia negativa.
La sintomatologia positiva è caratterizzata da :
1. Deliri : disturbi del contenuto del pensiero , sono erronee convinzioni circa la realtà.
2. Allucinazioni : disturbo della senso-percezione , ossia “una percezione senza oggetto”.
3. Eloquio disorganizzato : passare da un argomento all’altro o perdere il filo del discorso.
4. Comportamento disorganizzato : appare spesso molto disordinato e trasandato,può vestire in modo inusuale e avere comportamenti sessuali chiaramente inappropriati.
5. Comportamento motorio catatonico : il soggetto riduce la reattività all’ambiente.
La sintomatologia negativa è caratterizzata da :
1. L’alogia : diminuzione della fluidità del linguaggio costituito da risposte brevi, laconiche e vuote.
2. L’abulia : incapacità di iniziare e a continuare attività finalizzate a una meta.
3. Affettività appiattita : presenza di un viso immobile, inespressivo e non reattivo
Mentre i sintomi positivi sembrano riflettere un eccesso delle funzioni normali, quelli negativi sono l’espressione di una perdita o diminuzione della funzioni normali.
Terapie per la schizofrenia
Poiché la schizofrenia è una patologia molto complessa le cause sono ancora sconosciute, per cui i metodi per il trattamento si basano tanto sulla ricerca clinica che sull’esperienza. Nonostante tutto , numerose terapie si sono dimostrate utili , in ambito farmacologico per esempio attraverso l’uso degli antipsicotici, i quali agiscono sui deliri e le allucinazioni facendo in modo che il paziente si comporti in modo più razionale ed appropriato. La scelta e il dosaggio sono prescritti da un medico qualificato, e varia in base alle specifiche esigenze del paziente. Inoltre anche gli interventi di tipo psicoterapeutico individuale associati a quello farmacologico ,permettono agli individui schizofrenici una maggior comprensione di se stessi e della realtà che li circonda. In questi casi è consigliabile una psicoterapia di tipo familiare, dove di norma comprende la presenza di tutti i familiari del paziente ,che può facilitare la pianificazione di un trattamento terapeutico attribuendo ad ogni membro della famiglia un compito specifico,fornendogli quindi sia un aiuto materiale che morale. Bisogna precisare, che lavorare con questo tipo di pazienti implica, necessariamente, un lavoro molto impegnativo e rischioso, dove il terapeuta deve controllate le sue paure al fine di avere un atteggiamento di apertura e di accoglienza. Il paziente d’altro canto , deve ritrovare quel senso di fiducia, solidità e coerenza in modo tale da riuscire a confrontarsi e raccontarsi. Solo la consapevolezza della sua condizione gli consentirà di riappropriarsi di tutto ciò che la malattia gli ha tolto.
La schizofrenia che dal greco significa “mente divisa”, rappresenta una malattia nella quale la mente umana opera in modo particolare ed eccezionale , al punto tale da rendere molto ardua la comprensione dell’esperienza psicologica che vive il paziente. Entrare anche semplicemente in contatto con una persona con tale disturbo risulta molto complesso , qualsiasi parola o gesto può essere sbagliato e assumere una valenza misteriosa e incomprensibile per il paziente stesso. Spesso non si riesce a capire il significato che potrà acquisire per il paziente quel gesto o quella parola , e anche solo uno sguardo , un contatto visivo possono essere fonte di angosce persecutorie depressive , ossessive o dissociative. Le sensazioni provate dal paziente, anche se non direttamente espresse con deliri e allucinazioni , ci fanno sfiorare anche solo per un istante , il sapore difficile delle emozioni che egli prova .L’età di esordio della schizofrenia si colloca in un range di età che va dai 18 ai 35 anni , meno frequentemente può insorgere in età adulta (dopo i 45).
La maggior parte dei pazienti schizofrenici ha una scarsa consapevolezza del proprio disturbo (anosognosia) , il soggetto non distingue ciò che appartiene al mondo esterno da ciò che deriva dal mondo interno. Lo schizofrenico quindi vive le sue allucinazioni come normali o reali, tutto ciò lo allontana dalla realtà condivisa e lo rende inaccessibile al dialogo e alla cooperazione. Allo stato attuale, uno dei sistemi maggiormente utilizzati per formulare una diagnosi di schizofrenia è il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Nel “DSM” la Schizofrenia viene distinta in due grandi categorie : la sintomatologia positiva e la sintomatologia negativa.
La sintomatologia positiva è caratterizzata da :
1. Deliri : disturbi del contenuto del pensiero , sono erronee convinzioni circa la realtà.
2. Allucinazioni : disturbo della senso-percezione , ossia “una percezione senza oggetto”.
3. Eloquio disorganizzato : passare da un argomento all’altro o perdere il filo del discorso.
4. Comportamento disorganizzato : appare spesso molto disordinato e trasandato,può vestire in modo inusuale e avere comportamenti sessuali chiaramente inappropriati.
5. Comportamento motorio catatonico : il soggetto riduce la reattività all’ambiente.
La sintomatologia negativa è caratterizzata da :
1. L’alogia : diminuzione della fluidità del linguaggio costituito da risposte brevi, laconiche e vuote.
2. L’abulia : incapacità di iniziare e a continuare attività finalizzate a una meta.
3. Affettività appiattita : presenza di un viso immobile, inespressivo e non reattivo
Mentre i sintomi positivi sembrano riflettere un eccesso delle funzioni normali, quelli negativi sono l’espressione di una perdita o diminuzione della funzioni normali.
Terapie per la schizofrenia
Poiché la schizofrenia è una patologia molto complessa le cause sono ancora sconosciute, per cui i metodi per il trattamento si basano tanto sulla ricerca clinica che sull’esperienza. Nonostante tutto , numerose terapie si sono dimostrate utili , in ambito farmacologico per esempio attraverso l’uso degli antipsicotici, i quali agiscono sui deliri e le allucinazioni facendo in modo che il paziente si comporti in modo più razionale ed appropriato. La scelta e il dosaggio sono prescritti da un medico qualificato, e varia in base alle specifiche esigenze del paziente. Inoltre anche gli interventi di tipo psicoterapeutico individuale associati a quello farmacologico ,permettono agli individui schizofrenici una maggior comprensione di se stessi e della realtà che li circonda. In questi casi è consigliabile una psicoterapia di tipo familiare, dove di norma comprende la presenza di tutti i familiari del paziente ,che può facilitare la pianificazione di un trattamento terapeutico attribuendo ad ogni membro della famiglia un compito specifico,fornendogli quindi sia un aiuto materiale che morale. Bisogna precisare, che lavorare con questo tipo di pazienti implica, necessariamente, un lavoro molto impegnativo e rischioso, dove il terapeuta deve controllate le sue paure al fine di avere un atteggiamento di apertura e di accoglienza. Il paziente d’altro canto , deve ritrovare quel senso di fiducia, solidità e coerenza in modo tale da riuscire a confrontarsi e raccontarsi. Solo la consapevolezza della sua condizione gli consentirà di riappropriarsi di tutto ciò che la malattia gli ha tolto.
Bambini in stato di abbandono - Parte 2
di Carmen Mennillo
Adottare un bambino come gesto di vero amore.
Queste caratteristiche dei bambini in stato di abbandono o di semi-abbandono rendono ovviamente difficili anche i loro rapporti interpersonali. Tuttavia, le loro capacità di comunicare sono molto scarse non solo per il sostanziale disinteresse che essi hanno per ciò che li circonda ma anche per la relativa inutilità della comunicazione interpersonale in un ambiente come per esempio quello di istituto in cui ogni momento della giornata ed ogni azione sono predefiniti e non possono essere mutati per non generare confusione nella vita comunitaria. Lo stesso personale comunica con i bambini solo per trasmettere ordini o dare premi o punizioni in base all’osservanza o meno delle regole e non ha interesse a comunicare con i singoli bambini per conoscere aspettative, opinione o sentimenti. Interesse sporadici ad un rapporto individuale con un bambino in particolare talvolta possono essere presenti in suore o vigilatrici, ma più come bisogno personale di un legame affettivo che come desiderio di soddisfare le esigenze di un bambino.In tale situazione il bambino impara presto quanto sia inutile, se non dannoso, esprimere i propri sentimenti e i propri desideri e quanto sia preferibile nasconderli.
Egli impara ad avere con l’adulto un rapporto formale e a mascherare il proprio vissuto dietro un’accondiscendenza che gli permette di ottenere tutto ciò che è possibile.Se il contatto con la famiglia è così scadente da non far sentire il bambino a suo agio nei pochi momenti di contatto con la famiglia stessa, questi non ha così alcuna occasione né alcun motivo per considerare la comunicazione con l’adulto positiva. Ma la mancanza di comunicazione con l’adulto non significa che il bambino non abbia bisogno del suo amore e del appoggio e questo bisogno che egli non riesce più ad esprimere resta insoddisfatto procurandogli frustrazione. Egli cioè “si aspetta” di essere amato e considerato ma non fa nulla per farlo capire, ed il fatto di non ottenere ciò che desidera ha per lui lo stesso effetto di un rifiuto. Ciò lo porta a comunicare sempre meno con l’adulto e a diffidare di lui.Questo modo del ” bambino istituzionalizzato” di rapportarsi agli altri comporta peraltro difficoltà di comunicazione anche con coloro che gli si avvicinano per offrirgli affetto e comprensione, i quali, aspettandosi di solito soggetti desiderosi di comunicare, si trovano spesso davanti a bambini a volte diffidenti, a volte ostili, a volte troppo accondiscendenti ma sostanzialmente poco interessati, almeno in apparenza, ad un rapporto. La delusione è reciproca ed è difficile obiettivamente per gli uni e per l’altro continuare ad interagire, l’adulto può allora “staccarsi” dal bambino e dare così a questo l’ulteriore conferma di una percezione dell’adulto come fonte di frustrazione e di abbandono.
Tuttavia, un rapporto difficile con l’adulto che pur dimostra disponibilità, non è dovuto solo a problemi di comunicazione. Su di esso influisce anche il conflitto non risolto con i genitori che lo hanno abbandonato ma che il bambino non riesce a ritenere colpevoli. Moltissimi bambini già grandicelli, che per l’evidenza dei fatti dovrebbero essere ormai convinti del proprio abbandono, rifiutano di uscire anche per breve tempo dall’istituto, con persone di cui gradiscono la visita, per timore che i genitori venendo non li trovino. Essi agiscono come se fossero convinti del ritorno imminente dei genitori e temono di essere essi stessi accusati di tradimento o di abbandono. Se questo sono i timori espressi da bambini non più piccoli, si può presumere che gli stessi timori siano provati anche da bambini di pochi anni, che forse non li sanno esprimere ma certo li vivono più intensamente, perché minore è la loro capacità di distinguere tra realtà e fantasia. D’altra parte è anche evidente come in questi bambini la stessa possibilità di scegliere tra un affetto immediato e concreto di cui essi hanno bisogno e una figura genitoriale a cui sono state attribuite nella fantasia qualità salvifiche e a cui ci si sente legati anche per la stessa definizione della propria individualità, sia particolarmente ansiogena.Non è facile “cambiare ” genitori, è fondamentale che la coppia sappia che il bambino abbandonato ha bisogno di essere accettato e benvoluto e soprattutto di sentirsi amato per la prima volta, non un pacco da scartare e riconsegnare, in caso non corrispondesse alle proprie aspettative.L’adozione è un atto d’amore che richiede una grande capacità di donarsi e non la soddisfazione del bisogno di essere genitore a tutti i costi.
Queste caratteristiche dei bambini in stato di abbandono o di semi-abbandono rendono ovviamente difficili anche i loro rapporti interpersonali. Tuttavia, le loro capacità di comunicare sono molto scarse non solo per il sostanziale disinteresse che essi hanno per ciò che li circonda ma anche per la relativa inutilità della comunicazione interpersonale in un ambiente come per esempio quello di istituto in cui ogni momento della giornata ed ogni azione sono predefiniti e non possono essere mutati per non generare confusione nella vita comunitaria. Lo stesso personale comunica con i bambini solo per trasmettere ordini o dare premi o punizioni in base all’osservanza o meno delle regole e non ha interesse a comunicare con i singoli bambini per conoscere aspettative, opinione o sentimenti. Interesse sporadici ad un rapporto individuale con un bambino in particolare talvolta possono essere presenti in suore o vigilatrici, ma più come bisogno personale di un legame affettivo che come desiderio di soddisfare le esigenze di un bambino.In tale situazione il bambino impara presto quanto sia inutile, se non dannoso, esprimere i propri sentimenti e i propri desideri e quanto sia preferibile nasconderli.
Egli impara ad avere con l’adulto un rapporto formale e a mascherare il proprio vissuto dietro un’accondiscendenza che gli permette di ottenere tutto ciò che è possibile.Se il contatto con la famiglia è così scadente da non far sentire il bambino a suo agio nei pochi momenti di contatto con la famiglia stessa, questi non ha così alcuna occasione né alcun motivo per considerare la comunicazione con l’adulto positiva. Ma la mancanza di comunicazione con l’adulto non significa che il bambino non abbia bisogno del suo amore e del appoggio e questo bisogno che egli non riesce più ad esprimere resta insoddisfatto procurandogli frustrazione. Egli cioè “si aspetta” di essere amato e considerato ma non fa nulla per farlo capire, ed il fatto di non ottenere ciò che desidera ha per lui lo stesso effetto di un rifiuto. Ciò lo porta a comunicare sempre meno con l’adulto e a diffidare di lui.Questo modo del ” bambino istituzionalizzato” di rapportarsi agli altri comporta peraltro difficoltà di comunicazione anche con coloro che gli si avvicinano per offrirgli affetto e comprensione, i quali, aspettandosi di solito soggetti desiderosi di comunicare, si trovano spesso davanti a bambini a volte diffidenti, a volte ostili, a volte troppo accondiscendenti ma sostanzialmente poco interessati, almeno in apparenza, ad un rapporto. La delusione è reciproca ed è difficile obiettivamente per gli uni e per l’altro continuare ad interagire, l’adulto può allora “staccarsi” dal bambino e dare così a questo l’ulteriore conferma di una percezione dell’adulto come fonte di frustrazione e di abbandono.
Tuttavia, un rapporto difficile con l’adulto che pur dimostra disponibilità, non è dovuto solo a problemi di comunicazione. Su di esso influisce anche il conflitto non risolto con i genitori che lo hanno abbandonato ma che il bambino non riesce a ritenere colpevoli. Moltissimi bambini già grandicelli, che per l’evidenza dei fatti dovrebbero essere ormai convinti del proprio abbandono, rifiutano di uscire anche per breve tempo dall’istituto, con persone di cui gradiscono la visita, per timore che i genitori venendo non li trovino. Essi agiscono come se fossero convinti del ritorno imminente dei genitori e temono di essere essi stessi accusati di tradimento o di abbandono. Se questo sono i timori espressi da bambini non più piccoli, si può presumere che gli stessi timori siano provati anche da bambini di pochi anni, che forse non li sanno esprimere ma certo li vivono più intensamente, perché minore è la loro capacità di distinguere tra realtà e fantasia. D’altra parte è anche evidente come in questi bambini la stessa possibilità di scegliere tra un affetto immediato e concreto di cui essi hanno bisogno e una figura genitoriale a cui sono state attribuite nella fantasia qualità salvifiche e a cui ci si sente legati anche per la stessa definizione della propria individualità, sia particolarmente ansiogena.Non è facile “cambiare ” genitori, è fondamentale che la coppia sappia che il bambino abbandonato ha bisogno di essere accettato e benvoluto e soprattutto di sentirsi amato per la prima volta, non un pacco da scartare e riconsegnare, in caso non corrispondesse alle proprie aspettative.L’adozione è un atto d’amore che richiede una grande capacità di donarsi e non la soddisfazione del bisogno di essere genitore a tutti i costi.
Bambini in stato di abbandono - Parte 1
di Carmen Mennillo
L'adozione come mezzo di salvezza.
Parlare di un bambino da adottare ci porta subito a pensare ad un bambino privo di affetto e di sostegno, valori che nell’ambiente in cui vive o destinato a vivere, non gli vengono offerti. Si pensa anche che egli non abbia mai sentito di possedere una famiglia o perché non l’ha mai avuta, o l’ha conosciuta poco o ha avuto in esse solo esperienze negative.Pertanto, l’adozione è intesa non solo come mezzo per fornirgli ciò che gli è sempre mancato ma anche per dargli un nucleo familiare da sentire proprio, in cui crescere dimenticando le precedenti esperienze sfavorevoli.Le carenze affettive influenzano in modo negativo la personalità del bambino ma si ritiene che l’entusiasmo e la disponibilità di coniugi che lo desiderano come figlio può essere sufficiente a rimuovere i traumi subiti e a permettere al bambino di crescere come se il passato non fosse mai esistito. Questo recupero è considerato più facile se il bambino ha pochi anni e meglio ancora se ha pochi mesi. In realtà la situazione del bambino adottato e il suo sviluppo sono molto più complessi e numerose le convinzioni che devono essere rimesse in discussione in base ad elementi reali.
L’abbandono come lo intende la legge e l’abbandono sentito dal bambino spesso non coincidono.La carenza di stimoli esterni e di affetti non rende infatti vuoto il suo mondo ma lo popola di fantasmi e di percezioni interiori. Il vivere la propria situazione sulla base di sensazioni interne piuttosto che rifacendosi ad elementi di realtà esterne a lui, è caratteristico del bambino molto piccolo che riesce a cogliere nella propria esperienza solo i suoi bisogni e la loro soddisfazione avvenuta o mancata. Una graduale capacità di capire la realtà esterna che procura la soddisfazione del bisogno permette al bambino anche una graduale gestione di se stesso e quindi un adattamento alla realtà basato sull’autostima e sull’autonomia. A ciò egli arriva sia attraverso una progressiva conoscenza dell’ambiente sia attraverso l’amore incondizionato dell’adulto che gli garantisce l’appoggio di cui ha ancora bisogno e che conferma la validità del suo procedere verso l’autonomia.
Conoscenza e padronanza della realtà danno infatti al bambino la possibilità di trovare la via per soddisfare i bisogni primari (cibo, attenzione, affetto) o, se non soddisfatti, di non sentirli una minaccia alla sua esistenza come succedeva nei primi mesi di vita. La garanzia dell’amore e della considerazione dell’adulto che si prende cura di lui gli permette inoltre di superare anche molti timori connessi con il suo desiderio di autonomia, come il timore di insuccesso o quello di venir punito perché sta “usurpando il posto” dell’adulto.In un recente studio sul vissuto dei bambini proposti per l’adozione non più piccolissimi, si è notato come in tutti vi fossero sensi di inadeguatezza, scarso interesse per l’interazione con l’ambiente e ciò era particolarmente evidente nei bambini di età inferiore ai 5 anni, in cui erano presenti sintomi depressivi. - continua
Parlare di un bambino da adottare ci porta subito a pensare ad un bambino privo di affetto e di sostegno, valori che nell’ambiente in cui vive o destinato a vivere, non gli vengono offerti. Si pensa anche che egli non abbia mai sentito di possedere una famiglia o perché non l’ha mai avuta, o l’ha conosciuta poco o ha avuto in esse solo esperienze negative.Pertanto, l’adozione è intesa non solo come mezzo per fornirgli ciò che gli è sempre mancato ma anche per dargli un nucleo familiare da sentire proprio, in cui crescere dimenticando le precedenti esperienze sfavorevoli.Le carenze affettive influenzano in modo negativo la personalità del bambino ma si ritiene che l’entusiasmo e la disponibilità di coniugi che lo desiderano come figlio può essere sufficiente a rimuovere i traumi subiti e a permettere al bambino di crescere come se il passato non fosse mai esistito. Questo recupero è considerato più facile se il bambino ha pochi anni e meglio ancora se ha pochi mesi. In realtà la situazione del bambino adottato e il suo sviluppo sono molto più complessi e numerose le convinzioni che devono essere rimesse in discussione in base ad elementi reali.
L’abbandono come lo intende la legge e l’abbandono sentito dal bambino spesso non coincidono.La carenza di stimoli esterni e di affetti non rende infatti vuoto il suo mondo ma lo popola di fantasmi e di percezioni interiori. Il vivere la propria situazione sulla base di sensazioni interne piuttosto che rifacendosi ad elementi di realtà esterne a lui, è caratteristico del bambino molto piccolo che riesce a cogliere nella propria esperienza solo i suoi bisogni e la loro soddisfazione avvenuta o mancata. Una graduale capacità di capire la realtà esterna che procura la soddisfazione del bisogno permette al bambino anche una graduale gestione di se stesso e quindi un adattamento alla realtà basato sull’autostima e sull’autonomia. A ciò egli arriva sia attraverso una progressiva conoscenza dell’ambiente sia attraverso l’amore incondizionato dell’adulto che gli garantisce l’appoggio di cui ha ancora bisogno e che conferma la validità del suo procedere verso l’autonomia.
Conoscenza e padronanza della realtà danno infatti al bambino la possibilità di trovare la via per soddisfare i bisogni primari (cibo, attenzione, affetto) o, se non soddisfatti, di non sentirli una minaccia alla sua esistenza come succedeva nei primi mesi di vita. La garanzia dell’amore e della considerazione dell’adulto che si prende cura di lui gli permette inoltre di superare anche molti timori connessi con il suo desiderio di autonomia, come il timore di insuccesso o quello di venir punito perché sta “usurpando il posto” dell’adulto.In un recente studio sul vissuto dei bambini proposti per l’adozione non più piccolissimi, si è notato come in tutti vi fossero sensi di inadeguatezza, scarso interesse per l’interazione con l’ambiente e ciò era particolarmente evidente nei bambini di età inferiore ai 5 anni, in cui erano presenti sintomi depressivi. - continua
Sex addiction: la dipendenza dal sesso.
di Carmen Mennillo
Un disturbo serio da curare in modo serio.
Secondo il “National Council of Sexual Addiction” la dipendenza dal sesso o “sex addiction” è definibile come una “persistente e crescente modalità di comportamento sessuale messo in atto nonostante il manifestarsi di conseguenze negative per sé e per gli altri ” . Recenti ricerche condotte in Italia , mostrano che i soggetti affetti da dipendenza dal sesso sono stimati in circa il 6% della popolazione. L’incidenza del disturbo è del 10% negli uomini e del 2% nelle donne. Relativamente all’età i valori più alti si riscontrano nella fascia tra i 36 e i 50 anni con una percentuale del 6,8% , segue la fascia dai 26 ai 35 anni con un valore medio del 5,65% , e i soggetti oltre i 50 anni con il 2,8% (Avenia 2003 , 2004). Tali stime , indicano quanto l’incidenza del fenomeno sia considerevole , ciò nonostante ancora oggi le caratteristiche del disturbo si sottraggono ad un inquadramento clinico e terapeutico chiaro e univoco , questo perché solo nell’ultimo ventennio del secolo scorso gli esperti hanno iniziato a considerare e studiare compiutamente tale tipologia di dipendenza. Abbiamo assistito , infatti , ad una modificazione della funzione sociale del sesso: da mero atto procreativo ha iniziato ad essere vissuto come atto relazionale , fino ad arrivare a svilupparne una visione edonistica. Alcuni studiosi ritengono che la dipendenza sessuale sia una forma di disturbo compulsivo e si riferiscono ad essa come “sexual compulsivity” , proponendo di includerla all’interno della categoria dei disturbi ossessivi compulsivi .
Altri ancora evidenziano l’esistenza di un’analogia con i disturbi del comportamento alimentare , come la bulimia , che a caso spesso si accompagna ad una sregolatezza nel comportamento sessuale ; addirittura c’è chi ritiene che la dipendenza sessuale in realtà altro non sia che un mito della nostra società, sottoprodotto di influenze culturali. Comportamenti che fino a vent’anni fa erano inclusi nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ) , sotto la categoria delle “Perversioni” , oggi sono accettati e tollerati dalla società . Si assiste al passaggio da una cultura sessuofobica a una sessuofila . Anche se il disturbo può presentarsi a livelli diversi di gravità e in forme diverse , il rischio è comunque presente ed è dato dalla tendenza di tali soggetti a minimizzare le conseguenze delle loro azioni. Nei casi meno gravi si osserva una tendenza ad attuare rapporti non protetti , in quelli più gravi la ricerca ossessiva di un partner sessuale può sfociare in comportamenti rischiosi o illegali , molestie e perfino nello stupro , oltre ad associarsi a parafilie come la pedofilia. Si valuta che il 55% dei soggetti affetti da dipendenza sessuale commetta reati a sfondo sessuale. Si tratta di una patologia multifattoriali , che ha probabilmente alla base una vulnerabilità neurobiologica , cui sommano le esperienze di vita , quali ad esempio abusi sessuali subiti nell’infanzia, e fattori ambientali. Anche il partner può avere un ruolo importante nel contenere o nello scatenare il disturbo , infatti il problema risulta ancor più accentuato se il soggetto che ne soffre ha un partner con un atteggiamento di rifiuto nei confronti del sesso o se entrambi i partner hanno dei problemi di dipendenza.
Nella dipendenza dal sesso non si osserva nessun legame psicologico con l’altro , che molto spesso il soggetto neanche conosce o ha mai visto prima di entrarvi in contatto. L’altro è un mero oggetto tra gli altri e come tale è , quindi , facilmente sostituibile da altri oggetti se questi risultano più raggiungibili dell’oggetto di partenza. Nel trattamento del disturbo evidenze cliniche mostrano l’efficacia della terapia di tipo cognitivo comportamentale e quella di tipo psicoanalitico , integrate con supporto farmacologico basato su antidepressivi inibitori della serotonina , ma anche da anti-psicotici e anti-epilettici , che coadiuvano nel contenimento iniziale dell’impulsività del sintomo.La dipendenza dal sesso oggi è una forma di dipendenza che , rispetto alle altre dipendenze , desta scarsa empatia unitamente a molta ironia , sarcasmo e umorismo. I soggetti affetti da tale patologia , vengono visti come libidinosi , viziosi che si crogiolano nella loro condizione e il cui profondo stato di sofferenza non è ufficialmente riconosciuto. Invece si tratta senza dubbio di una patologia che risente delle caratteristiche dei tempi , moderni e frenetici , effimeri ove ogni cosa sfugge nel momento stesso in cui la si conquista.
Secondo il “National Council of Sexual Addiction” la dipendenza dal sesso o “sex addiction” è definibile come una “persistente e crescente modalità di comportamento sessuale messo in atto nonostante il manifestarsi di conseguenze negative per sé e per gli altri ” . Recenti ricerche condotte in Italia , mostrano che i soggetti affetti da dipendenza dal sesso sono stimati in circa il 6% della popolazione. L’incidenza del disturbo è del 10% negli uomini e del 2% nelle donne. Relativamente all’età i valori più alti si riscontrano nella fascia tra i 36 e i 50 anni con una percentuale del 6,8% , segue la fascia dai 26 ai 35 anni con un valore medio del 5,65% , e i soggetti oltre i 50 anni con il 2,8% (Avenia 2003 , 2004). Tali stime , indicano quanto l’incidenza del fenomeno sia considerevole , ciò nonostante ancora oggi le caratteristiche del disturbo si sottraggono ad un inquadramento clinico e terapeutico chiaro e univoco , questo perché solo nell’ultimo ventennio del secolo scorso gli esperti hanno iniziato a considerare e studiare compiutamente tale tipologia di dipendenza. Abbiamo assistito , infatti , ad una modificazione della funzione sociale del sesso: da mero atto procreativo ha iniziato ad essere vissuto come atto relazionale , fino ad arrivare a svilupparne una visione edonistica. Alcuni studiosi ritengono che la dipendenza sessuale sia una forma di disturbo compulsivo e si riferiscono ad essa come “sexual compulsivity” , proponendo di includerla all’interno della categoria dei disturbi ossessivi compulsivi .
Altri ancora evidenziano l’esistenza di un’analogia con i disturbi del comportamento alimentare , come la bulimia , che a caso spesso si accompagna ad una sregolatezza nel comportamento sessuale ; addirittura c’è chi ritiene che la dipendenza sessuale in realtà altro non sia che un mito della nostra società, sottoprodotto di influenze culturali. Comportamenti che fino a vent’anni fa erano inclusi nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ) , sotto la categoria delle “Perversioni” , oggi sono accettati e tollerati dalla società . Si assiste al passaggio da una cultura sessuofobica a una sessuofila . Anche se il disturbo può presentarsi a livelli diversi di gravità e in forme diverse , il rischio è comunque presente ed è dato dalla tendenza di tali soggetti a minimizzare le conseguenze delle loro azioni. Nei casi meno gravi si osserva una tendenza ad attuare rapporti non protetti , in quelli più gravi la ricerca ossessiva di un partner sessuale può sfociare in comportamenti rischiosi o illegali , molestie e perfino nello stupro , oltre ad associarsi a parafilie come la pedofilia. Si valuta che il 55% dei soggetti affetti da dipendenza sessuale commetta reati a sfondo sessuale. Si tratta di una patologia multifattoriali , che ha probabilmente alla base una vulnerabilità neurobiologica , cui sommano le esperienze di vita , quali ad esempio abusi sessuali subiti nell’infanzia, e fattori ambientali. Anche il partner può avere un ruolo importante nel contenere o nello scatenare il disturbo , infatti il problema risulta ancor più accentuato se il soggetto che ne soffre ha un partner con un atteggiamento di rifiuto nei confronti del sesso o se entrambi i partner hanno dei problemi di dipendenza.
Nella dipendenza dal sesso non si osserva nessun legame psicologico con l’altro , che molto spesso il soggetto neanche conosce o ha mai visto prima di entrarvi in contatto. L’altro è un mero oggetto tra gli altri e come tale è , quindi , facilmente sostituibile da altri oggetti se questi risultano più raggiungibili dell’oggetto di partenza. Nel trattamento del disturbo evidenze cliniche mostrano l’efficacia della terapia di tipo cognitivo comportamentale e quella di tipo psicoanalitico , integrate con supporto farmacologico basato su antidepressivi inibitori della serotonina , ma anche da anti-psicotici e anti-epilettici , che coadiuvano nel contenimento iniziale dell’impulsività del sintomo.La dipendenza dal sesso oggi è una forma di dipendenza che , rispetto alle altre dipendenze , desta scarsa empatia unitamente a molta ironia , sarcasmo e umorismo. I soggetti affetti da tale patologia , vengono visti come libidinosi , viziosi che si crogiolano nella loro condizione e il cui profondo stato di sofferenza non è ufficialmente riconosciuto. Invece si tratta senza dubbio di una patologia che risente delle caratteristiche dei tempi , moderni e frenetici , effimeri ove ogni cosa sfugge nel momento stesso in cui la si conquista.
La Violenza assistita: un trauma invisibile.
di Carmen Mennillo
Il dramma nascosto nella violenza assistita da minori.
Ci siamo mai chiesti quanti bambini assistono ad episodi di violenza ,soprattutto, in ambito familiare ? Quanto questa violenza possa incidere e contribuire ad una falsa rappresentazione della realtà , spesso inquinata da eventi che andranno a riverberasi su componenti caratteriali del bambino? Le stime contano ben 8.800.000 minori solo in Italia. Nonostante questi dati così allarmanti , la violenza assistita è stata definita e riconosciuta in Italia solo in un periodo relativamente recente , tanto che le indagini sul fenomeno , sulle tecniche di prevenzione e protezione , risultano ancora molto limitate. Più volte negli ultimi anni , il legislatore , per far fronte ad episodi che spesso vedono come protagonisti genitori violenti , in disaccordo tra loro , è intervenuto con norme che sanzionano questi abusi con pene molto severe . Secondo il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI) , per “violenza assistita da minori” in ambito familiare si intende il fare esperienza da parte del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento , compiuto attraverso atti di violenza fisica , verbale , psicologica , sessuale ed economica , su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Si includono le violenze messe in atto da minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia, gli abbandoni ed i maltrattamenti ai danni degli animali domestici .
Il Grande paradosso
Quando il bambino si trova di fronte ad un genitore violento deve elaborare un paradosso più grande di lui: - Quale genitore è quello giusto?Qual è il modello da seguire?Sono vittima , persecutore o sarò entrambi?Questi e tanti altri interrogativi si porrà un adolescente che subisce indirettamente violenza , ai quali , tenterà in primis di rispondere ed in secundis , cercherà di farsi un ’ idea , spesso sbagliata di come comportarsi in determinate circostanze , clonando addirittura il modello del genitore o dell' amico " più forte ". La violenza anche se “ normalizzata ” nei comportamenti familiari abituali , è comunque un elemento confusivo che provocherà nel bambino forti sensi di colpa, sentendosi responsabile ed impotente nei confronti del genitore vittima di abusi.
Il grande tradimento:la rottura della fiducia
Il bambino tradito perché non può affidarsi ai genitori per essere protetto , instaurerà relazioni di attaccamento disorganizzato e ambivalente. Si ritroverà a vivere incessantemente stati d’angoscia , paura , impotenza , che comprometteranno le normali funzioni vitali come: la diminuzione del sonno , della fame e varie forme di trascuratezza. Spesso ci ritroviamo dinanzi ad un vero e proprio scambio di ruoli , dove il minore sviluppa comportamenti adultizzati e di accudimento nei confronti del genitore maltrattato , trascurato dal coniuge e , per evitare di lasciarlo solo e indifeso , verrà compromessa anche la frequenza scolastica, il rendimento scolastico e le relazioni con i pari.
I bambini non giocano:replicano
Le piccole vittime di violenza assistita , tenderanno a sviluppare le proprie relazioni affettive replicando forme di violenza perché considerate unico modo per esprimere sentimenti e legami. Le conseguenze a lungo termine , in molti casi sono drammatiche , il bambino si ritroverà a costruire una vera e propria devastazione rispetto alla costituzione del Sé , con pesanti conseguenze sull’autostima che senza un intervento finalizzato alla protezione fisica e psicologica ed alla cura degli effetti post-traumatici , potrebbero avviarsi alla vita adulta con un bagaglio di problematiche comportamentali e psicologiche cronicizzate.Il bambino testimone di violenza , deve poter trovare spazi e tempi in cui possa essere ascoltato , in cui trovare aiuto per comprendere che quel comportamento sbagliato non è in ciascun modo determinato da lui. E’ necessario tutelare queste vittime silenti , attraverso assistenza terapeutica affiancata da interventi correttivi e riparativi , affinchè passo dopo passo questi bambini possano riacquisire la propria reale dimensione.L’impatto della violenza sui bambini è un problema reale e da far emergere , talvolta sottovalutato , perché molto spesso le vittime non portano segni fisici della violenza , ma gravi traumi psicologici. I segni della violenza psicologica , del dolore e della sofferenza sono poco evidenti , ma non per questo invisibili , forse ai soli occhi dell’adulto violento.
Ci siamo mai chiesti quanti bambini assistono ad episodi di violenza ,soprattutto, in ambito familiare ? Quanto questa violenza possa incidere e contribuire ad una falsa rappresentazione della realtà , spesso inquinata da eventi che andranno a riverberasi su componenti caratteriali del bambino? Le stime contano ben 8.800.000 minori solo in Italia. Nonostante questi dati così allarmanti , la violenza assistita è stata definita e riconosciuta in Italia solo in un periodo relativamente recente , tanto che le indagini sul fenomeno , sulle tecniche di prevenzione e protezione , risultano ancora molto limitate. Più volte negli ultimi anni , il legislatore , per far fronte ad episodi che spesso vedono come protagonisti genitori violenti , in disaccordo tra loro , è intervenuto con norme che sanzionano questi abusi con pene molto severe . Secondo il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI) , per “violenza assistita da minori” in ambito familiare si intende il fare esperienza da parte del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento , compiuto attraverso atti di violenza fisica , verbale , psicologica , sessuale ed economica , su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Si includono le violenze messe in atto da minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia, gli abbandoni ed i maltrattamenti ai danni degli animali domestici .
Il Grande paradosso
Quando il bambino si trova di fronte ad un genitore violento deve elaborare un paradosso più grande di lui: - Quale genitore è quello giusto?Qual è il modello da seguire?Sono vittima , persecutore o sarò entrambi?Questi e tanti altri interrogativi si porrà un adolescente che subisce indirettamente violenza , ai quali , tenterà in primis di rispondere ed in secundis , cercherà di farsi un ’ idea , spesso sbagliata di come comportarsi in determinate circostanze , clonando addirittura il modello del genitore o dell' amico " più forte ". La violenza anche se “ normalizzata ” nei comportamenti familiari abituali , è comunque un elemento confusivo che provocherà nel bambino forti sensi di colpa, sentendosi responsabile ed impotente nei confronti del genitore vittima di abusi.
Il grande tradimento:la rottura della fiducia
Il bambino tradito perché non può affidarsi ai genitori per essere protetto , instaurerà relazioni di attaccamento disorganizzato e ambivalente. Si ritroverà a vivere incessantemente stati d’angoscia , paura , impotenza , che comprometteranno le normali funzioni vitali come: la diminuzione del sonno , della fame e varie forme di trascuratezza. Spesso ci ritroviamo dinanzi ad un vero e proprio scambio di ruoli , dove il minore sviluppa comportamenti adultizzati e di accudimento nei confronti del genitore maltrattato , trascurato dal coniuge e , per evitare di lasciarlo solo e indifeso , verrà compromessa anche la frequenza scolastica, il rendimento scolastico e le relazioni con i pari.
I bambini non giocano:replicano
Le piccole vittime di violenza assistita , tenderanno a sviluppare le proprie relazioni affettive replicando forme di violenza perché considerate unico modo per esprimere sentimenti e legami. Le conseguenze a lungo termine , in molti casi sono drammatiche , il bambino si ritroverà a costruire una vera e propria devastazione rispetto alla costituzione del Sé , con pesanti conseguenze sull’autostima che senza un intervento finalizzato alla protezione fisica e psicologica ed alla cura degli effetti post-traumatici , potrebbero avviarsi alla vita adulta con un bagaglio di problematiche comportamentali e psicologiche cronicizzate.Il bambino testimone di violenza , deve poter trovare spazi e tempi in cui possa essere ascoltato , in cui trovare aiuto per comprendere che quel comportamento sbagliato non è in ciascun modo determinato da lui. E’ necessario tutelare queste vittime silenti , attraverso assistenza terapeutica affiancata da interventi correttivi e riparativi , affinchè passo dopo passo questi bambini possano riacquisire la propria reale dimensione.L’impatto della violenza sui bambini è un problema reale e da far emergere , talvolta sottovalutato , perché molto spesso le vittime non portano segni fisici della violenza , ma gravi traumi psicologici. I segni della violenza psicologica , del dolore e della sofferenza sono poco evidenti , ma non per questo invisibili , forse ai soli occhi dell’adulto violento.
La depressione stagionale.
di Carmen Mennillo
Un malessere comune.Ecco cause e soluzioni.
In occasione del 19 Dicembre, giornata europea sulla depressione,analizzeremo un particolare disturbo depressivo,che si manifesta in determinati periodi dell’anno,nota come: depressione stagionale.
Che cos’è la Depressione stagionale?
Questa patologia,chiamata dagli esperti Disturbo affettivo stagionale,è un'alterazione dell’umore conosciuto con la sigla SAD (Seasonal Affective Disorder).La caratteristica principale di questo disturbo,a differenza delle altre tipologie di depressione,è il suo ritorno periodico,annuale,con inizio e fine legati a un preciso periodo dell’anno. La vulnerabilità dei pazienti portatori di SAD è accertata su base genetica: a differenza di soggetti sani producono un segnale biologico di cambio stagione,simile al segnale circadiano che consente ai mammiferi i cambiamenti comportamentali nei vari periodi dell’anno. Anche il sesso è un altro elemento genetico predisponente: le donne sono più colpite degli uomini,questo dato ha suggerito l’ipotesi di un' influenza ormonale;in tal caso si è potuto osservare che l’incidenza della SAD nelle donne cresce dopo la pubertà e cala nel periodo che segue la menopausa. Esiste inoltre una certa sovrapposizione tra questa patologia e la sindrome premestruale,caratterizzata da episodi depressivi ciclici in sincronia con il ciclo mestruale. Terzo elemento,cofattore dell’origine della patologia stagionale dell’umore,è la ridotta capacità ad aventi stressanti. La sindrome ha una durata di cinque mesi ,l’età media dei pazienti affetti da SAD è compresa tra i 20 e 40 anni,è maggiormente diffusa e probabile nei paesi dove la quantità annua di luce solare è minore e dove le temperature sono più basse.
Quali sono i sintomi più comuni?
I disturbi principali che caratterizzano la sindrome affettiva stagionale sono: la diminuzione del tono dell’umore,l’irritabilità,l’ansia,l’ipersonnia,l’abbandono delle attività abituali e la ridotta attività fisica. Tipico è l’aumento di appetito,caratterizzato,in particolare,dalla cosiddetta “fame ansiosa di carboidrati”,e la riduzione della libido,con una notevole diminuzione del tasso di concepimento nei mesi da novembre a marzo. Durante l’episodio depressivo si presentano difficoltà lavorative o scolastiche,in rapporto ad una diminuita capacità di concentrazione,perdita di motivazioni o difficoltà ad intraprendere nuovi progetti. Aumentano i problemi nei rapporti interpersonali per il disinteresse verso le relazioni sociali,infatti i pazienti preferiscono trascorrere gran parte del loro tempo in casa.
Quali sono le cure principali?
Il Disturbo affettivo stagionale è caratterizzato da un'ottima risposta terapeutica alla fototerapia.La fototerapia consiste nell’esporre un soggetto a una fonte luminosa,detta light-box,che simula la luce solare,senza effetti negativi come quelli causati dai raggi UV,per un determinato numero di minuti al giorno e con regolarità. Ulteriori vantaggi possono essere attribuiti a diete specifiche e ad una regolare attività aerobica. Anche l’approccio psicoterapeutico può essere molto utile,magari associato ad un'efficace terapia di tipo farmacologico. Molto importante nell’utilizzo dei farmaci,che lo psichiatra vari il dosaggio nel corso dell’anno.
In occasione del 19 Dicembre, giornata europea sulla depressione,analizzeremo un particolare disturbo depressivo,che si manifesta in determinati periodi dell’anno,nota come: depressione stagionale.
Che cos’è la Depressione stagionale?
Questa patologia,chiamata dagli esperti Disturbo affettivo stagionale,è un'alterazione dell’umore conosciuto con la sigla SAD (Seasonal Affective Disorder).La caratteristica principale di questo disturbo,a differenza delle altre tipologie di depressione,è il suo ritorno periodico,annuale,con inizio e fine legati a un preciso periodo dell’anno. La vulnerabilità dei pazienti portatori di SAD è accertata su base genetica: a differenza di soggetti sani producono un segnale biologico di cambio stagione,simile al segnale circadiano che consente ai mammiferi i cambiamenti comportamentali nei vari periodi dell’anno. Anche il sesso è un altro elemento genetico predisponente: le donne sono più colpite degli uomini,questo dato ha suggerito l’ipotesi di un' influenza ormonale;in tal caso si è potuto osservare che l’incidenza della SAD nelle donne cresce dopo la pubertà e cala nel periodo che segue la menopausa. Esiste inoltre una certa sovrapposizione tra questa patologia e la sindrome premestruale,caratterizzata da episodi depressivi ciclici in sincronia con il ciclo mestruale. Terzo elemento,cofattore dell’origine della patologia stagionale dell’umore,è la ridotta capacità ad aventi stressanti. La sindrome ha una durata di cinque mesi ,l’età media dei pazienti affetti da SAD è compresa tra i 20 e 40 anni,è maggiormente diffusa e probabile nei paesi dove la quantità annua di luce solare è minore e dove le temperature sono più basse.
Quali sono i sintomi più comuni?
I disturbi principali che caratterizzano la sindrome affettiva stagionale sono: la diminuzione del tono dell’umore,l’irritabilità,l’ansia,l’ipersonnia,l’abbandono delle attività abituali e la ridotta attività fisica. Tipico è l’aumento di appetito,caratterizzato,in particolare,dalla cosiddetta “fame ansiosa di carboidrati”,e la riduzione della libido,con una notevole diminuzione del tasso di concepimento nei mesi da novembre a marzo. Durante l’episodio depressivo si presentano difficoltà lavorative o scolastiche,in rapporto ad una diminuita capacità di concentrazione,perdita di motivazioni o difficoltà ad intraprendere nuovi progetti. Aumentano i problemi nei rapporti interpersonali per il disinteresse verso le relazioni sociali,infatti i pazienti preferiscono trascorrere gran parte del loro tempo in casa.
Quali sono le cure principali?
Il Disturbo affettivo stagionale è caratterizzato da un'ottima risposta terapeutica alla fototerapia.La fototerapia consiste nell’esporre un soggetto a una fonte luminosa,detta light-box,che simula la luce solare,senza effetti negativi come quelli causati dai raggi UV,per un determinato numero di minuti al giorno e con regolarità. Ulteriori vantaggi possono essere attribuiti a diete specifiche e ad una regolare attività aerobica. Anche l’approccio psicoterapeutico può essere molto utile,magari associato ad un'efficace terapia di tipo farmacologico. Molto importante nell’utilizzo dei farmaci,che lo psichiatra vari il dosaggio nel corso dell’anno.
Una nuova generazione fragile ed instabile.
di Marta Senatore
Adolescenti sempre più vulnerabili e socialmente a disagio.
E' indubbio che viviamo in un'epoca di forte instabilità non solo materiale ma anche mentale.Tutte queste incertezze esistenziali non possono che influire sulla crescita e sulla formazione dei più giovani.Gli adoloscenti di oggi mostrano palesi segni di fragilità emotiva,di grande vulnerabilità psicologica,molto di più rispetto al passato e i casi di cronaca sono sempre lì impietosi a dimostrarlo.Ansia e depressione sono diventate negli ultimi anni le patologie più diffuse fra gli under 18,una recente inchiesta ha dimostrato che il 15% di ragazzi fra i 12 e i 17 anni manifesta questi sintomi psichici. La depressione è la patologia più diffusa.
Molti i casi di ragazzi che per una bocciatura o un amore finito tentato,spesso riuscendoci,il suicidio. Lentamente sta nascendo una gioventù fragile ed emotiva, precoce in tutto anche nelle dinamiche di vulnerabilità.Per gli esperti del settore la colpa di tutto ciò è sempre di noi stessi.Siamo diventati incapaci di dare vita a relazioni personali stabili e soddisfacenti,sia nella famiglia,sia nell'amicizia che nell'amore,i rapporti interpersonali sono quantitativamente aumentati ma la loro vera qualità è superficiale e senza emozioni reali. Da qui parte la fragilità emotiva che si propaga verso gli adolescenti.In mezzo alla gente i giovani si sento soli ed abbandonati,non amati realmente,non rispettati nel profondo se non come componente di un gruppo chiuso che annulla differenze e particolarità individuali.Non aiutano ovviamente i social network dove tutto è liquido ed effimero,compresi i rapporti umani.
Le relazioni quindi si fanno complicate e una delusione può essere fatale e non assorbita.La voglia di costruire nuovi rapporti è venuta meno e quindi il perdere uno di questi viene interpretato come dramma insuperabile.Si vive bene ed appagati solo se si hanno relazioni umane che soddisfano,proprio il bisogno di questi rapporti sembra essersi affievolito ed in adolescenza ancora di più.Emblematica una proiezione della Associazione Italiana Psicologi che sostiene che dal 2015 la depresisone sarà la seconda patologia invalidante a livello internazionale.
E' indubbio che viviamo in un'epoca di forte instabilità non solo materiale ma anche mentale.Tutte queste incertezze esistenziali non possono che influire sulla crescita e sulla formazione dei più giovani.Gli adoloscenti di oggi mostrano palesi segni di fragilità emotiva,di grande vulnerabilità psicologica,molto di più rispetto al passato e i casi di cronaca sono sempre lì impietosi a dimostrarlo.Ansia e depressione sono diventate negli ultimi anni le patologie più diffuse fra gli under 18,una recente inchiesta ha dimostrato che il 15% di ragazzi fra i 12 e i 17 anni manifesta questi sintomi psichici. La depressione è la patologia più diffusa.
Molti i casi di ragazzi che per una bocciatura o un amore finito tentato,spesso riuscendoci,il suicidio. Lentamente sta nascendo una gioventù fragile ed emotiva, precoce in tutto anche nelle dinamiche di vulnerabilità.Per gli esperti del settore la colpa di tutto ciò è sempre di noi stessi.Siamo diventati incapaci di dare vita a relazioni personali stabili e soddisfacenti,sia nella famiglia,sia nell'amicizia che nell'amore,i rapporti interpersonali sono quantitativamente aumentati ma la loro vera qualità è superficiale e senza emozioni reali. Da qui parte la fragilità emotiva che si propaga verso gli adolescenti.In mezzo alla gente i giovani si sento soli ed abbandonati,non amati realmente,non rispettati nel profondo se non come componente di un gruppo chiuso che annulla differenze e particolarità individuali.Non aiutano ovviamente i social network dove tutto è liquido ed effimero,compresi i rapporti umani.
Le relazioni quindi si fanno complicate e una delusione può essere fatale e non assorbita.La voglia di costruire nuovi rapporti è venuta meno e quindi il perdere uno di questi viene interpretato come dramma insuperabile.Si vive bene ed appagati solo se si hanno relazioni umane che soddisfano,proprio il bisogno di questi rapporti sembra essersi affievolito ed in adolescenza ancora di più.Emblematica una proiezione della Associazione Italiana Psicologi che sostiene che dal 2015 la depresisone sarà la seconda patologia invalidante a livello internazionale.
Il Mobbing.Natura di un fenomeno diffuso.
di Marta Senatore
Problemi e vessazioni sul lavoro.Come uscirne?
Sul posto di lavoro possono spesso venirsi a creare delle dinamiche di natura psicologica e sfociare nel oramai celebre fenomeno del mobbing.Il contesto lavorativo può diventare a causa delle persone che vi troviamo un luogo scomodo, in cui vengono messe in atto continue aggressioni psicologiche che possono demotivare e anche attaccare la salute psicofisica del lavoratore.Il termine inglese “mobbing ” deriva dal verbo “to mob” che significa “assalire in massa”. L’immagine venne associata studiando l'ornitologia e in particolare il comportamento di aggressione di gruppi di animali, spesso di piccole dimensioni, che si univano per attaccare animali di grossa taglia,ed è stata quindi associata poi successivamente al comportamento umano.Inizialmente fu lo psicologo svedese Heinemann che usò per primo questa parola per riferirsi ad un comportamento infantile umano, osservato inizialmente in ambiente scolastico, ovvero l'aggressione di un bambino da parte di un gruppo di coetanei, quello che poi in epoca successiva verrà rinominato col termine attualmente ancora in uso di “bullismo”. Nel Mobbing sul posto di lavoro possiamo delineare 4 livelli di sviluppo.
LIVELLO 1 La conflittualità sul posto di lavoro inizia a manifestarsi in modo costante e rimane irrisolta, divenendo la “normalità” e anche aumentando di frequenza.Questa è appunto una fase iniziale e ancora non si dovrebbe parlare di mobbing vero e proprio.
LIVELLO 2 In questa fase la persona mobbizzata viene come etichettata e costretta ad assumere atteggiamenti difensivi. In questo momento di solito iniziano i problemi di salute a carico del mobbizzato che può somatizzare le tensioni in varie modalità tra cui disturbi del sonno, crisi di pianto, stati depressivi, ansia e disturbi digestivi. Oppure altri disturbi fisici come forti cefalee, tremori, tachicardie, dermatosi, senza dimenticare effetti a livello mentale come problemi di isolamento e di autostima che possono peggiorare e mutarsi in disagi psichici gravi in grado in alcuni casi anche di alimentare tentativi di suicidio.
LIVELLO 3 Qui la questione è già un vero “caso”, e si inzia a segnalare la cosa all’Ufficio del Personale. Ufficio che di solito,statistiche alla mano,è portato a minimizzare e a definire il soggetto mobbizzato un soggetto complicato finendo col far credere che egli stesso è causa di questi atteggiamenti.E' questo un grave errore fondamentale di attribuzione.
LIVELLO 4 Nell'ultima fase delle dinamiche di mobbing,la pressione ha funzionato e il soggetto chiede di essere spostato o sottoposto a incarichi minori, costretto a lunga malattia o a cure psicologiche o in alcuni casi perfino a licenziarsi per preservare la propria salute psicofisica.
Le persone colpite da mobbing sul luogo di lavoro devono acquisire consapevolezza del problema e capire che esso non dipende da proprie colpe, come spesso il contesto tende a fargli pensare. È utilissimo chiedere il conforto di amici,parenti e partner di coppia,senza far entrare le tensioni lavorative nella propria vita privata.Giuridicamente in Italia non esiste una vera legge in materia di mobbing poichè nel nostro codice il mobbing non è configurato come specifico reato. Possono però essere denunciati gli atti con cui si realizza il mobbing che possono dare vita a reati previsti come lesioni personali gravi o gravissime, ed anche colpose
Sul posto di lavoro possono spesso venirsi a creare delle dinamiche di natura psicologica e sfociare nel oramai celebre fenomeno del mobbing.Il contesto lavorativo può diventare a causa delle persone che vi troviamo un luogo scomodo, in cui vengono messe in atto continue aggressioni psicologiche che possono demotivare e anche attaccare la salute psicofisica del lavoratore.Il termine inglese “mobbing ” deriva dal verbo “to mob” che significa “assalire in massa”. L’immagine venne associata studiando l'ornitologia e in particolare il comportamento di aggressione di gruppi di animali, spesso di piccole dimensioni, che si univano per attaccare animali di grossa taglia,ed è stata quindi associata poi successivamente al comportamento umano.Inizialmente fu lo psicologo svedese Heinemann che usò per primo questa parola per riferirsi ad un comportamento infantile umano, osservato inizialmente in ambiente scolastico, ovvero l'aggressione di un bambino da parte di un gruppo di coetanei, quello che poi in epoca successiva verrà rinominato col termine attualmente ancora in uso di “bullismo”. Nel Mobbing sul posto di lavoro possiamo delineare 4 livelli di sviluppo.
LIVELLO 1 La conflittualità sul posto di lavoro inizia a manifestarsi in modo costante e rimane irrisolta, divenendo la “normalità” e anche aumentando di frequenza.Questa è appunto una fase iniziale e ancora non si dovrebbe parlare di mobbing vero e proprio.
LIVELLO 2 In questa fase la persona mobbizzata viene come etichettata e costretta ad assumere atteggiamenti difensivi. In questo momento di solito iniziano i problemi di salute a carico del mobbizzato che può somatizzare le tensioni in varie modalità tra cui disturbi del sonno, crisi di pianto, stati depressivi, ansia e disturbi digestivi. Oppure altri disturbi fisici come forti cefalee, tremori, tachicardie, dermatosi, senza dimenticare effetti a livello mentale come problemi di isolamento e di autostima che possono peggiorare e mutarsi in disagi psichici gravi in grado in alcuni casi anche di alimentare tentativi di suicidio.
LIVELLO 3 Qui la questione è già un vero “caso”, e si inzia a segnalare la cosa all’Ufficio del Personale. Ufficio che di solito,statistiche alla mano,è portato a minimizzare e a definire il soggetto mobbizzato un soggetto complicato finendo col far credere che egli stesso è causa di questi atteggiamenti.E' questo un grave errore fondamentale di attribuzione.
LIVELLO 4 Nell'ultima fase delle dinamiche di mobbing,la pressione ha funzionato e il soggetto chiede di essere spostato o sottoposto a incarichi minori, costretto a lunga malattia o a cure psicologiche o in alcuni casi perfino a licenziarsi per preservare la propria salute psicofisica.
Le persone colpite da mobbing sul luogo di lavoro devono acquisire consapevolezza del problema e capire che esso non dipende da proprie colpe, come spesso il contesto tende a fargli pensare. È utilissimo chiedere il conforto di amici,parenti e partner di coppia,senza far entrare le tensioni lavorative nella propria vita privata.Giuridicamente in Italia non esiste una vera legge in materia di mobbing poichè nel nostro codice il mobbing non è configurato come specifico reato. Possono però essere denunciati gli atti con cui si realizza il mobbing che possono dare vita a reati previsti come lesioni personali gravi o gravissime, ed anche colpose
La Teoria R.E.T. ed il cognitivismo di Ellis.
di Marta Senatore
Origine e peculiarità di un metodo d'analisi rivoluzionario.
Albert Ellis è uno dei pionieri della psicologia moderna,lo studioso da cui si può dire sia partita l'intera esperienza accademica del cognitivismo. La sua origine è ben delineata,apparteneva egli ad una scuola americana post freudiana degli anni Cinquanta, fu molto influenzato dalla rivoluzione cognitiva degli anni Sessanta, partendo dalla quale riuscì ad elaborare uan vera terapia razionale emotiva.Parliamo della teoria clinica della RET (Rational and Emotiv Theory) che parte dal concetto che gli esseri umani tendono a pensare in maniera irrazionale, ad avere convinzioni irrazionali, a usare in modo non corretto i principi della logica e del ragionamento, a dare vita spesso ad una visione del mondo poco realistica.In questa maniera sorgono emozioni e stati d’animo spiacevoli, e danno vita in modo diretto a comportamenti disadattati, autolesivi o palesemente assurdi.
Ellis affermava che il nostro comportamento e le nostre emozioni non sono sempre determinate dagli eventi esterni, ma risultano influenzate dal modo in cui noi percepiamo e rappresentiamo tali eventi. La prassi terapeutica della RET si tramuta quindi in una sorta di processo di apprendimento attraverso cui una persona conquista l’abilità di parlare a sé stessa (cosiddetto dialogo interno) in maniera esplicita in modo da controllare la propria vita emotiva.La RET si basa sul concetto fondante che nella maggior parte dei casi i disturbi emotivi sono sorti da atteggiamenti e convinzioni irrazionali.Secondo Ellis se noi produciamo pensieri irrazionali, questi finiranno inevitabilmente con l'influenzare le nostre emozioni,le quali a loro volta distorceranno la realtà facendola percepire in maniera non obiettiva e inoltre saranno la diretta conseguenza di atteggiamenti negativi, non oggettivi, portando il soggetto verso le varie forme di psicopatologie.
Secondo il metodo RET esiste una forte relazione tra questi tre elementi:
• Il comportamento;
• Le emozioni;
• Le cognizioni.
Tale metodo fu senz'altro rivoluzionario perché trovava una vera strada per modificare le emozioni.Secondo Ellis, infatti, un' emozione negativa deve essere colegata a tutta una serie di pensieri negativi.Mediante le tecniche di analisi introdotto dallo studioso, si evidenziano quei pensieri che hanno determinato la dimensione irrazionale, quindi del tutto inconsistente e non obiettivi rispetto alla realtà.Un vero processo di razionalizzazione permetterà di riottenere una giusta dimensione alla realtà, tentando di eliminare l'emozione negativa irrazionale da cui tutto è partito.Insomma ciascuno di noi nell’affrontare degli eventi negativi, sfodera tutto un insieme di strategie emotive,solo quella più razionale ci permette di aderire meglio alla realtà e trovare quindi una soluzione.La teoria della RET è concepita proprio come forma di “rielaborazione” della rappresentazione dei significati della realtà: condurre quindi i pensieri in una dimensione razionale nella quale diventa poi possibile cambiare non solo le emozioni ma anche le azioni.Questo processo terapeutico intende creare una sorta di dialogo con noi stessi,dando vita ad una particolare forma di autoterapia.
Albert Ellis è uno dei pionieri della psicologia moderna,lo studioso da cui si può dire sia partita l'intera esperienza accademica del cognitivismo. La sua origine è ben delineata,apparteneva egli ad una scuola americana post freudiana degli anni Cinquanta, fu molto influenzato dalla rivoluzione cognitiva degli anni Sessanta, partendo dalla quale riuscì ad elaborare uan vera terapia razionale emotiva.Parliamo della teoria clinica della RET (Rational and Emotiv Theory) che parte dal concetto che gli esseri umani tendono a pensare in maniera irrazionale, ad avere convinzioni irrazionali, a usare in modo non corretto i principi della logica e del ragionamento, a dare vita spesso ad una visione del mondo poco realistica.In questa maniera sorgono emozioni e stati d’animo spiacevoli, e danno vita in modo diretto a comportamenti disadattati, autolesivi o palesemente assurdi.
Ellis affermava che il nostro comportamento e le nostre emozioni non sono sempre determinate dagli eventi esterni, ma risultano influenzate dal modo in cui noi percepiamo e rappresentiamo tali eventi. La prassi terapeutica della RET si tramuta quindi in una sorta di processo di apprendimento attraverso cui una persona conquista l’abilità di parlare a sé stessa (cosiddetto dialogo interno) in maniera esplicita in modo da controllare la propria vita emotiva.La RET si basa sul concetto fondante che nella maggior parte dei casi i disturbi emotivi sono sorti da atteggiamenti e convinzioni irrazionali.Secondo Ellis se noi produciamo pensieri irrazionali, questi finiranno inevitabilmente con l'influenzare le nostre emozioni,le quali a loro volta distorceranno la realtà facendola percepire in maniera non obiettiva e inoltre saranno la diretta conseguenza di atteggiamenti negativi, non oggettivi, portando il soggetto verso le varie forme di psicopatologie.
Secondo il metodo RET esiste una forte relazione tra questi tre elementi:
• Il comportamento;
• Le emozioni;
• Le cognizioni.
Tale metodo fu senz'altro rivoluzionario perché trovava una vera strada per modificare le emozioni.Secondo Ellis, infatti, un' emozione negativa deve essere colegata a tutta una serie di pensieri negativi.Mediante le tecniche di analisi introdotto dallo studioso, si evidenziano quei pensieri che hanno determinato la dimensione irrazionale, quindi del tutto inconsistente e non obiettivi rispetto alla realtà.Un vero processo di razionalizzazione permetterà di riottenere una giusta dimensione alla realtà, tentando di eliminare l'emozione negativa irrazionale da cui tutto è partito.Insomma ciascuno di noi nell’affrontare degli eventi negativi, sfodera tutto un insieme di strategie emotive,solo quella più razionale ci permette di aderire meglio alla realtà e trovare quindi una soluzione.La teoria della RET è concepita proprio come forma di “rielaborazione” della rappresentazione dei significati della realtà: condurre quindi i pensieri in una dimensione razionale nella quale diventa poi possibile cambiare non solo le emozioni ma anche le azioni.Questo processo terapeutico intende creare una sorta di dialogo con noi stessi,dando vita ad una particolare forma di autoterapia.
Natura della fase REM e "sogno lucido".
di Marta Senatore
Suggestioni e dati scientifici a confronto.
A partire nei secoli antichi,in numerose zone del mondo esisteva ed esiste tuttora un importante strumento,in passato usato solo in attività esoteriche e mistiche,definito dagli esperti sogno lucido.Ma di cosa si tratta e quali ne siano le peculiarità andiamolo adesso a scoprire.Il fenomeno del sogno lucido giunse nella conoscenza e nell'utilizzo occidentale più recente grazie ai lavori pionieristici del marchese d'Hervey De Saint-Denis e dello stesso Van Eeden.Negli ultime decenni però ha ottenuto un indubbia diffusione,conquistando un posto privilegiato nelle ricerche sulla Neurofisiologia degli stati di coscienza.Il sogno lucido è un "sogno cosciente", ossia un percorso vissuto con l'affascinante particolarità, piuttosto rara, della consapevolezza.
Quindi il soggetto in questio è perfettamente consapevole di stare sognando.Com'è facile intuire quindi,il sogno lucido, per le sue caratteristiche, non è solo un promettente strumento di comprensione fenomenologica del momento onirico nella sua generalità ma si erge a vero metodo costruttivo e creativo di vivere la propria personale dimensione mentale,oltre che come momento utilissimo di sperimentazione terapeutica.Ma per capire bene cosa sia un sogno lucido bisogna anzitutto sapere cos'è un sogno. I sogni sono tecnicamente definiti rappresentazionali mentali di particolari stimolazioni bioelettrochimiche endogene che, a partire dal tronco encefalico del cervello,riguardono : la corteccia visiva e i depositi mnestici delle aree associative ed elaborative da cui viene prelevato quello che è il materiale rappresentato.Questa complessa attività del cervello si verifica in una specifica fase del sonno detta REM in cui, mentre si verificano i cosiddetti movimenti oculari rapidi (detti appunto Rapid Eye Movement), mette in moto una particolare attivazione corticale con tracciato elettroencefalografico simile a quello della veglia, un aumento generale dell'attività metabolica del cervello, un'inibizione attiva del tono muscolare e una totale disattivazione temporanea del meccanismo omeotermico.Sullo scopo per cui il nostrocervello attivi queste situazioni c'è ancora molto mistero.
Le ipotesi più diffuse dicono che essa rappresenterebbe la parte finale di un momento necessario al processamento ricorrente di informazioni filogeneticamente rilevanti - come quelle sensoriali e motorie; informazioni che col trascorrere delle ere in cui si è sviluppata la specie umana,avrebbero subito una sostanziale "complessificazione".Il sonno REM ha quasi certamente un forte ruolo nell'attivazione e nel mantenimento dei circuiti neurali delle memorie.La lucidità onirica,anche se secondo molto viene concepita più come uno scopo che come uno strumento, rivela risvolti applicativi di un certo rilievo, non tanto come fenomeno da interpretare,ma più che altro come esperienza da vivere.
A partire nei secoli antichi,in numerose zone del mondo esisteva ed esiste tuttora un importante strumento,in passato usato solo in attività esoteriche e mistiche,definito dagli esperti sogno lucido.Ma di cosa si tratta e quali ne siano le peculiarità andiamolo adesso a scoprire.Il fenomeno del sogno lucido giunse nella conoscenza e nell'utilizzo occidentale più recente grazie ai lavori pionieristici del marchese d'Hervey De Saint-Denis e dello stesso Van Eeden.Negli ultime decenni però ha ottenuto un indubbia diffusione,conquistando un posto privilegiato nelle ricerche sulla Neurofisiologia degli stati di coscienza.Il sogno lucido è un "sogno cosciente", ossia un percorso vissuto con l'affascinante particolarità, piuttosto rara, della consapevolezza.
Quindi il soggetto in questio è perfettamente consapevole di stare sognando.Com'è facile intuire quindi,il sogno lucido, per le sue caratteristiche, non è solo un promettente strumento di comprensione fenomenologica del momento onirico nella sua generalità ma si erge a vero metodo costruttivo e creativo di vivere la propria personale dimensione mentale,oltre che come momento utilissimo di sperimentazione terapeutica.Ma per capire bene cosa sia un sogno lucido bisogna anzitutto sapere cos'è un sogno. I sogni sono tecnicamente definiti rappresentazionali mentali di particolari stimolazioni bioelettrochimiche endogene che, a partire dal tronco encefalico del cervello,riguardono : la corteccia visiva e i depositi mnestici delle aree associative ed elaborative da cui viene prelevato quello che è il materiale rappresentato.Questa complessa attività del cervello si verifica in una specifica fase del sonno detta REM in cui, mentre si verificano i cosiddetti movimenti oculari rapidi (detti appunto Rapid Eye Movement), mette in moto una particolare attivazione corticale con tracciato elettroencefalografico simile a quello della veglia, un aumento generale dell'attività metabolica del cervello, un'inibizione attiva del tono muscolare e una totale disattivazione temporanea del meccanismo omeotermico.Sullo scopo per cui il nostrocervello attivi queste situazioni c'è ancora molto mistero.
Le ipotesi più diffuse dicono che essa rappresenterebbe la parte finale di un momento necessario al processamento ricorrente di informazioni filogeneticamente rilevanti - come quelle sensoriali e motorie; informazioni che col trascorrere delle ere in cui si è sviluppata la specie umana,avrebbero subito una sostanziale "complessificazione".Il sonno REM ha quasi certamente un forte ruolo nell'attivazione e nel mantenimento dei circuiti neurali delle memorie.La lucidità onirica,anche se secondo molto viene concepita più come uno scopo che come uno strumento, rivela risvolti applicativi di un certo rilievo, non tanto come fenomeno da interpretare,ma più che altro come esperienza da vivere.
Cos'è l'analisi psico-diagnostica evolutiva.
di Marta Senatore
Tecniche e finalità di un percorso fondamentale.
Quando parliamo di Psicodiagnostica evolutiva intendiamo nello specifico la disciplina che si occupa della valutazione Psicologica (nettamente distinta e svincolata dalla Psicoterapia) nella quale avviene la ricerca e l’osservazione diretta di alcuni segni che garantiscono di codificare il quadro globale della personalità di un bambino in oggetto, mediante il ricorso a colloqui clinici, all’utilizzo di mezzi reattivi e valutazioni osservative. La tipologia di tecniche e di strumenti adoperati sono sempre diversi di volta in volta, tenendo conto del contesto e dello scopo della valutazione, dell'età e del tipo di eventuali difficoltà dei soggetti da osservare. I risultati di questo tipo di analisi ci permetteranno poi di esplicitare il funzionamento psicodinamico del soggetto specifico e quindi, di trovare più facilmente possibili strategie risolutive al disagio evidenziato.
La valutazione psicodiagnostica, in via generale,avviene in due fasi chiare e separate.
1-La prima fase prevede un colloquio introduttivo tra lo Psicologo e il/i genitore/i grazie al quale si ottengono i principali dati anamnestici del bambino e viene esposta la modalità di esecuzione della valutazione. Nella stessa fase poi avviene l'osservazione del bambino e, successivamente, la somministrazione dei test psicologici.
2-La seconda fase invece prevede, in seguito all'organizzazione dei dati raccolti nel corso della valutazione (inclusa la codifica dei test somministrati), la redazione di un referto psicodiagnostico, cioè la comprensione e "traduzione" di quello che si ritiene essere ciò che il bambino intende comunicare ai genitori attraverso le proprie manifestazioni patologiche.
La prassi clinica più diffusa ritiene di non sottoporre il soggetto ad incontri superiori alle due ore dal momento che, a causa della stanchezza, potrebbe eseguire i test in modo preciso e concentrato, è possibile somministrare i reattivi non tutti lo stesso giorno ma suddivisi in momenti differenti. Tuttavia, oltre all'indagine relativa a tali aree, è fondamentale evidenziare che per una giusta e articolata analisi psicodiagnostica sono necessarie tre ulteriori e successivi fasi.
Fase osservativa, che si basa sull'ascolto e sull'analisi delle problematiche più rilevanti per il piccolo paziente.
Fase valutativa, che prevede invece una valutazione della situazione psicodinamica del paziente, in rapporto diretto con le funzioni e con le capacità dell'Io.
Fase esplicativa, che si basa su un'interpretazione delle informazioni ottenute, seguendo ovviamente il modello psicodinamico di riferimento.
Ognuna delle fasi qui indicate, seguite rigorosamente in ordine rigidamente gerarchico, necessita di una riflessione in termini sia qualitativi (ossia quali elementi presentano criticità e risorse) che quantitativi (ossia quanti elementi presentano criticità e risorse): è grazie all'integrazione che poi successivamente viene fatta dall’analista di questi elementi qualitativi e quantitativi che ci rende possibile evidenziare una patologia piuttosto che un'altra, garantendoci alla fine una diagnosi differenziale,completa ed accurata.
Quando parliamo di Psicodiagnostica evolutiva intendiamo nello specifico la disciplina che si occupa della valutazione Psicologica (nettamente distinta e svincolata dalla Psicoterapia) nella quale avviene la ricerca e l’osservazione diretta di alcuni segni che garantiscono di codificare il quadro globale della personalità di un bambino in oggetto, mediante il ricorso a colloqui clinici, all’utilizzo di mezzi reattivi e valutazioni osservative. La tipologia di tecniche e di strumenti adoperati sono sempre diversi di volta in volta, tenendo conto del contesto e dello scopo della valutazione, dell'età e del tipo di eventuali difficoltà dei soggetti da osservare. I risultati di questo tipo di analisi ci permetteranno poi di esplicitare il funzionamento psicodinamico del soggetto specifico e quindi, di trovare più facilmente possibili strategie risolutive al disagio evidenziato.
La valutazione psicodiagnostica, in via generale,avviene in due fasi chiare e separate.
1-La prima fase prevede un colloquio introduttivo tra lo Psicologo e il/i genitore/i grazie al quale si ottengono i principali dati anamnestici del bambino e viene esposta la modalità di esecuzione della valutazione. Nella stessa fase poi avviene l'osservazione del bambino e, successivamente, la somministrazione dei test psicologici.
2-La seconda fase invece prevede, in seguito all'organizzazione dei dati raccolti nel corso della valutazione (inclusa la codifica dei test somministrati), la redazione di un referto psicodiagnostico, cioè la comprensione e "traduzione" di quello che si ritiene essere ciò che il bambino intende comunicare ai genitori attraverso le proprie manifestazioni patologiche.
La prassi clinica più diffusa ritiene di non sottoporre il soggetto ad incontri superiori alle due ore dal momento che, a causa della stanchezza, potrebbe eseguire i test in modo preciso e concentrato, è possibile somministrare i reattivi non tutti lo stesso giorno ma suddivisi in momenti differenti. Tuttavia, oltre all'indagine relativa a tali aree, è fondamentale evidenziare che per una giusta e articolata analisi psicodiagnostica sono necessarie tre ulteriori e successivi fasi.
Fase osservativa, che si basa sull'ascolto e sull'analisi delle problematiche più rilevanti per il piccolo paziente.
Fase valutativa, che prevede invece una valutazione della situazione psicodinamica del paziente, in rapporto diretto con le funzioni e con le capacità dell'Io.
Fase esplicativa, che si basa su un'interpretazione delle informazioni ottenute, seguendo ovviamente il modello psicodinamico di riferimento.
Ognuna delle fasi qui indicate, seguite rigorosamente in ordine rigidamente gerarchico, necessita di una riflessione in termini sia qualitativi (ossia quali elementi presentano criticità e risorse) che quantitativi (ossia quanti elementi presentano criticità e risorse): è grazie all'integrazione che poi successivamente viene fatta dall’analista di questi elementi qualitativi e quantitativi che ci rende possibile evidenziare una patologia piuttosto che un'altra, garantendoci alla fine una diagnosi differenziale,completa ed accurata.
La Teoria dei Test.Principi e validità.
di Marta Senatore
Un mezzo fondamentale nell'analisi psicologica di un soggetto.
I test psicologici sono uno strumento diffuso e valido,la loro efficacia è generalmente riconosciuta scientificamente ma andiamone a scoprire principi e basi teoriche.Quando si parla di reattivo psicologico si intende una precisa misurazione obiettiva e standardizzata di un campione di comportamento. Un discorso particolare merita la standardizzazione: tutti i procedimenti utilizzati sono descritti e delineati in modo che ogni soggetto venga sottoposto, con tecniche che restano costanti, alle stesse situazioni di stimolo; le istruzioni sono medesime per i vari soggetti; per ciò che riguarda il punteggio e la valutazione viene usato un unico metodo.I criteri base che ci aiutano ad interpretare il significato dei dati raccolti con un test sono definiti dagli studiosi “norme di riferimento”: ovvero si tratta di punteggi al test realizzati da un preciso gruppo esterno di riferimento,detti anche dati di confronto.Il test inoltre deve possedere elementi di fedeltà e validità.
Seguendo la concettualizzazione classica usata in psicologia, un reattivo psicologico è considerato fedele quando, utilizzato più volte, dà come risultanza delle misure uguali. La stima del livello di fedeltà viene garantita seguendo quattro metodi: le forme parallele,cioè la costruzione di due test perfettamente analoghi; il test-retest,con cui si applica successivamente due volte lo stesso test per determinare il grado di concordanza dei risultati ottenuti;la divisione a metà,dove l'insieme delle prove che costituiscono il test viene diviso in due parti di modo da avere forme parallele; la consistenza interna, che fa riferimento alla media di tutti i possibili coefficienti di fedeltà calcolati.Sul concetto di validità invece i pareri sono vari.In generale un test valido è un test che misuri effettivamente la caratteristica in esame. Si deve però parlare di validità di contenuto con cui si intende il grado in cui un test prende in esame tutti i possibili aspetti della caratteristica che vuole misurare. Validità predittiva,ossia la capacità di un test di ipotizzare i risultati ottenuti dal soggetto in base alla caratteristica misurata dal test.
Validità concorrente,cioè una validità che si distingue da quella predittiva solo per aspetti temporali. Validità di costrutto,che viene invece utilizzata per confermare e per progettare il test. Alla sua origine c'è poi un'analisi specifica del tema che è poi posto a fondamento del test stesso. Quando l'elemento teorico è stato stabilito si passa poi a costruire il test che tenga conto di tutte le varie caratteristiche e atteggiamenti presenti.Molti vari sono i tipi di test costituibili.Il Test di intelligenza: che in realtà valutano certe capacità umane dalle quali si può inferire il livello di intelligenza di una persona tenendo conto del contesto verbale, numerico, manuale.Test di sviluppo che mirano a rilevare e misurare lo svilupparsi ed il maturare di alcune funzioni e abilità, con l'aumentare dell'età dei soggetti.I Test proiettivi: i quali consistono nella presentazione di stimoli strutturati o ambigui, il compito dei soggetti è finalizzato nello strutturare o interpretare gli stimoli ricevuti, permettendo così di comprendere la propria personalità.
I test psicologici sono uno strumento diffuso e valido,la loro efficacia è generalmente riconosciuta scientificamente ma andiamone a scoprire principi e basi teoriche.Quando si parla di reattivo psicologico si intende una precisa misurazione obiettiva e standardizzata di un campione di comportamento. Un discorso particolare merita la standardizzazione: tutti i procedimenti utilizzati sono descritti e delineati in modo che ogni soggetto venga sottoposto, con tecniche che restano costanti, alle stesse situazioni di stimolo; le istruzioni sono medesime per i vari soggetti; per ciò che riguarda il punteggio e la valutazione viene usato un unico metodo.I criteri base che ci aiutano ad interpretare il significato dei dati raccolti con un test sono definiti dagli studiosi “norme di riferimento”: ovvero si tratta di punteggi al test realizzati da un preciso gruppo esterno di riferimento,detti anche dati di confronto.Il test inoltre deve possedere elementi di fedeltà e validità.
Seguendo la concettualizzazione classica usata in psicologia, un reattivo psicologico è considerato fedele quando, utilizzato più volte, dà come risultanza delle misure uguali. La stima del livello di fedeltà viene garantita seguendo quattro metodi: le forme parallele,cioè la costruzione di due test perfettamente analoghi; il test-retest,con cui si applica successivamente due volte lo stesso test per determinare il grado di concordanza dei risultati ottenuti;la divisione a metà,dove l'insieme delle prove che costituiscono il test viene diviso in due parti di modo da avere forme parallele; la consistenza interna, che fa riferimento alla media di tutti i possibili coefficienti di fedeltà calcolati.Sul concetto di validità invece i pareri sono vari.In generale un test valido è un test che misuri effettivamente la caratteristica in esame. Si deve però parlare di validità di contenuto con cui si intende il grado in cui un test prende in esame tutti i possibili aspetti della caratteristica che vuole misurare. Validità predittiva,ossia la capacità di un test di ipotizzare i risultati ottenuti dal soggetto in base alla caratteristica misurata dal test.
Validità concorrente,cioè una validità che si distingue da quella predittiva solo per aspetti temporali. Validità di costrutto,che viene invece utilizzata per confermare e per progettare il test. Alla sua origine c'è poi un'analisi specifica del tema che è poi posto a fondamento del test stesso. Quando l'elemento teorico è stato stabilito si passa poi a costruire il test che tenga conto di tutte le varie caratteristiche e atteggiamenti presenti.Molti vari sono i tipi di test costituibili.Il Test di intelligenza: che in realtà valutano certe capacità umane dalle quali si può inferire il livello di intelligenza di una persona tenendo conto del contesto verbale, numerico, manuale.Test di sviluppo che mirano a rilevare e misurare lo svilupparsi ed il maturare di alcune funzioni e abilità, con l'aumentare dell'età dei soggetti.I Test proiettivi: i quali consistono nella presentazione di stimoli strutturati o ambigui, il compito dei soggetti è finalizzato nello strutturare o interpretare gli stimoli ricevuti, permettendo così di comprendere la propria personalità.
La Psicologia Comportamentalista.
di Marta Senatore
Una nuova e sorprendente metodologia d'analisi.
Fin dalla sua nascita la psicologia è stata intesa nel modo errato.La scienza dell'anima era il concetto base su cui si ragionava e da cui si partiva.Intorno all'800 si cominciò ad operare una vera piccola rivoluzione,la psicologia fu iniziata ad essere intesa come una disciplina basata sull'indagine e sull'esperienza e quindi l'intero metodo dello psicologo risultò modificato.Nonostante questa modifica, lo studio aveva come oggetto la mente,quello era il campo su cui giocare e da cui partire. Il comportamentismo rappresenta il capovolgimento più radicale nell’assunzione dell’oggetto di studio della psicologia, nell'istante in cui si comincia a ritenere che oggetto dello studio debba essere non solo il comportamento osservabile ma anche oltre, si propone lo studio attraverso la loro manifestazione concretamente deducibile nei termini di comportamenti emotivi, comportamenti abitudinari, comportamenti d’apprendimento, comportamenti costitutivi della personalità.Il comportamentismo come scuola di psicologia nasce nel nord-America e si diffonde poi in Europa intorno agli anni 50 come conseguenza di una certa “americanizzazione” della cultura europea. La nascita ufficiale coincide con il 1913 anno in cui J.B.Watson pubblica un articolo teorico dal proverbiale titolo “La psicologia così come la vede il comportamentista”, in cui l’autore più che da studioso creatore di una scuola di pensiero opera come una sorta di abile divulgatore di una serie di idee e temi che già da qualche anno portava avanti nei suoi seminari di studio.J.B. Watson rappresenta il caposcuola storico del comportamentismo, ma altri esponenti autorevoli di questo filone sono stati Max Meyer,N.Miller e Tolman.
Il Comportamento
Dai vari autori il comportamento è stato inteso dagli stessi in maniera e con concetti differenti:
Movimento molecolare
Attività nervosa
Movimento molare
Movimento molare con un effetto sull’ambiente;
Comportamento molare diretto verso uno scopo;
Azione umana.
Tutti concordano con il ritenere il comportamento come un aspetto dell’uomo psicologico.Così come ogni altro fenomeno psichico, è determinato, esistono cioè degli antecedenti, dati i quali, il comportamento in questione non poteva non risultare. Se non fosse così infatti la psicologia sarebbe inutile,in grado solo di dare la descrizione, ma non certo la spiegazione. Le leggi psicologiche sono analoghe alle leggi che governano il mondo fisico: l’uomo deve quindi essere concepito come una specie di meccanismo estremamente perfezionato.Motivo di questa idea è ovviamente l’aspirazione ad una fondazione scientifica della psicologia che ne garantisca la capacità di progresso e la costante popolarità di cui godevano le scienze naturali.Nei comportamentisti c’è la chiara necessità di una psicologia che da una parte sia in grado di risolvere i grandi problemi incontrati dall’uomo di fronte alla vita moderna e all’urbanesimo, e dall’altro osserva grande rispetto per alcuni valori tipici della vita moderna,come l’ethos utopistico-democratico, che nega in chiave egualitaristica un ruolo all’eredità e mette in chiara evidenza la modificabilità "in positivo" della personalità umana.Moti psicologi contemporanei hanno compiuto una implicita identificazione fra metodo sperimentale e comportamentismo metodologico.Il comportamentista alla fine della sua analisi si lascia guidare dai risultati della sua ricerca piuttosto che dalle assunzioni filosofiche dei vari capiscuola.
Fin dalla sua nascita la psicologia è stata intesa nel modo errato.La scienza dell'anima era il concetto base su cui si ragionava e da cui si partiva.Intorno all'800 si cominciò ad operare una vera piccola rivoluzione,la psicologia fu iniziata ad essere intesa come una disciplina basata sull'indagine e sull'esperienza e quindi l'intero metodo dello psicologo risultò modificato.Nonostante questa modifica, lo studio aveva come oggetto la mente,quello era il campo su cui giocare e da cui partire. Il comportamentismo rappresenta il capovolgimento più radicale nell’assunzione dell’oggetto di studio della psicologia, nell'istante in cui si comincia a ritenere che oggetto dello studio debba essere non solo il comportamento osservabile ma anche oltre, si propone lo studio attraverso la loro manifestazione concretamente deducibile nei termini di comportamenti emotivi, comportamenti abitudinari, comportamenti d’apprendimento, comportamenti costitutivi della personalità.Il comportamentismo come scuola di psicologia nasce nel nord-America e si diffonde poi in Europa intorno agli anni 50 come conseguenza di una certa “americanizzazione” della cultura europea. La nascita ufficiale coincide con il 1913 anno in cui J.B.Watson pubblica un articolo teorico dal proverbiale titolo “La psicologia così come la vede il comportamentista”, in cui l’autore più che da studioso creatore di una scuola di pensiero opera come una sorta di abile divulgatore di una serie di idee e temi che già da qualche anno portava avanti nei suoi seminari di studio.J.B. Watson rappresenta il caposcuola storico del comportamentismo, ma altri esponenti autorevoli di questo filone sono stati Max Meyer,N.Miller e Tolman.
Il Comportamento
Dai vari autori il comportamento è stato inteso dagli stessi in maniera e con concetti differenti:
Movimento molecolare
Attività nervosa
Movimento molare
Movimento molare con un effetto sull’ambiente;
Comportamento molare diretto verso uno scopo;
Azione umana.
Tutti concordano con il ritenere il comportamento come un aspetto dell’uomo psicologico.Così come ogni altro fenomeno psichico, è determinato, esistono cioè degli antecedenti, dati i quali, il comportamento in questione non poteva non risultare. Se non fosse così infatti la psicologia sarebbe inutile,in grado solo di dare la descrizione, ma non certo la spiegazione. Le leggi psicologiche sono analoghe alle leggi che governano il mondo fisico: l’uomo deve quindi essere concepito come una specie di meccanismo estremamente perfezionato.Motivo di questa idea è ovviamente l’aspirazione ad una fondazione scientifica della psicologia che ne garantisca la capacità di progresso e la costante popolarità di cui godevano le scienze naturali.Nei comportamentisti c’è la chiara necessità di una psicologia che da una parte sia in grado di risolvere i grandi problemi incontrati dall’uomo di fronte alla vita moderna e all’urbanesimo, e dall’altro osserva grande rispetto per alcuni valori tipici della vita moderna,come l’ethos utopistico-democratico, che nega in chiave egualitaristica un ruolo all’eredità e mette in chiara evidenza la modificabilità "in positivo" della personalità umana.Moti psicologi contemporanei hanno compiuto una implicita identificazione fra metodo sperimentale e comportamentismo metodologico.Il comportamentista alla fine della sua analisi si lascia guidare dai risultati della sua ricerca piuttosto che dalle assunzioni filosofiche dei vari capiscuola.
Agoràfobia.Come scoprirla ed eliminarla.
di Marta Senatore
Un misterioso disturbo socio-patico.
Esiste un disturbo psichico di cui abbiamo senz’altro sentito parlare o di cui si abusa l’utilizzo in varie situazioni senza però ben conoscere la reale portata del problema. Parliamo dell’agorafobia. Questo termine di origine greca è composto dalle parole agorà (piazza) e fobia (paura).Ed infatti i primi utilizzi della parola in psicologia e psichiatria erano rivolti verso soggetti che avevano paura di trovarsi in posti affollati. In realtà, i pazienti affetti Agorafobia sono atterriti da situazioni in cui è difficile scappare o ricevere soccorso; di conseguenza, essi sono portati a non frequentare questi luoghi allo scopo chiaro di frenare la loro ansia connessa ad un’eventuale nuova crisi di panico. Nella maggior parte dei casi, l’Agorafobia è disturbo subordinato all’insorgenza di attacchi di panico o crisi d’ansia; si può parlare di patologia quando il soggetto comincia in maniera sistematica ad evitare tutti i luoghi, le situazioni ed i contesti nei quali ci potrebbero essere ostacoli alla possibilità di essere aiutati. Molte sono le situazioni che l’agorafobico tende ad evitare,tra queste : uscire da soli o stare a casa da soli; guidare l’automobile; frequentare luoghi affollati come mercati o concerti; prendere l’autobus o l’aeroplano; rimanere su un ponte o in un ascensore. Quando queste circostanze cominciano ad essere molteplici e a compromettere la vita quotidiana o i rapporti socio-lavorativi della persona allora si parla di Agorafobia.
In alcuni casi la problematica è davvero ardua da individuare poiché l’agorafobico non evita certe situazioni di cui ha paura ma resta incapace di affrontarle senza l’ausilio di una persona di fiducia.
L’Agorafobia può evolversi e svilupparsi all’interno del Disturbo di Panico con Agorafobia o come Agorafobia senza anamnesi di Disturbo di Panico. In questo ultimo caso, le crisi che il paziente subisce sono caratterizzate da sintomi d’ansia tipo panico, ma senza tutte le peculiarità dell’Attacco di Panico vero e proprio. L’Agorafobia possiede una serie di elementi tipici come:
• Ansia legata al trovarsi in luoghi in cui è difficile allontanarsi, fuggire oppure chiedere e ricevere soccorso. • Le situazioni temute vengono evitate o affrontate con molta difficoltà oppure tramite il supporto di un accompagnatore.
• L’ansia e le situazioni evitate limitano il funzionamento socio-lavorativo del soggetto e non derivano da altri tipi di paura o fobie (evitare gli ascensori per un Claustrofobico, evitare le situazioni sociali per il Fobico Sociale, evitare stimoli che ricordino un evento traumatico nel Disturbo Post-Traumatico da stress).
La Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale è come sempre lo strumento adatto alla circostanza; le tecniche di esposizione si sono dimostrate utili nel ridurre i comportamenti che alimentano l’ansia agorafobica. Di recente sono state sperimentate strategie volte ad aumentare la capacità dei soggetti di stare in contatto con l'attivazione ansiosa senza temerne le conseguenze catastrofiche, sviluppando una maggiore accettazione e diminuendo il bisogno di controllo dei sintomi d'ansia.
Esiste un disturbo psichico di cui abbiamo senz’altro sentito parlare o di cui si abusa l’utilizzo in varie situazioni senza però ben conoscere la reale portata del problema. Parliamo dell’agorafobia. Questo termine di origine greca è composto dalle parole agorà (piazza) e fobia (paura).Ed infatti i primi utilizzi della parola in psicologia e psichiatria erano rivolti verso soggetti che avevano paura di trovarsi in posti affollati. In realtà, i pazienti affetti Agorafobia sono atterriti da situazioni in cui è difficile scappare o ricevere soccorso; di conseguenza, essi sono portati a non frequentare questi luoghi allo scopo chiaro di frenare la loro ansia connessa ad un’eventuale nuova crisi di panico. Nella maggior parte dei casi, l’Agorafobia è disturbo subordinato all’insorgenza di attacchi di panico o crisi d’ansia; si può parlare di patologia quando il soggetto comincia in maniera sistematica ad evitare tutti i luoghi, le situazioni ed i contesti nei quali ci potrebbero essere ostacoli alla possibilità di essere aiutati. Molte sono le situazioni che l’agorafobico tende ad evitare,tra queste : uscire da soli o stare a casa da soli; guidare l’automobile; frequentare luoghi affollati come mercati o concerti; prendere l’autobus o l’aeroplano; rimanere su un ponte o in un ascensore. Quando queste circostanze cominciano ad essere molteplici e a compromettere la vita quotidiana o i rapporti socio-lavorativi della persona allora si parla di Agorafobia.
In alcuni casi la problematica è davvero ardua da individuare poiché l’agorafobico non evita certe situazioni di cui ha paura ma resta incapace di affrontarle senza l’ausilio di una persona di fiducia.
L’Agorafobia può evolversi e svilupparsi all’interno del Disturbo di Panico con Agorafobia o come Agorafobia senza anamnesi di Disturbo di Panico. In questo ultimo caso, le crisi che il paziente subisce sono caratterizzate da sintomi d’ansia tipo panico, ma senza tutte le peculiarità dell’Attacco di Panico vero e proprio. L’Agorafobia possiede una serie di elementi tipici come:
• Ansia legata al trovarsi in luoghi in cui è difficile allontanarsi, fuggire oppure chiedere e ricevere soccorso. • Le situazioni temute vengono evitate o affrontate con molta difficoltà oppure tramite il supporto di un accompagnatore.
• L’ansia e le situazioni evitate limitano il funzionamento socio-lavorativo del soggetto e non derivano da altri tipi di paura o fobie (evitare gli ascensori per un Claustrofobico, evitare le situazioni sociali per il Fobico Sociale, evitare stimoli che ricordino un evento traumatico nel Disturbo Post-Traumatico da stress).
La Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale è come sempre lo strumento adatto alla circostanza; le tecniche di esposizione si sono dimostrate utili nel ridurre i comportamenti che alimentano l’ansia agorafobica. Di recente sono state sperimentate strategie volte ad aumentare la capacità dei soggetti di stare in contatto con l'attivazione ansiosa senza temerne le conseguenze catastrofiche, sviluppando una maggiore accettazione e diminuendo il bisogno di controllo dei sintomi d'ansia.
Il disturbo d'ansia generalizzato (D.A.G.)
di Marta Senatore
Un disturbo comune ma da non sottovalutare.
Nella vastissima area dei disturbi della psiche collegati all’ansia quello del disturbo d’ansia generalizzato è certamente uno dei più comuni.Si tratta di uno stato di preoccupazione per diversi eventi, che risulta però essere eccessivo in intensità, durata o frequenza rispetto all’impatto o alla probabilità reali degli eventi temuti dal soggetto. Tale situazione di ansia poi,risulta non connesso a a specifiche circostanze ed è davvero complicato da controllare per chi lo sperimenta;uno stato lungo ed intenso che il soggetto subisce per almeno sei mesi.Le ansie eccessive e oggettivamente esagerate rispetto alle circostanze sono accompagnate da almeno tre dei seguenti sintomi:
Il trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia generalizzato è sicuramente la forma di trattamento migliore ed efficace da sempre,viene utilizzato da protocollo e prevede l’impiego delle seguenti procedure: ricostruzione della storia del disturbo; formulazione dello schema di funzionamento del disturbo; formulazione di un contratto terapeutico; psicoeducazione; individuazione dei pensieri disfunzionali; apprendimento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia; esposizione graduale ai pensieri ed agli stimoli temuti ed evitati. Questo protocollo è utilizzabile sia nella terapia individuale, che in quella di gruppo.
Rispetto alla terapia individuale, quella di gruppo permette ad ogni partecipante di confrontarsi con altre persone affette dal suo stesso disturbo, favorendo in questo modo il ridimensionamento del problema e la riduzione della sensazione soggettiva di “essere malato”.
Nella vastissima area dei disturbi della psiche collegati all’ansia quello del disturbo d’ansia generalizzato è certamente uno dei più comuni.Si tratta di uno stato di preoccupazione per diversi eventi, che risulta però essere eccessivo in intensità, durata o frequenza rispetto all’impatto o alla probabilità reali degli eventi temuti dal soggetto. Tale situazione di ansia poi,risulta non connesso a a specifiche circostanze ed è davvero complicato da controllare per chi lo sperimenta;uno stato lungo ed intenso che il soggetto subisce per almeno sei mesi.Le ansie eccessive e oggettivamente esagerate rispetto alle circostanze sono accompagnate da almeno tre dei seguenti sintomi:
- irrequietezza;
- facile affaticabilità;
- difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria;
- irritabilità;
- sonno disturbato;
- tensione muscolare.
- caratteristiche di personalità (intesa come modo abituale di pensare, reagire e rapportarsi agli altri), sul cui sviluppo incidono sia fattori genetici, che educativi;
- uno stile di pensiero in base al quale gli eventi tendono ad essere interpretati in modo minaccioso (es. sentendo il telefono squillare, immaginare cattive notizie, piuttosto che una piacevole chiacchierata);
- stress associati ad eventi che comportano cambiamenti di vita importanti (es. lutti, cambio di lavoro, di casa o di partner).
Il trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia generalizzato è sicuramente la forma di trattamento migliore ed efficace da sempre,viene utilizzato da protocollo e prevede l’impiego delle seguenti procedure: ricostruzione della storia del disturbo; formulazione dello schema di funzionamento del disturbo; formulazione di un contratto terapeutico; psicoeducazione; individuazione dei pensieri disfunzionali; apprendimento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia; esposizione graduale ai pensieri ed agli stimoli temuti ed evitati. Questo protocollo è utilizzabile sia nella terapia individuale, che in quella di gruppo.
Rispetto alla terapia individuale, quella di gruppo permette ad ogni partecipante di confrontarsi con altre persone affette dal suo stesso disturbo, favorendo in questo modo il ridimensionamento del problema e la riduzione della sensazione soggettiva di “essere malato”.
Il triste dramma della depressione - Parte 2
di Marta Senatore
Come fuoriuscire da un tunnel profondo?
Dopo aver elencato origine,natura e sintomi della depressione andiamo ad analizzare ora la cura o perlomeno gli interventi necessari per combatterla. Lo psicologo spesso può curare efficacemente la depressione. In base alla tipologia di paziente diventano efficaci diverse terapie: ad esempio i gruppi di auto aiuto possono aiutare ad apprendere nuove modalità di intervento o possono dare al soggetto un supporto esterno se questi si trova ad affrontare un cambiamento profondo della vostra vita, ma possono comunque essere utili diverse forme di supporto psicologico.Vi sono metodi che si limitano ad incrementare l’approccio ottimistico all’esistenza: a volte infatti si può cadere in depressione perché si continua a pensare ai fatti tristi della nostra vita e a ciò che si è perso.Per guarire, o anche solo per sentirsi meglio, è necessario del tempo, ma se si accetta l’aiuto degli altri e si opta per la cura giusta,ogni giorno farete un passo verso la guarigione.
I farmaci antidepressivi possono davvero aiutare. Questi farmaci riescono a migliorare
La famiglia e gli amici devono essere presenti e avere un ruolo decisivo durante la terapia. Il parente o l’amico affetto da depressione va seguito ed incoraggiato a non abbandonare la cura prescritta,se necessario anche accompagnato dallo specialista o alle riunioni del gruppo di supporto.
Non abbandoniamo l’amico affetto da depressione,usciamo con lui e facciamo le stesse cose senza far pesare l’esistenza del problema. Incoraggiamo la persona ad essere attiva ed occupata, ma senza essere invadenti o forzare,potrebbe essere controproducente.
Dopo aver elencato origine,natura e sintomi della depressione andiamo ad analizzare ora la cura o perlomeno gli interventi necessari per combatterla. Lo psicologo spesso può curare efficacemente la depressione. In base alla tipologia di paziente diventano efficaci diverse terapie: ad esempio i gruppi di auto aiuto possono aiutare ad apprendere nuove modalità di intervento o possono dare al soggetto un supporto esterno se questi si trova ad affrontare un cambiamento profondo della vostra vita, ma possono comunque essere utili diverse forme di supporto psicologico.Vi sono metodi che si limitano ad incrementare l’approccio ottimistico all’esistenza: a volte infatti si può cadere in depressione perché si continua a pensare ai fatti tristi della nostra vita e a ciò che si è perso.Per guarire, o anche solo per sentirsi meglio, è necessario del tempo, ma se si accetta l’aiuto degli altri e si opta per la cura giusta,ogni giorno farete un passo verso la guarigione.
I farmaci antidepressivi possono davvero aiutare. Questi farmaci riescono a migliorare
- l’umore,
- il sonno,
- l’appetito,
- la concentrazione.
- Il medico deve essere a conoscenza di tutti i farmaci che stiamo assumendo, siano essi con obbligo di ricetta, da banco, integratori vitaminici o erboristici.
- Il medico deve avere conoscenza di tutti gli eventuali problemi fisici di cui si soffre.
- Bisogna sempre assumere gli antidepressivi nella dose giusta e all’orario giusto.
La famiglia e gli amici devono essere presenti e avere un ruolo decisivo durante la terapia. Il parente o l’amico affetto da depressione va seguito ed incoraggiato a non abbandonare la cura prescritta,se necessario anche accompagnato dallo specialista o alle riunioni del gruppo di supporto.
Non abbandoniamo l’amico affetto da depressione,usciamo con lui e facciamo le stesse cose senza far pesare l’esistenza del problema. Incoraggiamo la persona ad essere attiva ed occupata, ma senza essere invadenti o forzare,potrebbe essere controproducente.
Il triste dramma della depressione - Parte 1
di Marta Senatore
La malattia dei tempi moderni.Sintomi e cura.
La depressione e' divenuto negli ultimi decenni un malessere diffuso,la vera grande malattia dei paesi occidentali,una patologia che in modo strisciante si insinua e si autoalimenta fino ad assumere gravi forme col passare del tempo. Si tratta di uno stato psicopatologico caratterizzato da una serie di sintomi particolari ma precisi come: la diminuzione del tono dell'umore, la tristezza, la stanchezza fisica, la malinconia immotivata, la mancanza di vero interesse per la vita.Tutti questi sintomi diventano tali da non permettere alla persona di vivere la propria vita affettiva e sociale in modo sereno ed equilibrato. E' spesso però complicato diagnosticare la depressione poiché i sintomi suddetti possono a vari titolo essere comunque sintomi normalmente esistenti nella vita quotidiana.
Sentimenti come appunto tristezza, insicurezza, stanchezza, noia, l'irascibilita', incapacità di provare piacere, sentimenti di auto-svalutazione ed inadeguatezza, il sentirsi incapaci, possono essere comunque il alcuni casi provati normalmente da ognuno di noi in fasi particolari della nostra vita.Ad esempio il verificarsi di un evento traumatico come un lutto o una separazione o comunque un grosso cambiamento.In questi casi si tratta di sintomi facenti parte della vita. Si parla invece di stato depressivo, quando questi stati d'animo si moltiplicano e divengono costanti,magari senza che apparentemente vi sia una causa, oppure nonostante si conosca la causa, si abbia la sensazione di non poterne uscire.Quello è il momento preciso in cui rivolgersi ad uno specialista competente,altrimenti la strada diventa un’ardua salita.Molto spesso accade infatti che uno stato depressivo venga sottovalutato, considerato normale solo perche' si conosce la causa che l’ha generato; oppure si tende ad aspettare il passare del tempo,nella speranza sperando che 'passi da solo', con il rischio elevato di peggiorare la situazione.
Depressione: diffusione e tipologie
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione colpisce tra il 5 e il 15% delle persone ed e' enormemente diffuso fra le donne.In realtà e' più corretto indicare ed usare la parola "depressioni", in quanto ne esistono di diverse tipologie, non tutte con la medesima forma di gravità, e con svilluppi,decorsi e trattamenti diversi a seconda dei casi.Gli esperi parlano spesso, tra le altre intermedie, forme maggiori e minori di depressione. Nella depressione maggiore, molto frequentemente è complicatissimo individuare la causa o l'evento scatenante, ed è tra le depressioni la forma più intensa e forte.La persona è letteralmente dominata da un profondo senso di impotenza, di vuoto interiore, diventa apatica, ha difficolta' a dormire (o al contrario una voglia di restare sempre a letto), si sente stanca, si muove lentamente e fatica anche a parlare, pensa spesso alla morte e al suicidio, si sente vittima ed ostaggio della vita. Le forme minori sono invece collegabili solitamente a motivazioni interiori della persona, ai conflitti interni che ognuno di noi deve superare per crescere come uomo.Tra i sintomi in questo caso possono possono esserci pessimismo e lamentosita', ansia, autocommiserazione. Continua.
La depressione e' divenuto negli ultimi decenni un malessere diffuso,la vera grande malattia dei paesi occidentali,una patologia che in modo strisciante si insinua e si autoalimenta fino ad assumere gravi forme col passare del tempo. Si tratta di uno stato psicopatologico caratterizzato da una serie di sintomi particolari ma precisi come: la diminuzione del tono dell'umore, la tristezza, la stanchezza fisica, la malinconia immotivata, la mancanza di vero interesse per la vita.Tutti questi sintomi diventano tali da non permettere alla persona di vivere la propria vita affettiva e sociale in modo sereno ed equilibrato. E' spesso però complicato diagnosticare la depressione poiché i sintomi suddetti possono a vari titolo essere comunque sintomi normalmente esistenti nella vita quotidiana.
Sentimenti come appunto tristezza, insicurezza, stanchezza, noia, l'irascibilita', incapacità di provare piacere, sentimenti di auto-svalutazione ed inadeguatezza, il sentirsi incapaci, possono essere comunque il alcuni casi provati normalmente da ognuno di noi in fasi particolari della nostra vita.Ad esempio il verificarsi di un evento traumatico come un lutto o una separazione o comunque un grosso cambiamento.In questi casi si tratta di sintomi facenti parte della vita. Si parla invece di stato depressivo, quando questi stati d'animo si moltiplicano e divengono costanti,magari senza che apparentemente vi sia una causa, oppure nonostante si conosca la causa, si abbia la sensazione di non poterne uscire.Quello è il momento preciso in cui rivolgersi ad uno specialista competente,altrimenti la strada diventa un’ardua salita.Molto spesso accade infatti che uno stato depressivo venga sottovalutato, considerato normale solo perche' si conosce la causa che l’ha generato; oppure si tende ad aspettare il passare del tempo,nella speranza sperando che 'passi da solo', con il rischio elevato di peggiorare la situazione.
Depressione: diffusione e tipologie
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione colpisce tra il 5 e il 15% delle persone ed e' enormemente diffuso fra le donne.In realtà e' più corretto indicare ed usare la parola "depressioni", in quanto ne esistono di diverse tipologie, non tutte con la medesima forma di gravità, e con svilluppi,decorsi e trattamenti diversi a seconda dei casi.Gli esperi parlano spesso, tra le altre intermedie, forme maggiori e minori di depressione. Nella depressione maggiore, molto frequentemente è complicatissimo individuare la causa o l'evento scatenante, ed è tra le depressioni la forma più intensa e forte.La persona è letteralmente dominata da un profondo senso di impotenza, di vuoto interiore, diventa apatica, ha difficolta' a dormire (o al contrario una voglia di restare sempre a letto), si sente stanca, si muove lentamente e fatica anche a parlare, pensa spesso alla morte e al suicidio, si sente vittima ed ostaggio della vita. Le forme minori sono invece collegabili solitamente a motivazioni interiori della persona, ai conflitti interni che ognuno di noi deve superare per crescere come uomo.Tra i sintomi in questo caso possono possono esserci pessimismo e lamentosita', ansia, autocommiserazione. Continua.
Le regole d'oro del buon analista - Parte 2
di Marta Senatore
Dieci regole per essere un corretto psicoterapeuta.
Il percorso iniziato in precedenza ci porta ad elencare altre regole deontologiche e metodologiche necessarie all'attività del corretto analista.Altre cinque regole fondamentali che non dovrebbero mai mancare nell'armamentario dello psicoterapeuta per agevolarne il lavoro e la risoluzione delle problematiche del paziente.Andiamo a verificarle:
5 - Trovare il rimedio attraverso alcuni flash della sua vita
Se ci si abitua ad analizzare bene le risposte e i comportamenti del nostro Paziente e se ci si abitua a scomporli nelle rubriche che li descrivono, diventa più facile scoprire il rimedio.
6 - I sogni
I sogni nel nostro inconscio indicano emozioni scompensate, poichè durante il loro svolgimento la volontà e la moralità sono molto deboli e i sentimenti e le situazioni si indicano attraverso simboli.Solo allorquando i sogni vengono incastrati e saldati ad osservazioni sul Paziente possono essere di fondamentale aiuto.
7 - Quali sensazioni provoca in noi il Paziente?
Durante la seduta analitica lo psicoterapeuta non deve assolutamente mai giudicare il Paziente; anzi, o si rende partecipe del suo stato d’animo in modo da fargli capire che è in grado di capirlo oppure deve fare silenzio dentro di sè e ad osservare la sensazione provocata dalla presenza del Paziente. Se guarda aldilà del suo stato e delle sue reazioni, scoprirà che può riflettere lo stato del Paziente nella sua mente, non intellettualmente, ma grazie alla sua sensibilità: può anche riuscire a provare la sensazione del Paziente, un fenomeno davvero famoso che viene chiamato ‘empatia’ (empatia è la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona con nessuna o scarsa partecipazione emotiva; è diversa quindi da simpatia, che implica sempre questa partecipazione nel soggetto).
8 - Significato dello stato fisico
Il lato fisico e quello mentale sono spesso parti dello stesso stato sottostante. Effettivamente, se osserviamo con attenzione, ci possiamo rendere conto che le differenze tra fisico e mentale tendono a scomparire man mano che approfondiamo la conoscenza globale della persona. Quindi, è buona regola nei casi in cui si voglia confermare lo stato mentale del Paziente,scoprire cosa indica lo stato fisico. Se la persona è ad esempio mite, gentile e tranquilla e vengono trovati caratteristici dolori fisici violenti, acuti e guizzanti,allora bisogna prendere nuovamente in considerazione la nostra valutazione di quello stato mite e arrendevole. Si potrebbe pure compiere una valutazione inversa ed opposta e cioè se nel corpo si nota violenza, agitazione o altre esplosioni acute, anche questi elementi debbono essere usati come sintomi dello stato mentale.
9 - L’idea nei rapporti
Di solito l'uomo stringe rapporti con una persona o un gruppo complementare a lui a livello caratteriale.Complementarità significa che l'altra persona è opposta al suo temperamento e si adatta aderente a lui.Se giungiamo a sapere le caratteristiche di una delle due parti, si possono ottenere tramite deduzioni le caratteristiche mentali. La patologia si sviluppa nell'istante in cui una delle due parti ha un vero bisogno del ruolo che sta svolgendo per potersi sentire bene. Ogni uomo crea un equilibrio in un sistema e dobbiamo scoprire il ruolo che esso svolge in quello specifico equilibrio.
10 - La tecnica migliore
Alla fine di queste indicazioni possiamo trarre un reseconto e in modo schietto è forse giusto affermare che la migliore di queste regole è quella di non usarle in maniera assoluta e diretta,ma piuttosto di osservare e accorgerci cosa avviene spontaneamente nella relazione tra noi e il Paziente. E' indubbio che lo strumento migliore è certamente il silenzio, l’osservazione e non le domande.Il ricorso alle regole suddette deve avvenire solo qualora l'analista imbocchi un vicolo cieco nella sua analisi e non sia in grado di andare oltre.
Il percorso iniziato in precedenza ci porta ad elencare altre regole deontologiche e metodologiche necessarie all'attività del corretto analista.Altre cinque regole fondamentali che non dovrebbero mai mancare nell'armamentario dello psicoterapeuta per agevolarne il lavoro e la risoluzione delle problematiche del paziente.Andiamo a verificarle:
5 - Trovare il rimedio attraverso alcuni flash della sua vita
Se ci si abitua ad analizzare bene le risposte e i comportamenti del nostro Paziente e se ci si abitua a scomporli nelle rubriche che li descrivono, diventa più facile scoprire il rimedio.
6 - I sogni
I sogni nel nostro inconscio indicano emozioni scompensate, poichè durante il loro svolgimento la volontà e la moralità sono molto deboli e i sentimenti e le situazioni si indicano attraverso simboli.Solo allorquando i sogni vengono incastrati e saldati ad osservazioni sul Paziente possono essere di fondamentale aiuto.
7 - Quali sensazioni provoca in noi il Paziente?
Durante la seduta analitica lo psicoterapeuta non deve assolutamente mai giudicare il Paziente; anzi, o si rende partecipe del suo stato d’animo in modo da fargli capire che è in grado di capirlo oppure deve fare silenzio dentro di sè e ad osservare la sensazione provocata dalla presenza del Paziente. Se guarda aldilà del suo stato e delle sue reazioni, scoprirà che può riflettere lo stato del Paziente nella sua mente, non intellettualmente, ma grazie alla sua sensibilità: può anche riuscire a provare la sensazione del Paziente, un fenomeno davvero famoso che viene chiamato ‘empatia’ (empatia è la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona con nessuna o scarsa partecipazione emotiva; è diversa quindi da simpatia, che implica sempre questa partecipazione nel soggetto).
8 - Significato dello stato fisico
Il lato fisico e quello mentale sono spesso parti dello stesso stato sottostante. Effettivamente, se osserviamo con attenzione, ci possiamo rendere conto che le differenze tra fisico e mentale tendono a scomparire man mano che approfondiamo la conoscenza globale della persona. Quindi, è buona regola nei casi in cui si voglia confermare lo stato mentale del Paziente,scoprire cosa indica lo stato fisico. Se la persona è ad esempio mite, gentile e tranquilla e vengono trovati caratteristici dolori fisici violenti, acuti e guizzanti,allora bisogna prendere nuovamente in considerazione la nostra valutazione di quello stato mite e arrendevole. Si potrebbe pure compiere una valutazione inversa ed opposta e cioè se nel corpo si nota violenza, agitazione o altre esplosioni acute, anche questi elementi debbono essere usati come sintomi dello stato mentale.
9 - L’idea nei rapporti
Di solito l'uomo stringe rapporti con una persona o un gruppo complementare a lui a livello caratteriale.Complementarità significa che l'altra persona è opposta al suo temperamento e si adatta aderente a lui.Se giungiamo a sapere le caratteristiche di una delle due parti, si possono ottenere tramite deduzioni le caratteristiche mentali. La patologia si sviluppa nell'istante in cui una delle due parti ha un vero bisogno del ruolo che sta svolgendo per potersi sentire bene. Ogni uomo crea un equilibrio in un sistema e dobbiamo scoprire il ruolo che esso svolge in quello specifico equilibrio.
10 - La tecnica migliore
Alla fine di queste indicazioni possiamo trarre un reseconto e in modo schietto è forse giusto affermare che la migliore di queste regole è quella di non usarle in maniera assoluta e diretta,ma piuttosto di osservare e accorgerci cosa avviene spontaneamente nella relazione tra noi e il Paziente. E' indubbio che lo strumento migliore è certamente il silenzio, l’osservazione e non le domande.Il ricorso alle regole suddette deve avvenire solo qualora l'analista imbocchi un vicolo cieco nella sua analisi e non sia in grado di andare oltre.
Le regole d'oro del buon analista - Parte 1
di Marta Senatore
Ogni analista dovrebbe attenersi a queste semplici regole.
Nell'analisi psicologica di un soggetto con problematiche l'analista,freudiano o junghiano che sia,deve per forza di cose tenere a mente una serie di fattori e semplici regole per una corretta valutazione ed analisi intrinseca delle situazioni.Andiamo a farne un sunto riepilogativo utile a tal fine.
1 - L’informazione spontanea
Ogni analista deve capire che l’informazione più utile e veritiera al suo lungo lavoro è quella che giunge direttamente e spontaneamente dal Paziente stesso che risulta essere molto più affidabile rispetto a quella ottenuta attraverso domande specifiche ma esterne.Il problema a volte però è che il soggetto parla spontaneamente solo se ha un carattere espansivo ed aperto o se è messo nella condizione a lui sufficiente per parlare.
2 - Indagare il ‘cuore’ del Paziente
E’ davvero fondamentale cercare il colloquio con il soggetto con una mente più aperta possibile. A volte all'analista sembra venire in mente un particolare rimedio, ma se serve è necessario abbandonarlo al momento opportuno nel caso risulti futile o inutile.Un vecchia regola analitica afferma che in una buona analisi il soggetto almeno una volta dovrà piangere o ridere.Ovvero il colloquio dovrebbe essere di sufficiente ampiezza e profondità da riuscire a raggiungere il ‘cuore’ del Paziente. Troppo spesso ci si ferma ad una impressione superficiale e ingannevole della personalità del soggetto senza indagare al di là delle risposte immediate che riceviamo. Questo è provocato da pigrizia o da fretta, ma molto spesso è anche dovuto al timore di imbarazzare non il Paziente ma noi stessi o potrebbe dipendere pure da un sentimento di disagio di fronte alla manifestazione di emozioni dolorose.
3 - Sensazioni centrali del Paziente
I sintomi non sono mai espressamente catalogati in libri o manuali e quindi quando vengono raccolti dobbiamo avere subito l’impressione, grazie alla nostra intuizione, di quali debbano essere i pensieri reconditi del Paziente.Se un soggetto afferma: “Dottore, perché non presta sufficiente attenzione al mio caso? Che cosa ho fatto?”. Qui si possono comprendere alla base evidente litigiosità e rammarico, ma qual è la sensazione sottostante? La sensazione è che non si sente apprezzata dagli altri; c’è la sensazione di essere trascurata e c’è un sentimento di gelosia.
4 - L’essenza del quadro mentale
Dal punto di vista psicologico esistono 4 forme atipiche per ciascun rimedio che possono ingannare l'analista. In questi casi, l’essenza della personalità, se può essere colta, può essere più utile rispetto ai dati particolari. L’essenza è un argomento decisiovo che si riscontra in ogni aspetto della personalità, così come avviene, ad esempio, per l’insicurezza fisica.Queste tipologie sono:
- ‘Diffidente, sospettoso’
- ‘Inquietudine, ansiosa’
- ‘Ansia per la salute
- ‘Paura di morire
Un solo aspetto mentale, strano, raro o peculiare può rivelarci la soluzione corretta al problema. - continua
Nell'analisi psicologica di un soggetto con problematiche l'analista,freudiano o junghiano che sia,deve per forza di cose tenere a mente una serie di fattori e semplici regole per una corretta valutazione ed analisi intrinseca delle situazioni.Andiamo a farne un sunto riepilogativo utile a tal fine.
1 - L’informazione spontanea
Ogni analista deve capire che l’informazione più utile e veritiera al suo lungo lavoro è quella che giunge direttamente e spontaneamente dal Paziente stesso che risulta essere molto più affidabile rispetto a quella ottenuta attraverso domande specifiche ma esterne.Il problema a volte però è che il soggetto parla spontaneamente solo se ha un carattere espansivo ed aperto o se è messo nella condizione a lui sufficiente per parlare.
2 - Indagare il ‘cuore’ del Paziente
E’ davvero fondamentale cercare il colloquio con il soggetto con una mente più aperta possibile. A volte all'analista sembra venire in mente un particolare rimedio, ma se serve è necessario abbandonarlo al momento opportuno nel caso risulti futile o inutile.Un vecchia regola analitica afferma che in una buona analisi il soggetto almeno una volta dovrà piangere o ridere.Ovvero il colloquio dovrebbe essere di sufficiente ampiezza e profondità da riuscire a raggiungere il ‘cuore’ del Paziente. Troppo spesso ci si ferma ad una impressione superficiale e ingannevole della personalità del soggetto senza indagare al di là delle risposte immediate che riceviamo. Questo è provocato da pigrizia o da fretta, ma molto spesso è anche dovuto al timore di imbarazzare non il Paziente ma noi stessi o potrebbe dipendere pure da un sentimento di disagio di fronte alla manifestazione di emozioni dolorose.
3 - Sensazioni centrali del Paziente
I sintomi non sono mai espressamente catalogati in libri o manuali e quindi quando vengono raccolti dobbiamo avere subito l’impressione, grazie alla nostra intuizione, di quali debbano essere i pensieri reconditi del Paziente.Se un soggetto afferma: “Dottore, perché non presta sufficiente attenzione al mio caso? Che cosa ho fatto?”. Qui si possono comprendere alla base evidente litigiosità e rammarico, ma qual è la sensazione sottostante? La sensazione è che non si sente apprezzata dagli altri; c’è la sensazione di essere trascurata e c’è un sentimento di gelosia.
4 - L’essenza del quadro mentale
Dal punto di vista psicologico esistono 4 forme atipiche per ciascun rimedio che possono ingannare l'analista. In questi casi, l’essenza della personalità, se può essere colta, può essere più utile rispetto ai dati particolari. L’essenza è un argomento decisiovo che si riscontra in ogni aspetto della personalità, così come avviene, ad esempio, per l’insicurezza fisica.Queste tipologie sono:
- ‘Diffidente, sospettoso’
- ‘Inquietudine, ansiosa’
- ‘Ansia per la salute
- ‘Paura di morire
Un solo aspetto mentale, strano, raro o peculiare può rivelarci la soluzione corretta al problema. - continua
Borderline.Il caso più diffuso e pericoloso.
di Marta Senatore
Sintomi,caratteristiche e cura di un disturbo psichico complesso e inquietante.
Nell'ampia e complessa sfera dei Disturbi della Personalità un posto di particolare risalto è riservato al Disturbo Borderline,un disturbo caratterizzato da instabilità nelle relazioni interpersonali, da incoerenza nell’immagine di sé e nelle relazioni affettive, e da un grande tasso di impulsività.Le recenti medie ricavate da sondaggi medici riportano che il 2% della popolazione, il 10% dei pazienti in psicoterapia e il 20% dei pazienti ricoverati sono affetti da Disturbo Borderline di Personalità.Una percentuale altissima che sfiora il 40 % dei pazienti con Disturbi della Personalità è affetta da Disturbo Borderline: da questo si può capire che ci troviamo dinanzi al Disturbo di Personalità maggiormente diffuso e forse anche il più grave da curare.La storia di questi particolari disturbi in psichiatria è piuttosto recente: il termine “Borderline” è nato nei primi del novecento (Huges, 1903;) per indicare la patologia che riguardava alcuni pazienti la cui malattia non era classificabile né come nevrosi né come psicosi (i disturbi mentali più gravi, come la schizofrenia), nonostante spesso vi fossero sintomi comuni ad entrambe le condizioni.Il termine usato,cioè Borderline, significa “limite” o “linea di confine”, e indica la caratteristica principale di questo disturbo: una persona che cammina su una linea di confine può capitare che tenderà a sconfinare in due differenti territori, così la persona affetto da Disturbo Borderline varia tra normalità e follia senza vie di mezzo.
Importanti studi nel 1990 partendo da criteri diagnostici descrittivi riuscirono a delineare i seguenti tratti distintivi del disturbo borderline: tendenza a non avere uno stabile contatto con la realtà; autolesioni (tagli, bruciature); tentativi di suicidio;terrore di essere abbandonati; profondo bisogno e ricerca dell'altro alternato ad attegiamenti apparentemente arroganti e sprezzanti.I pazienti Borderline frequentemente passano da periodi di relativa normalità, in cui sembrano anche sufficientemente equilibrati, a periodi in cui il quadro psichico appare fortemente compromesso, con crisi di rabbia e violenza, tentativi di suicidio, è forte paranoia.Ad oggi la cura più efficace per questa patologia è una metodologia sorta negli USA e diffusa nel mondo detta Terapia Dialettico Comportamentale ed è l’unica forma di psicoterapia elaborata specificamente per il Disturbo Borderline che abbia dimostrato la propria efficacia grazie a diversi studi internazionali indipendenti.Questa terapia parte da un approccio terapeutico che fonde tecniche classiche della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, e metodi mediati da forme di meditazione orientale.Questa terapia si basa sul concetto per cui il paziente Borderline avrebbe sviluppato una vera vulnerabilità biologica riguardante gli stati emotivi, nei termini di una bassa soglia di stimolazione (intensa reattività, ad es. reagire con rabbia intensa ad uno stimolo poco rilevante per la maggioranza delle persone), ed una forte incapacità a fare ritorno al tono emotivo di base ,una volta scatenata la rabbia.
I comportamenti impulsivi o autolesivi del paziente Borderline quasi sempre vengono posti in essere per "disattivare" stati di attivazione emotiva intensi e dolorosi.La Terapia Dialettico Comportamentale si svilpuppa da una doppia strutturazione del trattamento, individuale e di gruppo: nel trattamento individuale si scava nel vissuto del paziente Borderline, si impongono ad egli dei "compiti" da eseguire durante la settimana, e si decide poi di modificare quelli precedentemente assegnati.L'analista individuale, a differenza della maggior parte delle psicoterapie, può offrire anche supporto telefonico al paziente per le emergenze ; nel trattamento di gruppo vengono insegnate metodi e sistemi (detti skills training) dando la possibilità al paziente di adattarsi in maniera autonoma alle svariate situazioni problematiche della vita comune.Lo scopo è insegnare a controllare in maniera autonoma le emozioni, i pensieri, le relazioni interpersonali e gli stati di intensa sofferenza che potrebbero manifestarsi.
Nell'ampia e complessa sfera dei Disturbi della Personalità un posto di particolare risalto è riservato al Disturbo Borderline,un disturbo caratterizzato da instabilità nelle relazioni interpersonali, da incoerenza nell’immagine di sé e nelle relazioni affettive, e da un grande tasso di impulsività.Le recenti medie ricavate da sondaggi medici riportano che il 2% della popolazione, il 10% dei pazienti in psicoterapia e il 20% dei pazienti ricoverati sono affetti da Disturbo Borderline di Personalità.Una percentuale altissima che sfiora il 40 % dei pazienti con Disturbi della Personalità è affetta da Disturbo Borderline: da questo si può capire che ci troviamo dinanzi al Disturbo di Personalità maggiormente diffuso e forse anche il più grave da curare.La storia di questi particolari disturbi in psichiatria è piuttosto recente: il termine “Borderline” è nato nei primi del novecento (Huges, 1903;) per indicare la patologia che riguardava alcuni pazienti la cui malattia non era classificabile né come nevrosi né come psicosi (i disturbi mentali più gravi, come la schizofrenia), nonostante spesso vi fossero sintomi comuni ad entrambe le condizioni.Il termine usato,cioè Borderline, significa “limite” o “linea di confine”, e indica la caratteristica principale di questo disturbo: una persona che cammina su una linea di confine può capitare che tenderà a sconfinare in due differenti territori, così la persona affetto da Disturbo Borderline varia tra normalità e follia senza vie di mezzo.
Importanti studi nel 1990 partendo da criteri diagnostici descrittivi riuscirono a delineare i seguenti tratti distintivi del disturbo borderline: tendenza a non avere uno stabile contatto con la realtà; autolesioni (tagli, bruciature); tentativi di suicidio;terrore di essere abbandonati; profondo bisogno e ricerca dell'altro alternato ad attegiamenti apparentemente arroganti e sprezzanti.I pazienti Borderline frequentemente passano da periodi di relativa normalità, in cui sembrano anche sufficientemente equilibrati, a periodi in cui il quadro psichico appare fortemente compromesso, con crisi di rabbia e violenza, tentativi di suicidio, è forte paranoia.Ad oggi la cura più efficace per questa patologia è una metodologia sorta negli USA e diffusa nel mondo detta Terapia Dialettico Comportamentale ed è l’unica forma di psicoterapia elaborata specificamente per il Disturbo Borderline che abbia dimostrato la propria efficacia grazie a diversi studi internazionali indipendenti.Questa terapia parte da un approccio terapeutico che fonde tecniche classiche della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, e metodi mediati da forme di meditazione orientale.Questa terapia si basa sul concetto per cui il paziente Borderline avrebbe sviluppato una vera vulnerabilità biologica riguardante gli stati emotivi, nei termini di una bassa soglia di stimolazione (intensa reattività, ad es. reagire con rabbia intensa ad uno stimolo poco rilevante per la maggioranza delle persone), ed una forte incapacità a fare ritorno al tono emotivo di base ,una volta scatenata la rabbia.
I comportamenti impulsivi o autolesivi del paziente Borderline quasi sempre vengono posti in essere per "disattivare" stati di attivazione emotiva intensi e dolorosi.La Terapia Dialettico Comportamentale si svilpuppa da una doppia strutturazione del trattamento, individuale e di gruppo: nel trattamento individuale si scava nel vissuto del paziente Borderline, si impongono ad egli dei "compiti" da eseguire durante la settimana, e si decide poi di modificare quelli precedentemente assegnati.L'analista individuale, a differenza della maggior parte delle psicoterapie, può offrire anche supporto telefonico al paziente per le emergenze ; nel trattamento di gruppo vengono insegnate metodi e sistemi (detti skills training) dando la possibilità al paziente di adattarsi in maniera autonoma alle svariate situazioni problematiche della vita comune.Lo scopo è insegnare a controllare in maniera autonoma le emozioni, i pensieri, le relazioni interpersonali e gli stati di intensa sofferenza che potrebbero manifestarsi.
Il misterioso fenomeno dei disturbi d'ansia.
di Marta Senatore
Un problema serio che va affrontato sul nascere.
Una categoria molto diffusa e studiata dalla psicologia sono i problemi e i disturbi connessi all'ansia,ad un elevato livello di infelice sentimento di paura e apprensione. Nell'800,quando la scienza di settore era ancora arcaica ed arretrata questi disturbi venivano generalizzati e definiti semplicemente nevrosi, seguendo un concetto base dello stesso Freud.Ma oggi invece è molto più corretto parlare di disturbi soggettivi mossi dall'ansia,4 categorie precise per cui non esistono sintomi preventivabili.Analizziamoli.
1. FOBIE: si tratta di una notevole ed incontrollata paura verso un oggetto od una situazione.Implica una grande sofferenza mentale e fisica da parte del soggetto ed una interruzione del suo funzionamento normale e sereno.E' possibile discernere tra fobie specifiche, suddivise secondo la sorgente della fobia, che può variare tra individui e culture, e fobia sociale, una duratura ed irrazionale paura delle persone e delle occasioni sociali.Gli psicoanalisti spesso evidenziano il contenuto della fobia, che rappresenterebbe una auto-difesa prodotta da ansie create dalla repressione degli impulsi. Sarà allora l'analista, attraverso le libere associazioni, ad indagare la storia del soggetto e scoprire il conflitto celato nel suo Io.La corrente degli studiosi behavioristi sposta il focus sulla funzione della fobia: si inizia pensando che ogni paura sia appresa, o attraverso un condizionamento o attraverso un apprendimento. Si dovrà quindi usare,per la soluzione del disturbo,una desensibilizzazione sistematica o l'apprendimento di nuove capacità di rilassarsi.Diverso è il pensiero dei cognitivisti i quali prestano maggior attenzione alla valutazione degli eventi da parte del soggetto e di riflesso alle sue risposte. Cercano quindi di eliminare le convinzioni irrazionali che vi sono nella mente della persona.Altri modelli, a proposito delle fobie sociali, badano alla mancanza in questi individui di abilità sociali.
2. DAP (DISTURBO DA ATTACCHI DI PANICO): sono disturbi che si manifestano improvvisi e con inspiegabili attacchi di estrema paura e disagio, a volte accompagnati da depersonalizzazione (sensazione di uscire dal corpo, dell'irrealtà del mondo) e derealizzazione (paura di perdere il controllo); si sviluppano a volte in pochi minuti ma possono essere frequenti e collegati a situazioni specifiche.I DAP possono essere con o senza agorafobia, ma spesso sono collegati. Nel cervello si nota un' iperattività del sistema noradrenergico oltre che iperventilazione e notevole tachicardia. Spesso è la cosiddetta paura della paura che genera l'attacco stesso di DAP.
3. DAG (DISORDINE DA ANSIA GENERALIZZATO): altro disturbo diagnosticato,si tratta di ansia persistente, anche collegata a piccole cose, è causata da eventi stressanti o a dolori fisici, nonché alle turbe dell'umore.Una parte della psicanalisi cercava la soluzione nella repressione degli impulsi ,ma è un errore,meglio mettereil focus sull sulla percezione degli stimoli, sul controllo che il soggetto sente di avere sugli eventi.Esistono anche ricerche sui geni ed interessanti risultati che riferiscono di un forte legame tra il DAG e il GABA, un neurotrasmettitore del cervello.
4. DOC (DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO): si tratta di un disturbo in cui la mente è letteralmente satura e avvolta da pensieri persistenti ed ingovernabili per controllare i quali (o per controllare ipotetiche irreali conseguenze) il soggetto spesso compie azioni ripetitive,irrazionali, che interferiscono con la sua vita. Fra gli uomini, molto comune è il DOC legato al controllo e all'ordine, tra le donne, diffusissimo è quello legato alla pulizia,del corpo o della casa. Clinicamente, la forma di ossessione più diffusa riguarda la paura della contaminazione. La persona comunque è cosciente della stranezza del suo gesto ma risulta incapace nel porvi fine.
Una categoria molto diffusa e studiata dalla psicologia sono i problemi e i disturbi connessi all'ansia,ad un elevato livello di infelice sentimento di paura e apprensione. Nell'800,quando la scienza di settore era ancora arcaica ed arretrata questi disturbi venivano generalizzati e definiti semplicemente nevrosi, seguendo un concetto base dello stesso Freud.Ma oggi invece è molto più corretto parlare di disturbi soggettivi mossi dall'ansia,4 categorie precise per cui non esistono sintomi preventivabili.Analizziamoli.
1. FOBIE: si tratta di una notevole ed incontrollata paura verso un oggetto od una situazione.Implica una grande sofferenza mentale e fisica da parte del soggetto ed una interruzione del suo funzionamento normale e sereno.E' possibile discernere tra fobie specifiche, suddivise secondo la sorgente della fobia, che può variare tra individui e culture, e fobia sociale, una duratura ed irrazionale paura delle persone e delle occasioni sociali.Gli psicoanalisti spesso evidenziano il contenuto della fobia, che rappresenterebbe una auto-difesa prodotta da ansie create dalla repressione degli impulsi. Sarà allora l'analista, attraverso le libere associazioni, ad indagare la storia del soggetto e scoprire il conflitto celato nel suo Io.La corrente degli studiosi behavioristi sposta il focus sulla funzione della fobia: si inizia pensando che ogni paura sia appresa, o attraverso un condizionamento o attraverso un apprendimento. Si dovrà quindi usare,per la soluzione del disturbo,una desensibilizzazione sistematica o l'apprendimento di nuove capacità di rilassarsi.Diverso è il pensiero dei cognitivisti i quali prestano maggior attenzione alla valutazione degli eventi da parte del soggetto e di riflesso alle sue risposte. Cercano quindi di eliminare le convinzioni irrazionali che vi sono nella mente della persona.Altri modelli, a proposito delle fobie sociali, badano alla mancanza in questi individui di abilità sociali.
2. DAP (DISTURBO DA ATTACCHI DI PANICO): sono disturbi che si manifestano improvvisi e con inspiegabili attacchi di estrema paura e disagio, a volte accompagnati da depersonalizzazione (sensazione di uscire dal corpo, dell'irrealtà del mondo) e derealizzazione (paura di perdere il controllo); si sviluppano a volte in pochi minuti ma possono essere frequenti e collegati a situazioni specifiche.I DAP possono essere con o senza agorafobia, ma spesso sono collegati. Nel cervello si nota un' iperattività del sistema noradrenergico oltre che iperventilazione e notevole tachicardia. Spesso è la cosiddetta paura della paura che genera l'attacco stesso di DAP.
3. DAG (DISORDINE DA ANSIA GENERALIZZATO): altro disturbo diagnosticato,si tratta di ansia persistente, anche collegata a piccole cose, è causata da eventi stressanti o a dolori fisici, nonché alle turbe dell'umore.Una parte della psicanalisi cercava la soluzione nella repressione degli impulsi ,ma è un errore,meglio mettereil focus sull sulla percezione degli stimoli, sul controllo che il soggetto sente di avere sugli eventi.Esistono anche ricerche sui geni ed interessanti risultati che riferiscono di un forte legame tra il DAG e il GABA, un neurotrasmettitore del cervello.
4. DOC (DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO): si tratta di un disturbo in cui la mente è letteralmente satura e avvolta da pensieri persistenti ed ingovernabili per controllare i quali (o per controllare ipotetiche irreali conseguenze) il soggetto spesso compie azioni ripetitive,irrazionali, che interferiscono con la sua vita. Fra gli uomini, molto comune è il DOC legato al controllo e all'ordine, tra le donne, diffusissimo è quello legato alla pulizia,del corpo o della casa. Clinicamente, la forma di ossessione più diffusa riguarda la paura della contaminazione. La persona comunque è cosciente della stranezza del suo gesto ma risulta incapace nel porvi fine.
Il Cutting.Una Sindrome da auto-lesionismo.
di Marta Senatore
Entriamo in un fenomeno inquietante ma molto diffuso.
Nelle patologie psichiche un fenomeno davvero particolare ed interessante è quello del cutting,ovvero la mania,il disturbo psichico che si manifesta attraverso l'autolesionismo;si stratta di un comportamento che rientra nel cosidetto acting out, ed è una pratica davvero in costante crescita negli ultimi decenni soprattutto fra gli adolescenti.Con il cutting o autolesionismo, il soggetto si procura tagli coscientemente alla propria persona,ferendosi sia fisicamente che mentalmente.Questo distrubo psichico viene di solito catalogato nell'ampia famiglia delle DSM e nello specifico nella categoria dei disturbi del controllo degli impulsi non altrimenti classificati,a patto di possedere i seguenti requisiti,ovvero:
1. Incapacità a resistere ad un impulso
2. Tensione crescente che precede il passaggio all'atto
3. Gratificazione e/o sollievo che segue l'atto.
Nell'atto di chi compie un gesto autolesionista,il taglio della propria pelle è una vera azione di rivendicazione della sua esistenza,della sua vita.Il gesto in se secondo molti esperti è sintetizzabile in un vero gesto di auto-aiuto che il soggetto si da per andare avanti nelle sue problematiche.Certamente un aiuto estremo perche di certo è estrema la situazione in cui versa il cutter.Un vera alienazione completa non solo dagli altri e dal contesto in cui vive ma addirittura dal suo stesso fisico,dalla sua stessa persona.Spesso durante l'adolescenza si manifesta poi anche il desiderio di mettersi alla prova,di sfidare se stessi e ribellarsi al dolore e al conformismo,anche queste sono molle che posso far scattare il cutting.Ma al centro di tutto comunque c'è sempre un fattore di comunicazione funzionale.Gli esperti tendono a distinguere però le modalità di comportamento,in particolare l'azione dell'adolescente che segue fragilità narcisistiche e di autoaffermazione dalle situazioni che invece nascondono patologie gravi e profonde, caratterizzate dalla volontà di farsi intenzionalmente del male quali l’autolesionismo.
Lo studioso americano LeBron parla spesso di cronicizzazione dei comportamenti aggressivi etero-diretti e spiega come spesso è anche possibile riuscire a isolare e determinare modalità di aggressività auto-diretta che si hanno già nei primi anni di sviluppo della persona fino a tramutarsi poi in un disturbo conclamato definito Sindrome da Autolesionismo Ripetitivo.Tali condotte si esprimono con modalità più violente e ripetitive e i sintomi si aggravano nel tempo.Questi comportamenti col passare del tempo diventano sempre più gravi e violenti tanto da richiedere poi un intervento terapeutico e a volte l'autolesionismo si accompagna ad altre forme di disturbo come anoressia,depressione e disturbi della personalità. Per autolesionismo intenzionale oggi si intende l'azione di provocare danni o lesioni al proprio corpo con intenzionalità, ripetitività, ma con totale mancanza di desiderio di suicidio.Esso è incompatibile,patologicamente,con forme di autismo o ritardo mentale grave,in questi casi non si deve parlare di cutting.
Il cutter non riesce a gestire il suo impulso profondo nè il forte aumento della tensione che lo coinvolge prime dell'azione di autolesionismo e riceve una forte sensazione di sollievo dal taglio compiuto sulla pelle.Spesso il gesto è puro rituale.L'auto-lesionismo intenzionale secondo molti ha origine in adolescenza (12-17 anni). Le modalità autolesive maggiormente diffuse sono il tagliarsi (cutting), il bruciarsi (burning) o marchiare a fuoco la pelle,le scarificazioni, l’interferire con il processo di cicatrizzazione delle ferite, mordersi, inserirsi oggetti sotto la pelle e sotto le unghie (branding).Le pratiche sono molteplici e dai vari gradi di dolore a seconda degli impulsi da soddisfare.Il corpo,in questi casi specifici diventa un modo di espressione della sofferenza psichica oppure il mezzo con cui comunicare i propri bisogni e i propri conflitti evolutivi a gli altri.
Nelle patologie psichiche un fenomeno davvero particolare ed interessante è quello del cutting,ovvero la mania,il disturbo psichico che si manifesta attraverso l'autolesionismo;si stratta di un comportamento che rientra nel cosidetto acting out, ed è una pratica davvero in costante crescita negli ultimi decenni soprattutto fra gli adolescenti.Con il cutting o autolesionismo, il soggetto si procura tagli coscientemente alla propria persona,ferendosi sia fisicamente che mentalmente.Questo distrubo psichico viene di solito catalogato nell'ampia famiglia delle DSM e nello specifico nella categoria dei disturbi del controllo degli impulsi non altrimenti classificati,a patto di possedere i seguenti requisiti,ovvero:
1. Incapacità a resistere ad un impulso
2. Tensione crescente che precede il passaggio all'atto
3. Gratificazione e/o sollievo che segue l'atto.
Nell'atto di chi compie un gesto autolesionista,il taglio della propria pelle è una vera azione di rivendicazione della sua esistenza,della sua vita.Il gesto in se secondo molti esperti è sintetizzabile in un vero gesto di auto-aiuto che il soggetto si da per andare avanti nelle sue problematiche.Certamente un aiuto estremo perche di certo è estrema la situazione in cui versa il cutter.Un vera alienazione completa non solo dagli altri e dal contesto in cui vive ma addirittura dal suo stesso fisico,dalla sua stessa persona.Spesso durante l'adolescenza si manifesta poi anche il desiderio di mettersi alla prova,di sfidare se stessi e ribellarsi al dolore e al conformismo,anche queste sono molle che posso far scattare il cutting.Ma al centro di tutto comunque c'è sempre un fattore di comunicazione funzionale.Gli esperti tendono a distinguere però le modalità di comportamento,in particolare l'azione dell'adolescente che segue fragilità narcisistiche e di autoaffermazione dalle situazioni che invece nascondono patologie gravi e profonde, caratterizzate dalla volontà di farsi intenzionalmente del male quali l’autolesionismo.
Lo studioso americano LeBron parla spesso di cronicizzazione dei comportamenti aggressivi etero-diretti e spiega come spesso è anche possibile riuscire a isolare e determinare modalità di aggressività auto-diretta che si hanno già nei primi anni di sviluppo della persona fino a tramutarsi poi in un disturbo conclamato definito Sindrome da Autolesionismo Ripetitivo.Tali condotte si esprimono con modalità più violente e ripetitive e i sintomi si aggravano nel tempo.Questi comportamenti col passare del tempo diventano sempre più gravi e violenti tanto da richiedere poi un intervento terapeutico e a volte l'autolesionismo si accompagna ad altre forme di disturbo come anoressia,depressione e disturbi della personalità. Per autolesionismo intenzionale oggi si intende l'azione di provocare danni o lesioni al proprio corpo con intenzionalità, ripetitività, ma con totale mancanza di desiderio di suicidio.Esso è incompatibile,patologicamente,con forme di autismo o ritardo mentale grave,in questi casi non si deve parlare di cutting.
Il cutter non riesce a gestire il suo impulso profondo nè il forte aumento della tensione che lo coinvolge prime dell'azione di autolesionismo e riceve una forte sensazione di sollievo dal taglio compiuto sulla pelle.Spesso il gesto è puro rituale.L'auto-lesionismo intenzionale secondo molti ha origine in adolescenza (12-17 anni). Le modalità autolesive maggiormente diffuse sono il tagliarsi (cutting), il bruciarsi (burning) o marchiare a fuoco la pelle,le scarificazioni, l’interferire con il processo di cicatrizzazione delle ferite, mordersi, inserirsi oggetti sotto la pelle e sotto le unghie (branding).Le pratiche sono molteplici e dai vari gradi di dolore a seconda degli impulsi da soddisfare.Il corpo,in questi casi specifici diventa un modo di espressione della sofferenza psichica oppure il mezzo con cui comunicare i propri bisogni e i propri conflitti evolutivi a gli altri.
Perchè ci attrae spesso l'uomo impegnato?
di Marta Senatore
Spesso l'uomo già occupato ci attira di più.Come mai?
La moderna psicologia sottolinea spesso che l'attrazione verso una persona ha le sue radici profonde nel desiderio sessuale, nella soddisfazione istintuale di quello specifico desiderio. Innamorarsi significa anche avere una sorta di voglia di possesso ed esclusività dell'amato. Ma come mai a volte una donna si sente spinta a mettere in secondo piano questo desiderio di esclusività e a cercare l'amore di un uomo impegnato? Noi amiamo nella stessa maniera in cui abbiamo abbiamo imparato a farlo nella nostra infanzia e vogliamo parimenti essere amate in egual maniera con le nostre esperienze infantili. Qualora abbiamo vissuto un’infanzia dove le figure genitoriali non sono state interiorizzate in modo affettuoso ed empatico, nella vita adulta la nostra ricerca nella relazione d’amore dovrà fare i conti con i nostri fantasmi interiori e perciò finirà con lo spingerci verso situazioni difficili se non addirittura impossibili. Per questi suddetti motivi accade ad esempio di innamorarci del ragazzo della migliore amica, del collega sposato, o della persona che non ricambia i nostri sentimenti. Desiderare solo uomini impegnati può paradossalmente significare di non volere realmente quella relazione o addirittura di non desiderarlo nemmeno nel profondo.
In questo modo ci difendiamo dalla sofferenza per un’eventuale separazione con l'oggetto d'amore, si cerca quindi di non vivere ancora la ferita di non essere stati amati sufficientemente o magari abbandonati. Il ragionamento è: non provo dolore perché non sei mai stato solo ed esclusivamente mio. La donna che si sente attratta dall'uomo già impegnato lo conosce davvero? Si lascia travolgere realmente dal desiderio e dal sogno d’amore oppure cerca solo di riempire i vuoti della sua identità? Nel rapporto amoroso a triangolo, l'amante è costretta a vivere da clandestina, è convinta di vivere solo le componenti più belle dell’amato,ma nella realtà è felice solo parzialmente e, forse, non conosce nemmeno profondamente la persona che ama. E' molto più complicato ma completo amarsi condividendo la quotidianità, con i problemi reali, che farlo poche volte e di nascosto. Può all’inizio anche sembrare eccitante, forse si, ma qualcosa ben presto sentiremo che manca.
Oppure spesso accade che l’uomo impegnato che noi desideriamo,non lo desideriamo che ciò che davvero è nella realtà ma per ciò che noi vogliamo che egli sia e rappresenti. Una sorta di proiezione del nostro inconscio che cerchiamo di modellare in base alla nostra interiorità e ai nostri nascosti bisogni. E infatti molto frequente che nel caso in cui l'uomo sposato accenna o ipotizza una separazione dalla moglie e si trasforma quindi in concreta e realistica relazione, la donna tende a spaventarsi e a fuggire. Nell'amore impossibile, i veri e propri fantasmi edipici si amplificano e crescono attraverso le relazioni triangolari: lui, lei e l'altro (l'ostacolo), si ama colui che non si può avere come ad esempio nell'infanzia, inconsciamente, si amava il genitore del sesso opposto, che si desiderava ma non si poteva avere. L'amante vive più o meno inconsciamente la sfida con l'altra donna ed alimenta false illusioni circa una vita futura insieme all'uomo, in più sembra esistere l’ingenua convinzione di avere un potere su di lui. Pura illusione. Nella maggior parte dei casi non è affatto così,anzi a volte il ruolo dell'amante può tramutarsi in una specie di valvola di sfogo per lamentele, insoddisfazioni e sfoghi del partner riguardo alla sua donna ufficiale. In questo modo il fallimento del nostro desiderio e amore impossibile diventa totale.
La moderna psicologia sottolinea spesso che l'attrazione verso una persona ha le sue radici profonde nel desiderio sessuale, nella soddisfazione istintuale di quello specifico desiderio. Innamorarsi significa anche avere una sorta di voglia di possesso ed esclusività dell'amato. Ma come mai a volte una donna si sente spinta a mettere in secondo piano questo desiderio di esclusività e a cercare l'amore di un uomo impegnato? Noi amiamo nella stessa maniera in cui abbiamo abbiamo imparato a farlo nella nostra infanzia e vogliamo parimenti essere amate in egual maniera con le nostre esperienze infantili. Qualora abbiamo vissuto un’infanzia dove le figure genitoriali non sono state interiorizzate in modo affettuoso ed empatico, nella vita adulta la nostra ricerca nella relazione d’amore dovrà fare i conti con i nostri fantasmi interiori e perciò finirà con lo spingerci verso situazioni difficili se non addirittura impossibili. Per questi suddetti motivi accade ad esempio di innamorarci del ragazzo della migliore amica, del collega sposato, o della persona che non ricambia i nostri sentimenti. Desiderare solo uomini impegnati può paradossalmente significare di non volere realmente quella relazione o addirittura di non desiderarlo nemmeno nel profondo.
In questo modo ci difendiamo dalla sofferenza per un’eventuale separazione con l'oggetto d'amore, si cerca quindi di non vivere ancora la ferita di non essere stati amati sufficientemente o magari abbandonati. Il ragionamento è: non provo dolore perché non sei mai stato solo ed esclusivamente mio. La donna che si sente attratta dall'uomo già impegnato lo conosce davvero? Si lascia travolgere realmente dal desiderio e dal sogno d’amore oppure cerca solo di riempire i vuoti della sua identità? Nel rapporto amoroso a triangolo, l'amante è costretta a vivere da clandestina, è convinta di vivere solo le componenti più belle dell’amato,ma nella realtà è felice solo parzialmente e, forse, non conosce nemmeno profondamente la persona che ama. E' molto più complicato ma completo amarsi condividendo la quotidianità, con i problemi reali, che farlo poche volte e di nascosto. Può all’inizio anche sembrare eccitante, forse si, ma qualcosa ben presto sentiremo che manca.
Oppure spesso accade che l’uomo impegnato che noi desideriamo,non lo desideriamo che ciò che davvero è nella realtà ma per ciò che noi vogliamo che egli sia e rappresenti. Una sorta di proiezione del nostro inconscio che cerchiamo di modellare in base alla nostra interiorità e ai nostri nascosti bisogni. E infatti molto frequente che nel caso in cui l'uomo sposato accenna o ipotizza una separazione dalla moglie e si trasforma quindi in concreta e realistica relazione, la donna tende a spaventarsi e a fuggire. Nell'amore impossibile, i veri e propri fantasmi edipici si amplificano e crescono attraverso le relazioni triangolari: lui, lei e l'altro (l'ostacolo), si ama colui che non si può avere come ad esempio nell'infanzia, inconsciamente, si amava il genitore del sesso opposto, che si desiderava ma non si poteva avere. L'amante vive più o meno inconsciamente la sfida con l'altra donna ed alimenta false illusioni circa una vita futura insieme all'uomo, in più sembra esistere l’ingenua convinzione di avere un potere su di lui. Pura illusione. Nella maggior parte dei casi non è affatto così,anzi a volte il ruolo dell'amante può tramutarsi in una specie di valvola di sfogo per lamentele, insoddisfazioni e sfoghi del partner riguardo alla sua donna ufficiale. In questo modo il fallimento del nostro desiderio e amore impossibile diventa totale.