OCCHI SUL MONDO
a cura di Ilenia Marini
Pakistan.Il terrorismo torna ad uccidere.
24 Novembre 2018
di Ilenia Marini
Bomba al merca ed è di nuovo strage nel paese pakistano.
Ieri il Pakistan è stato di nuovo insanguinato da un atto terroristico. Un ordigno dinamitardo è esploso nella zona nord-est del paese in una struttura adibita a mercato locale ed ha provocato 26 morti e 38 feriti. La notizia è stata riportata dal ministero della Sanità e la polizia nazionale teme che il bilancio possa ancora aggravarsi. L'attacco è stato compiuto nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l'Afghanistan, in un momento in cui il bazar era pieno di gente. Una fonte di polizia ha reso noto che la maggior parte delle vittime sono della minoranza sciita. Giornata di sangue segnata anche dall'attentato a Karachi. Due agenti sono rimasti uccisi ed una guardia di sicurezza ferita nel corso di un attacco armato alla sede del consolato cinese di Karachi, in Pakistan.
Tre assalitori sono stati uccisi nel corso dello scontro a fuoco con la polizia. Colpi di arma da fuoco sono stati uditi intorno alle 9.30 ore locali, le 4.30 circa ora italiana, all'esterno del consolato, nella zona di Clifton.Quattro gli uomini armati che avrebbero tentato un'irruzione e che sono stati fermati al posto di controllo all'ingresso dalle guardie.L'area è ora completamente circondata dalle forze dell'ordine mentre all'interno della sede consolare lo staff non ha riportato conseguenze. Secondo alcuni testimoni oltre agli spari ci sarebbe stata un'esplosione.L'attacco è stato rivendicato da un gruppo separatista della provincia del Balochistan, si legge sul sito della Bbc, dove la Cina sta attualmente investendo in un importante progetto.
Ieri il Pakistan è stato di nuovo insanguinato da un atto terroristico. Un ordigno dinamitardo è esploso nella zona nord-est del paese in una struttura adibita a mercato locale ed ha provocato 26 morti e 38 feriti. La notizia è stata riportata dal ministero della Sanità e la polizia nazionale teme che il bilancio possa ancora aggravarsi. L'attacco è stato compiuto nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l'Afghanistan, in un momento in cui il bazar era pieno di gente. Una fonte di polizia ha reso noto che la maggior parte delle vittime sono della minoranza sciita. Giornata di sangue segnata anche dall'attentato a Karachi. Due agenti sono rimasti uccisi ed una guardia di sicurezza ferita nel corso di un attacco armato alla sede del consolato cinese di Karachi, in Pakistan.
Tre assalitori sono stati uccisi nel corso dello scontro a fuoco con la polizia. Colpi di arma da fuoco sono stati uditi intorno alle 9.30 ore locali, le 4.30 circa ora italiana, all'esterno del consolato, nella zona di Clifton.Quattro gli uomini armati che avrebbero tentato un'irruzione e che sono stati fermati al posto di controllo all'ingresso dalle guardie.L'area è ora completamente circondata dalle forze dell'ordine mentre all'interno della sede consolare lo staff non ha riportato conseguenze. Secondo alcuni testimoni oltre agli spari ci sarebbe stata un'esplosione.L'attacco è stato rivendicato da un gruppo separatista della provincia del Balochistan, si legge sul sito della Bbc, dove la Cina sta attualmente investendo in un importante progetto.
Egitto.Nuovo attentato contro i cristiani.
04 Novembre 2018
L'odio religioso contro i cristiani non ha davvero fine.
La Chiesa copto-ortodossa ha comunicato ieri che sono almeno otto le persone rimaste uccise nell'attentato compiuto contro tre autobus a Il Cairo che trasportava fedeli verso la chiesa ortodossa di Boul Halim. Il portavoce della Chiesa copto-ortodossa, ha avvertito che il bilancio potrebbe essere più pesante. Fonti della sicurezza hanno riferito che altre 12 persone sono rimaste ferite.La tv panaraba Al Arabiya citando "fonti copte" è stata la prima ad indicare sul suo sito che gli autobus colpiti sono stati tre. "Persone armate sconosciute hanno sparato contro due bus che trasportavano copti ed erano in viaggio verso il monastero dell'Anba Samuel", si legge sul sito dell'emittente, come riporta l'Ansa.
Colpi di arma da fuoco sono stati sparati in maniera intensa su un terzo bus, ma l'autista è riuscito a far fuggire il mezzo, precisa ancora online l'emittente segnalando che sono in corso le ricerche degli attentatori.Il vicario patriarcale e portavoce della Chiesa copto-cattolica in Egitto, Padre Hani Bakhoum, ha confermato che c'è stato l'attacco terroristico al bus di pellegrini copti a Minya, 200 chilometri a sud della capitale egiziana, ma ha sottolineato che al momento non è possibile stabilire l'esatto numero delle vittime. "Ancora non è uscita una comunicazione ufficiale del ministero dell'Interno o dal ministero della Salute, alcuni parlano di sette morti e 14 feriti, altri di una decina di vittime, per altri ancora i morti soo cinque". "E' la seconda volta sulla stessa strada: la prima fu nel maggio 2017", ha aggiunto riferendosi all'attacco con quasi 30 morti dell'anno scorso. Tra il 2016 e il 2017 i copti sono stati colpiti da almeno quattro attentati che hanno provocato più di cento morti, e ad ottobre un tribunale militare del Cairo ha condannato a morte 17 persone responsabili degli attacchi.
La resistenza della comunità e il suo "rifiuto a reagire contro la pesante e continua persecuzione da parte di governi e gruppi terroristici, nel Paese e fuori da esso" ne è valsa la candidatura per il Nobel per la Pace 2018, poi vinto da Denis Mukwege e Nadia Murad.Su Twitter il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha augurato una pronta guarigione ai feriti e ha affermato "la nostra determinazione nel combattere il terrorismo e perseguire i responsabili". Sempre sul social l'ambasciatore al Cairo dell'Unione europea, Ivan Surkos, ha condannato "questo attacco orrendo e codardo" e ha espresso solidarietà nei confronti delle famiglie colpite. "Supportiamo pienamente la lotta al terrorismo", ha aggiunto.
La Chiesa copto-ortodossa ha comunicato ieri che sono almeno otto le persone rimaste uccise nell'attentato compiuto contro tre autobus a Il Cairo che trasportava fedeli verso la chiesa ortodossa di Boul Halim. Il portavoce della Chiesa copto-ortodossa, ha avvertito che il bilancio potrebbe essere più pesante. Fonti della sicurezza hanno riferito che altre 12 persone sono rimaste ferite.La tv panaraba Al Arabiya citando "fonti copte" è stata la prima ad indicare sul suo sito che gli autobus colpiti sono stati tre. "Persone armate sconosciute hanno sparato contro due bus che trasportavano copti ed erano in viaggio verso il monastero dell'Anba Samuel", si legge sul sito dell'emittente, come riporta l'Ansa.
Colpi di arma da fuoco sono stati sparati in maniera intensa su un terzo bus, ma l'autista è riuscito a far fuggire il mezzo, precisa ancora online l'emittente segnalando che sono in corso le ricerche degli attentatori.Il vicario patriarcale e portavoce della Chiesa copto-cattolica in Egitto, Padre Hani Bakhoum, ha confermato che c'è stato l'attacco terroristico al bus di pellegrini copti a Minya, 200 chilometri a sud della capitale egiziana, ma ha sottolineato che al momento non è possibile stabilire l'esatto numero delle vittime. "Ancora non è uscita una comunicazione ufficiale del ministero dell'Interno o dal ministero della Salute, alcuni parlano di sette morti e 14 feriti, altri di una decina di vittime, per altri ancora i morti soo cinque". "E' la seconda volta sulla stessa strada: la prima fu nel maggio 2017", ha aggiunto riferendosi all'attacco con quasi 30 morti dell'anno scorso. Tra il 2016 e il 2017 i copti sono stati colpiti da almeno quattro attentati che hanno provocato più di cento morti, e ad ottobre un tribunale militare del Cairo ha condannato a morte 17 persone responsabili degli attacchi.
La resistenza della comunità e il suo "rifiuto a reagire contro la pesante e continua persecuzione da parte di governi e gruppi terroristici, nel Paese e fuori da esso" ne è valsa la candidatura per il Nobel per la Pace 2018, poi vinto da Denis Mukwege e Nadia Murad.Su Twitter il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha augurato una pronta guarigione ai feriti e ha affermato "la nostra determinazione nel combattere il terrorismo e perseguire i responsabili". Sempre sul social l'ambasciatore al Cairo dell'Unione europea, Ivan Surkos, ha condannato "questo attacco orrendo e codardo" e ha espresso solidarietà nei confronti delle famiglie colpite. "Supportiamo pienamente la lotta al terrorismo", ha aggiunto.
Filippine. Il tifone Mangkhut fa strage. 30 Settembre 2018
L'arcipelago asiatico flagellato dall'ennesimo tifone.
Il nord delle Filippine è sconvolto da alcuni giorni da Mangkhut, il più violento tifone degli ultimi 50 anni, dominato da raffiche di vento a 300 chilometri orari. Il bilancio ancora provvisorio parla di 25 vittime, tra cui 2 bambini. Lungo la sua traiettoria, dove vivono almeno 4 milioni di abitanti, 87 mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. L'aeroporto di Tuguegarao, nella provincia settentrionale di Cagayan, è stato reso inagibile e la corrente elettrica è saltata nell'80 per cento delle aree colpite. Ora la tempesta si sta dirigendo verso Hong Kong che si prepara alla grande tempesta, con una possibile allerta 8 (su una scala di 10).
Il tifone si è abbattuto sulla città di Baggao, nel nord-est dell'arcipelago asiatico, sabato all'1.40 (ora locale, 19.40 di venerdi' in Italia). Il governo aveva lanciato l'allarme di possibile onde alte fino a 6 metri, accompagnate di inondazioni e frane. L'allerta resta massima.Nella mattinata l'occhio del tifone si è diretto verso il mare dalla provincia di Ilocos Norte, sulla punta nord-occidentale del Paese. Si è indebolito, con venti massimi di 170 chilometri orari e raffiche fino ai 260. La tempesta ha distrutto i raccolti di riso e mais che si trovavano sulla sua traiettoria e ha lasciato tante case senza tetti.Ricardo Jalad, il capo della Protezione civile, ha spiegato in una riunione di emergenza guidata dal presidente Rodrigo Duterte che circa 4,2 milioni di persone sono vulnerabili agli effetti piu' distruttivi dell'occhio di 78 miglia del tifone.
Quasi 48 mila case in quelle aree ad alto rischio sono fatte di materiali leggeri e non resistenti ai venti di Mangkhut. Il governatore di Cagayan, Manuel Mamba, ha annunciato che sono state avviate le evacuazioni dei residenti dai villaggi sulla costa nel nord della provincia dove vivono 1,2 milioni di persone.L'arrivo del super tifone a Hong Kong è atteso per domenica e il territorio semi-autonomo si prepara. Le città basse come Lei Yue Mun e Tai O, che affrontano il rischio di inondazioni, hanno programmato piani di evacuazione e rifugi temporanei per piu' di mille residenti. Diverse compagnie aeree, tra cui la Hong Kong Airlines, hanno annunciato che sospenderanno le loro attività domenica. Salteranno centinaia di voli.
Il nord delle Filippine è sconvolto da alcuni giorni da Mangkhut, il più violento tifone degli ultimi 50 anni, dominato da raffiche di vento a 300 chilometri orari. Il bilancio ancora provvisorio parla di 25 vittime, tra cui 2 bambini. Lungo la sua traiettoria, dove vivono almeno 4 milioni di abitanti, 87 mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. L'aeroporto di Tuguegarao, nella provincia settentrionale di Cagayan, è stato reso inagibile e la corrente elettrica è saltata nell'80 per cento delle aree colpite. Ora la tempesta si sta dirigendo verso Hong Kong che si prepara alla grande tempesta, con una possibile allerta 8 (su una scala di 10).
Il tifone si è abbattuto sulla città di Baggao, nel nord-est dell'arcipelago asiatico, sabato all'1.40 (ora locale, 19.40 di venerdi' in Italia). Il governo aveva lanciato l'allarme di possibile onde alte fino a 6 metri, accompagnate di inondazioni e frane. L'allerta resta massima.Nella mattinata l'occhio del tifone si è diretto verso il mare dalla provincia di Ilocos Norte, sulla punta nord-occidentale del Paese. Si è indebolito, con venti massimi di 170 chilometri orari e raffiche fino ai 260. La tempesta ha distrutto i raccolti di riso e mais che si trovavano sulla sua traiettoria e ha lasciato tante case senza tetti.Ricardo Jalad, il capo della Protezione civile, ha spiegato in una riunione di emergenza guidata dal presidente Rodrigo Duterte che circa 4,2 milioni di persone sono vulnerabili agli effetti piu' distruttivi dell'occhio di 78 miglia del tifone.
Quasi 48 mila case in quelle aree ad alto rischio sono fatte di materiali leggeri e non resistenti ai venti di Mangkhut. Il governatore di Cagayan, Manuel Mamba, ha annunciato che sono state avviate le evacuazioni dei residenti dai villaggi sulla costa nel nord della provincia dove vivono 1,2 milioni di persone.L'arrivo del super tifone a Hong Kong è atteso per domenica e il territorio semi-autonomo si prepara. Le città basse come Lei Yue Mun e Tai O, che affrontano il rischio di inondazioni, hanno programmato piani di evacuazione e rifugi temporanei per piu' di mille residenti. Diverse compagnie aeree, tra cui la Hong Kong Airlines, hanno annunciato che sospenderanno le loro attività domenica. Salteranno centinaia di voli.
Brexit.La May ora fa un passo indietro. 08 Luglio 2018
Dopo l'uscita dall' UE la May propone zona di libero scambio.
Sono stati giorni di grande tensione in Inghilterra per la premier Theresa May ma alla fine tutto si è concluso bene. Lei non è caduta e i ministri ribelli del suo governo che minacciavano di andare via sono tornati sui loro passi, senza chiedere il voto di sfiducia per detronizzarla sostituendola con uno di loro. La premier li ha rinchiusi con sé per dodici ore a Chequers, sua residenza di campagna ufficiale, confiscando i telefonini all'ingresso onde evitare fughe di notizie e distribuendo biglietti da visita di agenzie di taxi locali: per fare capire agli eventuali dimissionari che avrebbero perso immediatamente l'auto ministeriale e sarebbero dovuti rientrare a Londra a proprie spese.
Alla fine, esibendo un piglio da lady di ferro thatcheriana, la leader conservatrice ha convinto l'intero governo ad approvare la sua nuova proposta per la Brexit: una "area di libero scambio" fra Gran Bretagna e Unione Europea, che dovrebbe eliminare la necessità di dazi sull'import-export di merci, mantenere aperta la frontiera fra le due Irlande (così salvaguardando la pace nella regione) e al tempo stesso però permettere al Regno Unito di controllare l'immigrazione e stringere patti commerciali con altri paesi.Botte piena e moglie ubriaca", commentavano fonti di Bruxelles, ancora prima che uscisse il comunicato finale della riunione, facendo capire che il piano verrà respinto come i precedenti: niente patti fatti "su misura" per gli inglesi.
E tuttavia il capo negoziatore europeo Michel Barnier, durante la giornata, manda un possibile segnale di apertura: "Se Londra ammorbidisce le sue posizioni, noi siamo pronti a un compromesso".Lunedì Downing Street pubblicherà un "libro bianco" con i dettagli della proposta. C'è da scommettere che provocherà nuove polemiche su entrambe le sponde della Manica. La via di una soluzione per la Brexit sembra ancora lunga. Ma intanto Theresa May è sopravvissuta al suo giorno più lungo. Prima doveva negoziare un accordo con il proprio litigioso e diviso governo. Poi cercherà di negoziarne uno con la Ue. Una cosa alla volta.
Sono stati giorni di grande tensione in Inghilterra per la premier Theresa May ma alla fine tutto si è concluso bene. Lei non è caduta e i ministri ribelli del suo governo che minacciavano di andare via sono tornati sui loro passi, senza chiedere il voto di sfiducia per detronizzarla sostituendola con uno di loro. La premier li ha rinchiusi con sé per dodici ore a Chequers, sua residenza di campagna ufficiale, confiscando i telefonini all'ingresso onde evitare fughe di notizie e distribuendo biglietti da visita di agenzie di taxi locali: per fare capire agli eventuali dimissionari che avrebbero perso immediatamente l'auto ministeriale e sarebbero dovuti rientrare a Londra a proprie spese.
Alla fine, esibendo un piglio da lady di ferro thatcheriana, la leader conservatrice ha convinto l'intero governo ad approvare la sua nuova proposta per la Brexit: una "area di libero scambio" fra Gran Bretagna e Unione Europea, che dovrebbe eliminare la necessità di dazi sull'import-export di merci, mantenere aperta la frontiera fra le due Irlande (così salvaguardando la pace nella regione) e al tempo stesso però permettere al Regno Unito di controllare l'immigrazione e stringere patti commerciali con altri paesi.Botte piena e moglie ubriaca", commentavano fonti di Bruxelles, ancora prima che uscisse il comunicato finale della riunione, facendo capire che il piano verrà respinto come i precedenti: niente patti fatti "su misura" per gli inglesi.
E tuttavia il capo negoziatore europeo Michel Barnier, durante la giornata, manda un possibile segnale di apertura: "Se Londra ammorbidisce le sue posizioni, noi siamo pronti a un compromesso".Lunedì Downing Street pubblicherà un "libro bianco" con i dettagli della proposta. C'è da scommettere che provocherà nuove polemiche su entrambe le sponde della Manica. La via di una soluzione per la Brexit sembra ancora lunga. Ma intanto Theresa May è sopravvissuta al suo giorno più lungo. Prima doveva negoziare un accordo con il proprio litigioso e diviso governo. Poi cercherà di negoziarne uno con la Ue. Una cosa alla volta.
Libia.E' guerra tra bande per il petrolio. 23 Giugno 2018
Caos tra bande in Libia. Tutti vogliono i pozzi di petrolio.
Almeno da 3 giorni nella parte orientale della Libia si combatte per strada e presso i depositi petroliferi da cui parte più del 60 per cento della produzione di greggio del paese. La settimana scorsa i terminal erano stati conquistati da una banda di predoni locali fatta da ex criminali ed ex soldati delle truppe di Gheddafi, appoggiati da uomini armati della tribù dei Magharba. Con lui si erano schierati miliziani delle Benghazi Defense Brigade, una coalizione di ex jihadisti fra cui ex membri di Ansar Al Sharia, e altri gruppi criminali/tribali.
Ieri nel pomeriggio dopo giorni di bombardamenti aerei e di combattimenti, gli uomini del generale Khalifa Haftar che controlla quasi tutta la Cirenaica hanno annunciato di aver ripreso sia il pozzo di Sider che ras Lanuf. Più tardi Jadran ha fatto annunciare che attorno a Ras Lanuf si combatte ancora, e che alcuni soldati di Haftar sono stati uccisi ed altri catturati, fra cui un loro ufficiale. «Le forze armate hanno il controllo del porto di Sidra e stanno inseguendo il nemico in direzione ovest», ha annunciato sulla sua pagina Facebook il portavoce del Libyan National Army di Haftar, il generale Al Mismari. Jadran è l’ex capo delle “Guardie degli impianti petroliferi” (Pfg), e senza nessun preavviso aveva attaccato i due terminal giovedì scorso danneggiando due maxi-cisterne e creando il rischio di un disastro ambientale.
La National Oil Company libica era stata costretta ad evacuare tutto il personale dichiarando la causa di forza maggiore che tutela l’azienda dai contratti di fornitura per i quali si è impegnata. Jadran per più di 2 anni aveva già bloccato i terminal fino al 2016, causando miliardi di perdite allo stato libico. I terminal petroliferi sono una risorsa decisiva per lo Stato libico: i proventi della vendita del petrolio vengono versati alla Banca Centrale libica, che li gira poi allo stato, o meglio ai 2 governi che rivendicano legittimità in Libia, quello di Fayez Serraj e quello del premier parallelo Al Thinni a Bengasi. Al Thinni è totalmente sottoposto alle direttive del generale Khalifa Haftar, che con il suo esercito in questi anni ha combattuto a Bengasi e continua a combattere a Derna contro gruppi islamisti o anche contro gruppi di miliziani che si oppongono al suo potere.
Almeno da 3 giorni nella parte orientale della Libia si combatte per strada e presso i depositi petroliferi da cui parte più del 60 per cento della produzione di greggio del paese. La settimana scorsa i terminal erano stati conquistati da una banda di predoni locali fatta da ex criminali ed ex soldati delle truppe di Gheddafi, appoggiati da uomini armati della tribù dei Magharba. Con lui si erano schierati miliziani delle Benghazi Defense Brigade, una coalizione di ex jihadisti fra cui ex membri di Ansar Al Sharia, e altri gruppi criminali/tribali.
Ieri nel pomeriggio dopo giorni di bombardamenti aerei e di combattimenti, gli uomini del generale Khalifa Haftar che controlla quasi tutta la Cirenaica hanno annunciato di aver ripreso sia il pozzo di Sider che ras Lanuf. Più tardi Jadran ha fatto annunciare che attorno a Ras Lanuf si combatte ancora, e che alcuni soldati di Haftar sono stati uccisi ed altri catturati, fra cui un loro ufficiale. «Le forze armate hanno il controllo del porto di Sidra e stanno inseguendo il nemico in direzione ovest», ha annunciato sulla sua pagina Facebook il portavoce del Libyan National Army di Haftar, il generale Al Mismari. Jadran è l’ex capo delle “Guardie degli impianti petroliferi” (Pfg), e senza nessun preavviso aveva attaccato i due terminal giovedì scorso danneggiando due maxi-cisterne e creando il rischio di un disastro ambientale.
La National Oil Company libica era stata costretta ad evacuare tutto il personale dichiarando la causa di forza maggiore che tutela l’azienda dai contratti di fornitura per i quali si è impegnata. Jadran per più di 2 anni aveva già bloccato i terminal fino al 2016, causando miliardi di perdite allo stato libico. I terminal petroliferi sono una risorsa decisiva per lo Stato libico: i proventi della vendita del petrolio vengono versati alla Banca Centrale libica, che li gira poi allo stato, o meglio ai 2 governi che rivendicano legittimità in Libia, quello di Fayez Serraj e quello del premier parallelo Al Thinni a Bengasi. Al Thinni è totalmente sottoposto alle direttive del generale Khalifa Haftar, che con il suo esercito in questi anni ha combattuto a Bengasi e continua a combattere a Derna contro gruppi islamisti o anche contro gruppi di miliziani che si oppongono al suo potere.
Striscia di Gaza.Scorre sangue senza fine.
di Ilenia Marini 09 Giugno 2018
Non si calma la situazione tra palestinesi ed esercito israeliano.
Fine settimana ancora all'insegna del sangue lungo il territorio della Striscia di Gaza. Cinque palestinesi sono rimasti uccisi durante le violente proteste della popolazione locale contro l'esercito israeliano. I soldati di Israele hanno cominciato a sparare sulla folla che manifestava e secondo i giornali arabi ci sono stati circa 500 feriti. Gli atti di violenza si sono verificati presso la zona sud della Striscia e a Jabaliya, a nord di Gaza City. Sulla situazione a Gaza è stata convocata per questa settimana una specifica riunione della stessa Assemblea ONU.L’allerta era stata lanciata da giorni, in previsione di una nuova giornata di proteste. Le forze armate israeliane avevano lanciato volantini sull’enclave avvertendo la popolazione di non partecipare alle manifestazioni sul confine e invitando a non farsi usare dal movimento di Hamas.
L’accusa di Gerusalemme andava direttamente a Teheran: “Dietro a questi interessi si nasconde l’Iran sciita – riportava il volantino scritto in arabo – il cui obiettivo è infiammare la regione per il bene dei suoi obiettivi religiosi ed etnici. Non dovete permettere che Hamas vi trasformi nei suoi ostaggi, in modo che possa ottenere capitale politico a spese del benessere e del futuro degli abitanti di Gaza in generale, e dei suoi giovani in particolare. Per evitare risultati dannosi, vi invitiamo a non partecipare alle manifestazioni e all’anarchia e a non mettervi in pericolo”. Nel tour in Gran Bretagna, Francia e Germania, Netanyahu ha constatato come i Paesi europei comprendano lo scenario regionale delicatissimo, ma che sulle decine di morti palestinesi avvenute da maggio per le proteste a Gaza e sull'accordo nucleare con l'Iran non ci sia intesa. Lo ha certificato l’ultimo botta e riposta, pur condito da attestazioni reciproche, con Theresa May.
La premier britannica ha detto che Londra "riconosce assolutamente il diritto d'Israele all'autodifesa" contro "estremisti e terroristi", ma aggiunto di essere preoccupata per "la perdita recente di oltre 100 vite palestinesi" e per "il deterioramento della situazione a Gaza". May ha inoltre insistito sulla necessità di riprendere i negoziati per "la soluzione dei due Stati". Più o meno le medesime osservazioni raccolte dal premier israeliano a Berlino e a Parigi.Netanyahu appare piuttosto contrariato dal mancato consenso ricevuto. Adesso anche L'Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, ha cancellato la sua visita in Israele, programmata per domenica, dopo avere appreso che Netanyahu si rifiuta di incontrarla. E in Israele si riapre il fronte di Gaza.
Fine settimana ancora all'insegna del sangue lungo il territorio della Striscia di Gaza. Cinque palestinesi sono rimasti uccisi durante le violente proteste della popolazione locale contro l'esercito israeliano. I soldati di Israele hanno cominciato a sparare sulla folla che manifestava e secondo i giornali arabi ci sono stati circa 500 feriti. Gli atti di violenza si sono verificati presso la zona sud della Striscia e a Jabaliya, a nord di Gaza City. Sulla situazione a Gaza è stata convocata per questa settimana una specifica riunione della stessa Assemblea ONU.L’allerta era stata lanciata da giorni, in previsione di una nuova giornata di proteste. Le forze armate israeliane avevano lanciato volantini sull’enclave avvertendo la popolazione di non partecipare alle manifestazioni sul confine e invitando a non farsi usare dal movimento di Hamas.
L’accusa di Gerusalemme andava direttamente a Teheran: “Dietro a questi interessi si nasconde l’Iran sciita – riportava il volantino scritto in arabo – il cui obiettivo è infiammare la regione per il bene dei suoi obiettivi religiosi ed etnici. Non dovete permettere che Hamas vi trasformi nei suoi ostaggi, in modo che possa ottenere capitale politico a spese del benessere e del futuro degli abitanti di Gaza in generale, e dei suoi giovani in particolare. Per evitare risultati dannosi, vi invitiamo a non partecipare alle manifestazioni e all’anarchia e a non mettervi in pericolo”. Nel tour in Gran Bretagna, Francia e Germania, Netanyahu ha constatato come i Paesi europei comprendano lo scenario regionale delicatissimo, ma che sulle decine di morti palestinesi avvenute da maggio per le proteste a Gaza e sull'accordo nucleare con l'Iran non ci sia intesa. Lo ha certificato l’ultimo botta e riposta, pur condito da attestazioni reciproche, con Theresa May.
La premier britannica ha detto che Londra "riconosce assolutamente il diritto d'Israele all'autodifesa" contro "estremisti e terroristi", ma aggiunto di essere preoccupata per "la perdita recente di oltre 100 vite palestinesi" e per "il deterioramento della situazione a Gaza". May ha inoltre insistito sulla necessità di riprendere i negoziati per "la soluzione dei due Stati". Più o meno le medesime osservazioni raccolte dal premier israeliano a Berlino e a Parigi.Netanyahu appare piuttosto contrariato dal mancato consenso ricevuto. Adesso anche L'Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, ha cancellato la sua visita in Israele, programmata per domenica, dopo avere appreso che Netanyahu si rifiuta di incontrarla. E in Israele si riapre il fronte di Gaza.
Libia.L'ISIS torna a colpire in Africa.
di Ilenia Marini 06 Maggio 2018
Dopo una lunga tregua, lo Stato Islamico fa di nuovo scorrere sangue.
Un commando di militanti dell'ISIS venerdi ha attaccato l'Alta Commissione elettorale a Tripoli. Secondo il vice presidente della commissione e secondo i due principali organi giornalistici della Libia, almeno un attentatore suicida si è fatto largo all'ingresso della sede e si è fatto esplodere. Dopo, gli altri membri del commando sono così riusciti ad entrare all'interno degli uffici, ed hanno cominciato ad aprire il fuoco in alcuni uffici del palazzo pieni di persone. Alla fine a terra c'erano 14 pesone e 10 feriti, tra le vittime 4 erano membri dello staff della Commissione, 5 uomini delle forze di sicurezza e 3 terroristi. Ricostruendo le dinamiche la polizia locale informa che i primi due attentatori erano dei kamikaze che si sono fatti saltare in aria; il terzo è un altro attentatore suicida che però è stato ucciso dalla polizia prima di farsi esplodere.
Per alcune ore l'edificio è stato è circondato dalle forze dell'esercito e dopo una sparatoria violenta sono stati uccisi gli altri componenti del commando terroristico. L'agenzia di stampa dello Stato islamico ha rivendicato l'attentato. Gli uomini dell'Isis hanno colpito la commissione perché è un simbolo politico della Libia che prova a riorganizzare nuove elezioni. La presenza dell'Isis a Tripoli, organizzato in "cellule dormienti", da molti analisti per mesi è stata considerata quasi certa. Ma ormai da anni il gruppo islamista non metteva a segno attentati o azioni nella capitale libica. Dall'estate del 2016, quando le milizie di Tripoli e Misurata avevano sconfitto l'Isis a Sirte con l'appoggio dell'aeronautica americana, l'Isis non aveva più compiuto azioni spettacolari sulla costa libica, in particolare fra le città di Misurata e Tripoli.Da mesi però molte fonti riferivano di una riorganizzazione dei miliziani fedeli ad Abu Bakr Al Baghdadi nel Sud della Libia, soprattutto attorno all'area di Sebha.
Ma le operazioni terroristiche nel Nord e soprattutto a Tripoli da mesi erano cessate: i soldati delle milizie di Misurata hanno segnalato nelle scorse settimane che terroristi del Califfato hanno organizzato posti di blocco volanti nel deserto, soprattutto per intimidire il pattugliamento che le milizie libiche fedeli al governo di Tripoli continuano a fare nelle aree desertiche a Sud della costa. L'attentato - se sarà confermata la responsabilità dell'Isis - sarebbe quindi il primo segnale di una nuova sfida portata ai gruppi politici e militari che controllano Tripoli.
Un commando di militanti dell'ISIS venerdi ha attaccato l'Alta Commissione elettorale a Tripoli. Secondo il vice presidente della commissione e secondo i due principali organi giornalistici della Libia, almeno un attentatore suicida si è fatto largo all'ingresso della sede e si è fatto esplodere. Dopo, gli altri membri del commando sono così riusciti ad entrare all'interno degli uffici, ed hanno cominciato ad aprire il fuoco in alcuni uffici del palazzo pieni di persone. Alla fine a terra c'erano 14 pesone e 10 feriti, tra le vittime 4 erano membri dello staff della Commissione, 5 uomini delle forze di sicurezza e 3 terroristi. Ricostruendo le dinamiche la polizia locale informa che i primi due attentatori erano dei kamikaze che si sono fatti saltare in aria; il terzo è un altro attentatore suicida che però è stato ucciso dalla polizia prima di farsi esplodere.
Per alcune ore l'edificio è stato è circondato dalle forze dell'esercito e dopo una sparatoria violenta sono stati uccisi gli altri componenti del commando terroristico. L'agenzia di stampa dello Stato islamico ha rivendicato l'attentato. Gli uomini dell'Isis hanno colpito la commissione perché è un simbolo politico della Libia che prova a riorganizzare nuove elezioni. La presenza dell'Isis a Tripoli, organizzato in "cellule dormienti", da molti analisti per mesi è stata considerata quasi certa. Ma ormai da anni il gruppo islamista non metteva a segno attentati o azioni nella capitale libica. Dall'estate del 2016, quando le milizie di Tripoli e Misurata avevano sconfitto l'Isis a Sirte con l'appoggio dell'aeronautica americana, l'Isis non aveva più compiuto azioni spettacolari sulla costa libica, in particolare fra le città di Misurata e Tripoli.Da mesi però molte fonti riferivano di una riorganizzazione dei miliziani fedeli ad Abu Bakr Al Baghdadi nel Sud della Libia, soprattutto attorno all'area di Sebha.
Ma le operazioni terroristiche nel Nord e soprattutto a Tripoli da mesi erano cessate: i soldati delle milizie di Misurata hanno segnalato nelle scorse settimane che terroristi del Califfato hanno organizzato posti di blocco volanti nel deserto, soprattutto per intimidire il pattugliamento che le milizie libiche fedeli al governo di Tripoli continuano a fare nelle aree desertiche a Sud della costa. L'attentato - se sarà confermata la responsabilità dell'Isis - sarebbe quindi il primo segnale di una nuova sfida portata ai gruppi politici e militari che controllano Tripoli.
Israele.Ancora morte sulla Striscia di Gaza.
di Ilenia Marini 23 Aprile 2018
Torna a salire la tensione nei territori tra palestinesi ed israeliani.
Ieri sera c'è stato un nuovo sanguinoso attentato in Cisgiordania che ha provocato la morte di due soldati israeliani mentre un terzo è in gravissime condizioni. L'azione terroristica ha visto protagonista un palestinese di 26 anni che con la sua auto si è scaraventato su un posto di blocco. A 10 chilometri da Jenin, nei pressi dell'insediamento ebraico di Reihan, il palestinese si è gettato verso la jeep dei soldati e ne ha investiti 3 con violenza. L'attacco è avvenuto nella nuova “giornata di rabbia” indetta per dalle fazioni palestinesi a 100 giorni dall'annuncio di Trump su Gerusalemme capitale di Israele ed è stato subito salutato da Hamas a Gaza come «azione eroica contro l'occupazione».
Ala Rateb Kabha, originario del villaggio di Bartaa nel nord ovest della Cisgiordania, ha lanciato la propria auto su un gruppo di soldati israeliani che stavano presidiando le strade adiacenti la comunità di Meivo Dotan. Dopo essere stato ferito, Kabha è stato portato in ospedale dove è stato interrogato. Secondo i media israeliani, l'uomo è un ex prigioniero di sicurezza rilasciato dal carcere israeliano circa un anno fa. I due soldati morti - di cui non sono ancora stati resi noti i nomi - sono un ufficiale e un militare di leva: tutti nei loro venti anni come gli altri due feriti.L'attacco è avvenuto quando i quattro sono scesi dalla loro jeep e sono stati colpiti dalla vettura guidata dal palestinese.
A seguito dell'attentato il generale Yoav Mordechai, il coordinatore per le attività di governo nei Territori, ha ordinato la sospensione dei permessi di lavoro in Israele per l'intera famiglia del palestinese autore dell'attacco: in tutto 67 provvedimenti.Quello di oggi è il secondo contro soldati israeliani in due settimane: il primo è avvenuto ad Acco (nel nord di Israele) ad inizio mese. Il ministro della difesa Avigdor Lieberman,citato dai media, ha parlato di "demolizione della casa del palestinese e di assicurare alla giustizia tutti quelli che hanno collaborato con lui". Poi ha ricordato che l'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen "dà i soldi alle famiglie dei terroristi".
Ieri sera c'è stato un nuovo sanguinoso attentato in Cisgiordania che ha provocato la morte di due soldati israeliani mentre un terzo è in gravissime condizioni. L'azione terroristica ha visto protagonista un palestinese di 26 anni che con la sua auto si è scaraventato su un posto di blocco. A 10 chilometri da Jenin, nei pressi dell'insediamento ebraico di Reihan, il palestinese si è gettato verso la jeep dei soldati e ne ha investiti 3 con violenza. L'attacco è avvenuto nella nuova “giornata di rabbia” indetta per dalle fazioni palestinesi a 100 giorni dall'annuncio di Trump su Gerusalemme capitale di Israele ed è stato subito salutato da Hamas a Gaza come «azione eroica contro l'occupazione».
Ala Rateb Kabha, originario del villaggio di Bartaa nel nord ovest della Cisgiordania, ha lanciato la propria auto su un gruppo di soldati israeliani che stavano presidiando le strade adiacenti la comunità di Meivo Dotan. Dopo essere stato ferito, Kabha è stato portato in ospedale dove è stato interrogato. Secondo i media israeliani, l'uomo è un ex prigioniero di sicurezza rilasciato dal carcere israeliano circa un anno fa. I due soldati morti - di cui non sono ancora stati resi noti i nomi - sono un ufficiale e un militare di leva: tutti nei loro venti anni come gli altri due feriti.L'attacco è avvenuto quando i quattro sono scesi dalla loro jeep e sono stati colpiti dalla vettura guidata dal palestinese.
A seguito dell'attentato il generale Yoav Mordechai, il coordinatore per le attività di governo nei Territori, ha ordinato la sospensione dei permessi di lavoro in Israele per l'intera famiglia del palestinese autore dell'attacco: in tutto 67 provvedimenti.Quello di oggi è il secondo contro soldati israeliani in due settimane: il primo è avvenuto ad Acco (nel nord di Israele) ad inizio mese. Il ministro della difesa Avigdor Lieberman,citato dai media, ha parlato di "demolizione della casa del palestinese e di assicurare alla giustizia tutti quelli che hanno collaborato con lui". Poi ha ricordato che l'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen "dà i soldi alle famiglie dei terroristi".
Afghanistan.Attacco terroristico in hotel.
di Ilenia Marini 17 Aprile 2018
Ancora terrore e sangue sul territorio afghano.
Quattro uomini armati sono penetrati nell'hotel Intercontinental di Kabul, all'ingresso un kamikaze si è fatto esplodere permettendo ai 4 uomini armati di irrompere nell'edificio e iniziare a sparare sugli ospiti e a prendere degli ostaggi. Lo ha fatto sapere la polizia afghana. Tre assalitori sono stati catturati e uccisi. La notizia dell'eliminazione del nucleo di terroristi è stata data alle 6,30 ora italiana da un portavoce del ministero dell'Interno nella capitale afghana.Il bilancio dell'operazione, ha precisato, è di tre assalitori uccisi e 126 persone tratte in salvo, fra cui 41 stranieri. I morti sono invece sei tra cui cinque aghani e uno straniero, sei i feriti. Secondo una fonte della sicurezza, l'ultimo membro del comando si era barricato "in una grande stanza con ostaggi, afghani e stranieri", prima di essere ucciso.
Le strade principali che portano all'hotel sono state tutte chiuse, riportano i media internazionali. Secondo fonti dell'intelligence nessun italiano risulta essere alloggiato nell'hotel, né vi sarebbero italiani direttamente o indirettamente coinvolti. La tv Tolo ha segnalato che l'intervento delle forze di sicurezza ha permesso di mettere in salvo almeno un centinaio di persone, fra clienti e membri dello staff dell'albergo, di cui 16 di nazionalità straniera.Un numero imprecisato di feriti sono stati trasferiti nell'ospedale di Wazir Akbar Khan, in strutture militari e nel Centro medico di Emergency di Gino Strada.Nei social media e sui siti online delle tv afghane circolano foto persone ospitate nell'hotel che cercano disperatamente di mettersi in salvo calandosi dai balconi in tutti i modi possibili.Le forze speciali afghane hanno ucciso due degli assalitori. Lo riporta la Bbc online citando il portavoce del ministero dell'Interno Nasrat Rahimi secondo il quale è stato messo in sicurezza il primo piano dell'edificio.
Le forze di sicurezza hanno messo in salvo alcuni degli ospiti dell'albergo che erano rimasti intrappolati.Mentre le forze speciali afghane cercano di raggiungere due dei quattro militanti ancora asserragliati ai piani alti dell'hotel, un giornalista della tv Tolo ha riferito che secondo un uomo riuscito a fuggire gli attaccanti, sparando, hanno gettato alcuni ospiti fuori dalle finestre del terzo e quarto piano, al grido di 'Allah u Akbar'. L'attacco è cominciato alle 21 ora locale (le 17.30) in Italia con un'esplosione con cui il commando si è aperto la strada, poi l'elettricità è stata interrotta, ha spiegato una fonte della sicurezza antiterrorismo. Gli assalitori hanno dato fuoco alle cucine e si sono poi asserragliati al quarto e al quinto piano dell'edificio. Le forze speciali afghane prima di entrare in azione avevano circondato la zona e, secondo alcune ricostruzioni, hanno scambiato colpi di arma da fuoco con gli assalitori. Le ambulanze "sono sul posto in attesa del via libera" per far entrare i soccorritori, ha dichiarato il ministro della Sanità afghano.
Quattro uomini armati sono penetrati nell'hotel Intercontinental di Kabul, all'ingresso un kamikaze si è fatto esplodere permettendo ai 4 uomini armati di irrompere nell'edificio e iniziare a sparare sugli ospiti e a prendere degli ostaggi. Lo ha fatto sapere la polizia afghana. Tre assalitori sono stati catturati e uccisi. La notizia dell'eliminazione del nucleo di terroristi è stata data alle 6,30 ora italiana da un portavoce del ministero dell'Interno nella capitale afghana.Il bilancio dell'operazione, ha precisato, è di tre assalitori uccisi e 126 persone tratte in salvo, fra cui 41 stranieri. I morti sono invece sei tra cui cinque aghani e uno straniero, sei i feriti. Secondo una fonte della sicurezza, l'ultimo membro del comando si era barricato "in una grande stanza con ostaggi, afghani e stranieri", prima di essere ucciso.
Le strade principali che portano all'hotel sono state tutte chiuse, riportano i media internazionali. Secondo fonti dell'intelligence nessun italiano risulta essere alloggiato nell'hotel, né vi sarebbero italiani direttamente o indirettamente coinvolti. La tv Tolo ha segnalato che l'intervento delle forze di sicurezza ha permesso di mettere in salvo almeno un centinaio di persone, fra clienti e membri dello staff dell'albergo, di cui 16 di nazionalità straniera.Un numero imprecisato di feriti sono stati trasferiti nell'ospedale di Wazir Akbar Khan, in strutture militari e nel Centro medico di Emergency di Gino Strada.Nei social media e sui siti online delle tv afghane circolano foto persone ospitate nell'hotel che cercano disperatamente di mettersi in salvo calandosi dai balconi in tutti i modi possibili.Le forze speciali afghane hanno ucciso due degli assalitori. Lo riporta la Bbc online citando il portavoce del ministero dell'Interno Nasrat Rahimi secondo il quale è stato messo in sicurezza il primo piano dell'edificio.
Le forze di sicurezza hanno messo in salvo alcuni degli ospiti dell'albergo che erano rimasti intrappolati.Mentre le forze speciali afghane cercano di raggiungere due dei quattro militanti ancora asserragliati ai piani alti dell'hotel, un giornalista della tv Tolo ha riferito che secondo un uomo riuscito a fuggire gli attaccanti, sparando, hanno gettato alcuni ospiti fuori dalle finestre del terzo e quarto piano, al grido di 'Allah u Akbar'. L'attacco è cominciato alle 21 ora locale (le 17.30) in Italia con un'esplosione con cui il commando si è aperto la strada, poi l'elettricità è stata interrotta, ha spiegato una fonte della sicurezza antiterrorismo. Gli assalitori hanno dato fuoco alle cucine e si sono poi asserragliati al quarto e al quinto piano dell'edificio. Le forze speciali afghane prima di entrare in azione avevano circondato la zona e, secondo alcune ricostruzioni, hanno scambiato colpi di arma da fuoco con gli assalitori. Le ambulanze "sono sul posto in attesa del via libera" per far entrare i soccorritori, ha dichiarato il ministro della Sanità afghano.
Hamas.Bombe israeliane fanno due vittime.
di Ilenia Marini 09 Aprile 2018
Rappresaglia di Israele contro la Striscia di Gaza.
Tornano ad esserci morti in Medio Oriente. Ieri, come ha reso noto il Ministero della Sanità della Palestina, sono stati ritrovati i cadaveri di due miliziani di Hamas, morti negli attacchi aerei di Israele contro alcune basi militari nella parte settentrionale della Striscia di Gaza. Si è trattato di un attacco aereo di reazione, ben studiato dall’ esercito israeliano per evitare inutili bagni di sangue della popolazione palestinese.
I caccia hanno colpito quattro bersagli di Hamas, tra i quali due siti per la fabbricazione di armi, un deposito e un compound militare. Le vittime avrebbero 28 e 30 anni. Le forze israeliane hanno affermato di aver lanciato gli attacchi dopo che da Gaza erano partiti missili contro il territorio israeliano, uno dei quali è caduto su Sderot senza fare vittime.
Si è trattato del terzo lancio di razzi a partire dal territorio di Gaza verso Israele nella giornata di ieri: l'aeronautica israeliana aveva già risposto ai precedenti attacchi, con raid contro le postazioni di Hamas nel nord della Striscia. I caccia, secondo un portavoce militare, avevano colpito un centro di addestramento ed un deposito di armi. Stando a notizie diffuse a Gaza e riportate dal quotidiano israeliano Haaretz, quindici persone erano rimaste ferite nell'attacco.Le incursioni dei caccia israeliani sono avvenute al termine della giornata di protesta palestinese contro la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele: durante gli scontri con l'esercito israeliano erano morti due palestinesi.
Tornano ad esserci morti in Medio Oriente. Ieri, come ha reso noto il Ministero della Sanità della Palestina, sono stati ritrovati i cadaveri di due miliziani di Hamas, morti negli attacchi aerei di Israele contro alcune basi militari nella parte settentrionale della Striscia di Gaza. Si è trattato di un attacco aereo di reazione, ben studiato dall’ esercito israeliano per evitare inutili bagni di sangue della popolazione palestinese.
I caccia hanno colpito quattro bersagli di Hamas, tra i quali due siti per la fabbricazione di armi, un deposito e un compound militare. Le vittime avrebbero 28 e 30 anni. Le forze israeliane hanno affermato di aver lanciato gli attacchi dopo che da Gaza erano partiti missili contro il territorio israeliano, uno dei quali è caduto su Sderot senza fare vittime.
Si è trattato del terzo lancio di razzi a partire dal territorio di Gaza verso Israele nella giornata di ieri: l'aeronautica israeliana aveva già risposto ai precedenti attacchi, con raid contro le postazioni di Hamas nel nord della Striscia. I caccia, secondo un portavoce militare, avevano colpito un centro di addestramento ed un deposito di armi. Stando a notizie diffuse a Gaza e riportate dal quotidiano israeliano Haaretz, quindici persone erano rimaste ferite nell'attacco.Le incursioni dei caccia israeliani sono avvenute al termine della giornata di protesta palestinese contro la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele: durante gli scontri con l'esercito israeliano erano morti due palestinesi.
Egitto.Una nuova strage alla moschea.
di Ilenia Marini 29 Marzo 2018
L'ISIS si fa sentire con un attentato sanguinosissimo.
Ieri c'è stato un gravissimo attentato in Egitto, il bilancio finale dice 230 morti e oltre cento feriti a causa di un attacco terroristico contro la moschea egiziana di Bir al-Abed, nei pressi della città di Arish, nel Nord del Sinai. Tutto è stato confermato anche da una comunicazione della Procura generale egiziana. I terroristi avrebbero fatto detonare gli ordigni artigianali intorno al luogo di culto, facendoli esplodere all'uscita dei fedeli, dopo la preghiera del venerdì, giorno sacro per i musulmani. Gli attentatori avrebbero poi sparato sulle persone in fuga e sulle ambulanze giunte sul posto per soccorrere le vittime, almeno secondo quanto ha detto al canale Extra News il responsabile dei soccorsi Ahmad al-Ansari.
Il commando non è ancora stato identificato, ma i sospetti delle autorità ricadono su gruppi islamisti attivi nella regione. La moschea è per lo più frequentata da sufi, fedeli che praticano il sufismo, una corrente mistica dell'islamismo. La moschea colpita "è frequentata dalla tribù Sawarka, la maggiore del nord del Sinai e, in generale, conosciuta per la sua collaborazione con l'esercito e le forze dell'ordine" nella lotta contro l'Isis, ha spiegato una fonte locale all'Ansa. Al momento non c'è stata nessuna rivendicazione. Il presidente egiziano al-Sisi ha convocato una riunione d'emergenza con i responsabili della sicurezza e in tutto il Paese sono stati dichiarati tre giorni di lutto.
La prima condanna dell'attacco è arrivata da Al-Azhar, il più influente centro teologico e universitario dell'islam sunnita, basato al Cairo, tramite le parole del suo Grande Imam Ahmed al-Tayeb, riportate dall'agenzia Mena.Anche dall'Italia arrivano parole di condanna. "Orrore per la strage terroristica nella moschea del sinai. I nostri pensieri vanno alle vittime, la nostra solidarietà alle famiglie colpite e all'Egitto", ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.Mentre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con un messaggio inviato all'omologo egiziano Abd Al-Fattah Khalil Al-Sisi, ha fatto sapere che "nella comune lotta contro il terrorismo e l'estremismo religioso -nemici esiziali della libera espressione del culto- l'Egitto potrà contare sempre sul determinato sostegno dell'Italia".
Ieri c'è stato un gravissimo attentato in Egitto, il bilancio finale dice 230 morti e oltre cento feriti a causa di un attacco terroristico contro la moschea egiziana di Bir al-Abed, nei pressi della città di Arish, nel Nord del Sinai. Tutto è stato confermato anche da una comunicazione della Procura generale egiziana. I terroristi avrebbero fatto detonare gli ordigni artigianali intorno al luogo di culto, facendoli esplodere all'uscita dei fedeli, dopo la preghiera del venerdì, giorno sacro per i musulmani. Gli attentatori avrebbero poi sparato sulle persone in fuga e sulle ambulanze giunte sul posto per soccorrere le vittime, almeno secondo quanto ha detto al canale Extra News il responsabile dei soccorsi Ahmad al-Ansari.
Il commando non è ancora stato identificato, ma i sospetti delle autorità ricadono su gruppi islamisti attivi nella regione. La moschea è per lo più frequentata da sufi, fedeli che praticano il sufismo, una corrente mistica dell'islamismo. La moschea colpita "è frequentata dalla tribù Sawarka, la maggiore del nord del Sinai e, in generale, conosciuta per la sua collaborazione con l'esercito e le forze dell'ordine" nella lotta contro l'Isis, ha spiegato una fonte locale all'Ansa. Al momento non c'è stata nessuna rivendicazione. Il presidente egiziano al-Sisi ha convocato una riunione d'emergenza con i responsabili della sicurezza e in tutto il Paese sono stati dichiarati tre giorni di lutto.
La prima condanna dell'attacco è arrivata da Al-Azhar, il più influente centro teologico e universitario dell'islam sunnita, basato al Cairo, tramite le parole del suo Grande Imam Ahmed al-Tayeb, riportate dall'agenzia Mena.Anche dall'Italia arrivano parole di condanna. "Orrore per la strage terroristica nella moschea del sinai. I nostri pensieri vanno alle vittime, la nostra solidarietà alle famiglie colpite e all'Egitto", ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.Mentre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con un messaggio inviato all'omologo egiziano Abd Al-Fattah Khalil Al-Sisi, ha fatto sapere che "nella comune lotta contro il terrorismo e l'estremismo religioso -nemici esiziali della libera espressione del culto- l'Egitto potrà contare sempre sul determinato sostegno dell'Italia".
Zimbabwe.Ora inizia la vera rivoluzione.
di Ilenia Marini 14 Marzo 2018
Ennesima presa militare del potere nel paese africano.
L’esercito regolare dello Zimbabwe ha iniziato da ieri una grande operazione militare che ottenere il controllo del paese africano. I carriarmati sono entrati nella capitale Harare, la rete televisiva nazionale è stata messa sotto controllo e il presidente Robert Mugabe, la moglie Grace e tre ministri sono sotto la custodia dell'esercito. Il presidente del Sudafrica Jacob Zuma ha dichiarato di aver parlato con Mugabe, che al momento è confinato in casa e sta bene.L’esercito ha provato a rassicurare cittadini e comunità internazionale che non si tratta di un golpe, ma di manovre volte a proteggere il capo di Stato “dai criminali che lo circondano”.
Non è però un caso che questa operazione sia scattata all’indomani di un commento del più alto militare del paese, il generale Constantino Chiwenga, che minacciava un intervento delle Forze armate per risolvere le dispute interne al partito di governo, lo Zanu-Pf.Di recente, Mugabe aveva rimosso dalla vicepresidenza Emmerson Mnangagwa, il quale si era autoesiliato in Sudafrica citando minacce alla propria vita e stamattina è tornato sul suolo nazionale atterrando alla base aerea di Manyame.
A riprova del supporto che riceve dai militari e da Pretoria. A proposito di sostegni internazionali, Chiwenga la scorsa settimana si era recato in Cina per una visita descritta da Pechino come un “normale scambio militare”, ma è difficile che non sia stato sondato il parere della Repubblica Popolare, cruciale partner di un paese sottoposto alle sanzioni occidentali. Mnangagwa, che si è formato militarmente ed ideologicamente anche nella Cina degli anni Sessanta, potrebbe riunire intorno a sé la frammentata opposizione e avere il supporto di una parte rilevante della comunità internazionale, in primis statunitensi e britannici. Già colonia britannica con il nome di Rhodesia Meridionale, il paese è da tempo terreno di conquista. Per gli Usa e per Pechino, la quale in un primo momento sembrava disposta a sostenere lady Mugabe. Ora tutto torna in discussione.
L’esercito regolare dello Zimbabwe ha iniziato da ieri una grande operazione militare che ottenere il controllo del paese africano. I carriarmati sono entrati nella capitale Harare, la rete televisiva nazionale è stata messa sotto controllo e il presidente Robert Mugabe, la moglie Grace e tre ministri sono sotto la custodia dell'esercito. Il presidente del Sudafrica Jacob Zuma ha dichiarato di aver parlato con Mugabe, che al momento è confinato in casa e sta bene.L’esercito ha provato a rassicurare cittadini e comunità internazionale che non si tratta di un golpe, ma di manovre volte a proteggere il capo di Stato “dai criminali che lo circondano”.
Non è però un caso che questa operazione sia scattata all’indomani di un commento del più alto militare del paese, il generale Constantino Chiwenga, che minacciava un intervento delle Forze armate per risolvere le dispute interne al partito di governo, lo Zanu-Pf.Di recente, Mugabe aveva rimosso dalla vicepresidenza Emmerson Mnangagwa, il quale si era autoesiliato in Sudafrica citando minacce alla propria vita e stamattina è tornato sul suolo nazionale atterrando alla base aerea di Manyame.
A riprova del supporto che riceve dai militari e da Pretoria. A proposito di sostegni internazionali, Chiwenga la scorsa settimana si era recato in Cina per una visita descritta da Pechino come un “normale scambio militare”, ma è difficile che non sia stato sondato il parere della Repubblica Popolare, cruciale partner di un paese sottoposto alle sanzioni occidentali. Mnangagwa, che si è formato militarmente ed ideologicamente anche nella Cina degli anni Sessanta, potrebbe riunire intorno a sé la frammentata opposizione e avere il supporto di una parte rilevante della comunità internazionale, in primis statunitensi e britannici. Già colonia britannica con il nome di Rhodesia Meridionale, il paese è da tempo terreno di conquista. Per gli Usa e per Pechino, la quale in un primo momento sembrava disposta a sostenere lady Mugabe. Ora tutto torna in discussione.
Islanda.Leader dei Verdi sarà premier.
di Ilenia Marini
La giovane Jakobsdottir sarà il nuovo capo di governo.
Importante cambiamento nella politica nazionale dell'Islanda, una vera svolta a sinistra. Katrín Jakobsdóttir, 41 anni, capo del partito ambientalista islandese ha ricevuto il compito di formare il nuovo governo nazionale. Da sempre ha lottato per un programma di giustizia sociale, non per ambizioni di potere, adesso sembra che ce la stia facendo. La popolare leader dei Verdi di sinistra in Islanda, ha ottenuto il tanto desiderato l´incarico di formare il nuovo governo. Il capo dello Stato, l´accademico anticonformista Gudni Johannesson, ha scelto lei nonostante che il suo rivale, il leader del centrodestra (Partito dell´indipendenza) Bjarni Benediktsson, sia arrivato primo ma senza alleati nei risultati finali.
Jakobsdóttir, popolare leader dei Verdi, riceve il primo incarico di una certa importanza nella sua giovane carriera politica. Donna giovane, pragmatica e realista, vuole ridistribuire la ricchezza con piú spese per welfare, scuole, sanità e ceti meno abbienti.In fortissima crescita economica da anni dopo essersi risollevata da sola dall'onda lunga della crisi finanziaria del 2008, sempre piú top brand mondiale per calcio, turismo, high tech, gender equality e natura, l'Islanda ha affrontato due elezioni anticipate in un anno. L'anno scorso il premier Gunlaugsson era stato travolto dai Panama Papers, per grosse somme all´estero. Al voto 2016 Bjarni Benediktsson, il 47enne ex ministro delle Finanze aveva riconfermato al potere il tradizionale centrodestra moderno, sostenuto soprattutto da armatori, banche, pescatori e campagne. Ma in autunno Bjarni era caduto. Per il suo silenzio sul padre che copriva un pedofilo, poi per l´accusa di insider trading nel 2008.
Alle elezioni del 28 ottobre non gli è bastato confermare il primo posto. Non ha partner disponibili. Mentre Katrín, che metà degli islandesi vorrebbero premier, è alleata desiderata dal resto della sinistra (socialdemocratici e pirati) e forze centriste. Pragmatica, onesta e realista, vuole ridistribuire la ricchezza con piú spese per welfare, scuole, sanità e ceti meno abbienti, ma senza danneggiare il boom creato da turismo ecologia e high tech ecologica. La stima che tutti le danno come sincera dura, bella e brava forse le porterà fortuna, vedremo.
Importante cambiamento nella politica nazionale dell'Islanda, una vera svolta a sinistra. Katrín Jakobsdóttir, 41 anni, capo del partito ambientalista islandese ha ricevuto il compito di formare il nuovo governo nazionale. Da sempre ha lottato per un programma di giustizia sociale, non per ambizioni di potere, adesso sembra che ce la stia facendo. La popolare leader dei Verdi di sinistra in Islanda, ha ottenuto il tanto desiderato l´incarico di formare il nuovo governo. Il capo dello Stato, l´accademico anticonformista Gudni Johannesson, ha scelto lei nonostante che il suo rivale, il leader del centrodestra (Partito dell´indipendenza) Bjarni Benediktsson, sia arrivato primo ma senza alleati nei risultati finali.
Jakobsdóttir, popolare leader dei Verdi, riceve il primo incarico di una certa importanza nella sua giovane carriera politica. Donna giovane, pragmatica e realista, vuole ridistribuire la ricchezza con piú spese per welfare, scuole, sanità e ceti meno abbienti.In fortissima crescita economica da anni dopo essersi risollevata da sola dall'onda lunga della crisi finanziaria del 2008, sempre piú top brand mondiale per calcio, turismo, high tech, gender equality e natura, l'Islanda ha affrontato due elezioni anticipate in un anno. L'anno scorso il premier Gunlaugsson era stato travolto dai Panama Papers, per grosse somme all´estero. Al voto 2016 Bjarni Benediktsson, il 47enne ex ministro delle Finanze aveva riconfermato al potere il tradizionale centrodestra moderno, sostenuto soprattutto da armatori, banche, pescatori e campagne. Ma in autunno Bjarni era caduto. Per il suo silenzio sul padre che copriva un pedofilo, poi per l´accusa di insider trading nel 2008.
Alle elezioni del 28 ottobre non gli è bastato confermare il primo posto. Non ha partner disponibili. Mentre Katrín, che metà degli islandesi vorrebbero premier, è alleata desiderata dal resto della sinistra (socialdemocratici e pirati) e forze centriste. Pragmatica, onesta e realista, vuole ridistribuire la ricchezza con piú spese per welfare, scuole, sanità e ceti meno abbienti, ma senza danneggiare il boom creato da turismo ecologia e high tech ecologica. La stima che tutti le danno come sincera dura, bella e brava forse le porterà fortuna, vedremo.
Spagna.La Catalogna sarà commissariata.
di Ilenia Marini
Guerra tra le Istituzioni per la questione indipendentista.
In Spagna sono giorni di grande fibrillazione, giorni storici ed importanti. In questi giorni sarà convocato il governo centrale in via straordinaria per avviare le procedure per il commissariamento della Catalogna, con l'attivazione dell'articolo 155 della Costituzione che ne sospende l'autonomia. La decisione è un atto dovuto dopo che l'ultimatum di Madrid, scaduto alle 10 di giovedì mattina, non ha sortito effetti. Il leader indipendentista Carles Puigdemont, ha risposto con una lettera al premier spagnolo, Mariano Rajoy, in cui ha minacciato di votare formalmente l'indipendenza della Catalogna se Madrid continuerà a non accettare la sua offerta di dialogo. Puigdemont ha riconosciuto implicitamente di non aver dichiarato l'indipendenza, come richiesto dal governo spagnolo, ma ha avvertito che se Madrid "persiste nell'impedire il dialogo e prosegue con la repressione", il 'Parlament' catalano "potrà procedere, se lo ritiene opportuno, a votare la dichiarazione di indipendenza formale".
In particolare il presidente della Generalitat ha rimproverato a Madrid di non avergli accordato un incontro con Rajoy e di aver messo agli arresti due leader indipendentisti, Jordi Sanchez e Jordi Cuixart: "Nonostante tutti i nostri sforzi, e la nostra volontà di dialogo, il fatto che l'unica risposta di Madrid sia la sospensione dell'autonomia indica che non se è coscienti del problema e che non si vuole parlare", ha scritto Puigdemont, che si era consultato fino a tarda notte con il suo partito, per averne l'avallo. La risposta di Madrid non si è fatta attendere, affidata prima a un comunicato del governo, poi alla dichiarazione istituzionale del portavoce, Mendes Inigo de Vigo, al Congresso, il Parlamento spagnolo. Il governo si è detto non soddisfatto della risposta del 'govern' (perché non ha riferito "in modo chiaro e preciso" se il 10 ottobre abbia dichiarato l'indipendenza) e ha annunciato che "continuerà con le procedure previste nell'articolo 155 della Costituzione per restaurare la legalità nell'autogoverno della Catalogna".
Nel Consiglio dei ministri che si terrà in forma straordinaria, saranno approvate le misure da portare in Senato "al fine di proteggere l'interesse generale degli spagnoli, tra i quali i cittadini della Catalogna, e restaurare l'ordine costituzionale nella Comunità autonoma". "Nessuno", ha avvertito Mendez de Vigo, davanti al Congresso, "dubiti del fatto che il governo utilizzerà tutti i mezzi in suo possesso per ripristinare la legalità e fermare il deterioramento economico provocato dall'instabilità dei responsabili della Generalitat in Catalogna".
In Spagna sono giorni di grande fibrillazione, giorni storici ed importanti. In questi giorni sarà convocato il governo centrale in via straordinaria per avviare le procedure per il commissariamento della Catalogna, con l'attivazione dell'articolo 155 della Costituzione che ne sospende l'autonomia. La decisione è un atto dovuto dopo che l'ultimatum di Madrid, scaduto alle 10 di giovedì mattina, non ha sortito effetti. Il leader indipendentista Carles Puigdemont, ha risposto con una lettera al premier spagnolo, Mariano Rajoy, in cui ha minacciato di votare formalmente l'indipendenza della Catalogna se Madrid continuerà a non accettare la sua offerta di dialogo. Puigdemont ha riconosciuto implicitamente di non aver dichiarato l'indipendenza, come richiesto dal governo spagnolo, ma ha avvertito che se Madrid "persiste nell'impedire il dialogo e prosegue con la repressione", il 'Parlament' catalano "potrà procedere, se lo ritiene opportuno, a votare la dichiarazione di indipendenza formale".
In particolare il presidente della Generalitat ha rimproverato a Madrid di non avergli accordato un incontro con Rajoy e di aver messo agli arresti due leader indipendentisti, Jordi Sanchez e Jordi Cuixart: "Nonostante tutti i nostri sforzi, e la nostra volontà di dialogo, il fatto che l'unica risposta di Madrid sia la sospensione dell'autonomia indica che non se è coscienti del problema e che non si vuole parlare", ha scritto Puigdemont, che si era consultato fino a tarda notte con il suo partito, per averne l'avallo. La risposta di Madrid non si è fatta attendere, affidata prima a un comunicato del governo, poi alla dichiarazione istituzionale del portavoce, Mendes Inigo de Vigo, al Congresso, il Parlamento spagnolo. Il governo si è detto non soddisfatto della risposta del 'govern' (perché non ha riferito "in modo chiaro e preciso" se il 10 ottobre abbia dichiarato l'indipendenza) e ha annunciato che "continuerà con le procedure previste nell'articolo 155 della Costituzione per restaurare la legalità nell'autogoverno della Catalogna".
Nel Consiglio dei ministri che si terrà in forma straordinaria, saranno approvate le misure da portare in Senato "al fine di proteggere l'interesse generale degli spagnoli, tra i quali i cittadini della Catalogna, e restaurare l'ordine costituzionale nella Comunità autonoma". "Nessuno", ha avvertito Mendez de Vigo, davanti al Congresso, "dubiti del fatto che il governo utilizzerà tutti i mezzi in suo possesso per ripristinare la legalità e fermare il deterioramento economico provocato dall'instabilità dei responsabili della Generalitat in Catalogna".
Siria.L'ISIS indietreggia in molte città.
di Ilenia Marini
Il Califfato in grosse difficoltà militari.La pressione sale sul confine.
Ieri l'esercito regolare curdo in Siria, lo YPG ha dichiarato che la città di Raqqa sta per essere definitivamente liberata dai jihadisti. La battaglia continua nella città di Raqqa e Daesh (lo Stato islamico) sta per finire. Oggi o domani la città può essere liberata", ha detto il portavoce del YPG Nouri Mahmoud. Cento combattenti si sono arresi nelle ultime 24 ore.Il YPG è a capo delle forze democratiche siriane (SDF), composte da milizie arabe e kurde che si battono da giugno per sconfiggere lo Stato islamico a Raqqa, roccaforte del gruppo jihadista in Siria.
Un gruppo di attivisti ha riferito sulla sua pagina Facebook che decine di autobus sono entrati nella notte nella città di Raqqa, dopo aver viaggiato dalla campagna settentrionale. L'Osservatorio britannico ha dichiarato che i combattenti dello Stato islamico siriano e le loro famiglie avevano già lasciato la città, mentre gli autobus sono arrivati per evacuare i rimanenti combattenti stranieri e le loro famiglie.
Non ha detto dove sono stati portati.L'evacuazione è avvenuta secondo un accordo raggiunto tra la SDF e la coalizione guidata dagli Stati Uniti da un lato e lo Stato islamico dall'altro.Durante gli oltre sei anni dì guerra in Siria, l'arrivo di bus nella zona del conflitto ha spesso segnalato un'evacuazione di combattenti e civili. Già nel mese di agosto, i combattenti dello Stato islamico hanno accettato di essere sgomberati da una zona di confine con il Libano-Siria: è stata quella la prima volta che i militanti hanno pubblicamente accettato l'evacuazione forzata dal territorio che occupavano in Siria.
Ieri l'esercito regolare curdo in Siria, lo YPG ha dichiarato che la città di Raqqa sta per essere definitivamente liberata dai jihadisti. La battaglia continua nella città di Raqqa e Daesh (lo Stato islamico) sta per finire. Oggi o domani la città può essere liberata", ha detto il portavoce del YPG Nouri Mahmoud. Cento combattenti si sono arresi nelle ultime 24 ore.Il YPG è a capo delle forze democratiche siriane (SDF), composte da milizie arabe e kurde che si battono da giugno per sconfiggere lo Stato islamico a Raqqa, roccaforte del gruppo jihadista in Siria.
Un gruppo di attivisti ha riferito sulla sua pagina Facebook che decine di autobus sono entrati nella notte nella città di Raqqa, dopo aver viaggiato dalla campagna settentrionale. L'Osservatorio britannico ha dichiarato che i combattenti dello Stato islamico siriano e le loro famiglie avevano già lasciato la città, mentre gli autobus sono arrivati per evacuare i rimanenti combattenti stranieri e le loro famiglie.
Non ha detto dove sono stati portati.L'evacuazione è avvenuta secondo un accordo raggiunto tra la SDF e la coalizione guidata dagli Stati Uniti da un lato e lo Stato islamico dall'altro.Durante gli oltre sei anni dì guerra in Siria, l'arrivo di bus nella zona del conflitto ha spesso segnalato un'evacuazione di combattenti e civili. Già nel mese di agosto, i combattenti dello Stato islamico hanno accettato di essere sgomberati da una zona di confine con il Libano-Siria: è stata quella la prima volta che i militanti hanno pubblicamente accettato l'evacuazione forzata dal territorio che occupavano in Siria.
USA.Tensione con la Corea del Nord.
di Ilenia Marini
Gli USA mostrano i muscoli contro il regime nord-coreano.
Donald Trump fa la voce grossa con Pyongyang, e decide di inviare alcuni caccia bombardieri in volo al largo delle coste nordcoreane. L'operazione - spiega il dipartimento alla Difesa Usa - è per far capire che gli USA hanno moltissime opzioni militari per sconfiggere ogni minaccia. L'azione dimostrativa americana arriva poche ore dopo l'ennesimo allarme per un possibile test nucleare di Kim e scatena una nuova ondata di dichiarazioni durissime da parte di Pyongyang. Una scossa di magnitudo 3,4 registrata in Corea del Nord ha fatto temere per ore che ci fosse stato l'ennesimo test. A sostenerlo era l'agenzia sismologica cinese, mentre il servizio meteorologico sudcoreano ha parlato da subito di un evento "presumibilmente di origine naturale".
E alla fine anche da Pechino è arrivata la conferma: quella verificatasi intorno alle 10.30 italiane di oggi nella stessa zona in cui il 3 settembre il regime di Pyongyang aveva effettuato un test nucleare era proprio una scossa sismica, nessuna esplosione provocata dall'uomo.Tutto questo poche ore dopo il nuovo violento attacco di Trump a Kim. "Noi vogliamo un mondo in cui ci siano Paesi che cooperano tra loro. E non possiamo avere un piccolo pazzo che spara missili sugli altri", ha detto il presidente degli Stati Uniti in un comizio in Alabama. "Qui stiamo parlando di armi di distruzione di massa, e non possiamo permettere che qualcuno metta il nostro popolo in pericolo, il popolo americano" , ha aggiunto. l nuovo affondo del presidente americano acuisce ulteriormente la tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord, all'indomani della minaccia lanciata da Pyongyang di far esplodere un ordigno all'idrogeno nel mar del Pacifico.
Minaccia espressa apertamente e direttamente da Kim Jong-un proprio contro Trump, in risposta al suo discorso alle Nazioni Unite in cui il presidente Usa aveva dichiarato: "Se la Corea del Nord attaccherà l'America o uno dei nostri alleati, non resterà che distruggere quel paese".E dal palco dell'Onu è arrivata anche l'ennesima replica del regime. Il ministro degli Esteri Ri Yong-ho, lo stesso che ieri aveva minacciato l'esplosione di una bomba all'idrogeno nel Pacifico, è tornato ad insultare Donald Trump definendolo un "un folle gonfio della sua megalomania" nel suo intervento all'Assemblea Generale Onu. Le minacce di Trump per Ri "rendono inevitabile, ma anche oltre, che i nostri missili 'visitino' l'intero territorio statunitense".
Donald Trump fa la voce grossa con Pyongyang, e decide di inviare alcuni caccia bombardieri in volo al largo delle coste nordcoreane. L'operazione - spiega il dipartimento alla Difesa Usa - è per far capire che gli USA hanno moltissime opzioni militari per sconfiggere ogni minaccia. L'azione dimostrativa americana arriva poche ore dopo l'ennesimo allarme per un possibile test nucleare di Kim e scatena una nuova ondata di dichiarazioni durissime da parte di Pyongyang. Una scossa di magnitudo 3,4 registrata in Corea del Nord ha fatto temere per ore che ci fosse stato l'ennesimo test. A sostenerlo era l'agenzia sismologica cinese, mentre il servizio meteorologico sudcoreano ha parlato da subito di un evento "presumibilmente di origine naturale".
E alla fine anche da Pechino è arrivata la conferma: quella verificatasi intorno alle 10.30 italiane di oggi nella stessa zona in cui il 3 settembre il regime di Pyongyang aveva effettuato un test nucleare era proprio una scossa sismica, nessuna esplosione provocata dall'uomo.Tutto questo poche ore dopo il nuovo violento attacco di Trump a Kim. "Noi vogliamo un mondo in cui ci siano Paesi che cooperano tra loro. E non possiamo avere un piccolo pazzo che spara missili sugli altri", ha detto il presidente degli Stati Uniti in un comizio in Alabama. "Qui stiamo parlando di armi di distruzione di massa, e non possiamo permettere che qualcuno metta il nostro popolo in pericolo, il popolo americano" , ha aggiunto. l nuovo affondo del presidente americano acuisce ulteriormente la tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord, all'indomani della minaccia lanciata da Pyongyang di far esplodere un ordigno all'idrogeno nel mar del Pacifico.
Minaccia espressa apertamente e direttamente da Kim Jong-un proprio contro Trump, in risposta al suo discorso alle Nazioni Unite in cui il presidente Usa aveva dichiarato: "Se la Corea del Nord attaccherà l'America o uno dei nostri alleati, non resterà che distruggere quel paese".E dal palco dell'Onu è arrivata anche l'ennesima replica del regime. Il ministro degli Esteri Ri Yong-ho, lo stesso che ieri aveva minacciato l'esplosione di una bomba all'idrogeno nel Pacifico, è tornato ad insultare Donald Trump definendolo un "un folle gonfio della sua megalomania" nel suo intervento all'Assemblea Generale Onu. Le minacce di Trump per Ri "rendono inevitabile, ma anche oltre, che i nostri missili 'visitino' l'intero territorio statunitense".
Siria.Parte l'offensiva di Assad.
di Ilenia Marini
L'esercito siriano è pronto all'attacco decisivo contro l'ISIS.
Sono giorni di grande turbolenza nelle zone siriane.Nel caldo allucinante del deserto, nella regione sud-orientale è scattato il countdown. Le milizie islamiste dell’ISIS, incalzate su tutti i fronti, sono state costrette ad ammassarsi intorno all’Eufrate, lungo le postazioni che circondano Deir Ezzor, eroica città siriana assediata da 50 mesi. L’esercito siriano, aiutato dalle forze aeree russe e dai suoi alleati sul terreno, spinge ora verso est da due assi distinti:Intere colonne di miliziani ISIS sono in queste ore in fase di trasferimento dal fronte di Hama, dove sono impegnate dalla grande offensiva siriana tesa a liberare il centro del Paese da quel che resta del Califfato, per essere trasferite a Deir Ezzor, dove si prevede in arrivo la madre di tutte le battaglie.
La guarnigione siriana presente in città, comandata dal generale dei paracadutisti Issam Zahreddine e rifornita solo per via aerea, continua a respingere gli assalti degli jihadisti che circondano la città (solo la sponda occidentale dell’Eufrate è in mano siriana) e aspetta il tanto anelato arrivo delle truppe per rompere l’assedio. Vale la pena sottolineare che il generale druso Zahreddine, nonostante la fama leggendaria nella sua battaglia pluriennale contro il terrorismo islamista, è stato da pochi giorni inserito nella lista nera dell’Unione Europea per presunti crimini contro l’umanità commessi nel 2012, agli inizi della guerra.
Nonostante la diplomazia continui a tessere le maglie del futuro prossimo della Siria, la parola rimane per ora alle armi. Fonti militari sostengono che le milizie dell’ISIS siano ancora in grado di resistere ed infliggere pesanti danni alle forze armate di Damasco, ma siano ormai condannate alla sconfitta definitiva nei prossimi mesi. Vanno messi in evidenza a questo proposito la grande capacità d’intelligence, l’abilità operativa e l’alto livello di gestione strategica della guerra da parte dei comandi militari dello Stato Islamico, il che ci pone ancora una volta davanti all’imbarazzante interrogativo su chi e come abbia aiutato e continui ad aiutare i terroristi. A ridosso del confine tra Siria e Giordania le forze fedeli ad Assad continuano ad avanzare riprendendo il controllo di decine di km di frontiera. Centinaia di miliziani del Free Syrian Army, armati e addestrati fino a ieri dagli USA, sarebbero stati costretti a riparare in territorio giordano.
Sono giorni di grande turbolenza nelle zone siriane.Nel caldo allucinante del deserto, nella regione sud-orientale è scattato il countdown. Le milizie islamiste dell’ISIS, incalzate su tutti i fronti, sono state costrette ad ammassarsi intorno all’Eufrate, lungo le postazioni che circondano Deir Ezzor, eroica città siriana assediata da 50 mesi. L’esercito siriano, aiutato dalle forze aeree russe e dai suoi alleati sul terreno, spinge ora verso est da due assi distinti:Intere colonne di miliziani ISIS sono in queste ore in fase di trasferimento dal fronte di Hama, dove sono impegnate dalla grande offensiva siriana tesa a liberare il centro del Paese da quel che resta del Califfato, per essere trasferite a Deir Ezzor, dove si prevede in arrivo la madre di tutte le battaglie.
La guarnigione siriana presente in città, comandata dal generale dei paracadutisti Issam Zahreddine e rifornita solo per via aerea, continua a respingere gli assalti degli jihadisti che circondano la città (solo la sponda occidentale dell’Eufrate è in mano siriana) e aspetta il tanto anelato arrivo delle truppe per rompere l’assedio. Vale la pena sottolineare che il generale druso Zahreddine, nonostante la fama leggendaria nella sua battaglia pluriennale contro il terrorismo islamista, è stato da pochi giorni inserito nella lista nera dell’Unione Europea per presunti crimini contro l’umanità commessi nel 2012, agli inizi della guerra.
Nonostante la diplomazia continui a tessere le maglie del futuro prossimo della Siria, la parola rimane per ora alle armi. Fonti militari sostengono che le milizie dell’ISIS siano ancora in grado di resistere ed infliggere pesanti danni alle forze armate di Damasco, ma siano ormai condannate alla sconfitta definitiva nei prossimi mesi. Vanno messi in evidenza a questo proposito la grande capacità d’intelligence, l’abilità operativa e l’alto livello di gestione strategica della guerra da parte dei comandi militari dello Stato Islamico, il che ci pone ancora una volta davanti all’imbarazzante interrogativo su chi e come abbia aiutato e continui ad aiutare i terroristi. A ridosso del confine tra Siria e Giordania le forze fedeli ad Assad continuano ad avanzare riprendendo il controllo di decine di km di frontiera. Centinaia di miliziani del Free Syrian Army, armati e addestrati fino a ieri dagli USA, sarebbero stati costretti a riparare in territorio giordano.
Afghanistan.Ucciso leader dell' ISIS.
di Ilenia Marini
Colpo durissimo inferto al terrorismo del Califfato.
Una ferita pesantissima è stata inferta all'Isis in Afghanistan. Il capo del cosiddetto Stato islamico nel paese asiatico, Abu Sayed, è stato ucciso il 13 luglio in un attacco delle forze Usa contro il quartier generale del gruppo nella provincia di Kunar: lo ha annunciato il Pentagono. La portavoce Dana White ha inoltre dichiarato che anche altri cinque importanti membri dell'Isis sono stati uccisi nel corso dell'azione, che "ha inflitto un duro colpo ai piani del gruppo terroristico di espandere la propria presenza in Afghanistan".
Sayed era diventato da almeno un anno il nuovo leader del Khorasan, la sezione dell'Isis in Afghanistan e Pakistan,tra le più attive e pericolose, quando il leader precedente, Abdul Hasib, era rimasto ucciso in un'azione delle forze americane e come lui anche il suo predecessore, Hafiz Sayed Khan. Si stima che lo Stato islamico in Afghanistan abbia tra le sue fila circa quattromila combattenti.Continua invece il giallo sulla morte di al-Baghdadi. Il capo del Pentagono Jim Mattis ha affermato ancora una volta che gli Stati Uniti non hanno le prove per confermare con certezza che il leader dell' Isis sia stato ucciso.
"Se lo sapessimo lo diremmo. Al momento non posso né confermare né smentire. - ha detto Mattis - Il nostro approccio è che supponiamo sia vivo fino a quando non viene provato il contrario. E, al momento, non posso provare il contrario".
Una ferita pesantissima è stata inferta all'Isis in Afghanistan. Il capo del cosiddetto Stato islamico nel paese asiatico, Abu Sayed, è stato ucciso il 13 luglio in un attacco delle forze Usa contro il quartier generale del gruppo nella provincia di Kunar: lo ha annunciato il Pentagono. La portavoce Dana White ha inoltre dichiarato che anche altri cinque importanti membri dell'Isis sono stati uccisi nel corso dell'azione, che "ha inflitto un duro colpo ai piani del gruppo terroristico di espandere la propria presenza in Afghanistan".
Sayed era diventato da almeno un anno il nuovo leader del Khorasan, la sezione dell'Isis in Afghanistan e Pakistan,tra le più attive e pericolose, quando il leader precedente, Abdul Hasib, era rimasto ucciso in un'azione delle forze americane e come lui anche il suo predecessore, Hafiz Sayed Khan. Si stima che lo Stato islamico in Afghanistan abbia tra le sue fila circa quattromila combattenti.Continua invece il giallo sulla morte di al-Baghdadi. Il capo del Pentagono Jim Mattis ha affermato ancora una volta che gli Stati Uniti non hanno le prove per confermare con certezza che il leader dell' Isis sia stato ucciso.
"Se lo sapessimo lo diremmo. Al momento non posso né confermare né smentire. - ha detto Mattis - Il nostro approccio è che supponiamo sia vivo fino a quando non viene provato il contrario. E, al momento, non posso provare il contrario".
USA.Sale la tensione nel Mar Cinese.
di Ilenia Marini
Portaerei americana in territorio cinese.Pechino innervosita.
Nel Mar Cinese Meridionale la situazione si fa molto tesa; da un paio di giorni il cacciatorpediniere americano USS Stethem si muove indisturbato nella zona e si è avvicinato alla piccola isola Triton contesa tra Cina, Taiwan e Vietnam. Secondo la Marina americana si tratta di un' operazione di formazione nell’ ambito del «diritto di passaggio innocente» queste sono le parole usate anche dal Pentagono. Esercitazioni del genere sono spesso effettuate per mettere in evidenza come un Paese straniero non debba necessariamente preavvertire del passaggio di sue imbarcazioni quando in acque internazionali. Per Pechino resta tuttavia un gesto provocatorio, come sottolineato anche in questa circostanza dal portavoce del ministro cinese degli Esteri. Pechino considera infatti una «seria provocazione politica e militare» da parte degli Stati Uniti il passaggio del cacciatorpediniere nelle acque delle isole Paracel.
In una nota, il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Lu Kang, ha inoltre confermato l’invio di navi da guerra e di caccia nell’area per lanciare un avvertimento all’indirizzo del cacciatorpediniere Usa, che era entrato nelle dodici miglia nautiche delle acque territoriali delle isole. Per Washington si tratta di un’«operazione di libertà di navigazione», la seconda da quando Donald Trump è presidente degli Stati Uniti, mentre per Pechino la libertà di navigazione è solo un pretesto e la mossa ha violato la legge cinese e internazionale. La Cina chiede agli Usa di interrompere quelle che definisce come «operazioni provocatorie» e avverte che prenderà in considerazione «tutte le misure necessarie» per difendere la sovranità nazionale e la sicurezza dell’area. Gli Stati Uniti, ha poi aggiunto Lu Kang, vogliono «deliberatamente» creare problemi nel Mare Cinese Meridionale.
Il passaggio del cacciatorpediniere Usa in acque rivendicate da Pechino è il secondo episodio di questo tipo in poche settimane. A fine maggio, un’altra nave da guerra Usa era passata all’interno delle dodici miglia nautiche di un’isola artificiale ampliata da Pechino nel Mare Cinese Meridionale. A destare preoccupazione negli Usa sono anche i più recenti progressi sul piano delle infrastrutture create dalla Cina presenti sulle isole contese, e ripresi dalle ultime immagini satellitari della Asia Maritime Transparency Initiative del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali di Washington. Le immagini mostrano diverse nuove costruzioni militari su tre isole della arcipelago delle Spratly, conteso tra Cina e Filippine, tra cui strutture per le comunicazioni, per i missili e per nuovi radar, queste ultime ancora in fase di realizzazione.
Nel Mar Cinese Meridionale la situazione si fa molto tesa; da un paio di giorni il cacciatorpediniere americano USS Stethem si muove indisturbato nella zona e si è avvicinato alla piccola isola Triton contesa tra Cina, Taiwan e Vietnam. Secondo la Marina americana si tratta di un' operazione di formazione nell’ ambito del «diritto di passaggio innocente» queste sono le parole usate anche dal Pentagono. Esercitazioni del genere sono spesso effettuate per mettere in evidenza come un Paese straniero non debba necessariamente preavvertire del passaggio di sue imbarcazioni quando in acque internazionali. Per Pechino resta tuttavia un gesto provocatorio, come sottolineato anche in questa circostanza dal portavoce del ministro cinese degli Esteri. Pechino considera infatti una «seria provocazione politica e militare» da parte degli Stati Uniti il passaggio del cacciatorpediniere nelle acque delle isole Paracel.
In una nota, il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Lu Kang, ha inoltre confermato l’invio di navi da guerra e di caccia nell’area per lanciare un avvertimento all’indirizzo del cacciatorpediniere Usa, che era entrato nelle dodici miglia nautiche delle acque territoriali delle isole. Per Washington si tratta di un’«operazione di libertà di navigazione», la seconda da quando Donald Trump è presidente degli Stati Uniti, mentre per Pechino la libertà di navigazione è solo un pretesto e la mossa ha violato la legge cinese e internazionale. La Cina chiede agli Usa di interrompere quelle che definisce come «operazioni provocatorie» e avverte che prenderà in considerazione «tutte le misure necessarie» per difendere la sovranità nazionale e la sicurezza dell’area. Gli Stati Uniti, ha poi aggiunto Lu Kang, vogliono «deliberatamente» creare problemi nel Mare Cinese Meridionale.
Il passaggio del cacciatorpediniere Usa in acque rivendicate da Pechino è il secondo episodio di questo tipo in poche settimane. A fine maggio, un’altra nave da guerra Usa era passata all’interno delle dodici miglia nautiche di un’isola artificiale ampliata da Pechino nel Mare Cinese Meridionale. A destare preoccupazione negli Usa sono anche i più recenti progressi sul piano delle infrastrutture create dalla Cina presenti sulle isole contese, e ripresi dalle ultime immagini satellitari della Asia Maritime Transparency Initiative del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali di Washington. Le immagini mostrano diverse nuove costruzioni militari su tre isole della arcipelago delle Spratly, conteso tra Cina e Filippine, tra cui strutture per le comunicazioni, per i missili e per nuovi radar, queste ultime ancora in fase di realizzazione.
Cile.Alle presidenziali la Bachelet rischia.
di Ilenia Marini
Consenso molto frastagliato alle prossime presidenziali.
Il Cile è un paese antichissimo da sempre caratterizzato da svariate fasi politiche passando nell’ultimo trentennio dalle tenebre della dittatura al completamento della transizione verso la democrazia. L’alternanza dei partiti politici al potere l’hanno portato a diventare uno Stato con un'immagine politica molto simile agli altri paesi dell’America Latina. Le elezioni presidenziali del prossimo novembre (che eleggeranno anche deputati, senatori e consiglieri regionali) saranno sicuramente un primo segnale di grosso cambiamento della vita politica democratica del Cile. Sebbene la democrazia continui ad essere un concetto basilare e garantito a spada tratta e l’alternanza nei partiti al potere sia stata frequente negli ultimi anni, oggi la società si trova in una fase di frammentazione importante. Il malcontento e le riforme promesse e parzialmente realizzate dalla Presidenza, la situazione economica poco brillante, fanno sì che partiti politici che poco hanno in comune, come il ‘Partido Comunista’ e il ‘Partido Demócrata Cristiano’, diventino alleati in una linea di pensiero non semplice da comprendere.
Il malcontento nei confronti del governo attuale, a livello di opinione pubblica, secondo i principali sondaggi, si aggira tra il 66% ed il 69%, e si configura come riflesso e conseguenza anche nella bassa approvazione del modo in cui si stanno affrontando i principali problemi del paese, come la corruzione e la delinquenza. Ma c’è una questione aperta legata direttamente all’approvazione delle politiche riformiste della Bachelet, apprezzata solo dal 19% dei cileni, probabilmente spiazzati dalla politica economica liberista attuata da una presidente socialista. Probabilmente l’avanzata di esponenti conservatori si spiega anche così. La corsa per la Presidenza del Cile ha ancora una lunga strada da percorrere, tuttavia siamo a meno di un mese dalle primarie che ci daranno una proiezione importante di quello che veramente potremo vedere a novembre.
Ci sono diverse variabili che devono essere tenute in conto. La frammentazione dei partiti politici; il malcontento della popolazione nei confronti della classe politica dirigente; il cambio della legge elettorale, che permette ai cileni residenti all’estero di votare per la prima volta stando fuori del territorio; la possibilità di un cambio radicale di strategia da parte del ‘Frente Amplio’, per entrare realmente in competizione a novembre. Tutte realtà possibili e collegate tra di loro.
Il Cile è un paese antichissimo da sempre caratterizzato da svariate fasi politiche passando nell’ultimo trentennio dalle tenebre della dittatura al completamento della transizione verso la democrazia. L’alternanza dei partiti politici al potere l’hanno portato a diventare uno Stato con un'immagine politica molto simile agli altri paesi dell’America Latina. Le elezioni presidenziali del prossimo novembre (che eleggeranno anche deputati, senatori e consiglieri regionali) saranno sicuramente un primo segnale di grosso cambiamento della vita politica democratica del Cile. Sebbene la democrazia continui ad essere un concetto basilare e garantito a spada tratta e l’alternanza nei partiti al potere sia stata frequente negli ultimi anni, oggi la società si trova in una fase di frammentazione importante. Il malcontento e le riforme promesse e parzialmente realizzate dalla Presidenza, la situazione economica poco brillante, fanno sì che partiti politici che poco hanno in comune, come il ‘Partido Comunista’ e il ‘Partido Demócrata Cristiano’, diventino alleati in una linea di pensiero non semplice da comprendere.
Il malcontento nei confronti del governo attuale, a livello di opinione pubblica, secondo i principali sondaggi, si aggira tra il 66% ed il 69%, e si configura come riflesso e conseguenza anche nella bassa approvazione del modo in cui si stanno affrontando i principali problemi del paese, come la corruzione e la delinquenza. Ma c’è una questione aperta legata direttamente all’approvazione delle politiche riformiste della Bachelet, apprezzata solo dal 19% dei cileni, probabilmente spiazzati dalla politica economica liberista attuata da una presidente socialista. Probabilmente l’avanzata di esponenti conservatori si spiega anche così. La corsa per la Presidenza del Cile ha ancora una lunga strada da percorrere, tuttavia siamo a meno di un mese dalle primarie che ci daranno una proiezione importante di quello che veramente potremo vedere a novembre.
Ci sono diverse variabili che devono essere tenute in conto. La frammentazione dei partiti politici; il malcontento della popolazione nei confronti della classe politica dirigente; il cambio della legge elettorale, che permette ai cileni residenti all’estero di votare per la prima volta stando fuori del territorio; la possibilità di un cambio radicale di strategia da parte del ‘Frente Amplio’, per entrare realmente in competizione a novembre. Tutte realtà possibili e collegate tra di loro.
Serbia.La Brnabic è diventata premier.
di Ilenia Marini
Nell'ex regno di Milosevic un cambiamento davvero rivoluzionario.
In Serbia si è arrivati ad un cambiamento epocale, davvero storico, per la prima volta nel Paese balcanico, dove l'omofobia è spesso a livelli massimi, una donna dichiaratamente omosessuale è stata scelta per la guida del nuovo governo. Il giovane presidente eletto europeista e riformatore Aleksandar Vucic ha annunciato di aver scelto Ana Brnabic, ex suo ministro della Funzione pubblica, quale suo erede alla guida dell'esecutivo. Il Presidente ha sottolineato che la scelta è stata dura e ponderata ma che la Brnabic abbia le qualità e la preparazione per portare avanti il programma di governo, proseguire nelle riforme, progredire sulla strada dell'integrazione della Serbia nell'Unione europea e continuare a migliorare l'immagine internazionale del Paese.Dopo la netta vittoria di Vucic, leader dello Sns, il partito riformista-europeista di maggioranza, alle elezioni presidenziali anticipate del 2 aprile scorso, era ovviamente necessario trovare un suo o una sua erede, non essendo previsto né in Serbia né in altre democrazie il cumulo delle due cariche di capo dello Stato e capo dell'esecutivo.
Ana Brnabic ha 42 anni, è lesbica dichiarata e aveva già fatto notizia lo scorso agosto quando era divenuta la prima donna omosessuale a entrare in un governo a Belgrado. Ora diventa la prima persona omosessuale dichiarata in assoluto a guidare l'esecutivo del più importante paese dell'ex Jugoslavia, la Serbia appunto che sotto la leadership di Vucic sta attuando grandi riforme, rilanciando l'economia, risanando i conti pubblici e procede a passo di marcia forzata nel negoziato per entrare nell'Unione europea. Era stato Vucic in persona, superando resistenze e obiezioni della parte più tradizionalista del mondo politico, a imporre il suo ingresso nel governo. Adesso l'ha imposta come premier contro potenti rivali: il ministro degli Esteri uscente e premier ad interim Ivica Dacic, e la ex presidente della Banca centrale, donna ma "etero".Ana Brnabic vanta una solida formazione: nata a Belgrado, ha conseguito il dottorato all'università di Hull nel Regno Unito. Prima di entrare nel governo presieduto allora da Vucic, era stata chiamata dal leader a guidare un'associazione mista composta da rappresentanti di governo, parti sociali e società civile, la Naled, che dal 2006 ha l'incarico di creare le migliori condizioni possibili per le riforme e la modernizzazione della Serbia. In passato c'erano stati, prima dell'arrivo di Vucic al potere, clamorosi episodi di violenza omofoba nel paese.
Come nella parata del gay pride del 2010, quando squadristi - gruppi misti di violenti nostalgici del dittatore nazionalista e slavofilo Slobodan Milosevic e di gruppi sciovinisti di estrema destra - avevano attaccato e pestato a sangue i dimostranti e la polizia che cercava di difendere questi ultimi. Il bilancio fu di 150 feriti, in gran parte agenti che proteggevano i gay dalle squadracce. Nell'era Vucic invece i cortei del gay pride si sono svolti senza incidenti.La nomina di Ana Brnabic contrasta con altre scelte in diverse parti dell'ex Jugoslavia. Come il risultato delle recentissime elezioni politiche in Kosovo, cioè la vittoria del falco ed ex comandante guerrigliero della Uck Ramush Haradinaj, prossimo premier, di cui la Serbia chiede invano l'estradizione accusandolo di gravi crimini di guerra contro i civili durante le guerre scatenate da Milosevic che portarono dopo gli interventi Nato alla fine della Jugoslavia. Poche ore prima di scegliere Ana Brnabic come nuovo premier,il vertice di Belgrado aveva tra l'altro indicato, secondo la famosa radio libera B92, di voler restare neutrale, ma anche di voler avviare un'attiva cooperazione con l'Alleanza atlantica. Insomma sempre piú spinte e segnali di europeismo e di volontà filo-occidentale.
In Serbia si è arrivati ad un cambiamento epocale, davvero storico, per la prima volta nel Paese balcanico, dove l'omofobia è spesso a livelli massimi, una donna dichiaratamente omosessuale è stata scelta per la guida del nuovo governo. Il giovane presidente eletto europeista e riformatore Aleksandar Vucic ha annunciato di aver scelto Ana Brnabic, ex suo ministro della Funzione pubblica, quale suo erede alla guida dell'esecutivo. Il Presidente ha sottolineato che la scelta è stata dura e ponderata ma che la Brnabic abbia le qualità e la preparazione per portare avanti il programma di governo, proseguire nelle riforme, progredire sulla strada dell'integrazione della Serbia nell'Unione europea e continuare a migliorare l'immagine internazionale del Paese.Dopo la netta vittoria di Vucic, leader dello Sns, il partito riformista-europeista di maggioranza, alle elezioni presidenziali anticipate del 2 aprile scorso, era ovviamente necessario trovare un suo o una sua erede, non essendo previsto né in Serbia né in altre democrazie il cumulo delle due cariche di capo dello Stato e capo dell'esecutivo.
Ana Brnabic ha 42 anni, è lesbica dichiarata e aveva già fatto notizia lo scorso agosto quando era divenuta la prima donna omosessuale a entrare in un governo a Belgrado. Ora diventa la prima persona omosessuale dichiarata in assoluto a guidare l'esecutivo del più importante paese dell'ex Jugoslavia, la Serbia appunto che sotto la leadership di Vucic sta attuando grandi riforme, rilanciando l'economia, risanando i conti pubblici e procede a passo di marcia forzata nel negoziato per entrare nell'Unione europea. Era stato Vucic in persona, superando resistenze e obiezioni della parte più tradizionalista del mondo politico, a imporre il suo ingresso nel governo. Adesso l'ha imposta come premier contro potenti rivali: il ministro degli Esteri uscente e premier ad interim Ivica Dacic, e la ex presidente della Banca centrale, donna ma "etero".Ana Brnabic vanta una solida formazione: nata a Belgrado, ha conseguito il dottorato all'università di Hull nel Regno Unito. Prima di entrare nel governo presieduto allora da Vucic, era stata chiamata dal leader a guidare un'associazione mista composta da rappresentanti di governo, parti sociali e società civile, la Naled, che dal 2006 ha l'incarico di creare le migliori condizioni possibili per le riforme e la modernizzazione della Serbia. In passato c'erano stati, prima dell'arrivo di Vucic al potere, clamorosi episodi di violenza omofoba nel paese.
Come nella parata del gay pride del 2010, quando squadristi - gruppi misti di violenti nostalgici del dittatore nazionalista e slavofilo Slobodan Milosevic e di gruppi sciovinisti di estrema destra - avevano attaccato e pestato a sangue i dimostranti e la polizia che cercava di difendere questi ultimi. Il bilancio fu di 150 feriti, in gran parte agenti che proteggevano i gay dalle squadracce. Nell'era Vucic invece i cortei del gay pride si sono svolti senza incidenti.La nomina di Ana Brnabic contrasta con altre scelte in diverse parti dell'ex Jugoslavia. Come il risultato delle recentissime elezioni politiche in Kosovo, cioè la vittoria del falco ed ex comandante guerrigliero della Uck Ramush Haradinaj, prossimo premier, di cui la Serbia chiede invano l'estradizione accusandolo di gravi crimini di guerra contro i civili durante le guerre scatenate da Milosevic che portarono dopo gli interventi Nato alla fine della Jugoslavia. Poche ore prima di scegliere Ana Brnabic come nuovo premier,il vertice di Belgrado aveva tra l'altro indicato, secondo la famosa radio libera B92, di voler restare neutrale, ma anche di voler avviare un'attiva cooperazione con l'Alleanza atlantica. Insomma sempre piú spinte e segnali di europeismo e di volontà filo-occidentale.
Gran Bretagna.La May non vuole mollare.
di Ilenia Marini
Momento di riflessione politica in Gran Bretagna.
Ieri Theresa May ha avuto un breve colloquio con la Regina Elisabetta, come da protocollo e poi ha dato il suo annuncio: sarà creato un nuovo governo, per rispettare la promessa della Brexit e dare stabilità istituzionale alla Nazione. La premier ha ribadito che ai vertici dei rispettivi dicasteri ci saranno i ministri Boris Johnson (Esteri), Amber Rudd (Interno), Philip Hammond (Finanze), Michael Fallon (Difesa) e il ministro per la Brexit David Davis. In questi giorni invece non verranno dati altri incarichi ha infine ribadito Downing Street. Parlando alla Bbc, la premier ha ammesso di non aver fallito l'obiettivo che si era preposto con il voto anticipato, raggiungere "una maggioranza più ampia", dichiarandosi "dispiaciuta" verso "i candidati, i deputati uscenti e i sottosegretari" non rieletti.
La May ha inoltre affermato che sarà fatta una lunga riflessione su come il partito debba progredire e sul futuro politico stesso del Paese. A sostenere il nuovo esecutivo, oltre alla componente parlamentare Tory fortemente ridimensionata dall'esito delle elezioni (318 seggi, -18 rispetto alla precedente legislatura) al punto da non garantire da soli una maggioranza, la stampella fornita dai dieci seggi dei nordirlandesi del Democratic Unionist Party. Sulla soglia di Downing Street, May ha confermato di poter contare sugli "amici" del Dup. "Continueremo a lavorare con loro" le parole della premier, "i nostri due partiti godono da molti anni di una forte relazione e questo mi dà la fiducia che saremo in grado di lavorare insieme nell'interesse dell'intero Regno Unito".
La Premier infine ha dichiarato che intende continuare a lavorare con loro perchè la Gran Bretagna ha bisogno di certezze. Il gran bisogno di sicurezza innanzitutto, ma anche la certezza di portare in fondo il negoziato per l'uscita dall'Unione dall'Unione Europea, rispettando la tabella di marcia stabilita. In una successiva dichiarazione alla Bbc, la premier May ha ribadito l'intenzione di avviare il negoziato con la Ue entro 10 giorni come previsto (la data fissata era proprio il 19 giugno). "Avendo ottenuto il maggior numero di voti e di seggi alle elezioni generali - ha sottolineato May -, è chiaro che i conservatori e gli unionisti abbiano la legittimità per fornire queste certezze. E adesso - ha concluso - mettiamoci a lavorare,
Ieri Theresa May ha avuto un breve colloquio con la Regina Elisabetta, come da protocollo e poi ha dato il suo annuncio: sarà creato un nuovo governo, per rispettare la promessa della Brexit e dare stabilità istituzionale alla Nazione. La premier ha ribadito che ai vertici dei rispettivi dicasteri ci saranno i ministri Boris Johnson (Esteri), Amber Rudd (Interno), Philip Hammond (Finanze), Michael Fallon (Difesa) e il ministro per la Brexit David Davis. In questi giorni invece non verranno dati altri incarichi ha infine ribadito Downing Street. Parlando alla Bbc, la premier ha ammesso di non aver fallito l'obiettivo che si era preposto con il voto anticipato, raggiungere "una maggioranza più ampia", dichiarandosi "dispiaciuta" verso "i candidati, i deputati uscenti e i sottosegretari" non rieletti.
La May ha inoltre affermato che sarà fatta una lunga riflessione su come il partito debba progredire e sul futuro politico stesso del Paese. A sostenere il nuovo esecutivo, oltre alla componente parlamentare Tory fortemente ridimensionata dall'esito delle elezioni (318 seggi, -18 rispetto alla precedente legislatura) al punto da non garantire da soli una maggioranza, la stampella fornita dai dieci seggi dei nordirlandesi del Democratic Unionist Party. Sulla soglia di Downing Street, May ha confermato di poter contare sugli "amici" del Dup. "Continueremo a lavorare con loro" le parole della premier, "i nostri due partiti godono da molti anni di una forte relazione e questo mi dà la fiducia che saremo in grado di lavorare insieme nell'interesse dell'intero Regno Unito".
La Premier infine ha dichiarato che intende continuare a lavorare con loro perchè la Gran Bretagna ha bisogno di certezze. Il gran bisogno di sicurezza innanzitutto, ma anche la certezza di portare in fondo il negoziato per l'uscita dall'Unione dall'Unione Europea, rispettando la tabella di marcia stabilita. In una successiva dichiarazione alla Bbc, la premier May ha ribadito l'intenzione di avviare il negoziato con la Ue entro 10 giorni come previsto (la data fissata era proprio il 19 giugno). "Avendo ottenuto il maggior numero di voti e di seggi alle elezioni generali - ha sottolineato May -, è chiaro che i conservatori e gli unionisti abbiano la legittimità per fornire queste certezze. E adesso - ha concluso - mettiamoci a lavorare,
Afghanistan. Attentato al cimitero.
di Ilenia Marini
Kabul ancora tormentata da attentati kamikaze.
Un attentato terrorista ha insanguinato i funerali di Salim Ezadyar, figlio del vicepresidente del Senato, ucciso qualche giorno fa nel corso di una sparatoria della polizia contro manifestanti in piazza a Kabul. La protesta faceva seguito all'attentato di mercoledì, nel quartiere diplomatico, dove ci sono il palazzo presidenziale e molte ambasciate, in cui sono morte circa 90 persone e centinaia rimaste ferite; l'intera zona dell'attentato è stata isolata ed è pattugliata da veicoli blindati. Le vittime di questa autobomba sono almeno 7 secondo il Ministero della Sanità afgano, ma il bilancio è ancora poco chiaro. Le notizie però sono contrastanti, ad esempio Emergency che gestisce un ospedale di Kabul, afferma che i morti sono almeno 19.
Le esplosioni lungo il percorso del corteo che era diretto al cimitero di Kabul sarebbero state più di una, pare tre, secondo le prime ricostruzioni. Non è chiaro se si è trattato di autobombe o meno.Il premier facente funzioni, Abdullah Abdullah, era presente alle esequie ed è rimasto illeso. Abdullah è stato subito portato via dal cimitero dal suo servizio di sicurezza. I talebani hanno negato di essere responsabili dell'attentato. Immediatamente dopo la triplice esplosione, e come avevano fatto già in occasione della strage di mercoledì vicino alla 'Zona Verde' di massima sicurezza della capitale, il portavoce degli insorti, Zabihullah Mujahid ha diffuso un comunicato per escludere qualunque responsabilità dell'Emirato islamico nell'attentato.
Per Mujahid si tratterebbe di "screzi interni fra nemici". Alcuni reporter locali accorsi sul posto hanno detto di aver visto i corpi di due kamikaze, ma il portavoce del ministero dell'Interno Najib Danish ha spiegato che le cause dell'esplosione non sono ancora chiare. Intanto, sempre il ministero della Sanità ha ribadito che il numero è di 87 feriti e di 7 cadaveri portati negli ospedali.
Un attentato terrorista ha insanguinato i funerali di Salim Ezadyar, figlio del vicepresidente del Senato, ucciso qualche giorno fa nel corso di una sparatoria della polizia contro manifestanti in piazza a Kabul. La protesta faceva seguito all'attentato di mercoledì, nel quartiere diplomatico, dove ci sono il palazzo presidenziale e molte ambasciate, in cui sono morte circa 90 persone e centinaia rimaste ferite; l'intera zona dell'attentato è stata isolata ed è pattugliata da veicoli blindati. Le vittime di questa autobomba sono almeno 7 secondo il Ministero della Sanità afgano, ma il bilancio è ancora poco chiaro. Le notizie però sono contrastanti, ad esempio Emergency che gestisce un ospedale di Kabul, afferma che i morti sono almeno 19.
Le esplosioni lungo il percorso del corteo che era diretto al cimitero di Kabul sarebbero state più di una, pare tre, secondo le prime ricostruzioni. Non è chiaro se si è trattato di autobombe o meno.Il premier facente funzioni, Abdullah Abdullah, era presente alle esequie ed è rimasto illeso. Abdullah è stato subito portato via dal cimitero dal suo servizio di sicurezza. I talebani hanno negato di essere responsabili dell'attentato. Immediatamente dopo la triplice esplosione, e come avevano fatto già in occasione della strage di mercoledì vicino alla 'Zona Verde' di massima sicurezza della capitale, il portavoce degli insorti, Zabihullah Mujahid ha diffuso un comunicato per escludere qualunque responsabilità dell'Emirato islamico nell'attentato.
Per Mujahid si tratterebbe di "screzi interni fra nemici". Alcuni reporter locali accorsi sul posto hanno detto di aver visto i corpi di due kamikaze, ma il portavoce del ministero dell'Interno Najib Danish ha spiegato che le cause dell'esplosione non sono ancora chiare. Intanto, sempre il ministero della Sanità ha ribadito che il numero è di 87 feriti e di 7 cadaveri portati negli ospedali.
Egitto.Blitz aerei in Libia dopo l'attentato.
di Ilenia Marini
L'esercito reagisce e dopo l'attentato bombarda la Libia.
E' passato appena un giorno dall'ettentato ad un autobus di cristiani copti nella città egizia di Menyah, con annessa rivendicazione dello Stato islamico. L'Egitto ha reagito con blitz aerei in Libia (dove si trovano le basi dei terroristi), insieme all'aviazione del generale Haftar. Ma al Sarraj, leader del Governo di accordo nazionale libico, accusa che si tratti di un attentato alla sovranità libica. Sta diventando un affaire internazionale destinato a aumentare la tensione tra Egitto e Libia, l'attacco ai cristiano copti. Sull'agenzia di propaganda Amaq, gli jihadisti scrivono che un distaccamento di sicurezza dell'Isis ha condotto un attentato ieri a Mynia contro un autobus che trasportava copti. Lo ha riferito Site, il sito che monitora l'attività jihadista della galassia estremista.
L'organizzazione rivendica un bilancio di 32 vittime, a differenza delle ultime notizie confermate dalle autorità egiziane che parlano di 29 morti e 13 persone ancora ricoverate in ospedale per le ferite riportate. Tra le vittime numerosi bambini. Le Forze Armate egiziane confermano di aver distrutto covi dei "terroristi" in raid aerei sulla vicina Libia dopo l'attacco contro i copti a Minya, rivendicato dall'Is. I raid hanno portato alla "completa distruzione" degli obiettivi, compresi centri di "addestramento dei terroristi che hanno partecipato alla pianificazione e attuazione dell'attacco di Minya", affermano i militari in una nota che parla di "successo" della "missione".
I media egiziani parlano di numerosi raid aerei contro obiettivi nella zona di Derna, in Libia. Al-Sisi ha promesso che non esiterà a colpire i campi dei terroristi ovunque si trovino.L'aviazione fedele al generale Khalifa Haftar, l'uomo forte dell'est della Libia, ha annunciato di aver partecipato ai raid aerei lanciati ieri dall'egitto nella città libica di derna per rappresaglia all'attacco terroristico contro cristiani copti. In un comunicato dell'agenzia di stampa lana, fedele alle autorità dell'est libico, si riferisce di una "operazione congiunta"
E' passato appena un giorno dall'ettentato ad un autobus di cristiani copti nella città egizia di Menyah, con annessa rivendicazione dello Stato islamico. L'Egitto ha reagito con blitz aerei in Libia (dove si trovano le basi dei terroristi), insieme all'aviazione del generale Haftar. Ma al Sarraj, leader del Governo di accordo nazionale libico, accusa che si tratti di un attentato alla sovranità libica. Sta diventando un affaire internazionale destinato a aumentare la tensione tra Egitto e Libia, l'attacco ai cristiano copti. Sull'agenzia di propaganda Amaq, gli jihadisti scrivono che un distaccamento di sicurezza dell'Isis ha condotto un attentato ieri a Mynia contro un autobus che trasportava copti. Lo ha riferito Site, il sito che monitora l'attività jihadista della galassia estremista.
L'organizzazione rivendica un bilancio di 32 vittime, a differenza delle ultime notizie confermate dalle autorità egiziane che parlano di 29 morti e 13 persone ancora ricoverate in ospedale per le ferite riportate. Tra le vittime numerosi bambini. Le Forze Armate egiziane confermano di aver distrutto covi dei "terroristi" in raid aerei sulla vicina Libia dopo l'attacco contro i copti a Minya, rivendicato dall'Is. I raid hanno portato alla "completa distruzione" degli obiettivi, compresi centri di "addestramento dei terroristi che hanno partecipato alla pianificazione e attuazione dell'attacco di Minya", affermano i militari in una nota che parla di "successo" della "missione".
I media egiziani parlano di numerosi raid aerei contro obiettivi nella zona di Derna, in Libia. Al-Sisi ha promesso che non esiterà a colpire i campi dei terroristi ovunque si trovino.L'aviazione fedele al generale Khalifa Haftar, l'uomo forte dell'est della Libia, ha annunciato di aver partecipato ai raid aerei lanciati ieri dall'egitto nella città libica di derna per rappresaglia all'attacco terroristico contro cristiani copti. In un comunicato dell'agenzia di stampa lana, fedele alle autorità dell'est libico, si riferisce di una "operazione congiunta"
USA - Russia.Finalmente riprende il dialogo.
di Ilenia Marini
Recente incontro tra le super potenze per riallacciare i rapporti.
Qualche giorno fa alla Casa Bianca c'è stato un vertice importante tra il neo presidente Donald Trump e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, quaranta minuti di dialogo per riprendere a costruire relazioni reciprocamente proficue tra la nuova Casa Bianca e il Cremlino di Vladimir Putin. Il vertice a due era stato programmato da tempo per ridare vigore al rapporto Usa-Russia che si era leggermente affievolito durante la presidenza Obama. L'incontro è capitato nel pieno della tempesta politica e di intelligence per il licenziamento del direttore dell'Fbi James Comey e con i tanti dubbi sulle indagini - presenti e soprattutto future - sul cosiddetto Russiagate.
Il presidente Usa ha colto l'occasione per liquidare con un paio di battute la vicenda Comey sottolineando che è stata una scelta tecnica non ovviamente politica e ha confermato - dopo un incontro a sorpresa avuto con Henry Kissinger (ex segretario di Stato di Richard Nixon) - che il licenziamento del direttore Fbi e il Russiagate non hanno avuto alcuna conseguenza sul colloquio con Lavrov.Molto soddisfatto il ministro di Putin. Che ha spiegato ai giornalisti come l'amministrazione Trump sia composta "da gente che viene dal business", con cui è possibile "un dialogo libero da ideologie, come quelle che hanno rovinato i rapporti con la Casa Bianca di Obama" e che oggi gli Stati Uniti sono "interessati a giocare un ruolo, vogliono porre fine alle orribili, orribili uccisioni in Siria il più presto possibile, tutti stiamo lavorando a quello scopo".
Per gli Usa - continua Lavrov - è "umiliante, come è umiliante per il popolo americano, dire che la Russia influisce sul suo sistema politico", ma su questo punto durante l'incontro non c'è stato alcun problema. Il capo della diplomazia di Mosca ha ovviamente negato che ci siano state interferenze russe sul processo elettorale Usa, ripetendo a più riprese che a Trump interessano relazioni "pragmatiche" con la Russia. Quanto alla cosa che forse temeva di più, le possibili nuove sanzioni contro Mosca, ha risposto con un secco "non ne abbiamo discusso". Secondo il ministro degli Esteri russo, Trump capisce perfettamente che le azioni del suo predecessore Barack Obama nei confronti della proprietà diplomatica della Federazione russa negli Stati Uniti erano illegali. "Credo che tutti lo capiscano. Putin come presidente russo quando queste decisioni vennero annunciate da Obama, aveva tutto il diritto di ricambiare. Gli americani lo sanno, noi abbiamo deciso di non rispondere perché, come ha spiegato Putin, non vogliamo essere guidati da coloro che stanno cercando di risucchiarci in un imbuto, da cui la fuga sarà impossibile".
Qualche giorno fa alla Casa Bianca c'è stato un vertice importante tra il neo presidente Donald Trump e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, quaranta minuti di dialogo per riprendere a costruire relazioni reciprocamente proficue tra la nuova Casa Bianca e il Cremlino di Vladimir Putin. Il vertice a due era stato programmato da tempo per ridare vigore al rapporto Usa-Russia che si era leggermente affievolito durante la presidenza Obama. L'incontro è capitato nel pieno della tempesta politica e di intelligence per il licenziamento del direttore dell'Fbi James Comey e con i tanti dubbi sulle indagini - presenti e soprattutto future - sul cosiddetto Russiagate.
Il presidente Usa ha colto l'occasione per liquidare con un paio di battute la vicenda Comey sottolineando che è stata una scelta tecnica non ovviamente politica e ha confermato - dopo un incontro a sorpresa avuto con Henry Kissinger (ex segretario di Stato di Richard Nixon) - che il licenziamento del direttore Fbi e il Russiagate non hanno avuto alcuna conseguenza sul colloquio con Lavrov.Molto soddisfatto il ministro di Putin. Che ha spiegato ai giornalisti come l'amministrazione Trump sia composta "da gente che viene dal business", con cui è possibile "un dialogo libero da ideologie, come quelle che hanno rovinato i rapporti con la Casa Bianca di Obama" e che oggi gli Stati Uniti sono "interessati a giocare un ruolo, vogliono porre fine alle orribili, orribili uccisioni in Siria il più presto possibile, tutti stiamo lavorando a quello scopo".
Per gli Usa - continua Lavrov - è "umiliante, come è umiliante per il popolo americano, dire che la Russia influisce sul suo sistema politico", ma su questo punto durante l'incontro non c'è stato alcun problema. Il capo della diplomazia di Mosca ha ovviamente negato che ci siano state interferenze russe sul processo elettorale Usa, ripetendo a più riprese che a Trump interessano relazioni "pragmatiche" con la Russia. Quanto alla cosa che forse temeva di più, le possibili nuove sanzioni contro Mosca, ha risposto con un secco "non ne abbiamo discusso". Secondo il ministro degli Esteri russo, Trump capisce perfettamente che le azioni del suo predecessore Barack Obama nei confronti della proprietà diplomatica della Federazione russa negli Stati Uniti erano illegali. "Credo che tutti lo capiscano. Putin come presidente russo quando queste decisioni vennero annunciate da Obama, aveva tutto il diritto di ricambiare. Gli americani lo sanno, noi abbiamo deciso di non rispondere perché, come ha spiegato Putin, non vogliamo essere guidati da coloro che stanno cercando di risucchiarci in un imbuto, da cui la fuga sarà impossibile".
Inghilterra.E' la Miller la vera anti Brexit.
di Ilenia Marini
Un nuovo personaggio femminile conquista consenso nella politica inglese.
Si chiama Gina Miller, la donna che da sola si è schierata contro la Brexit e che ha lanciato "Best of Britain" un'iniziativa per propagandare lo spirito europeista nel corso della campagna elettorale delle elezioni legislative britanniche anticipate dell'8 giugno 2017."Best of Britain, dice la Miller, è nato un'ora esatta dopo l'annuncio delle elezioni dell'8 giugno da parte del Primo ministro, convinta che ci sarebbe stata una vittoria schiacciante del partito conservatore. Dice l'avvocatessa londinese che semplicemente non si può permettere che questo accada, perché sarebbe una vera e propria dittatura elettorale. E' necessario avere un equilibrio tra le diverse voci in Parlamento e quindi si è creata una campagna di voto tattico.
L'attivista-manager, attraverso il suo movimento, vuole guidare gli elettori britannici alla scelta di candidati che, seppure di diversi partiti e schieramenti, abbiano una visione critica e obiettiva e siano accomunati dal desiderio di contrastare l'hard Brexit, anche in sede parlamentare, pronti a favorire accordi concreti tra Gran Bretagna e Unione europea. La premier Theresa May, infatti, sembra pronta ad andarsene senza accordo, pur di non accettare la libera circolazione delle persone.
Nell'immediatezza, sottolinea la Miller gli obiettivi sono garantire un elevato tasso di partecipazione alle prossime elezioni per ispirare i giovani a pensare di votare davvero per il proprio futuro. Poi per cercare di garantire la presenza di un certo numero di candidati che sosterranno un voto utile. Il risultato a lungo termine invece - conclude la leader - non è una scelta tra votare o non votare la Brexit ma, appunto, un voto utile per avere tutte le possibili opzioni sul tavolo. In poco tempo il movimento ha avuto un notevole riscontro, con oltre 10mila consensi e una considerevole raccolta fondi, a dimostrazione che nel Regno Unito c'è ancora qualcuno che crede a un possibile futuro europeo per il Paese o, almeno, in un accordo il più amichevole possibile.
Si chiama Gina Miller, la donna che da sola si è schierata contro la Brexit e che ha lanciato "Best of Britain" un'iniziativa per propagandare lo spirito europeista nel corso della campagna elettorale delle elezioni legislative britanniche anticipate dell'8 giugno 2017."Best of Britain, dice la Miller, è nato un'ora esatta dopo l'annuncio delle elezioni dell'8 giugno da parte del Primo ministro, convinta che ci sarebbe stata una vittoria schiacciante del partito conservatore. Dice l'avvocatessa londinese che semplicemente non si può permettere che questo accada, perché sarebbe una vera e propria dittatura elettorale. E' necessario avere un equilibrio tra le diverse voci in Parlamento e quindi si è creata una campagna di voto tattico.
L'attivista-manager, attraverso il suo movimento, vuole guidare gli elettori britannici alla scelta di candidati che, seppure di diversi partiti e schieramenti, abbiano una visione critica e obiettiva e siano accomunati dal desiderio di contrastare l'hard Brexit, anche in sede parlamentare, pronti a favorire accordi concreti tra Gran Bretagna e Unione europea. La premier Theresa May, infatti, sembra pronta ad andarsene senza accordo, pur di non accettare la libera circolazione delle persone.
Nell'immediatezza, sottolinea la Miller gli obiettivi sono garantire un elevato tasso di partecipazione alle prossime elezioni per ispirare i giovani a pensare di votare davvero per il proprio futuro. Poi per cercare di garantire la presenza di un certo numero di candidati che sosterranno un voto utile. Il risultato a lungo termine invece - conclude la leader - non è una scelta tra votare o non votare la Brexit ma, appunto, un voto utile per avere tutte le possibili opzioni sul tavolo. In poco tempo il movimento ha avuto un notevole riscontro, con oltre 10mila consensi e una considerevole raccolta fondi, a dimostrazione che nel Regno Unito c'è ancora qualcuno che crede a un possibile futuro europeo per il Paese o, almeno, in un accordo il più amichevole possibile.
Francia.Le elezioni spaccano il paese.
di Ilenia Marini
Marine Le Pen ed E. Macron vanno al ballottaggio a Giugno.
Le urne francesi hanno sancito una Nazione spaccata perfettamente a metà, con il Nord-Est che è quasi monocolore per Marine Le Pen, mentre il Sud-Ovest è tutto assegnato a Emmanuel Macron. La fotografia che si ha del primo turno elettorale delle presidenziali segnala una netta differenza geografica. E anche sociologica, con gli operai schierati nettamente per il Front National e i professionisti per l'ex ministro dell'Economia. La parte settentrionale della Francia è da semprea favore delle politiche della Le Pen, che ha il suo feudo a Hénin-Beaumont, vicino Lille. Nelle zona tra Piccardia e Nord-Pas-de-Calais, al confine con il Belgio, il Fn supera anche il 31% dei voti. In alcuni comuni come Brachay il risultato è addirittura dell'83%.La fascia orientale, verso la frontiera con la Germania, il Grand-Est, registra sempre una prevalenza della leader Fn, con il 27,78% dei voti.
Si conferma anche la forza del partito di Le Pen nel Sud e sulla costa del Mediterraneo: nella regione Paca (Provence-Alpes-Cotes d'Azur) dove ottiene il 28,17% rispetto ale 22,37% di François Fillon. La leader Fn segna anche un risultato storico in Corsica, arrivando al primo posto con il 27,88%, superando per la prima volta nell'isola la destra gollista (Fillon ha preso il 25,5%).La supremazia del Front National nel Nord-Est, la zona continentale del Paese, quella dei confini, e collegata all'Europa, è ormai radicata, ad eccezione della regione parigina.
Nell' Ile-de-France il Fn è al 12,5% contro il 28,3% per Emmanuel Macron. Nella capitale il Front National ottiene addirittura un misero 4,99%, record negativo. Macron è invece in testa a Parigi con il 28,63%.Per quanto riguarda la condizione professionale, Le Pen ha riscosso grande successo tra gli operai, dove ha raccolto il 37%, e gli impiegati (32%), mentre Macron ha i suoi punti di forza nei quadri dirigenti (uno su tre ha votato per lui) e nei professionisti, tra i quali ha avuto il 26%. La stessa percentuale di Marine Le Pen tra i disoccupati, dove però è risultata seconda dietro a Melenchon (33%).
Le urne francesi hanno sancito una Nazione spaccata perfettamente a metà, con il Nord-Est che è quasi monocolore per Marine Le Pen, mentre il Sud-Ovest è tutto assegnato a Emmanuel Macron. La fotografia che si ha del primo turno elettorale delle presidenziali segnala una netta differenza geografica. E anche sociologica, con gli operai schierati nettamente per il Front National e i professionisti per l'ex ministro dell'Economia. La parte settentrionale della Francia è da semprea favore delle politiche della Le Pen, che ha il suo feudo a Hénin-Beaumont, vicino Lille. Nelle zona tra Piccardia e Nord-Pas-de-Calais, al confine con il Belgio, il Fn supera anche il 31% dei voti. In alcuni comuni come Brachay il risultato è addirittura dell'83%.La fascia orientale, verso la frontiera con la Germania, il Grand-Est, registra sempre una prevalenza della leader Fn, con il 27,78% dei voti.
Si conferma anche la forza del partito di Le Pen nel Sud e sulla costa del Mediterraneo: nella regione Paca (Provence-Alpes-Cotes d'Azur) dove ottiene il 28,17% rispetto ale 22,37% di François Fillon. La leader Fn segna anche un risultato storico in Corsica, arrivando al primo posto con il 27,88%, superando per la prima volta nell'isola la destra gollista (Fillon ha preso il 25,5%).La supremazia del Front National nel Nord-Est, la zona continentale del Paese, quella dei confini, e collegata all'Europa, è ormai radicata, ad eccezione della regione parigina.
Nell' Ile-de-France il Fn è al 12,5% contro il 28,3% per Emmanuel Macron. Nella capitale il Front National ottiene addirittura un misero 4,99%, record negativo. Macron è invece in testa a Parigi con il 28,63%.Per quanto riguarda la condizione professionale, Le Pen ha riscosso grande successo tra gli operai, dove ha raccolto il 37%, e gli impiegati (32%), mentre Macron ha i suoi punti di forza nei quadri dirigenti (uno su tre ha votato per lui) e nei professionisti, tra i quali ha avuto il 26%. La stessa percentuale di Marine Le Pen tra i disoccupati, dove però è risultata seconda dietro a Melenchon (33%).
Sud-Sudan.Ormai è un vero genocidio.
di Ilenia Marini
Resta gravissima la situazione umanitaria nello stato sud-sudanese.
Una vera tragedia umanitaria sta esplodendo da alcuni in mesi nei territori interni del Sud Sudan, uno stato giovane nato pochi anni fa da una costola del Sudan.Le vittime di questo conflitto sono civili ed inermi, le promesse della comunità internazionale e dei leader sud sudanesi, non devono perdere di vista l’obiettivo finale: pace e prosperità per il futuro del Paese». L' Onu in Sud Sudan ha un suo presidio fisso da un anno e sono proprio i direttori della missione a sottolineare la gravità della guerra civile nel territorio.Una tragedia senza precedenti – affermano gli esperti che da decenni seguono la storia sud sudanese –: pulizia etnica, fuga di civili in massa, gran parte della popolazione sull’ orlo della carestia. A tre anni dall’ inizio della guerra civile, la crisi politica in Sud Sudan continua ad aggravarsi. Gli scontri tra le due principali etnie, i dinka del presidente Salva Kiir e i nuer dell’ex vice presidente Riek Machar, hanno raggiunto un livello di ferocia mai visto prima. Ma i combattimenti stanno travolgendo anche le etnie minori.
Le violenze potrebbero aumentare attraverso un’ottica etnica in vista di un possibile genocidio.Sono chiare le violazioni del coprifuoco da parte di tutte le fazioni e la totale mancanza di responsabilità per i terribili atti commessi. Quello che prima era un esercito indisciplinato diviso tra dinka e nuer è ora un corpo amorfo fatto da diversi gruppi armati, gang di criminali e banditi di ogni tipo su cui il governo non esercita alcun tipo di controllo. Settimana scorsa Kiir si è rifiutato di confermare il quadro del Paese delineato dai funzionari dell’Onu. Una situazione davanti alla quale troppo spesso l’Onu non ha saputo o voluto reagire, nonostante la sua costante presenza nella più “giovane nazione del mondo. Non a caso, durante i prossimi mesi, Unmiss sarà rinforzata con l’aggiunta e una parziale ristrutturazione del personale, tra militari dei caschi blu e funzionari civili. Il peggio, infatti, sembra debba ancora venire. In qualsiasi parte del Paese gli abitanti dei villaggi assicurano di esser pronti a versare il loro sangue per riappropriarsi dei terreni perduti. E con l’imminente stagione secca, la popolazione sa che i combattimenti e la carestia sono destinati ad intensificarsi.
Oltre 3,5 milioni di sud sudanesi soffrono di una grave mancanza di cibo. Senza aiuti, tra gennaio e aprile, il numero aumenterà fino a 4,6 milioni, un’insicurezza alimentare mai vista prima nel Paese. In molti, infatti, hanno già cominciato a scappare negli Stati limitrofi, i quali sono spesso incapaci di ospitare tali ondate di profughi. Da agosto, più di 4mila persone al giorno sono arrivate in Uganda, mentre altre 36mila hanno raggiunto l’Etiopia da settembre. E oltre 57mila sono arrivate quest’anno nella Repubblica democratica del Congo. Non ci sono abbastanza mezzi per aiutare tutti e la cosa più grave è che non c’è più cibo.
Una vera tragedia umanitaria sta esplodendo da alcuni in mesi nei territori interni del Sud Sudan, uno stato giovane nato pochi anni fa da una costola del Sudan.Le vittime di questo conflitto sono civili ed inermi, le promesse della comunità internazionale e dei leader sud sudanesi, non devono perdere di vista l’obiettivo finale: pace e prosperità per il futuro del Paese». L' Onu in Sud Sudan ha un suo presidio fisso da un anno e sono proprio i direttori della missione a sottolineare la gravità della guerra civile nel territorio.Una tragedia senza precedenti – affermano gli esperti che da decenni seguono la storia sud sudanese –: pulizia etnica, fuga di civili in massa, gran parte della popolazione sull’ orlo della carestia. A tre anni dall’ inizio della guerra civile, la crisi politica in Sud Sudan continua ad aggravarsi. Gli scontri tra le due principali etnie, i dinka del presidente Salva Kiir e i nuer dell’ex vice presidente Riek Machar, hanno raggiunto un livello di ferocia mai visto prima. Ma i combattimenti stanno travolgendo anche le etnie minori.
Le violenze potrebbero aumentare attraverso un’ottica etnica in vista di un possibile genocidio.Sono chiare le violazioni del coprifuoco da parte di tutte le fazioni e la totale mancanza di responsabilità per i terribili atti commessi. Quello che prima era un esercito indisciplinato diviso tra dinka e nuer è ora un corpo amorfo fatto da diversi gruppi armati, gang di criminali e banditi di ogni tipo su cui il governo non esercita alcun tipo di controllo. Settimana scorsa Kiir si è rifiutato di confermare il quadro del Paese delineato dai funzionari dell’Onu. Una situazione davanti alla quale troppo spesso l’Onu non ha saputo o voluto reagire, nonostante la sua costante presenza nella più “giovane nazione del mondo. Non a caso, durante i prossimi mesi, Unmiss sarà rinforzata con l’aggiunta e una parziale ristrutturazione del personale, tra militari dei caschi blu e funzionari civili. Il peggio, infatti, sembra debba ancora venire. In qualsiasi parte del Paese gli abitanti dei villaggi assicurano di esser pronti a versare il loro sangue per riappropriarsi dei terreni perduti. E con l’imminente stagione secca, la popolazione sa che i combattimenti e la carestia sono destinati ad intensificarsi.
Oltre 3,5 milioni di sud sudanesi soffrono di una grave mancanza di cibo. Senza aiuti, tra gennaio e aprile, il numero aumenterà fino a 4,6 milioni, un’insicurezza alimentare mai vista prima nel Paese. In molti, infatti, hanno già cominciato a scappare negli Stati limitrofi, i quali sono spesso incapaci di ospitare tali ondate di profughi. Da agosto, più di 4mila persone al giorno sono arrivate in Uganda, mentre altre 36mila hanno raggiunto l’Etiopia da settembre. E oltre 57mila sono arrivate quest’anno nella Repubblica democratica del Congo. Non ci sono abbastanza mezzi per aiutare tutti e la cosa più grave è che non c’è più cibo.
USA.Lanciati missili verso basi siriane.
di Ilenia Marini
L'America torna paladina della pace e vendica l'attacco chimico.
Ieri è stato un giorno importante nella lotta agli integralismi.Nella notte gli USA attraverso due loro portaerei ancorate nel Mediterraneo hanno lanciato 59 missili Tomahawk verso basi militari della Siria di Assad. Questa è da considerarsi la reazione americana per la strage di Khan Sheikhoun in cui martedì mattina sono morte più di 80 persone, fra cui 28 bambini. Gli americani hanno preso di mira la base di Al Shayrat da cui erano partiti gli aerei con le armi chimiche. Prima di colpire, riferiscono fonti del Pentagono ai media Usa, i russi sono stati avvertiti, così come confermato dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov. Sono state prese misure straordinarie per evitare danni ad alcuni avamposti russi presenti nella zona, ha affermato da Washington il portavoce Jeff Davis.L'attacco sicuramente porterà "danni considerevoli" alle relazioni tra Russia e Stati Uniti, si legge nella nota del Cremlino.
Il Presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato che l'azione americana viola la legge internazionale. Washington ha compiuto un atto di aggressione contro uno Stato sovrano, ha rimarcato Putin, citato dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, secondo i media russi. Mosca ha chiesto la convocazione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell'Onu "per discutere la situazione". La riunione è iniziata, come previsto, alle 17,30. Il rappresentante russo al Palazzo di vetro ha accusato gli Stati Uniti di aver commesso una "flagrante violazione della legalità internazionale" bombardando la base aerea siriana di Shayrat. Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, l'attacco americano "è un colpo colossale arrecato proprio ai processi che portavano alla ricomposizione pacifica" della crisi siriana "sia ad Astana sia a Ginevra".
Il ministero della Difesa russo ha annunciato ufficialmente al Pentagono la chiusura della linea diretta per prevenire incidenti tra gli aerei militari in Siria a partire dalla mezzanotte di domani: lo ha fatto sapere il portavoce del ministero russo, generale Igor Konashenkov. Gli Stati Uniti "hanno dato una risposta calibrata e concreta" e "sono pronti a portare altri attacchi missilistici" in Siria, ha detto l'ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, durante la riunione straordinaria del consiglio di sicurezza. "Il mondo aspetta che il governo russo agisca responsabilmente in Siria" e che Mosca "riconsideri la sua alleanza inappropriata" con il presidente Assad.
Ieri è stato un giorno importante nella lotta agli integralismi.Nella notte gli USA attraverso due loro portaerei ancorate nel Mediterraneo hanno lanciato 59 missili Tomahawk verso basi militari della Siria di Assad. Questa è da considerarsi la reazione americana per la strage di Khan Sheikhoun in cui martedì mattina sono morte più di 80 persone, fra cui 28 bambini. Gli americani hanno preso di mira la base di Al Shayrat da cui erano partiti gli aerei con le armi chimiche. Prima di colpire, riferiscono fonti del Pentagono ai media Usa, i russi sono stati avvertiti, così come confermato dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov. Sono state prese misure straordinarie per evitare danni ad alcuni avamposti russi presenti nella zona, ha affermato da Washington il portavoce Jeff Davis.L'attacco sicuramente porterà "danni considerevoli" alle relazioni tra Russia e Stati Uniti, si legge nella nota del Cremlino.
Il Presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato che l'azione americana viola la legge internazionale. Washington ha compiuto un atto di aggressione contro uno Stato sovrano, ha rimarcato Putin, citato dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, secondo i media russi. Mosca ha chiesto la convocazione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell'Onu "per discutere la situazione". La riunione è iniziata, come previsto, alle 17,30. Il rappresentante russo al Palazzo di vetro ha accusato gli Stati Uniti di aver commesso una "flagrante violazione della legalità internazionale" bombardando la base aerea siriana di Shayrat. Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, l'attacco americano "è un colpo colossale arrecato proprio ai processi che portavano alla ricomposizione pacifica" della crisi siriana "sia ad Astana sia a Ginevra".
Il ministero della Difesa russo ha annunciato ufficialmente al Pentagono la chiusura della linea diretta per prevenire incidenti tra gli aerei militari in Siria a partire dalla mezzanotte di domani: lo ha fatto sapere il portavoce del ministero russo, generale Igor Konashenkov. Gli Stati Uniti "hanno dato una risposta calibrata e concreta" e "sono pronti a portare altri attacchi missilistici" in Siria, ha detto l'ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, durante la riunione straordinaria del consiglio di sicurezza. "Il mondo aspetta che il governo russo agisca responsabilmente in Siria" e che Mosca "riconsideri la sua alleanza inappropriata" con il presidente Assad.
Venezuela.Ormai è un golpe strisciante.
di Ilenia Marini
Continua ad essere molto grave la situazione politica in Venezuela.
Nessuno lo definisce per quello che è ma in Venezuela da alcuni mesi è in atto un vero e proprio golpe istituzionale guidato dal Presidente Nicolas Maduro contro l'opposizione. Ieri una nuovo pagina indecorosa per il paese sud americano: la Corte suprema ha votato per svuotare da ogni funzione il Parlamento che dalle elezioni del 6 dicembre 2015 è a grande maggioranza (112 deputati su 167) in mano all'opposizione. L'accusa da cui i giudici supremi sono partiti su imput presidenziale è quella di "oltraggio" al presidente dopo che, qualche settimana fa, la maggioranza dei deputati aveva votato la messa in stato d'accusa di Maduro, responsabile secondo l'opposizione della gravissima crisi umanitaria e della carestia che attraversa il Paese latinoamericano.In questo modo Maduro assume i pieni poteri senza più alcun controllo parlamentare. La Corte ha giustificato la sentenza con queste parole: "Siccome il Parlamento si ribella e oltraggia le deliberazioni del presidente, le sue competenze saranno esercitate direttamente dal Tribunale supremo".
La mossa della Corte, completamente sotto il controllo del partito del presidente, avviene mentre l'Osa, l'Organizzazione degli Stati americani, è riunita a Washington proprio per discutere la situazione venezuelana. Una ventina di Paesi hanno già dato il loro appoggio al dossier presentato dal segretario dell'Osa, Luis Almagro (ex cancelliere dell'Uruguay), nel quale si accusa il presidente venezuelano di comportamento antidemocratico e si chiede la sospensione del Venezuela dall'organizzazione. La maggioranza del Parlamento venezuelano appoggia la richiesta di Almagro sulla sospensione di Caracas e Maduro ha già accusato i deputati di "tradimento della patria".Ora la situazione scivola sempre di più verso lo scontro aperto con la possibilità che Maduro e gli altri eredi del defunto presidente Hugo Chávez annullino i prossimi appuntamenti elettorali nei quali, stando ai sondaggi, risulterebbero pesantemente sconfitti.
Appena due giorni fa, prima di esautorare il Parlamento nazionale dalle sue funzioni, l'Alta corte aveva cancellato l'immunità parlamentare dei deputati e concesso nuovi poteri straordinari a Maduro in materia penale, militare, economica e politica. Sullo sfondo di una gravissima emergenza economica - il Venezuela corre a grandi passi verso la bancarotta - si drammatizza così il conflitto politico fra un'opposizione che, dopo aver vinto le elezioni parlamentari, vincerebbe facilmente anche quelle presidenziali e un partito al potere, quello "chavista",L'obiettivo di Maduro è quello di non votare più perché è questa l'unica soluzione che gli garantisce di restare al potere insieme alle forze armate, molto importanti nel suo governo, che lo appoggiano.
Nessuno lo definisce per quello che è ma in Venezuela da alcuni mesi è in atto un vero e proprio golpe istituzionale guidato dal Presidente Nicolas Maduro contro l'opposizione. Ieri una nuovo pagina indecorosa per il paese sud americano: la Corte suprema ha votato per svuotare da ogni funzione il Parlamento che dalle elezioni del 6 dicembre 2015 è a grande maggioranza (112 deputati su 167) in mano all'opposizione. L'accusa da cui i giudici supremi sono partiti su imput presidenziale è quella di "oltraggio" al presidente dopo che, qualche settimana fa, la maggioranza dei deputati aveva votato la messa in stato d'accusa di Maduro, responsabile secondo l'opposizione della gravissima crisi umanitaria e della carestia che attraversa il Paese latinoamericano.In questo modo Maduro assume i pieni poteri senza più alcun controllo parlamentare. La Corte ha giustificato la sentenza con queste parole: "Siccome il Parlamento si ribella e oltraggia le deliberazioni del presidente, le sue competenze saranno esercitate direttamente dal Tribunale supremo".
La mossa della Corte, completamente sotto il controllo del partito del presidente, avviene mentre l'Osa, l'Organizzazione degli Stati americani, è riunita a Washington proprio per discutere la situazione venezuelana. Una ventina di Paesi hanno già dato il loro appoggio al dossier presentato dal segretario dell'Osa, Luis Almagro (ex cancelliere dell'Uruguay), nel quale si accusa il presidente venezuelano di comportamento antidemocratico e si chiede la sospensione del Venezuela dall'organizzazione. La maggioranza del Parlamento venezuelano appoggia la richiesta di Almagro sulla sospensione di Caracas e Maduro ha già accusato i deputati di "tradimento della patria".Ora la situazione scivola sempre di più verso lo scontro aperto con la possibilità che Maduro e gli altri eredi del defunto presidente Hugo Chávez annullino i prossimi appuntamenti elettorali nei quali, stando ai sondaggi, risulterebbero pesantemente sconfitti.
Appena due giorni fa, prima di esautorare il Parlamento nazionale dalle sue funzioni, l'Alta corte aveva cancellato l'immunità parlamentare dei deputati e concesso nuovi poteri straordinari a Maduro in materia penale, militare, economica e politica. Sullo sfondo di una gravissima emergenza economica - il Venezuela corre a grandi passi verso la bancarotta - si drammatizza così il conflitto politico fra un'opposizione che, dopo aver vinto le elezioni parlamentari, vincerebbe facilmente anche quelle presidenziali e un partito al potere, quello "chavista",L'obiettivo di Maduro è quello di non votare più perché è questa l'unica soluzione che gli garantisce di restare al potere insieme alle forze armate, molto importanti nel suo governo, che lo appoggiano.
Siria.Attentati kamikaze in pieno centro.
di Ilenia Marini
Il nuovo gruppo di terroristi siriani fa scorrere sangue in città.
Si tratta di Al Qaeda, e per la precisione la cellula siriana del terrorismo ad assumersi la responsabilità totale e a rivendicare i gesti kamikaze avvenuti due giorni fa a Homs, nella Siria centrale, in cui sono morte – secondo l’Osservatorio siriano per i diritti - almeno 44 persone, tra cui il capo della sezione locale dei servizi di sicurezza militari.Il gruppo Fateh al-Sham, l'ex branca di Al Qaida in Siria, di fatto la nuova sigla di Al-Nusra, ha rivendicato l'attacco.Questo viene comunicato dall'attendibile agenzia siriana Sana, controllata dal governo, secondo cui il generale Hasan Daabul, responsabile dell'intelligence militare a Homs, è tra le 44 vittime accertate finora. Secondo la Sana in maniera simultanea sono avvenuti ben sei attacchi in varie zone del centro cittadino.È salito rapidamente a 44 morti il bilancio delle vittime, gli attacchi erano principalmente mirati contro le sedi dei servizi di sicurezza del governo di Damasco nella città siriana di Homs.
Lo riferisce un gruppo di monitoraggio.Andando nello specifico gli attacchi hanno colpito la sede della sicurezza di Stato e quella dell’Intelligence militare.Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, tra le vittime ci sarebbe anche il comandante del servizio di intelligence della città. Gli aggressori hanno preso di mira una base militare e la sede dei servizi di sicurezza in città.La tv di Stato siriana parla di "6 attentatori suicidi" mentre al Jazira parla di "due attentati" contro sedi dei servizi di sicurezza nel centro cittadino. Nel frattempo non si fermano i tentativi di riaprire il tavolo delle trattative sulla Siria. Rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania parteciperanno a un vertice a Berlino per cercare una soluzione al conflitto in Siria.
A confermarlo è stato un funzionario del ministero degli Esteri tedesco, dopo che la notizia era stata anticipata dal quotidiano «Tagesspiegel». In una situazione difficile, l’obiettivo è cercare idee su come porre un freno alle violenze in Siria e tornare a un processo politico, ha scritto il giornale citando una fonte vicina al ministero degli Esteri. Gli Stati Uniti hanno interrotto i colloqui con la Russia sull’applicazione del cessate il fuoco in Siria, accusando Mosca di non rispettare gli impegni presi lo scorso 9 ottobre per mettere fine ai combattimenti e garantire gli aiuti alle comunità assediate.
Si tratta di Al Qaeda, e per la precisione la cellula siriana del terrorismo ad assumersi la responsabilità totale e a rivendicare i gesti kamikaze avvenuti due giorni fa a Homs, nella Siria centrale, in cui sono morte – secondo l’Osservatorio siriano per i diritti - almeno 44 persone, tra cui il capo della sezione locale dei servizi di sicurezza militari.Il gruppo Fateh al-Sham, l'ex branca di Al Qaida in Siria, di fatto la nuova sigla di Al-Nusra, ha rivendicato l'attacco.Questo viene comunicato dall'attendibile agenzia siriana Sana, controllata dal governo, secondo cui il generale Hasan Daabul, responsabile dell'intelligence militare a Homs, è tra le 44 vittime accertate finora. Secondo la Sana in maniera simultanea sono avvenuti ben sei attacchi in varie zone del centro cittadino.È salito rapidamente a 44 morti il bilancio delle vittime, gli attacchi erano principalmente mirati contro le sedi dei servizi di sicurezza del governo di Damasco nella città siriana di Homs.
Lo riferisce un gruppo di monitoraggio.Andando nello specifico gli attacchi hanno colpito la sede della sicurezza di Stato e quella dell’Intelligence militare.Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, tra le vittime ci sarebbe anche il comandante del servizio di intelligence della città. Gli aggressori hanno preso di mira una base militare e la sede dei servizi di sicurezza in città.La tv di Stato siriana parla di "6 attentatori suicidi" mentre al Jazira parla di "due attentati" contro sedi dei servizi di sicurezza nel centro cittadino. Nel frattempo non si fermano i tentativi di riaprire il tavolo delle trattative sulla Siria. Rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania parteciperanno a un vertice a Berlino per cercare una soluzione al conflitto in Siria.
A confermarlo è stato un funzionario del ministero degli Esteri tedesco, dopo che la notizia era stata anticipata dal quotidiano «Tagesspiegel». In una situazione difficile, l’obiettivo è cercare idee su come porre un freno alle violenze in Siria e tornare a un processo politico, ha scritto il giornale citando una fonte vicina al ministero degli Esteri. Gli Stati Uniti hanno interrotto i colloqui con la Russia sull’applicazione del cessate il fuoco in Siria, accusando Mosca di non rispettare gli impegni presi lo scorso 9 ottobre per mettere fine ai combattimenti e garantire gli aiuti alle comunità assediate.
Pakistan.Ennesima strage alla moschea.
di Ilenia Marini
La spirale di violenza riprende più forte che mai in Pakistan.
Un nuovo sanguinoso atto terroristico in Pakistan con annessa rivendicazione da parte dell'ISIS. Un kamikaze si è fatto esplodere in una moschea adibita al culto sufi nella zona meridionale del paese.Per ora si parla di 80 morti ma le cifre continuano a salire ora per ora.Il comandante della polizia ha affermato che ci sono anche circa 200 feriti ma il bilancio è ancora provvisiorio, ed è destinato a peggiorare. Tra le vittime ci sono donne e almeno 30 bambini, riporta il sito web Times of India.L'attentato come detto è stato subito rivendicato dall'Isis.L'attentatore ha innescato la cintura esplosiva all'interno di un rituale e affollatissimo raduno religioso nel tempio di Lal Shahbaz Qalandar nella città di Sehwan, provincia di Sindh, a circa 200 chilometri a nord-est di Karachi. L'azione è stata subito rivendicata dai gruppi jihadisti attraverso il loro organo di propaganda Amaq.
L'atto è stato compiuto contro un gruppo religioso specifico, quello dei sufi.La dottrina sufi, movimento islamico di carattere mistico, è considerata eretica dai gruppi musulmani più radicali, compresi i talebani. Lo scorso giugno a Karachi è stato ucciso Amjad Sabri, noto cantante sufi, e a novembre un analogo attentato aveva fatto strage in un altro tempio sufi, Shah Noorani, nella provincia del Baluchistan.
Secondo il racconto di un alto funzionario della polizia locale, l'attentatore si è fatto esplodere mentre centinaia di fedeli si esibivano nella loro danza mistica chiamata Dhamal nel santuario che prende il nome da un santo sufi molto popolare che vi è sepolto.L'attacco è stato uno dei più gravi in Pakistan negli ultimi anni e certo l'azione più sanguinaria dell'ondata di attentati che stanno colpendo il Pakistan da almeno una settimana, una nuova offensiva dei militanti islamici radicali. Ad agosto dello scorso anno, almeno 74 persone sono rimaste uccise in un attentato suicida di un ospedale nella città sud-occidentale di Quetta, rivendicato sia dalla fazione dei talebani pakistani Jamaat-ur-Ahrar che dall'Isis. E Jamaat ha firmato anche l'attentato nella città orientale di Lahore all'inizio di questa settimana che ha ucciso 13 persone
Un nuovo sanguinoso atto terroristico in Pakistan con annessa rivendicazione da parte dell'ISIS. Un kamikaze si è fatto esplodere in una moschea adibita al culto sufi nella zona meridionale del paese.Per ora si parla di 80 morti ma le cifre continuano a salire ora per ora.Il comandante della polizia ha affermato che ci sono anche circa 200 feriti ma il bilancio è ancora provvisiorio, ed è destinato a peggiorare. Tra le vittime ci sono donne e almeno 30 bambini, riporta il sito web Times of India.L'attentato come detto è stato subito rivendicato dall'Isis.L'attentatore ha innescato la cintura esplosiva all'interno di un rituale e affollatissimo raduno religioso nel tempio di Lal Shahbaz Qalandar nella città di Sehwan, provincia di Sindh, a circa 200 chilometri a nord-est di Karachi. L'azione è stata subito rivendicata dai gruppi jihadisti attraverso il loro organo di propaganda Amaq.
L'atto è stato compiuto contro un gruppo religioso specifico, quello dei sufi.La dottrina sufi, movimento islamico di carattere mistico, è considerata eretica dai gruppi musulmani più radicali, compresi i talebani. Lo scorso giugno a Karachi è stato ucciso Amjad Sabri, noto cantante sufi, e a novembre un analogo attentato aveva fatto strage in un altro tempio sufi, Shah Noorani, nella provincia del Baluchistan.
Secondo il racconto di un alto funzionario della polizia locale, l'attentatore si è fatto esplodere mentre centinaia di fedeli si esibivano nella loro danza mistica chiamata Dhamal nel santuario che prende il nome da un santo sufi molto popolare che vi è sepolto.L'attacco è stato uno dei più gravi in Pakistan negli ultimi anni e certo l'azione più sanguinaria dell'ondata di attentati che stanno colpendo il Pakistan da almeno una settimana, una nuova offensiva dei militanti islamici radicali. Ad agosto dello scorso anno, almeno 74 persone sono rimaste uccise in un attentato suicida di un ospedale nella città sud-occidentale di Quetta, rivendicato sia dalla fazione dei talebani pakistani Jamaat-ur-Ahrar che dall'Isis. E Jamaat ha firmato anche l'attentato nella città orientale di Lahore all'inizio di questa settimana che ha ucciso 13 persone
Francia.Le Pen tra i favoriti alle elezioni.
di Ilenia Marini
In bilico le elezioni francesi.Il populismo si fa strada.
Tra qualche settimana la Francia avrà un nuovo Presidente. Questa volta non c’è un grande favorito e la situazione sembra molto delicata, potrebbe davvero esserci una sorpresa alle urne presidenziali. Dopo le primarie socialiste, che hanno consacrato la netta vittoria di Benoit Hamon su Manuel Valls, i candidati alla presidenza francese si preparano adesso al primo turno delle presidenziali. La sinistra si presenta divisa a questo appuntamento, con tre candidati distanti nella visione politica e nelle proposte. Quella che da molti viene invece indicata come la candidata in grande recupero per la vittoria finale è Marine Le Pen, portabandiera del populismo di destra francese, che desta sempre preoccupazione a Bruxelles e nelle cancellerie europee.
Note ormai le proposte politiche estreme del suo Front National: sul versante dell’immigrazione si vogliono diminuire gli ingressi a 10.000 all’anno, sopprimere lo ius soli (cioè il diritto alla cittadinanza per luogo geografico di nascita) ed il ricongiungimento familiare. In Economia il Front si dichiara ostile alla globalizzazione, propone uno stato forte ed interventista e vuole la Francia fuori dall’euro. Le proposte di politica estera sono improntate all’anti-europeismo: rinegoziazione dei trattati europei per recuperare la sovranità nazionale perduta e più salde relazioni con la Russia di Putin.
Di recente Marine Le Pen ha espresso il suo parere anche sulla situazione degli ebrei residenti in Francia dicendosi contraria alla doppia cittadinanza europea e suscitando le critiche di tutto il mondo sionista. In quasi tre mesi di tempo potrebbe ancora succedere di tutto. In caso di vittoria Le Pen ha già affermato che indirà un referendum per uscire dall’Unione Europea “entro sei mesi” e promette di dire addio alla Nato. La leader del movimento populista è convinta che il ritorno franco permetterà alla Francia di ritrovare la strada della crescita, liberandosi dai vincoli rigorosi dei patti europei per la stabilità e la crescita.
Tra qualche settimana la Francia avrà un nuovo Presidente. Questa volta non c’è un grande favorito e la situazione sembra molto delicata, potrebbe davvero esserci una sorpresa alle urne presidenziali. Dopo le primarie socialiste, che hanno consacrato la netta vittoria di Benoit Hamon su Manuel Valls, i candidati alla presidenza francese si preparano adesso al primo turno delle presidenziali. La sinistra si presenta divisa a questo appuntamento, con tre candidati distanti nella visione politica e nelle proposte. Quella che da molti viene invece indicata come la candidata in grande recupero per la vittoria finale è Marine Le Pen, portabandiera del populismo di destra francese, che desta sempre preoccupazione a Bruxelles e nelle cancellerie europee.
Note ormai le proposte politiche estreme del suo Front National: sul versante dell’immigrazione si vogliono diminuire gli ingressi a 10.000 all’anno, sopprimere lo ius soli (cioè il diritto alla cittadinanza per luogo geografico di nascita) ed il ricongiungimento familiare. In Economia il Front si dichiara ostile alla globalizzazione, propone uno stato forte ed interventista e vuole la Francia fuori dall’euro. Le proposte di politica estera sono improntate all’anti-europeismo: rinegoziazione dei trattati europei per recuperare la sovranità nazionale perduta e più salde relazioni con la Russia di Putin.
Di recente Marine Le Pen ha espresso il suo parere anche sulla situazione degli ebrei residenti in Francia dicendosi contraria alla doppia cittadinanza europea e suscitando le critiche di tutto il mondo sionista. In quasi tre mesi di tempo potrebbe ancora succedere di tutto. In caso di vittoria Le Pen ha già affermato che indirà un referendum per uscire dall’Unione Europea “entro sei mesi” e promette di dire addio alla Nato. La leader del movimento populista è convinta che il ritorno franco permetterà alla Francia di ritrovare la strada della crescita, liberandosi dai vincoli rigorosi dei patti europei per la stabilità e la crescita.
Inghilterra.La May ottiene il primo si.
di Ilenia Marini
La premier inglese supera l'ostacolo parlamentare.
Due giorni fa la Camera dei Comuni di Londra ha approvato con 498 voti a favore e 114 contrari il disegno normativo che permette all'Esecutivo guidato da Theresa May di avviare i negoziati formali per la Brexit attraverso la notifica dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona all' Ue. La premier May, era stata costretta dalla Corte Suprema a chiedere il placet istituzionale del Parlamento inglese, adesso punta a un iter spedito per poi aprire la partita con Bruxelles entro fine marzo. Il partito laburista, in un primo momento aveva dichiarato lotta serrata sul tema, ma invece alla fine non ha votato contro e si calcola che ci siano stati tra 40 e 50 deputati laburisti 'ribelli', che hanno optato per bocciare il provvedimento andando contro le indicazioni del loro leader Jeremy Corbyn.
Comunque sia sono stati molti meno rispetto ai 100 di cui si parlava. Il passaggio parlamentare era una tappa davvero temuta dal governo di Theresa May uno dei maggiori ostacoli lungo il cammino della proposta di legge che dopo la terza lettura ai Comuni, in cui non ci dovrebbero essere intoppi, deve approdare il 20 febbraio alla Camera dei Lord. Lì l'esecutivo conservatore potrebbe avere sicuramente qualche problema in più perché non dispone di una solida maggioranza, ma in caso di modifiche l'ultima parola resterà alla camera bassa.
Ora non c'è che lo scoglio del passaggio alla House of Lords - la Camera dei nominati, libera da vincoli elettorali e assai più eurofila del Paese reale - ma in caso di modifiche l'ultima parola resterà ai Comuni. Insomma, si potrebbe dire che il grosso è stato fatto e adesso pochi sono gli ostacoli alla strategia che Theresa May ha già fissato.L'articolo 50 dovrebbe scattare entro fine marzo, per dare poi spazio a due anni di negoziati che nelle intenzioni della premier si pongono a questo punto l'obiettivo d'un taglio netto con Bruxelles (e col mercato unico caro alla City) accompagnato possibilmente da un accordo transitorio e da una nuova intesa doganale senza dazi.
Due giorni fa la Camera dei Comuni di Londra ha approvato con 498 voti a favore e 114 contrari il disegno normativo che permette all'Esecutivo guidato da Theresa May di avviare i negoziati formali per la Brexit attraverso la notifica dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona all' Ue. La premier May, era stata costretta dalla Corte Suprema a chiedere il placet istituzionale del Parlamento inglese, adesso punta a un iter spedito per poi aprire la partita con Bruxelles entro fine marzo. Il partito laburista, in un primo momento aveva dichiarato lotta serrata sul tema, ma invece alla fine non ha votato contro e si calcola che ci siano stati tra 40 e 50 deputati laburisti 'ribelli', che hanno optato per bocciare il provvedimento andando contro le indicazioni del loro leader Jeremy Corbyn.
Comunque sia sono stati molti meno rispetto ai 100 di cui si parlava. Il passaggio parlamentare era una tappa davvero temuta dal governo di Theresa May uno dei maggiori ostacoli lungo il cammino della proposta di legge che dopo la terza lettura ai Comuni, in cui non ci dovrebbero essere intoppi, deve approdare il 20 febbraio alla Camera dei Lord. Lì l'esecutivo conservatore potrebbe avere sicuramente qualche problema in più perché non dispone di una solida maggioranza, ma in caso di modifiche l'ultima parola resterà alla camera bassa.
Ora non c'è che lo scoglio del passaggio alla House of Lords - la Camera dei nominati, libera da vincoli elettorali e assai più eurofila del Paese reale - ma in caso di modifiche l'ultima parola resterà ai Comuni. Insomma, si potrebbe dire che il grosso è stato fatto e adesso pochi sono gli ostacoli alla strategia che Theresa May ha già fissato.L'articolo 50 dovrebbe scattare entro fine marzo, per dare poi spazio a due anni di negoziati che nelle intenzioni della premier si pongono a questo punto l'obiettivo d'un taglio netto con Bruxelles (e col mercato unico caro alla City) accompagnato possibilmente da un accordo transitorio e da una nuova intesa doganale senza dazi.
Irlanda del Nord.O'Neill nuova leader.
di Ilenia Marini
Una nuova donna al vertice di un importante movimento politico.
In Gran Bretagna è un periodo di grossi cambiamenti, un’altra donna arriva al vertice della politica e forse un giorno potrebbe portare il movimento e la regione che rappresenta fuori dalla Gran Bretagna. Si chiama Michelle O’Neill, 40 anni, in politica da due decenni, madre di due figli, due giorni fa è stata scelta come nuova leader parlamentare dello Sinn Fein, il partito cattolico-indipendentista nord-irlandese. E’ la prima volta in Irlanda che una donna viene chiamata a guidare quello che è stato considerato per trent’anni il braccio politico dell’Ira, l’esercito clandestino repubblicano nord-irlandese. Si tratta del primo leader di una nuova generazione, che non ha conosciuto di persona, sulla propria pelle, la sanguinosa guerra civile contro gli unionisti protestanti. Per molti analisti delle vicende irlandesi la O'Neill rappresenta un “cambiamento epocale”, per l’organizzazione militante che ha come obiettivo finale della propria lotta la secessione dal Regno Unito e la riunificazione con la repubblica d’Irlanda, sia pure da realizzare con metodi pacifici e democratici.O’Neill prende il posto di Martin McGuinness, l’ex-comandante dell’Ira che è stato uno degli artefici del processo di pace e degli accordi del 1998 che hanno messo fine al conflitto in Irlanda del Nord.
Abbandonate le armi, McGuinness era fino a qualche settimana fa il leader dello Sinn Fein nel parlamento di Belfast e il vice-premier del governo autonomo congiunto. Ma una crisi politica innescata da dissensi in materia energetica con la premier unionista Arlene Foster, e una grave malattia personale, lo hanno indotto prima a dimettersi, poi a ritirarsi dall’attività politica di primo piano.Per risolvere l’impasse ci saranno elezioni anticipate il 3 marzo prossimo, con sullo sfondo l’ombra della Brexit, definita da Gerry Adams, storico presidente dello Sinn Fein, “un atto ostile” verso l’Irlanda del Nord che potrebbe “distruggere” gli accordi di pace. Accordi che sono sempre stati fragili e lo diventano ancora di più nella prospettiva che la frontiera tra Irlanda del Nord e Irlanda, diventata inesistente con gli accordi di pace del ’98, torni a essere un confine ad alta tensione, con da una parte l’Irlanda e l’Unione Europea, dall’altro l’Irlanda del Nord parte recalcitrante del Regno Unito.
Tanto più che nel referendum del giugno scorso, l’Irlanda del Nord, come la vicina Scozia, ha votato a grande maggioranza (56 a 44 per cento) per restare nella Ue, mettendosi in contrasto con la decisione nazionale ora avvallata dal governo di Theresa May. E così la Gran Bretagna è sempre di più “l’isola delle donne”: una donna è premier in Scozia (Nicola Sturgeon,leader del partito indipendentista – e a Edimburgo sono donne anche le leader del locale partito conservatore e del locale partito laburista), una donna naturalmente è primo ministro a Londra, Theresa May, due donne potrebbero presto dividersi il potere a Belfast.
In Gran Bretagna è un periodo di grossi cambiamenti, un’altra donna arriva al vertice della politica e forse un giorno potrebbe portare il movimento e la regione che rappresenta fuori dalla Gran Bretagna. Si chiama Michelle O’Neill, 40 anni, in politica da due decenni, madre di due figli, due giorni fa è stata scelta come nuova leader parlamentare dello Sinn Fein, il partito cattolico-indipendentista nord-irlandese. E’ la prima volta in Irlanda che una donna viene chiamata a guidare quello che è stato considerato per trent’anni il braccio politico dell’Ira, l’esercito clandestino repubblicano nord-irlandese. Si tratta del primo leader di una nuova generazione, che non ha conosciuto di persona, sulla propria pelle, la sanguinosa guerra civile contro gli unionisti protestanti. Per molti analisti delle vicende irlandesi la O'Neill rappresenta un “cambiamento epocale”, per l’organizzazione militante che ha come obiettivo finale della propria lotta la secessione dal Regno Unito e la riunificazione con la repubblica d’Irlanda, sia pure da realizzare con metodi pacifici e democratici.O’Neill prende il posto di Martin McGuinness, l’ex-comandante dell’Ira che è stato uno degli artefici del processo di pace e degli accordi del 1998 che hanno messo fine al conflitto in Irlanda del Nord.
Abbandonate le armi, McGuinness era fino a qualche settimana fa il leader dello Sinn Fein nel parlamento di Belfast e il vice-premier del governo autonomo congiunto. Ma una crisi politica innescata da dissensi in materia energetica con la premier unionista Arlene Foster, e una grave malattia personale, lo hanno indotto prima a dimettersi, poi a ritirarsi dall’attività politica di primo piano.Per risolvere l’impasse ci saranno elezioni anticipate il 3 marzo prossimo, con sullo sfondo l’ombra della Brexit, definita da Gerry Adams, storico presidente dello Sinn Fein, “un atto ostile” verso l’Irlanda del Nord che potrebbe “distruggere” gli accordi di pace. Accordi che sono sempre stati fragili e lo diventano ancora di più nella prospettiva che la frontiera tra Irlanda del Nord e Irlanda, diventata inesistente con gli accordi di pace del ’98, torni a essere un confine ad alta tensione, con da una parte l’Irlanda e l’Unione Europea, dall’altro l’Irlanda del Nord parte recalcitrante del Regno Unito.
Tanto più che nel referendum del giugno scorso, l’Irlanda del Nord, come la vicina Scozia, ha votato a grande maggioranza (56 a 44 per cento) per restare nella Ue, mettendosi in contrasto con la decisione nazionale ora avvallata dal governo di Theresa May. E così la Gran Bretagna è sempre di più “l’isola delle donne”: una donna è premier in Scozia (Nicola Sturgeon,leader del partito indipendentista – e a Edimburgo sono donne anche le leader del locale partito conservatore e del locale partito laburista), una donna naturalmente è primo ministro a Londra, Theresa May, due donne potrebbero presto dividersi il potere a Belfast.
Libia.Gli USA bombardano duramente l'Isis.
di Ilenia Marini
Piovono bombe nel deserto libico contro i terroristi.
I jet americani tornano a bombardare in Libia e precisamente a Sirte.Dopo circa un mese di tregua armata gli USA hanno lanciato bombe verso accampamento dell'Isis e di miliziani islamisti che erano stati messi su nel deserto.Dopo la fuga da Sirte, i miliziani dell'Isis precisamente si erano riuniti in due campi costruiti a 45 chilometri dalla città, in una zona dove nell'assenza dei militari del governo di Tripoli stavano provando a riorganizzarsi massicciamente. Il capo del Pentagono Ashton Carter, in una conferenza stampa a poche ore dal passaggio delle consegne alla nuova amministrazione Trump, ha annunciato ufficialmente gli attacchi. "Secondo le nostre valutazioni sono stati eliminati circa 80 miliziani, che avevamo visti armati pesantemente e mentre trasferivano armi e mortai sui veicoli a loro disposizione".Secondo Carter, tra le vittime ci sono "di sicuro individui che avevano attivamente tramato per compiere operazioni terroristiche in Europa, e che potrebbero anche essere legati ad alcuni attacchi già avvenuti" nel Vecchio Continente.
Il fatto che gli attacchi siano stati compiuti d'intesa con il Governo di Accordo nazionale del presidente Fayez Al Serraj conferma che fino all'ultimo l'amministrazione Obama è rimasta schierata al fianco del governo sostenuto dalle Nazioni Unite, che invece viene continuamente minato dagli attacchi politici dell'amministrazione di Tobruk, guidata dal generale dissidente Khalifa Haftar. La scorsa settimana il generale ha visitato una portaerei russa di passaggio al largo di Bengasi e ha firmato alcuni accordi con la Russia; secondo alcune versioni gli accordi prevedono forniture di armi (per il momento vietate dall'embargo Onu) e altri accordi militari.Il tutto avviene mentre a Tripoli il governo Serraj continua ad incontrare molte difficoltà; il presidente ha annullato la sua prevista partecipazione alla conferenza di Davos per seguire la crisi provocata dai continui black-out che da giorni colpiscono Tripoli e buona parte del Paese.
A prescindere dalle "normali" difficoltà tecniche che il paese incontra nella produzione di elettricità, la crisi elettrica attuale è stata provocata da una sequenza di eventi che spiegano chiaramente quali siano le condizioni della Libia: la settimana scorsa un gruppo di miliziani della cittadina di Zawiya (a Ovest di Tripoli) sequestra un camion carico di tabacco destinato a un uomo della tribù Warshaffana. Per reazione, un gruppo di Warshaffana sequestra molti cittadini di Zawiya. A loro volta uomini armati e parenti dei rapiti chiudono il gasdotto che alimenta la centrale elettrica dal 200 megawatt (MW) che sorge proprio a Zawiya, chiedendo il rilascio dei loro parenti.
I jet americani tornano a bombardare in Libia e precisamente a Sirte.Dopo circa un mese di tregua armata gli USA hanno lanciato bombe verso accampamento dell'Isis e di miliziani islamisti che erano stati messi su nel deserto.Dopo la fuga da Sirte, i miliziani dell'Isis precisamente si erano riuniti in due campi costruiti a 45 chilometri dalla città, in una zona dove nell'assenza dei militari del governo di Tripoli stavano provando a riorganizzarsi massicciamente. Il capo del Pentagono Ashton Carter, in una conferenza stampa a poche ore dal passaggio delle consegne alla nuova amministrazione Trump, ha annunciato ufficialmente gli attacchi. "Secondo le nostre valutazioni sono stati eliminati circa 80 miliziani, che avevamo visti armati pesantemente e mentre trasferivano armi e mortai sui veicoli a loro disposizione".Secondo Carter, tra le vittime ci sono "di sicuro individui che avevano attivamente tramato per compiere operazioni terroristiche in Europa, e che potrebbero anche essere legati ad alcuni attacchi già avvenuti" nel Vecchio Continente.
Il fatto che gli attacchi siano stati compiuti d'intesa con il Governo di Accordo nazionale del presidente Fayez Al Serraj conferma che fino all'ultimo l'amministrazione Obama è rimasta schierata al fianco del governo sostenuto dalle Nazioni Unite, che invece viene continuamente minato dagli attacchi politici dell'amministrazione di Tobruk, guidata dal generale dissidente Khalifa Haftar. La scorsa settimana il generale ha visitato una portaerei russa di passaggio al largo di Bengasi e ha firmato alcuni accordi con la Russia; secondo alcune versioni gli accordi prevedono forniture di armi (per il momento vietate dall'embargo Onu) e altri accordi militari.Il tutto avviene mentre a Tripoli il governo Serraj continua ad incontrare molte difficoltà; il presidente ha annullato la sua prevista partecipazione alla conferenza di Davos per seguire la crisi provocata dai continui black-out che da giorni colpiscono Tripoli e buona parte del Paese.
A prescindere dalle "normali" difficoltà tecniche che il paese incontra nella produzione di elettricità, la crisi elettrica attuale è stata provocata da una sequenza di eventi che spiegano chiaramente quali siano le condizioni della Libia: la settimana scorsa un gruppo di miliziani della cittadina di Zawiya (a Ovest di Tripoli) sequestra un camion carico di tabacco destinato a un uomo della tribù Warshaffana. Per reazione, un gruppo di Warshaffana sequestra molti cittadini di Zawiya. A loro volta uomini armati e parenti dei rapiti chiudono il gasdotto che alimenta la centrale elettrica dal 200 megawatt (MW) che sorge proprio a Zawiya, chiedendo il rilascio dei loro parenti.
Germania.Von der Leyen dopo la Merkel?
di Ilenia Marini
A breve si ipotizzano grandi cambiamenti nella politica tedesca.
C'è in Germania da qualche mese una vera e propria aria di rottamazione. Angela Merkel è davvero tentata di lasciare il Palazzo della Cancelleria federale per dedicarsi a vita privata. Dopo la brutta sconfitta elettorale alle regionali infatti la Cancelliera non ha ancora parlato di una sua futura ricandidatura e balena sempre più l'ipotesi che decida di passare il testimone ad un erede degno. In Germania ormai da tempo circola insistente il nome di Ursula Von der Leyen. La stampa tedesca l’ha battezzata la “madre della nazione tedesca”, per essere stata ministra della Famiglia, ma a lei il soprannome non piace. È stata anche ministra del Lavoro e gli Affari sociali e dal 2013 fino ad ora è ministro della Difesa. Von der Leyen è uno dei personaggi chiave nella squadra di Governo della Merkel.
Nata nel 1958 a Bruxelles, è figlia di uno dei personaggi storici della Cdu, l’ex presidente della Bassa Sassonia, Ernst Albrecht. Ha vissuto in Belgio e si è laureata in Economia all’ Università di Göttingen, ha studiato alla London School of Economics e si è laureata in Medicina ad Hannover. Ma il suo curriculum vitae ha alcuni punti oscuri: lei sostiene la correttezza di tutte le informazioni ufficiali, ma il settimanale Welt am Sonntag ritiene che Von der Leyen abbia falsificato i dati sulla frequentazione all’Università di Stanford. Nel curriculum vitae pubblicato dal governo tedesco si legge che ha partecipato nel 1993 come uditrice ad un programma dell’università americana e nel 1995 di avere lavorato come analista nell’ amministrazione ospedaliera del servizio sanitario del campus.
Politicamente la Von der Leyen dice di essere un’europeista convinta. Ha approvato misure per il controllo del deficit – con la resistenza dei suoi colleghi democristiani più conservatori -, un piano di sussidi per i più sfavoriti chiamato “Hartz IV”, la firma di un convegno con la Spagna per l’assunzione di 5mila lavoratori spagnoli all’ anno.Ha palesato grande attenzione per i bisogni sociali tanto da introdurre anche il salario mensile per gli uomini che vogliono prendere il permesso di paternità durante un anno.Ha fama di essere una donna concreta e decisa, basti pensare che nel 2012 aveva proposto di chiedere ai Paesi beneficiari dei salvataggi economici nell’ Unione europea di consegnare le riserve in oro come garanzia, ma il progetto fu poi accantonato anche dalla Merkel perchè ritenuto troppo duro verso gli Stati membri.Insomma la Von der Leyen non è certo una tipa tenera, da vera tedesca è spesso intransigente e diretta, degna erede di un personaggio come la Merkel che volente o nolente ha fatto la storia dell'Europa negli anni 2000.
C'è in Germania da qualche mese una vera e propria aria di rottamazione. Angela Merkel è davvero tentata di lasciare il Palazzo della Cancelleria federale per dedicarsi a vita privata. Dopo la brutta sconfitta elettorale alle regionali infatti la Cancelliera non ha ancora parlato di una sua futura ricandidatura e balena sempre più l'ipotesi che decida di passare il testimone ad un erede degno. In Germania ormai da tempo circola insistente il nome di Ursula Von der Leyen. La stampa tedesca l’ha battezzata la “madre della nazione tedesca”, per essere stata ministra della Famiglia, ma a lei il soprannome non piace. È stata anche ministra del Lavoro e gli Affari sociali e dal 2013 fino ad ora è ministro della Difesa. Von der Leyen è uno dei personaggi chiave nella squadra di Governo della Merkel.
Nata nel 1958 a Bruxelles, è figlia di uno dei personaggi storici della Cdu, l’ex presidente della Bassa Sassonia, Ernst Albrecht. Ha vissuto in Belgio e si è laureata in Economia all’ Università di Göttingen, ha studiato alla London School of Economics e si è laureata in Medicina ad Hannover. Ma il suo curriculum vitae ha alcuni punti oscuri: lei sostiene la correttezza di tutte le informazioni ufficiali, ma il settimanale Welt am Sonntag ritiene che Von der Leyen abbia falsificato i dati sulla frequentazione all’Università di Stanford. Nel curriculum vitae pubblicato dal governo tedesco si legge che ha partecipato nel 1993 come uditrice ad un programma dell’università americana e nel 1995 di avere lavorato come analista nell’ amministrazione ospedaliera del servizio sanitario del campus.
Politicamente la Von der Leyen dice di essere un’europeista convinta. Ha approvato misure per il controllo del deficit – con la resistenza dei suoi colleghi democristiani più conservatori -, un piano di sussidi per i più sfavoriti chiamato “Hartz IV”, la firma di un convegno con la Spagna per l’assunzione di 5mila lavoratori spagnoli all’ anno.Ha palesato grande attenzione per i bisogni sociali tanto da introdurre anche il salario mensile per gli uomini che vogliono prendere il permesso di paternità durante un anno.Ha fama di essere una donna concreta e decisa, basti pensare che nel 2012 aveva proposto di chiedere ai Paesi beneficiari dei salvataggi economici nell’ Unione europea di consegnare le riserve in oro come garanzia, ma il progetto fu poi accantonato anche dalla Merkel perchè ritenuto troppo duro verso gli Stati membri.Insomma la Von der Leyen non è certo una tipa tenera, da vera tedesca è spesso intransigente e diretta, degna erede di un personaggio come la Merkel che volente o nolente ha fatto la storia dell'Europa negli anni 2000.
USA-Russia.Riparte la corsa al nucleare.
di Ilenia Marini
Sull'argomento nucleare c'è grande tensione politica.
Attualmente i presidenti Putin e Trump sembrano scambiarsi messaggi di pace e distensione ma andando nel profondo, entrambi hanno lanciato indicazioni tese a rafforzare il reciproco arsenale nucleare.Partendo dai piani della Russia, Putin in una recente intervista sul tema aveva esordito affermando che la Russia oggi è più forte di qualsiasi avversario possa minacciarla. Ma contemporaneamente ha ordinato il rafforzamento accelerato dell’arsenale atomico. Soprattutto della Rvs, cioè la forza missilistica di dissuasione strategica, i grandi missili basati a terra. Il capo del Cremlino vuole schierare al più presto, come aveva preannunciato nel 2015, almeno 40 nuovi super missili intercontinentali basati a terra (Icbm nel gergo tecnico) dell’ultima generazione. Superarmi protette in silos blindati a prova di atomica, o su rampe mobili che non sai mai dove siano.
Missili alti come grattacieli, capaci di portare ognuno diverse testate atomiche, e di colpire più obiettivi insieme con la massima precisione. Tempo dal lancio all’impatto sul territorio ‘nemico’ massimo 30 minuti se in Usa. Molto meno, se l’obiettivo è in Europa. Putin ha precisato: i nuovi missili saranno invincibili, saranno così moderni che nessun sistema difensivo antimissile Usa o Nato potrà intercettarli né fermarli, nemmeno i nuovi sistemi antimissile dell’Alleanza atlantica in via d’installazione in Polonia e Romania, considerati “minaccia strategica” da Mosca. In un mondo multilaterale, il principio che le atomiche siano schierate solo per minacciare di usarle e garantire così la pace per forza, davanti alla certezza che l’alternativa sarebbe la fine del mondo, e non per usarle davvero, è meno solido rispetto a ieri. Tanto più che appunto atomiche sono in mano anche a potenze regionali imprevedibili come Nordcorea o Pakistan. Gli esperti di affari strategici ritengono comunque che Usa, Russia, Cina, Francia, Uk, Israele continuino nelle loro dottrine strategiche a considerare l’atomica arma con cui minacciare, non da usare per primi se non in caso estremo assoluto.
Tra le sei potenze atomiche di fatto ‘ufficiali’ (appunto Usa, Russia, Cina, Francia, Uk e Israele) solo quattro hanno mezzi, tecnologia e volontà politica per strutturare l’arsenale nucleare strategico secondo il principio della ‘triade’. Lo inventò Robert McNamara, capo del Pentagono sotto Kennedy, e i sovietici lo seguirono subito. Le quattro potenze armate con la triade sono Usa, Russia, Cina, Israele.Vuol dire un arsenale con tre componenti: missili intercontinentali basati a terra, armi atomiche portate in volo da bombardieri, missili a testata nucleare a bordo di sottomarini. La varietà fa la forza, è il tremendo principio. Ma tra le tre componenti, i missili intercontinentali terrestri (Icbm appunto), essendo più grandi, pesanti, potenti, veloci e precisi e capaci di portare testate atomiche multiple in maggior numero sono i vettori nucleari molto più ‘adatti’ degli altri ad assicurare in emergenza una capacità di ‘first strike’, cioè di un devastante primo colpo a sorpresa. Le armi a bordo di bombardieri o sottomarini sono progettate piuttosto per un’ipotesi o minaccia di secondo colpo di ritorsione o rappresaglia, sempre nell’ambito del principio della deterrenza o deterrente, cioè minacciare di usare per non usare. Ma chiunque rafforzi la componente Icbm della triade si dà più potenza di primo colpo possibile.
Attualmente i presidenti Putin e Trump sembrano scambiarsi messaggi di pace e distensione ma andando nel profondo, entrambi hanno lanciato indicazioni tese a rafforzare il reciproco arsenale nucleare.Partendo dai piani della Russia, Putin in una recente intervista sul tema aveva esordito affermando che la Russia oggi è più forte di qualsiasi avversario possa minacciarla. Ma contemporaneamente ha ordinato il rafforzamento accelerato dell’arsenale atomico. Soprattutto della Rvs, cioè la forza missilistica di dissuasione strategica, i grandi missili basati a terra. Il capo del Cremlino vuole schierare al più presto, come aveva preannunciato nel 2015, almeno 40 nuovi super missili intercontinentali basati a terra (Icbm nel gergo tecnico) dell’ultima generazione. Superarmi protette in silos blindati a prova di atomica, o su rampe mobili che non sai mai dove siano.
Missili alti come grattacieli, capaci di portare ognuno diverse testate atomiche, e di colpire più obiettivi insieme con la massima precisione. Tempo dal lancio all’impatto sul territorio ‘nemico’ massimo 30 minuti se in Usa. Molto meno, se l’obiettivo è in Europa. Putin ha precisato: i nuovi missili saranno invincibili, saranno così moderni che nessun sistema difensivo antimissile Usa o Nato potrà intercettarli né fermarli, nemmeno i nuovi sistemi antimissile dell’Alleanza atlantica in via d’installazione in Polonia e Romania, considerati “minaccia strategica” da Mosca. In un mondo multilaterale, il principio che le atomiche siano schierate solo per minacciare di usarle e garantire così la pace per forza, davanti alla certezza che l’alternativa sarebbe la fine del mondo, e non per usarle davvero, è meno solido rispetto a ieri. Tanto più che appunto atomiche sono in mano anche a potenze regionali imprevedibili come Nordcorea o Pakistan. Gli esperti di affari strategici ritengono comunque che Usa, Russia, Cina, Francia, Uk, Israele continuino nelle loro dottrine strategiche a considerare l’atomica arma con cui minacciare, non da usare per primi se non in caso estremo assoluto.
Tra le sei potenze atomiche di fatto ‘ufficiali’ (appunto Usa, Russia, Cina, Francia, Uk e Israele) solo quattro hanno mezzi, tecnologia e volontà politica per strutturare l’arsenale nucleare strategico secondo il principio della ‘triade’. Lo inventò Robert McNamara, capo del Pentagono sotto Kennedy, e i sovietici lo seguirono subito. Le quattro potenze armate con la triade sono Usa, Russia, Cina, Israele.Vuol dire un arsenale con tre componenti: missili intercontinentali basati a terra, armi atomiche portate in volo da bombardieri, missili a testata nucleare a bordo di sottomarini. La varietà fa la forza, è il tremendo principio. Ma tra le tre componenti, i missili intercontinentali terrestri (Icbm appunto), essendo più grandi, pesanti, potenti, veloci e precisi e capaci di portare testate atomiche multiple in maggior numero sono i vettori nucleari molto più ‘adatti’ degli altri ad assicurare in emergenza una capacità di ‘first strike’, cioè di un devastante primo colpo a sorpresa. Le armi a bordo di bombardieri o sottomarini sono progettate piuttosto per un’ipotesi o minaccia di secondo colpo di ritorsione o rappresaglia, sempre nell’ambito del principio della deterrenza o deterrente, cioè minacciare di usare per non usare. Ma chiunque rafforzi la componente Icbm della triade si dà più potenza di primo colpo possibile.
Siria.Ad Aleppo si combatte ancora.
di Valeria Piras
Ancora grandi manovre nella parte orientale della città siriana.
L'artiglieria dell'esercito regolare siriano da almeno tre giorni sta attaccando pesantemente i quartieri est della città di Aleppo. Si tratta degli unici edifici ancora in mano ai ribelli, nonostante l'annuncio russo di una pausa umanitaria. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, i raid aerei si sono interrotti ieri sera, in seguito all'annuncio di Mosca, ma i colpi di artiglieria sono andati avanti per tutta la notte e non si sono fermati neanche questa mattina. Dopo i colloqui di ieri con il Segretario di Stato degli Usa, John Kerry, ad Amburgo, il ministro russo degli Esteri, Sergei Lavrov aveva annunciato una pausa nelle operazioni di Aleppo, per consentire l'evacuazione delle decine di migliaia di civili intrappolati nei quartieri assediati. Ma lo stesso capo della diplomazia di Mosca oggi chiarisce che le sue parole non erano unostop alle operazioni militari ma solo che si sono fermate ieri per un periodo specifico di tempo, per assicurare ai civili la possibilità di lasciare la zona. Dopo questa pausa umanitaria, le operazioni militari riprenderanno fino a che Aleppo est non sarà liberata dai militanti.
I banditi che si nascondono in città dovranno abbandonare Aleppo est, questo lo scopo dell'artiglieria. I "terroristi" asserragliati nella città "sono circondati" ed è "improbabile che possano ricevere rinforzi", ha concluso il ministro. Dopo il Consiglio dei ministri dell'Osce Lavrov ha annunciato che una riunione di esperti russi e statunitensi si svolgerà domani nella città svizzera di Ginevra e ci sono buone possibilità di raggiungere una soluzione definitiva su Aleppo. Si tratta di "un'ottima occasione per stabilire le modalità in modo da trovare una soluzione alla situazione ad Aleppo est e far ritirare tutti i militanti che si trovano in città. L'esercito russo ha riferito oggi di avere aiutato oltre 8mila cittadini siriani a fuggire dalle zone di Aleppo est ancora sotto il controllo dei ribelli nelle ultime 24 ore e fra loro circa 3mila bambini.
Ma i ribelli siriani asserragliati in una piccola parte di Aleppo est starebbero impedendo ai civili di uscire dalle zone da loro controllate e ci sono casi di spari contro gente in fuga. Alcuni dei civili che cercano di fuggire, a quanto pare, sono bloccati da gruppi armati dell'opposizione, in particolare dai militanti di Al Fateh Sham, ha riferito l'ex fronte Al-Nusra, ovvero la filiale siriana di Al Qaeda, durante una conferenza stampa il portavoce dell'Ufficio delle Nazioni unite per i diritti umani, Rupert Colville. Accuse respinte dal leader dell'Esercito libero siriano (Els), il generale Ahmed Berri il quale ha tenuto a sottolineare che i suoi uomini non impediscono ai civili di abbandonare la città.
L'artiglieria dell'esercito regolare siriano da almeno tre giorni sta attaccando pesantemente i quartieri est della città di Aleppo. Si tratta degli unici edifici ancora in mano ai ribelli, nonostante l'annuncio russo di una pausa umanitaria. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, i raid aerei si sono interrotti ieri sera, in seguito all'annuncio di Mosca, ma i colpi di artiglieria sono andati avanti per tutta la notte e non si sono fermati neanche questa mattina. Dopo i colloqui di ieri con il Segretario di Stato degli Usa, John Kerry, ad Amburgo, il ministro russo degli Esteri, Sergei Lavrov aveva annunciato una pausa nelle operazioni di Aleppo, per consentire l'evacuazione delle decine di migliaia di civili intrappolati nei quartieri assediati. Ma lo stesso capo della diplomazia di Mosca oggi chiarisce che le sue parole non erano unostop alle operazioni militari ma solo che si sono fermate ieri per un periodo specifico di tempo, per assicurare ai civili la possibilità di lasciare la zona. Dopo questa pausa umanitaria, le operazioni militari riprenderanno fino a che Aleppo est non sarà liberata dai militanti.
I banditi che si nascondono in città dovranno abbandonare Aleppo est, questo lo scopo dell'artiglieria. I "terroristi" asserragliati nella città "sono circondati" ed è "improbabile che possano ricevere rinforzi", ha concluso il ministro. Dopo il Consiglio dei ministri dell'Osce Lavrov ha annunciato che una riunione di esperti russi e statunitensi si svolgerà domani nella città svizzera di Ginevra e ci sono buone possibilità di raggiungere una soluzione definitiva su Aleppo. Si tratta di "un'ottima occasione per stabilire le modalità in modo da trovare una soluzione alla situazione ad Aleppo est e far ritirare tutti i militanti che si trovano in città. L'esercito russo ha riferito oggi di avere aiutato oltre 8mila cittadini siriani a fuggire dalle zone di Aleppo est ancora sotto il controllo dei ribelli nelle ultime 24 ore e fra loro circa 3mila bambini.
Ma i ribelli siriani asserragliati in una piccola parte di Aleppo est starebbero impedendo ai civili di uscire dalle zone da loro controllate e ci sono casi di spari contro gente in fuga. Alcuni dei civili che cercano di fuggire, a quanto pare, sono bloccati da gruppi armati dell'opposizione, in particolare dai militanti di Al Fateh Sham, ha riferito l'ex fronte Al-Nusra, ovvero la filiale siriana di Al Qaeda, durante una conferenza stampa il portavoce dell'Ufficio delle Nazioni unite per i diritti umani, Rupert Colville. Accuse respinte dal leader dell'Esercito libero siriano (Els), il generale Ahmed Berri il quale ha tenuto a sottolineare che i suoi uomini non impediscono ai civili di abbandonare la città.
Islanda.Il Partito Pirata al governo.
di Ilenia Marini
Per frenare l'instabilità incarico dato al Partito dei Pirati.
Situazione nuova e davvero storica in Islanda. Il Partito Pirata, un partito giovanissimo guidato dalla combattiva Birgitta Jonsdottir ha ricevuto dal capo dello Stato islandese Gudni Johannesson il compito di formare un nuovo Governo di larga coalizione dopo i vari tentativi falliti dai gruppi liberal-conservatori. Dopo le elezioni politiche anticipate del 29 ottobre scorso e dopo lo scandalo dei fondi Panamas che vedeva coinvolti nomi noti del panorama politico islandese,si era prodotto un vero stallo. Adesso tocca ai 'Piratar' tentare di dare una governabilità al moderno, piccolo paese nordico. Le parole della leader dei Pirati lasciano speranze sulla voglia di trovare una strada per cooperare insieme con gli altri partiti. La Jonsdottir ha inoltre affermato che aprirà in corsa negoziati con quattro dei sette partiti rappresentati all'Althingi, il Parlamento a 63 seggi della repubblica dei geyser e dei ghiacci: i Verdi di sinistra, usciti secondi alle elezioni, quindi più forti dei Pirati piazzatisi terzi, i socialdemocratici, Futuro luminoso (nuova formazione di sinistra liberal) e Vidhresin (Rinnovamento), gruppo anch'esso da poco fondato, liberal-riformista centrista.
Sulla carta, dare vita ad una solida maggioranza tra questi cinque partiti non è impossibile, anzi. Dando uno sguardo alle elezioni dello scorso 29 ottobre smentendo i sondaggi che davano i Pirati in volo, il Partito dell'Indipendenza, forza-chiave del centrodestra, si è visto premiato per la crescita economica e la disoccupazione quasi assente, e sui 63 seggi dell'Althingi ne ha conquistati 21. Ma sono crollati di 8 seggi, perdendo quasi due terzi dei voti, i suoi alleati tradizionali, Partito del Progresso (ex agrari). Seconda forza per voti i Verdi di sinistra, terzi i pirati. Per proporzionale e riporti, ciascuno di questi due partiti ha 10 seggi nel piccolo edificio grigioscuro nel centro di Reykjavìk. Poi Vidhresin con 7 seggi, Futuro luminoso con 4 seggi e i socialdemocratici con 3 seggi.
Facendo dei calcoli rapidi si ottengono: 10 seggi dei Verdi, 10 dei Pirati, 7 di Vidhresin, 4 di Futuro luminoso, 3 dei socialdemocratici, fa 34 seggi sui 63 dell'Althingi. Una maggioranza non confortevole ma comunque una maggioranza che teoricamente ci sarebbe. Resta da vedere se sui grandi temi - trasparenza in politica, riforme finanziabili per migliorare scuola sanità e pensioni, più diritti di pesca - si troverà un accordo.Le figure-chiave del negoziato, nel Paese col più alto indice mondiale di gender parity, sono due donne: Birgitta Jonsdottìr e la leader dei Verdi di sinistra Katrin Jakobsdottìr. Una cosa è certa,ovvero che se il nuovo tentativo di dare un governo all'Islanda dovesse fallire, le nuove elezioni saranno la strada obbligata e l'intero paese resterebbe deluso per l'incapacità dei suoi politici di dare stabilità politica al Governo.
Situazione nuova e davvero storica in Islanda. Il Partito Pirata, un partito giovanissimo guidato dalla combattiva Birgitta Jonsdottir ha ricevuto dal capo dello Stato islandese Gudni Johannesson il compito di formare un nuovo Governo di larga coalizione dopo i vari tentativi falliti dai gruppi liberal-conservatori. Dopo le elezioni politiche anticipate del 29 ottobre scorso e dopo lo scandalo dei fondi Panamas che vedeva coinvolti nomi noti del panorama politico islandese,si era prodotto un vero stallo. Adesso tocca ai 'Piratar' tentare di dare una governabilità al moderno, piccolo paese nordico. Le parole della leader dei Pirati lasciano speranze sulla voglia di trovare una strada per cooperare insieme con gli altri partiti. La Jonsdottir ha inoltre affermato che aprirà in corsa negoziati con quattro dei sette partiti rappresentati all'Althingi, il Parlamento a 63 seggi della repubblica dei geyser e dei ghiacci: i Verdi di sinistra, usciti secondi alle elezioni, quindi più forti dei Pirati piazzatisi terzi, i socialdemocratici, Futuro luminoso (nuova formazione di sinistra liberal) e Vidhresin (Rinnovamento), gruppo anch'esso da poco fondato, liberal-riformista centrista.
Sulla carta, dare vita ad una solida maggioranza tra questi cinque partiti non è impossibile, anzi. Dando uno sguardo alle elezioni dello scorso 29 ottobre smentendo i sondaggi che davano i Pirati in volo, il Partito dell'Indipendenza, forza-chiave del centrodestra, si è visto premiato per la crescita economica e la disoccupazione quasi assente, e sui 63 seggi dell'Althingi ne ha conquistati 21. Ma sono crollati di 8 seggi, perdendo quasi due terzi dei voti, i suoi alleati tradizionali, Partito del Progresso (ex agrari). Seconda forza per voti i Verdi di sinistra, terzi i pirati. Per proporzionale e riporti, ciascuno di questi due partiti ha 10 seggi nel piccolo edificio grigioscuro nel centro di Reykjavìk. Poi Vidhresin con 7 seggi, Futuro luminoso con 4 seggi e i socialdemocratici con 3 seggi.
Facendo dei calcoli rapidi si ottengono: 10 seggi dei Verdi, 10 dei Pirati, 7 di Vidhresin, 4 di Futuro luminoso, 3 dei socialdemocratici, fa 34 seggi sui 63 dell'Althingi. Una maggioranza non confortevole ma comunque una maggioranza che teoricamente ci sarebbe. Resta da vedere se sui grandi temi - trasparenza in politica, riforme finanziabili per migliorare scuola sanità e pensioni, più diritti di pesca - si troverà un accordo.Le figure-chiave del negoziato, nel Paese col più alto indice mondiale di gender parity, sono due donne: Birgitta Jonsdottìr e la leader dei Verdi di sinistra Katrin Jakobsdottìr. Una cosa è certa,ovvero che se il nuovo tentativo di dare un governo all'Islanda dovesse fallire, le nuove elezioni saranno la strada obbligata e l'intero paese resterebbe deluso per l'incapacità dei suoi politici di dare stabilità politica al Governo.
Cuba in lutto.E' morto Fidel Castro.
di Ilenia Marini
90 anni cavalcando con grande coraggio la storia.
25 Novembre questa è la data importante che ogni cubano nel bene e nel male ricorderà nella storia della propria nazione. È morto ieri a L’Avana Fidel Castro, il padre della rivoluzione cubana. Aveva 90 anni. Ad annunciarlo con volto affranto in televisione è stato il fratello Raul, presidente del Paese centroamericano. Sempre Raul ha affermato che il decesso sarebbe avvenuto alle 22:30 ora di Cuba, le 4.30 in Italia, il corpo del Lider Maxino sarà cremato oggi. La morte di Fidel Castro chiude 60 anni di storia cubana iniziati nel lontanissimo 1956 quando, con un gruppo di rivoluzionari sbarcati dal Messico sull’isola decise di organizzare la rivolta armata contro la dittatura reazionario di Fulgencio Batista. I rivoltosi sull’isola trovarono l’appoggio e poi la salda guida del giovane Fidel che si impegnò corpo e anima nella rivoluzione anche insieme a grandi personaggi di spicco come il CheGuevara e nel giro di alcuni anni riuscì a scacciare il dittatore esiliandolo e ad instaurare un regime marxista-leninista ad appena 150 chilometri dalle coste americane, alleato con il suo nemico acerrimo, l’Unione Sovietica.
Cuba divenne un sistema socialista e protettivo, liquidato dai dissidenti però come dittatoriale e liberticida. Nel 2014, il fratello Raul ha sorpreso il mondo annunciando un riavvicinamento agli Usa, un anno dopo il funerale nel dicembre 2013 di Nelson Mandela in Sudafrica quando i due a sorpresa si erano stretti la mano. Tutti i presidenti Americani hanno tentato di mettere fine al potere del líder maximo, ma fallendo ogni volta hanno dovuto abbozzare una convivenza forzata. Quando Fidel mise fine alla dittatura di Batista, nel 1959, alla guida dell’Unione Sovietica c’era Nikita Kruscev, mentre in Vaticano il Papa era Giovanni XXIII. Trentadue anni dopo, Castro vide il crollo dell’Unione Sovietica, che ha determinato conseguenze economiche disastrose per Cuba, ma ha mantenuto ben salda la guida dell’isola.
Dopo Mikhail Gorbaciov, il presidente che dissolse l’URSS, ha ricevuto all’Avana Vladimir Putin, l’ultimo presidente della Russia. Un capo politico che ha visto passare tutti gli avvenimenti storici più importanti davanti ai suoi occhi ed egli stesso ha fatto la storia. Nel corso della sua vita ha incontrato il maresciallo Tito, Salvador Allende, Indira Ghandi, Nelson Mandela, Yasser Arafat e Papa Woityla, il primo pontefice che riuscì ad avere un colloquio diretto con il leader rivoluzionario nella sua isola. Memorabile nella sua storia un discorso politico di ben sette ore che tenne davanti al Parlamento cubano, così come memorabili sono stati i tentativi di assassinarlo, secondo fonti cubane circa 600.
25 Novembre questa è la data importante che ogni cubano nel bene e nel male ricorderà nella storia della propria nazione. È morto ieri a L’Avana Fidel Castro, il padre della rivoluzione cubana. Aveva 90 anni. Ad annunciarlo con volto affranto in televisione è stato il fratello Raul, presidente del Paese centroamericano. Sempre Raul ha affermato che il decesso sarebbe avvenuto alle 22:30 ora di Cuba, le 4.30 in Italia, il corpo del Lider Maxino sarà cremato oggi. La morte di Fidel Castro chiude 60 anni di storia cubana iniziati nel lontanissimo 1956 quando, con un gruppo di rivoluzionari sbarcati dal Messico sull’isola decise di organizzare la rivolta armata contro la dittatura reazionario di Fulgencio Batista. I rivoltosi sull’isola trovarono l’appoggio e poi la salda guida del giovane Fidel che si impegnò corpo e anima nella rivoluzione anche insieme a grandi personaggi di spicco come il CheGuevara e nel giro di alcuni anni riuscì a scacciare il dittatore esiliandolo e ad instaurare un regime marxista-leninista ad appena 150 chilometri dalle coste americane, alleato con il suo nemico acerrimo, l’Unione Sovietica.
Cuba divenne un sistema socialista e protettivo, liquidato dai dissidenti però come dittatoriale e liberticida. Nel 2014, il fratello Raul ha sorpreso il mondo annunciando un riavvicinamento agli Usa, un anno dopo il funerale nel dicembre 2013 di Nelson Mandela in Sudafrica quando i due a sorpresa si erano stretti la mano. Tutti i presidenti Americani hanno tentato di mettere fine al potere del líder maximo, ma fallendo ogni volta hanno dovuto abbozzare una convivenza forzata. Quando Fidel mise fine alla dittatura di Batista, nel 1959, alla guida dell’Unione Sovietica c’era Nikita Kruscev, mentre in Vaticano il Papa era Giovanni XXIII. Trentadue anni dopo, Castro vide il crollo dell’Unione Sovietica, che ha determinato conseguenze economiche disastrose per Cuba, ma ha mantenuto ben salda la guida dell’isola.
Dopo Mikhail Gorbaciov, il presidente che dissolse l’URSS, ha ricevuto all’Avana Vladimir Putin, l’ultimo presidente della Russia. Un capo politico che ha visto passare tutti gli avvenimenti storici più importanti davanti ai suoi occhi ed egli stesso ha fatto la storia. Nel corso della sua vita ha incontrato il maresciallo Tito, Salvador Allende, Indira Ghandi, Nelson Mandela, Yasser Arafat e Papa Woityla, il primo pontefice che riuscì ad avere un colloquio diretto con il leader rivoluzionario nella sua isola. Memorabile nella sua storia un discorso politico di ben sette ore che tenne davanti al Parlamento cubano, così come memorabili sono stati i tentativi di assassinarlo, secondo fonti cubane circa 600.
Israele.Il legame con gli USA è solido.
di Ilenia Marini
Anche lo Stato di Israele dice la sua sull'elezione di Trump.
L'importante politica israeliana Tzipli Livni espone il suo parere sulla recente elezione di Donald Trump alla carica di Presidente USA.La Tzipli sottolinea che la volontà del popolo americano è sacra e va rispettata, il legame con l'amministrazione USA deve essere solido e strategico. Certo, l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca avrà un effetto non solo sugli Usa, ma sull'Europa e sul Medio Oriente, ma è chiaramente troppo presto per capire cosa sarà. Secondo la Tzipli l'interesse dei leader politici israeliani è che la dirigenza abbia un buon rapporto con quella americana.Il rapporto con gli Usa è cruciale anche perché questo trend di populismo, di movimenti anti-establishment dilaga in Europa e minaccia di danneggiare la possibilità dei moderati, delle formazioni politiche tradizionali, di riuscire a influenzare un'area in trasformazione pericolosa del Medio Oriente.
La Tzipli anche se si trova all'estero per un convegno di politica estera, dichiara che le posizioni israeliane sono chiara. In Israele c'è chi crede che la sicurezza, la certezza della nostra esistenza siano garantite meglio dalla soluzione "due popoli, due Stati" con i palestinesi. E chi invece non pensa che questa sia una soluzione, per cui vuole procedere nel prendere altro territorio. Quel voto è l'anticamera di nuove annessioni. Questo è un altro colpo alla soluzione dei due Stati, non tutti credono che ciò sia a favore della sicurezza di Israele.Tornando a Trump la Tzipli non vuole certo fare una previsione sulle azioni politiche di Trump ma sottolinea una cosa: insieme tutti i Paesi responsabili, quindi americani, europei, arabi moderati, sono impegnati in una battaglia sacrosanta scontro il terrorismo Isis.
Ecco, non si può dimenticare che l'Iran è uno stato che fomenta il terrorismo, che lo alimenta sostenendo Hamas e Hezbollah, due organizzazioni classificate come terroristiche. Il contenimento dell'Iran è necessario per tutti. Lo Stato islamico è un concreto esempio di terrorismo religioso, nel senso che loro credono di agire in rappresentanza dell'Islam, cosa che è del tutto falsa, perché i primi ad essere colpiti dall'Isis sono proprio gli islamici. Ma agiscono con una folle motivazione religiosa che rende la loro azione terroristica senza ritorno. Per cui non c'è alternativa all'azione militare per fermarli. Ma oltre questo deve esserci un'azione politica per stabilizzare le tensioni nell'area, per evitare il riprodursi di condizioni che creeranno un nuovo Stato islamico magari qualche mese dopo che la comunità internazionale lo avrà distrutto.
L'importante politica israeliana Tzipli Livni espone il suo parere sulla recente elezione di Donald Trump alla carica di Presidente USA.La Tzipli sottolinea che la volontà del popolo americano è sacra e va rispettata, il legame con l'amministrazione USA deve essere solido e strategico. Certo, l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca avrà un effetto non solo sugli Usa, ma sull'Europa e sul Medio Oriente, ma è chiaramente troppo presto per capire cosa sarà. Secondo la Tzipli l'interesse dei leader politici israeliani è che la dirigenza abbia un buon rapporto con quella americana.Il rapporto con gli Usa è cruciale anche perché questo trend di populismo, di movimenti anti-establishment dilaga in Europa e minaccia di danneggiare la possibilità dei moderati, delle formazioni politiche tradizionali, di riuscire a influenzare un'area in trasformazione pericolosa del Medio Oriente.
La Tzipli anche se si trova all'estero per un convegno di politica estera, dichiara che le posizioni israeliane sono chiara. In Israele c'è chi crede che la sicurezza, la certezza della nostra esistenza siano garantite meglio dalla soluzione "due popoli, due Stati" con i palestinesi. E chi invece non pensa che questa sia una soluzione, per cui vuole procedere nel prendere altro territorio. Quel voto è l'anticamera di nuove annessioni. Questo è un altro colpo alla soluzione dei due Stati, non tutti credono che ciò sia a favore della sicurezza di Israele.Tornando a Trump la Tzipli non vuole certo fare una previsione sulle azioni politiche di Trump ma sottolinea una cosa: insieme tutti i Paesi responsabili, quindi americani, europei, arabi moderati, sono impegnati in una battaglia sacrosanta scontro il terrorismo Isis.
Ecco, non si può dimenticare che l'Iran è uno stato che fomenta il terrorismo, che lo alimenta sostenendo Hamas e Hezbollah, due organizzazioni classificate come terroristiche. Il contenimento dell'Iran è necessario per tutti. Lo Stato islamico è un concreto esempio di terrorismo religioso, nel senso che loro credono di agire in rappresentanza dell'Islam, cosa che è del tutto falsa, perché i primi ad essere colpiti dall'Isis sono proprio gli islamici. Ma agiscono con una folle motivazione religiosa che rende la loro azione terroristica senza ritorno. Per cui non c'è alternativa all'azione militare per fermarli. Ma oltre questo deve esserci un'azione politica per stabilizzare le tensioni nell'area, per evitare il riprodursi di condizioni che creeranno un nuovo Stato islamico magari qualche mese dopo che la comunità internazionale lo avrà distrutto.
USA.Con Trump cambia la politica estera.
di Ilenia Marini
Il nuovo Presidente USA cambierà molto dei rapporti esteri.
Il primo discorso del Donald J. Trump Presidente ha già impressionato soprattutto per i toni molto più morbidi dove i panni del distruttore anti-establishment non sono stati più adoperati. Anzi la nuova veste sembra prettamente istituzionale anche pronunciando poche parole con toni quasi roosveliani. Una cosa che interessa molto sulla nuova presidenza repubblicana è la nuova linea che avrà la politica estera americana. Trump nel corso della campagna elettorale ha aperto numerosi capitoli, pur non addentrandosi mai più di tanto all'interno del 'come fare' e restando su toni più ipotetici: andando oltre il muro – che in parte esiste già – alla frontiera con il Messico e superando la sua propaganda tracotante sul nuovo corso nei rapporti con la Cina c'è molto poco di concreto e sarà certamente interessante osservare quanto del Trump-pensiero diventerà politica vera, sopratutto nei rapporti con gli altri Paesi del mondo e nell'affrontare i diversi scenari di crisi nei quali gli Stati Uniti sono coinvolti.
Uno dei capitoli più delicati, forse il più delicato in tempi di guerra e di rapporti difficili con la Russia, riguarda la NATO: Trump ha sempre sostenuto che gli Stati Uniti non possono continuare a fare “la polizia del mondo”, sopratutto in virtù dei costi della struttura dell'Alleanza atlantica, sostenuti “per circa il 73 per cento da noi: sono un sacco di soldi per proteggere le altre persone.Vogliamo aiutare i nostri alleati ma stiamo perdendo miliardi e miliardi di dollari, non possiamo essere i poliziotti del mondo e non possiamo proteggere i paesi che spesso non apprezzano nemmeno il nostro intervento.Passando al rapporto tra USA e Russia i patti sono ai minimi storici dalla caduta del Muro di Berlino ma Trump ha sempre manifestato stima, se non qualcosa di più, per il leader russo residente al Cremlino e questo potrebbe influire non poco anche sui rapporti tra l'Europa e gli Stati Uniti e l'Europa e la Russia.
Relativamente ai rapporti con l'Unione Europea invece la posizione di Trump può essere definita, non a torto, marcatamente oltranzista: “Io comprendo ciò che succede nel mondo molto meglio di quanto facciano questi politici” ha dichiarato alla ABC qualche giorno dopo gli attacchi di Bruxelles. La sua posizione nei confronti dei leader europei è molto critica, ha lamentato a Francia e Belgio di non avere fatto abbastanza per contenere “il flusso di terroristi alle loro frontiere” e accusato i governi dell'Unione di non avere mai legiferato o indagato adeguatamente per contrastare gli attentatori. Trump, che sarà anche il prossimo Comandante in Capo delle truppe statunitensi, ha più volte detto di voler incrementare la presenza americana nel tratto di mare più affollato di navi da guerra del mondo, il Mar Cinese Meridionale, sul quale la Cina avanza da decenni rivendicazioni territoriali sia sulle acque che su alcune isole. L'obiettivo dichiarato è la deterrenza militare ma il rischio di un'escalation potrebbe essere molto concreto. In generale i rapporti con diversi Paesi asiatici verrebbero rivisti.
Il primo discorso del Donald J. Trump Presidente ha già impressionato soprattutto per i toni molto più morbidi dove i panni del distruttore anti-establishment non sono stati più adoperati. Anzi la nuova veste sembra prettamente istituzionale anche pronunciando poche parole con toni quasi roosveliani. Una cosa che interessa molto sulla nuova presidenza repubblicana è la nuova linea che avrà la politica estera americana. Trump nel corso della campagna elettorale ha aperto numerosi capitoli, pur non addentrandosi mai più di tanto all'interno del 'come fare' e restando su toni più ipotetici: andando oltre il muro – che in parte esiste già – alla frontiera con il Messico e superando la sua propaganda tracotante sul nuovo corso nei rapporti con la Cina c'è molto poco di concreto e sarà certamente interessante osservare quanto del Trump-pensiero diventerà politica vera, sopratutto nei rapporti con gli altri Paesi del mondo e nell'affrontare i diversi scenari di crisi nei quali gli Stati Uniti sono coinvolti.
Uno dei capitoli più delicati, forse il più delicato in tempi di guerra e di rapporti difficili con la Russia, riguarda la NATO: Trump ha sempre sostenuto che gli Stati Uniti non possono continuare a fare “la polizia del mondo”, sopratutto in virtù dei costi della struttura dell'Alleanza atlantica, sostenuti “per circa il 73 per cento da noi: sono un sacco di soldi per proteggere le altre persone.Vogliamo aiutare i nostri alleati ma stiamo perdendo miliardi e miliardi di dollari, non possiamo essere i poliziotti del mondo e non possiamo proteggere i paesi che spesso non apprezzano nemmeno il nostro intervento.Passando al rapporto tra USA e Russia i patti sono ai minimi storici dalla caduta del Muro di Berlino ma Trump ha sempre manifestato stima, se non qualcosa di più, per il leader russo residente al Cremlino e questo potrebbe influire non poco anche sui rapporti tra l'Europa e gli Stati Uniti e l'Europa e la Russia.
Relativamente ai rapporti con l'Unione Europea invece la posizione di Trump può essere definita, non a torto, marcatamente oltranzista: “Io comprendo ciò che succede nel mondo molto meglio di quanto facciano questi politici” ha dichiarato alla ABC qualche giorno dopo gli attacchi di Bruxelles. La sua posizione nei confronti dei leader europei è molto critica, ha lamentato a Francia e Belgio di non avere fatto abbastanza per contenere “il flusso di terroristi alle loro frontiere” e accusato i governi dell'Unione di non avere mai legiferato o indagato adeguatamente per contrastare gli attentatori. Trump, che sarà anche il prossimo Comandante in Capo delle truppe statunitensi, ha più volte detto di voler incrementare la presenza americana nel tratto di mare più affollato di navi da guerra del mondo, il Mar Cinese Meridionale, sul quale la Cina avanza da decenni rivendicazioni territoriali sia sulle acque che su alcune isole. L'obiettivo dichiarato è la deterrenza militare ma il rischio di un'escalation potrebbe essere molto concreto. In generale i rapporti con diversi Paesi asiatici verrebbero rivisti.
Congo.La polveriera sta per riesplodere.
di Ilenia Marini
Ancora una volta l'Africa al centro del caos.
L’Africa riveste un’importanza geopolitica davvero enorme, non solo per la posizione strategia delle zone sub sahariana ma anche per l’abbondanza quasi smisurata di risorse naturali ed energetiche. I paesi della zona sono ben coscienti di questo tanto è vero che negli ultimi due anni le spese per approvvigionamenti militari sono cresciute in via esponenziale in quasi tutti i paesi al di sotto del Sahara. Kenya, Etiopia e Ciad hanno previsto investimenti compresi tra i 700 e i 500 milioni annui. Se le spese per navi, carri e aerei ad alta tecnologia appesantiscono i bilanci dei Paesi del Maghreb, la quantità di armi leggere che circola dal Sahel in giù è però impressionante. Focalizzandoci sulla Repubblica Democratica del Congo, dove di fatto la guerra civile non è mai terminata, nonostante l’embargo del 2011 la circolazione di armi portatili è praticamente fuori controllo. Ad alimentarla ci sarebbero gli arsenali riforniti dal Belgio, “grande fratello” storico del Paese. Sia truppe regolari che i gruppi ribelli delle regioni orientali avrebbero accesso diretto e indiretto.
Senza moralismi ipocriti, tutti sanno che l’Africa è un mercato allettante per fornitori grandi, medi e piccoli. Russia, Stati Uniti, Francia, Cina, Germania, ma anche Italia, Ucraina, Israele e Repubblica Ceca fanno affari d’oro nel continente. Non è una novità ma una tendenza in crescita dagli anni ’60, decennio di emancipazione formale per la maggior parte dei Paesi africani. Una riflessione però sarebbe necessaria alla luce del quadro geopolitico, profondamente evoluto negli ultimi venti anni. Ci sono due fattori da tenere a mente che rendono lo stato delle cose attuale a dir poco preoccupante: la penetrazione islamista nella fascia subsahariana, dall’Atlantico al Corno d’Africa è un dato incontestabile. Molti Paesi fino a ieri immuni da tensioni politiche fomentate da “questioni religiose”, sono oggi in pieno marasma.
Le armi che circolano nel continente, una volta utili ad alimentare guerre e guerriglie nella logica della Guerra fredda, oggi finiscono spesso nelle mani dei terroristi. I fornitissimi arsenali della disciolta Jamahiriya di Gheddafi hanno inondato l’Africa di una quantità spaventosa di armi. Le crisi in Congo, Mali, Ciad, Niger e Costa D’Avorio sono strettamente legate a questo afflusso. Il futuro quindi è tutto nero? I presupposti ci sono e c’è da chiedersi se le armi siano compatibili con stabilità economica, istituzionale e sociale o se ne siano in qualche modo l’ostacolo principale. Difficile a dirsi. L’Africa ha bisogno di tutto tranne che di altra benzina sul fuoco, questo è vero; esistono casi tuttavia, come la Namibia, dove il budget per la difesa è aumentato del 70% in cinque anni, senza compromettere uno dei rari esempi di solidità ed equilibrio politico del continente. La strada da fare è ancora tantissima. Ciò che appare urgente è che al netto degli input subiti dall’esterno, l’Africa inizi a garantire a se stessa un percorso reale di emancipazione.
L’Africa riveste un’importanza geopolitica davvero enorme, non solo per la posizione strategia delle zone sub sahariana ma anche per l’abbondanza quasi smisurata di risorse naturali ed energetiche. I paesi della zona sono ben coscienti di questo tanto è vero che negli ultimi due anni le spese per approvvigionamenti militari sono cresciute in via esponenziale in quasi tutti i paesi al di sotto del Sahara. Kenya, Etiopia e Ciad hanno previsto investimenti compresi tra i 700 e i 500 milioni annui. Se le spese per navi, carri e aerei ad alta tecnologia appesantiscono i bilanci dei Paesi del Maghreb, la quantità di armi leggere che circola dal Sahel in giù è però impressionante. Focalizzandoci sulla Repubblica Democratica del Congo, dove di fatto la guerra civile non è mai terminata, nonostante l’embargo del 2011 la circolazione di armi portatili è praticamente fuori controllo. Ad alimentarla ci sarebbero gli arsenali riforniti dal Belgio, “grande fratello” storico del Paese. Sia truppe regolari che i gruppi ribelli delle regioni orientali avrebbero accesso diretto e indiretto.
Senza moralismi ipocriti, tutti sanno che l’Africa è un mercato allettante per fornitori grandi, medi e piccoli. Russia, Stati Uniti, Francia, Cina, Germania, ma anche Italia, Ucraina, Israele e Repubblica Ceca fanno affari d’oro nel continente. Non è una novità ma una tendenza in crescita dagli anni ’60, decennio di emancipazione formale per la maggior parte dei Paesi africani. Una riflessione però sarebbe necessaria alla luce del quadro geopolitico, profondamente evoluto negli ultimi venti anni. Ci sono due fattori da tenere a mente che rendono lo stato delle cose attuale a dir poco preoccupante: la penetrazione islamista nella fascia subsahariana, dall’Atlantico al Corno d’Africa è un dato incontestabile. Molti Paesi fino a ieri immuni da tensioni politiche fomentate da “questioni religiose”, sono oggi in pieno marasma.
Le armi che circolano nel continente, una volta utili ad alimentare guerre e guerriglie nella logica della Guerra fredda, oggi finiscono spesso nelle mani dei terroristi. I fornitissimi arsenali della disciolta Jamahiriya di Gheddafi hanno inondato l’Africa di una quantità spaventosa di armi. Le crisi in Congo, Mali, Ciad, Niger e Costa D’Avorio sono strettamente legate a questo afflusso. Il futuro quindi è tutto nero? I presupposti ci sono e c’è da chiedersi se le armi siano compatibili con stabilità economica, istituzionale e sociale o se ne siano in qualche modo l’ostacolo principale. Difficile a dirsi. L’Africa ha bisogno di tutto tranne che di altra benzina sul fuoco, questo è vero; esistono casi tuttavia, come la Namibia, dove il budget per la difesa è aumentato del 70% in cinque anni, senza compromettere uno dei rari esempi di solidità ed equilibrio politico del continente. La strada da fare è ancora tantissima. Ciò che appare urgente è che al netto degli input subiti dall’esterno, l’Africa inizi a garantire a se stessa un percorso reale di emancipazione.
Iraq.Mosul in mano all'esercito regolare.
di Ilenia Marini
L'ISIS sta per cedere la città roccaforte di Mosul.
L'esercito nazionale iracheno avanza potente e dietro la coltre di fumo si nasconde la città liberata, Mosul.Nell'ultimo villaggio si combatte ancora, pesantemente. Le raffiche e i colpi di artiglieria risuonano accanto allo sferragliare dei carri armati. I primi militari iracheni, dichiara il generale Wissam Araji, dovrebbero essere già impegnati a Karama, nella periferia della città che lo Stato Islamico ha indicato come sua capitale irachena. Le voci più diffuse dicono che i militari sono ad un passo ma non ancora dentro Mosul.A Bazwaya l'entusiasmo dei soldati della Golden Division è evidente.Le bandiere con il ritratto di Ali, cugino del Profeta, e di suo figlio Hussein, martire nella battaglia di Karbala, testimoniano il senso di rivalsa degli sciiti è un carburante potente per l'offensiva. Due anni fa la resistenza dei soldati governativi, in ampia superiorità numerica e di armamenti, si era liquefatta davanti all'avanzata di un gruppo non irresistibile di miliziani ben motivati.
Adesso la situazione si è capovolta, gli uomini dello Stato Islamico sembrano intimiditi, circolano foto di jihadisti arrestati mentre cercano di fuggire all'accerchiamento vestiti da donna o nascosti nel doppio fondo di un furgoncino. Ma la battaglia di Mosul è tutt'altro che finita: lo scontro nella città è molto più difficile per un esercito che vuole comunque salvaguardare la vita del milione di civili presenti in città. Mentre ammoniva gli uomini di Daesh perché si arrendessero ("o morirete tutti"), il premier Haidar al Abadi ha suggerito alla popolazione di chiudersi in casa. Ma è un invito che nessuno potrà prendere sul serio. I miliziani dello Stato Islamico di fatto tengono in ostaggio la città, hanno già concentrato la gente dei villaggi per usarla come scudi umani, ed è difficile che ai civili basti una porta chiusa per fermare i jihadisti.
Fra i jihadisti uccisi negli scontri a est della città, è segnalata una robusta percentuale di foreign fighters. E apparentemente tutti i miliziani affrontano il combattimento muniti di cintura esplosiva: a giudicare dalle immagini registrate dagli stessi soldati iracheni, non si tratta del gilet stracarico di esplosivo e circuiti che abbiamo anche visto nei film. Ai miliziani verrebbe affidata - o forse imposta - una cintura esplosiva più piccola, delle dimensioni di un comune marsupio. La carica trasportata è molto più leggera, quindi più che a compiere grossi attentati è destinata a far saltare in aria solo i soldati vicini e a non lasciar prendere vivo il miliziano che la porta.
L'esercito nazionale iracheno avanza potente e dietro la coltre di fumo si nasconde la città liberata, Mosul.Nell'ultimo villaggio si combatte ancora, pesantemente. Le raffiche e i colpi di artiglieria risuonano accanto allo sferragliare dei carri armati. I primi militari iracheni, dichiara il generale Wissam Araji, dovrebbero essere già impegnati a Karama, nella periferia della città che lo Stato Islamico ha indicato come sua capitale irachena. Le voci più diffuse dicono che i militari sono ad un passo ma non ancora dentro Mosul.A Bazwaya l'entusiasmo dei soldati della Golden Division è evidente.Le bandiere con il ritratto di Ali, cugino del Profeta, e di suo figlio Hussein, martire nella battaglia di Karbala, testimoniano il senso di rivalsa degli sciiti è un carburante potente per l'offensiva. Due anni fa la resistenza dei soldati governativi, in ampia superiorità numerica e di armamenti, si era liquefatta davanti all'avanzata di un gruppo non irresistibile di miliziani ben motivati.
Adesso la situazione si è capovolta, gli uomini dello Stato Islamico sembrano intimiditi, circolano foto di jihadisti arrestati mentre cercano di fuggire all'accerchiamento vestiti da donna o nascosti nel doppio fondo di un furgoncino. Ma la battaglia di Mosul è tutt'altro che finita: lo scontro nella città è molto più difficile per un esercito che vuole comunque salvaguardare la vita del milione di civili presenti in città. Mentre ammoniva gli uomini di Daesh perché si arrendessero ("o morirete tutti"), il premier Haidar al Abadi ha suggerito alla popolazione di chiudersi in casa. Ma è un invito che nessuno potrà prendere sul serio. I miliziani dello Stato Islamico di fatto tengono in ostaggio la città, hanno già concentrato la gente dei villaggi per usarla come scudi umani, ed è difficile che ai civili basti una porta chiusa per fermare i jihadisti.
Fra i jihadisti uccisi negli scontri a est della città, è segnalata una robusta percentuale di foreign fighters. E apparentemente tutti i miliziani affrontano il combattimento muniti di cintura esplosiva: a giudicare dalle immagini registrate dagli stessi soldati iracheni, non si tratta del gilet stracarico di esplosivo e circuiti che abbiamo anche visto nei film. Ai miliziani verrebbe affidata - o forse imposta - una cintura esplosiva più piccola, delle dimensioni di un comune marsupio. La carica trasportata è molto più leggera, quindi più che a compiere grossi attentati è destinata a far saltare in aria solo i soldati vicini e a non lasciar prendere vivo il miliziano che la porta.
Lettonia.Soldati italiani sul confine.
di Ilenia Marini
Truppe pronte per aiutare a difendere i confini lettoni.
L’Italia invierà nei prossimi mesi un contingente di militari in Lettonia, ai confini con la Russia, nell’ambito di una missione decisa nel vertice NATO di luglio scorso. Niente che non fosse già noto, dunque. Ma sono bastate le parole di Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza atlantica, che è ritornato sullo schieramento di quattro «battle groups» in Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, per scatenare la reazione di Mosca e per far esplodere, in Italia, le polemiche delle forze politiche di opposizione. L'Italia invierà nel 2017 una compagnia di 140 uomini in Lettonia per partecipare alla forza Nato a guida canadese lì dispiegata. L’Italia ha sempre dato il suo contributo all’impostazione di rafforzamento dei nostri assetti difensivi nei Paesi settentrionali e orientali dell’alleanza atlantica ha spiegato il ministro degli Esteri Gentiloni.
Un impegno assunto al vertice di Varsavia , nel corso del quale l’Italia, ha sottolineato Roberta Pinotti, ministra alla Difesa, come altre nazioni, ha dato la disponibilità di fornire una compagnia con numeri non molto consistenti all’interno di una organizzazione che prevede il coinvolgimento di moltissime nazioni della Nato. Non è una politica di aggressione nei confronti della Russia, ma di rassicurazione e difesa dei nostri confini come Alleanza, questa decisione non influisce minimamente nella linea di dialogo che l’Italia ha sempre proposto e condiviso con la Nato e che può e deve andare in parallelo con le rassicurazioni ai nostri alleati che si sentono a rischio.Non si è fatta attendere la reazione del Cremlino.
La politica della Nato è distruttiva. L’Alleanza è impegnata nella costruzione di nuove linee di divisione in Europa invece che di profonde e solide relazioni di buon vicinato, ha dichiarato all’Ansa il ministro degli Esteri russo Maria Zakharova. La Nato, ha aggiunto Zakharova, mira ad allontanare ancora di più le persone piuttosto che a lottare contro minacce e sfide comuni. Quando le è stato chiesto se un eventuale dispiegamento di forze italiane vicino ai confini con la Russia potrebbe avere un impatto negativo sulle relazioni tra Mosca e Roma, la ministro degli Esteri russa ha replicato che sia Roma a rispondere a Stoltenberg. Sostanzialmente un no comment ma in Russia il clima di scontro con l'Occidente cresce dopo che Putin ha annullato il suo viaggio a Parigi e la cancelliera Merkel ha parlato di possibili nuove sanzioni contro Mosca per il suo comportamento in Siria e nell’Europa del Nord.
L’Italia invierà nei prossimi mesi un contingente di militari in Lettonia, ai confini con la Russia, nell’ambito di una missione decisa nel vertice NATO di luglio scorso. Niente che non fosse già noto, dunque. Ma sono bastate le parole di Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza atlantica, che è ritornato sullo schieramento di quattro «battle groups» in Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, per scatenare la reazione di Mosca e per far esplodere, in Italia, le polemiche delle forze politiche di opposizione. L'Italia invierà nel 2017 una compagnia di 140 uomini in Lettonia per partecipare alla forza Nato a guida canadese lì dispiegata. L’Italia ha sempre dato il suo contributo all’impostazione di rafforzamento dei nostri assetti difensivi nei Paesi settentrionali e orientali dell’alleanza atlantica ha spiegato il ministro degli Esteri Gentiloni.
Un impegno assunto al vertice di Varsavia , nel corso del quale l’Italia, ha sottolineato Roberta Pinotti, ministra alla Difesa, come altre nazioni, ha dato la disponibilità di fornire una compagnia con numeri non molto consistenti all’interno di una organizzazione che prevede il coinvolgimento di moltissime nazioni della Nato. Non è una politica di aggressione nei confronti della Russia, ma di rassicurazione e difesa dei nostri confini come Alleanza, questa decisione non influisce minimamente nella linea di dialogo che l’Italia ha sempre proposto e condiviso con la Nato e che può e deve andare in parallelo con le rassicurazioni ai nostri alleati che si sentono a rischio.Non si è fatta attendere la reazione del Cremlino.
La politica della Nato è distruttiva. L’Alleanza è impegnata nella costruzione di nuove linee di divisione in Europa invece che di profonde e solide relazioni di buon vicinato, ha dichiarato all’Ansa il ministro degli Esteri russo Maria Zakharova. La Nato, ha aggiunto Zakharova, mira ad allontanare ancora di più le persone piuttosto che a lottare contro minacce e sfide comuni. Quando le è stato chiesto se un eventuale dispiegamento di forze italiane vicino ai confini con la Russia potrebbe avere un impatto negativo sulle relazioni tra Mosca e Roma, la ministro degli Esteri russa ha replicato che sia Roma a rispondere a Stoltenberg. Sostanzialmente un no comment ma in Russia il clima di scontro con l'Occidente cresce dopo che Putin ha annullato il suo viaggio a Parigi e la cancelliera Merkel ha parlato di possibili nuove sanzioni contro Mosca per il suo comportamento in Siria e nell’Europa del Nord.
Nigeria.Leader di Boko Haram ancora vivo.
di Ilenia Marini
Il gruppo jihadista purtroppo ha ancora il suo leader.
Le forze di polizia nigeriane avevano affermato che il sanguinario leader del gruppo terroristico islamico Boko Haram,Abubakar Shekau, fosse stata ucciso in un bombardamento o almeno ridotto in fin di vita e quindi messo da parte e incapace di nuocere. Questa eclatante notizia era stata fatta trapelare a fine agosto, quando da Abuja avevano parlato di uno "spettacolare attacco aereo" lanciato il 19 dello stesso mese, nel corso del quale diversi leader del gruppo erano stati eliminati e Shekau ferito gravemente a una spalla.
Adesso però i media anche internazionali non sembrano essere convinti di tale fatto perché è proprio il leader di Boko Haram a ricomparire in video, prendendosi gioco delle forze armate nigeriane e sostenendo che - contrariamente a quanto raccontato alla stampa - lui sta benissimo e "gode di buona salute".In un video datato 25 settembre e pubblicato su YouTube, il leader del gruppo jihadista nigeriano parla di "menzogne diffuse sui social network" e fa riferimento anche alle donne rapite di Chibok, di cui ben poco si sa, nonostante siano ormai da lunghi mesi nelle mani di Boko Haram.
"Sto bene, o tiranni", assicura Shekau, confermando come non sempre le notizie che arrivano dalla autorità nigeriane siano necessariamente attendibili, soprattutto perché avevano già data per certa la sua morte in passato, per essere anche in quel caso costretti a un passo indietro e a una smentita. Shekau è ancora a capo di una delle fazioni jihadiste nigeriane, quella che non è legata al sedicente Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, che per la sua Provincia dell'Africa Occidentale" ha scelto un altro comandante.
Le forze di polizia nigeriane avevano affermato che il sanguinario leader del gruppo terroristico islamico Boko Haram,Abubakar Shekau, fosse stata ucciso in un bombardamento o almeno ridotto in fin di vita e quindi messo da parte e incapace di nuocere. Questa eclatante notizia era stata fatta trapelare a fine agosto, quando da Abuja avevano parlato di uno "spettacolare attacco aereo" lanciato il 19 dello stesso mese, nel corso del quale diversi leader del gruppo erano stati eliminati e Shekau ferito gravemente a una spalla.
Adesso però i media anche internazionali non sembrano essere convinti di tale fatto perché è proprio il leader di Boko Haram a ricomparire in video, prendendosi gioco delle forze armate nigeriane e sostenendo che - contrariamente a quanto raccontato alla stampa - lui sta benissimo e "gode di buona salute".In un video datato 25 settembre e pubblicato su YouTube, il leader del gruppo jihadista nigeriano parla di "menzogne diffuse sui social network" e fa riferimento anche alle donne rapite di Chibok, di cui ben poco si sa, nonostante siano ormai da lunghi mesi nelle mani di Boko Haram.
"Sto bene, o tiranni", assicura Shekau, confermando come non sempre le notizie che arrivano dalla autorità nigeriane siano necessariamente attendibili, soprattutto perché avevano già data per certa la sua morte in passato, per essere anche in quel caso costretti a un passo indietro e a una smentita. Shekau è ancora a capo di una delle fazioni jihadiste nigeriane, quella che non è legata al sedicente Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, che per la sua Provincia dell'Africa Occidentale" ha scelto un altro comandante.
USA.Hillary Clinton in leggero vantaggio.
di Ilenia Marini
Tensione ed equilibrio nel duello per la Casa Bianca.
L'8 novembre, giorno dell’elezioni americane si avvicina e la corsa alla Casa Bianca entra nel vivo. La CNN ha rivelato in un recente sondaggio che i candidati Trump e Hillary Clinton sono davvero vicinissimi, li dividono solo due punti percentuale a favore del candidato di destra, ma l'ex Segretario di Stato sarebbe invece in vantaggio nel conteggio dei delegati. Si tratta di un'indicazione più significativa perché il nuovo presidente degli Stati Uniti viene eletto dal collegio elettorale composto da 538 grandi elettori. Questi vengono nominati in base al numero di abitanti di ogni stato, con la stessa ripartizione dei rappresentanti al Congresso.
Il quotidiano Washington Post all'indomani del Labor Day, sottolinea che Hillary Clinton avrebbe in tasca 244 voti sui 270 necessari per l'elezione, mentre Trump ne avrebbe soltanto 126. La partita dunque, da qui all'election day, si giocherà sui 168 grandi elettori ancora ritenuti in bilico dai sondaggisti. In favore della prima donna della storia degli Stati Uniti a correre per la presidenza c'è, secondo l'analisi, il cattivo risultato di Donald Trump fra l'elettorato bianco più istruito, generalmente vicino al partito repubblicano. A fare clamore è il testa a testa in corso nello stato del Texas (Clinton 46% - Trump 45%), feudo conservatore da quarant'anni.
Intanto Hillary ha fatto sapere di non avere nulla contro i faccia a faccia televisivi e che vi parteciperà senza timore ai tre organizzati, detto ciò però la Clinton ha anche sottolineato come una enorme fetta dell’elettorato di Trump sia costituito dalla parte più xenofoba e violenta della popolazione americana e che quindi un’eventuale vittoria dei repubblicani possa divenire pericolosa per l’intero paese. Tutte le riforme moderne e progressiste conquistate da Obama potrebbero crollare ed essere minacciate in caso di vittoria di Trump che nei suoi discorsi parla solo di limitare il flusso migratorio, di rafforzare l’esercito e difendere i confini, senza badare a problemi ben più gravi come lo sviluppo economico e l’assistenza sanitaria ai meno fortunati. Proprio su questi punti sicuramente verteranno gli incontri-scontri tra i due candidati e fino a novembre ci saranno molte novità e colpi di scena.
L'8 novembre, giorno dell’elezioni americane si avvicina e la corsa alla Casa Bianca entra nel vivo. La CNN ha rivelato in un recente sondaggio che i candidati Trump e Hillary Clinton sono davvero vicinissimi, li dividono solo due punti percentuale a favore del candidato di destra, ma l'ex Segretario di Stato sarebbe invece in vantaggio nel conteggio dei delegati. Si tratta di un'indicazione più significativa perché il nuovo presidente degli Stati Uniti viene eletto dal collegio elettorale composto da 538 grandi elettori. Questi vengono nominati in base al numero di abitanti di ogni stato, con la stessa ripartizione dei rappresentanti al Congresso.
Il quotidiano Washington Post all'indomani del Labor Day, sottolinea che Hillary Clinton avrebbe in tasca 244 voti sui 270 necessari per l'elezione, mentre Trump ne avrebbe soltanto 126. La partita dunque, da qui all'election day, si giocherà sui 168 grandi elettori ancora ritenuti in bilico dai sondaggisti. In favore della prima donna della storia degli Stati Uniti a correre per la presidenza c'è, secondo l'analisi, il cattivo risultato di Donald Trump fra l'elettorato bianco più istruito, generalmente vicino al partito repubblicano. A fare clamore è il testa a testa in corso nello stato del Texas (Clinton 46% - Trump 45%), feudo conservatore da quarant'anni.
Intanto Hillary ha fatto sapere di non avere nulla contro i faccia a faccia televisivi e che vi parteciperà senza timore ai tre organizzati, detto ciò però la Clinton ha anche sottolineato come una enorme fetta dell’elettorato di Trump sia costituito dalla parte più xenofoba e violenta della popolazione americana e che quindi un’eventuale vittoria dei repubblicani possa divenire pericolosa per l’intero paese. Tutte le riforme moderne e progressiste conquistate da Obama potrebbero crollare ed essere minacciate in caso di vittoria di Trump che nei suoi discorsi parla solo di limitare il flusso migratorio, di rafforzare l’esercito e difendere i confini, senza badare a problemi ben più gravi come lo sviluppo economico e l’assistenza sanitaria ai meno fortunati. Proprio su questi punti sicuramente verteranno gli incontri-scontri tra i due candidati e fino a novembre ci saranno molte novità e colpi di scena.
Germania.La Petry è la nuova alternativa.
di Ilenia Marini
Il populismo di destra guadagna sempre più consenso.
Nella regione tedesca della Pomerania (Meclemburgo) che da sempre è la culla elettorale della cancelliera Merkel, è avvenuto qualcosa di inimmaginabile fino a pochi mesi fa. La AFD ovvero il partito populista di destra guidato dalla vulcanica leader Frauke Petry, ha superato per voti il partito della Merkel e si è posizionato come secondo partito nazionale, vera alternativa al SPD. La gente non si fida più delle Volksparteien", dei due grandi partiti che hanno dominato la scena politica tedesca del dopoguerra, Cdu e Spd. È stata questa la prima reazione di Frauke Petry. L'Afd, per la prima volta nella storia, diventa il secondo partito. E non in un Land qualsiasi: pur essendo piccolo, dal punto di vista della popolazione - appena il 2 per cento dei tedeschi vive qui - nel Meclemburgo-Pomerania c'è il collegio elettorale della cancelliera. I populisti entrano trionfalmente nel nono Parlamento regionale.
E sono premiati ancora una volta, come era avvenuto anche alle altre tornate elettorali regionali, da una maggiore partecipazione al voto: 60,5%, nove punti in più rispetto al 2011.Una débacle che secondo Petry ha una sola spiegazione: "La catastrofica politica dei profughi che domina tutto". Anche Peter Tauber, segretario della Cdu, ha parlato di un "risultato amaro", condizionato troppo "dalla volontà di esprimere un voto di protesta", soprattutto per la politica sui profughi. Sembra evidente che si è trattato anzitutto di un plebiscito sulla politica "delle porte aperte" della cancelliera.
Leif-Erik Holm, il leader Afd nel Land, ha rivendicato il fatto di "aver puntato sui profughi, mentre gli altri politici volevano parlare di altro".L'unica, magra consolazione è che l'estrema destra, la Npd, è finalmente fuori dal Parlamento regionale.Ma anche la Linke incassa il peggior risultato di sempre, nella regione governata da dieci anni da una Grande coalizione e da otto da Sellering: la sinistra crolla al 13,2% dal 18,4% di cinque anni fa. Disastro anche per i Verdi, che scivolano sotto la soglia del 5% e non entrano nel Parlamento.
Nella regione tedesca della Pomerania (Meclemburgo) che da sempre è la culla elettorale della cancelliera Merkel, è avvenuto qualcosa di inimmaginabile fino a pochi mesi fa. La AFD ovvero il partito populista di destra guidato dalla vulcanica leader Frauke Petry, ha superato per voti il partito della Merkel e si è posizionato come secondo partito nazionale, vera alternativa al SPD. La gente non si fida più delle Volksparteien", dei due grandi partiti che hanno dominato la scena politica tedesca del dopoguerra, Cdu e Spd. È stata questa la prima reazione di Frauke Petry. L'Afd, per la prima volta nella storia, diventa il secondo partito. E non in un Land qualsiasi: pur essendo piccolo, dal punto di vista della popolazione - appena il 2 per cento dei tedeschi vive qui - nel Meclemburgo-Pomerania c'è il collegio elettorale della cancelliera. I populisti entrano trionfalmente nel nono Parlamento regionale.
E sono premiati ancora una volta, come era avvenuto anche alle altre tornate elettorali regionali, da una maggiore partecipazione al voto: 60,5%, nove punti in più rispetto al 2011.Una débacle che secondo Petry ha una sola spiegazione: "La catastrofica politica dei profughi che domina tutto". Anche Peter Tauber, segretario della Cdu, ha parlato di un "risultato amaro", condizionato troppo "dalla volontà di esprimere un voto di protesta", soprattutto per la politica sui profughi. Sembra evidente che si è trattato anzitutto di un plebiscito sulla politica "delle porte aperte" della cancelliera.
Leif-Erik Holm, il leader Afd nel Land, ha rivendicato il fatto di "aver puntato sui profughi, mentre gli altri politici volevano parlare di altro".L'unica, magra consolazione è che l'estrema destra, la Npd, è finalmente fuori dal Parlamento regionale.Ma anche la Linke incassa il peggior risultato di sempre, nella regione governata da dieci anni da una Grande coalizione e da otto da Sellering: la sinistra crolla al 13,2% dal 18,4% di cinque anni fa. Disastro anche per i Verdi, che scivolano sotto la soglia del 5% e non entrano nel Parlamento.
Turchia.Autobomba in pieno centro.
di Ilenia Marini
Attentato sanguinoso per le strade turche rivendicato dai curdi.
Un potente ordigno esplosivo collocato in un autovettura è esploso vicino a un checkpoint della polizia a Cizre, nel sudest della Turchia, le forze dell'ordine turche contano almeno dodici vittime, decine i feriti. L'esplosione è avvenuta nelle vicinanze (all'incirca 40 metri) di un punto di raccolta di poliziotti turchi, edificio che è stato danneggiato.L'attentato fin dalle prime ore è stato rivendicato dal Pkk, il gruppo terroristico di matrice curda, ma già dai primi momenti era stato attribuito ad essi. Ankara considera il Pkk "organizzazione terroristica". La città di Cizre si trova nella provincia di Sirnak, al confine con Siria e Iraq, ed è una città con una forte presenza curda, teatro di una rivolta anti-governativa negli anni scorsi. Nella zona le autorità locali hanno spesso imposto il coprifuoco nei mesi scorsi e dispiegato migliaia di uomini delle forze di sicurezza nell'ambito delle operazioni contro i ribelli del Pkk.
L'attentato di oggi conferma la tensione altissima tra turchi e curdi.Il vicepremier Numan Kurtumulus ha affiancato i miliziani dello Stato Islamico, ai "ribelli curdi" (intendendo quelli in Turchia) e ai combattenti curdo-siriani dell'Ypg: "Stanno attaccando la Turchia per approfittare e trarre vantaggio dal colpo di Stato fallito del mese scorso.
Ma noi siamo determinati a proteggere i nostri confini". Nei giorni scorsi Ankara ha richiesto e ottenuto che i combattenti curdo-siriani dell'Ypg si ritirassero da Manbij (conquistata dalla coalizione a guida Usa) e tornassero a est dell'Eufrate. Il governo turco aveva minacciato intervento con la forza se ciò non fosse successo.
Un potente ordigno esplosivo collocato in un autovettura è esploso vicino a un checkpoint della polizia a Cizre, nel sudest della Turchia, le forze dell'ordine turche contano almeno dodici vittime, decine i feriti. L'esplosione è avvenuta nelle vicinanze (all'incirca 40 metri) di un punto di raccolta di poliziotti turchi, edificio che è stato danneggiato.L'attentato fin dalle prime ore è stato rivendicato dal Pkk, il gruppo terroristico di matrice curda, ma già dai primi momenti era stato attribuito ad essi. Ankara considera il Pkk "organizzazione terroristica". La città di Cizre si trova nella provincia di Sirnak, al confine con Siria e Iraq, ed è una città con una forte presenza curda, teatro di una rivolta anti-governativa negli anni scorsi. Nella zona le autorità locali hanno spesso imposto il coprifuoco nei mesi scorsi e dispiegato migliaia di uomini delle forze di sicurezza nell'ambito delle operazioni contro i ribelli del Pkk.
L'attentato di oggi conferma la tensione altissima tra turchi e curdi.Il vicepremier Numan Kurtumulus ha affiancato i miliziani dello Stato Islamico, ai "ribelli curdi" (intendendo quelli in Turchia) e ai combattenti curdo-siriani dell'Ypg: "Stanno attaccando la Turchia per approfittare e trarre vantaggio dal colpo di Stato fallito del mese scorso.
Ma noi siamo determinati a proteggere i nostri confini". Nei giorni scorsi Ankara ha richiesto e ottenuto che i combattenti curdo-siriani dell'Ypg si ritirassero da Manbij (conquistata dalla coalizione a guida Usa) e tornassero a est dell'Eufrate. Il governo turco aveva minacciato intervento con la forza se ciò non fosse successo.
Siria.Russia e Cina aiutano Assad.
di Ilenia Marini
Si amplia l'alleanza filo siriana e i russi bombardano.
Nei giorni scorsi la Russia di Putin, grande alleata della Siria di Assad e elemento fondamentale della grande alleanza filo Assad ha riprese a bombardare varie posizioni ritenute roccaforti dei ribelli anti regime. La novità di queste ore è però un’altra: ovvero che anche la Cina, seconda potenza economica mondiale, e ormai militare, muove i primi passi per unirsi alla collaudata alleanza russo-iraniana a sostegno del regime di Damasco, di cui potrebbe diventare il terzo significativo partner. Una vera scelta di campo, quella cinese, dalle conseguenze ancora insondate. Pechino finora si era concentrata militarmente solo sulle dispute nel Mar Cinese Meridionale e Orientale e si era limitata ad allargare e rafforzare sempre più la sfera di influenza in Africa solo con investimenti multimiliardari.
Si era sempre tenuta lontana dal caos mediorientale. Ora per la prima volta ha reso noto che intende fornire "aiuti umanitari" ma anche "addestramento alle forze armate" del governo siriano. L'annuncio è stato dato dall'ammiraglio cinese Guan Youfeu, direttore della cooperazione internazionale della Commissione Centrale Militare. La Cina aveva mosso a marzo un primo passo di avvicinamento al regime siriano nominando significativamente Xie Xiaoyan, ambasciatore a Teheran - l'Iran è il secondo grande alleato di Assad insieme alla Russia e alle milizie sciite libanesi Hezbollah. Intanto il 17 agosto - riferisce il ministero russo in una nota - i velivoli Tu-22M3 e Su-34 hanno condotto raid aerei dalla base di Hamadan "contro obiettivi appartenenti allo Stato Islamico e a Jabhat al-Nusra nelle province a sud di Aleppo Deir ez-Zor e Idlib".
Secondo il ministero, i raid hanno distrutto tre postazioni di comando e campi di addestramento dei militanti Daesh nelle regioni di Serakab, Al-Bab, Aleppo, Deir ez-Zor e un totale di cinque importanti depositi di armi. Nelle operazioni - precisano dal ministero - e' rimasto ucciso "un numero significativo di terroristi". Gli aerei russi avevano già condotto altri raid contro i terroristi dell'Is in Siria. Finora, erano decollati dalla base di Mozdok, in Russia, coprendo una distanza di circa 2000 chilometri, distanza che si è ridotta a 700 chilometri con le partenze dall'Iran.
Nei giorni scorsi la Russia di Putin, grande alleata della Siria di Assad e elemento fondamentale della grande alleanza filo Assad ha riprese a bombardare varie posizioni ritenute roccaforti dei ribelli anti regime. La novità di queste ore è però un’altra: ovvero che anche la Cina, seconda potenza economica mondiale, e ormai militare, muove i primi passi per unirsi alla collaudata alleanza russo-iraniana a sostegno del regime di Damasco, di cui potrebbe diventare il terzo significativo partner. Una vera scelta di campo, quella cinese, dalle conseguenze ancora insondate. Pechino finora si era concentrata militarmente solo sulle dispute nel Mar Cinese Meridionale e Orientale e si era limitata ad allargare e rafforzare sempre più la sfera di influenza in Africa solo con investimenti multimiliardari.
Si era sempre tenuta lontana dal caos mediorientale. Ora per la prima volta ha reso noto che intende fornire "aiuti umanitari" ma anche "addestramento alle forze armate" del governo siriano. L'annuncio è stato dato dall'ammiraglio cinese Guan Youfeu, direttore della cooperazione internazionale della Commissione Centrale Militare. La Cina aveva mosso a marzo un primo passo di avvicinamento al regime siriano nominando significativamente Xie Xiaoyan, ambasciatore a Teheran - l'Iran è il secondo grande alleato di Assad insieme alla Russia e alle milizie sciite libanesi Hezbollah. Intanto il 17 agosto - riferisce il ministero russo in una nota - i velivoli Tu-22M3 e Su-34 hanno condotto raid aerei dalla base di Hamadan "contro obiettivi appartenenti allo Stato Islamico e a Jabhat al-Nusra nelle province a sud di Aleppo Deir ez-Zor e Idlib".
Secondo il ministero, i raid hanno distrutto tre postazioni di comando e campi di addestramento dei militanti Daesh nelle regioni di Serakab, Al-Bab, Aleppo, Deir ez-Zor e un totale di cinque importanti depositi di armi. Nelle operazioni - precisano dal ministero - e' rimasto ucciso "un numero significativo di terroristi". Gli aerei russi avevano già condotto altri raid contro i terroristi dell'Is in Siria. Finora, erano decollati dalla base di Mozdok, in Russia, coprendo una distanza di circa 2000 chilometri, distanza che si è ridotta a 700 chilometri con le partenze dall'Iran.
Libia.Piovono le bombe americane.
di Ilenia Marini
Gli USA da tre giorni bombardano il territorio libico.
Il presidente Obama in persona lo ha ammesso due giorni fa, gli Stati Uniti hanno effettuato un totale di undici raid aerei in tre giorni contro obiettivi dello Stato islamico (Is) a Sirte, in Libia. I raid sono stati compiuti dal primo al 4 di agosto da velivoli F15 Harrier decollati dalla nave d’assalto anfibia Uss Wasp della sesta flotta degli Stati Uniti nel Mediterraneo, sono stati anche mostrati filmati del decollo e del bombardamento. Nell’ultima giornata in cui sono disponibili aggiornamenti, venerdi 5 agosto, sono stati colpiti cinque camion per la logistica e per i rifornimenti dell’Is. Il portavoce americano ciha tenuto a sottolineare che gli Stati Uniti sostengono la comunità internazionale a supporto del governo di accordo nazionale (di Tripoli) nei suoi sforzi per ripristinare la stabilità e la sicurezza in Libia.
Queste azioni contribuiranno ad impedire che il Califfato abbia un rifugio sicuro in Libia da cui potrebbe attaccare gli Stati Uniti e gli alleati. Sul terreno, intanto, le forze dell'operazione militare hanno compiuto significativi passi in avanti nell'offensiva all'interno del quartiere al Dolar di Sirte, come riferito dalle stesse milizie libiche. Resta da capire con chiarezza quale sia la posizione dell'Italia. La ministro Pinotti ha spiegato che il nostro paese non ha ricevuto per adesso alcuna richiesta per l'uso militare delle proprie basi ma che c'è tutta la massima disponibilità per dare il proprio contributo. Le forze governative sono avanzate coraggiosamente, ma subendo gravi perdite a causa della feroce resistenza dei terroristi. L'Italia ha risposto alle richieste libiche ricoverando nei nostri ospedali molti dei loro feriti più gravi. L'Italia non resta indifferente. Nonostante le operazioni aeree americane non abbiano finora interessato l'Italia, il nostro Paese, ha ribadito il ministro della Difesa, non resta indifferente rispetto a quanto sta avvenendo. Il nostro impegno contro l'Is è forte in particolare in Iraq (con un contingente secondo dopo quello degli Stati Uniti), e in Afghanistan.
Per questo e considerata anche la vicinanza della minaccia rappresentata dalle forze Is in Libia, il governo mantiene aperta una linea di dialogo diretta sia con la controparte libica, sia con gli alleati americani. Le milizie libiche si sono delle "felici" per la disponibilità italiana. Intanto a livello politico c'è da rimarcare che l'UE ha esteso la missione Eubam Libia fino al 21 agosto del 2017, approvando un finanziamento di 17 milioni per 12 mesi. La missione, stabilita nel 2013 per sostenere le embrionali istituzioni del Paese nordafricano nel miglioramento della sicurezza ai suoi confini e del controllo sui flussi di migranti, era già stata estesa lo scorso febbraio per un periodo di 6 mesi. In quella stessa occasione, al mandato era stata aggiunta l'assistenza Ue in termini di "capacity building" nel settore della sicurezza e in particolare in quelli di giustizia e antiterrorismo. Sempre la UE però dichiara che le istituzioni libiche dovranno con maggiore concretezza affrontare le questioni dell'immigrazione irregolare, del traffico di migranti e di esseri umani promuovendo al tempo stesso impegni a lungo termine di riforma del settore della sicurezza. Una sorta di reciproco patto di assistenza.
Il presidente Obama in persona lo ha ammesso due giorni fa, gli Stati Uniti hanno effettuato un totale di undici raid aerei in tre giorni contro obiettivi dello Stato islamico (Is) a Sirte, in Libia. I raid sono stati compiuti dal primo al 4 di agosto da velivoli F15 Harrier decollati dalla nave d’assalto anfibia Uss Wasp della sesta flotta degli Stati Uniti nel Mediterraneo, sono stati anche mostrati filmati del decollo e del bombardamento. Nell’ultima giornata in cui sono disponibili aggiornamenti, venerdi 5 agosto, sono stati colpiti cinque camion per la logistica e per i rifornimenti dell’Is. Il portavoce americano ciha tenuto a sottolineare che gli Stati Uniti sostengono la comunità internazionale a supporto del governo di accordo nazionale (di Tripoli) nei suoi sforzi per ripristinare la stabilità e la sicurezza in Libia.
Queste azioni contribuiranno ad impedire che il Califfato abbia un rifugio sicuro in Libia da cui potrebbe attaccare gli Stati Uniti e gli alleati. Sul terreno, intanto, le forze dell'operazione militare hanno compiuto significativi passi in avanti nell'offensiva all'interno del quartiere al Dolar di Sirte, come riferito dalle stesse milizie libiche. Resta da capire con chiarezza quale sia la posizione dell'Italia. La ministro Pinotti ha spiegato che il nostro paese non ha ricevuto per adesso alcuna richiesta per l'uso militare delle proprie basi ma che c'è tutta la massima disponibilità per dare il proprio contributo. Le forze governative sono avanzate coraggiosamente, ma subendo gravi perdite a causa della feroce resistenza dei terroristi. L'Italia ha risposto alle richieste libiche ricoverando nei nostri ospedali molti dei loro feriti più gravi. L'Italia non resta indifferente. Nonostante le operazioni aeree americane non abbiano finora interessato l'Italia, il nostro Paese, ha ribadito il ministro della Difesa, non resta indifferente rispetto a quanto sta avvenendo. Il nostro impegno contro l'Is è forte in particolare in Iraq (con un contingente secondo dopo quello degli Stati Uniti), e in Afghanistan.
Per questo e considerata anche la vicinanza della minaccia rappresentata dalle forze Is in Libia, il governo mantiene aperta una linea di dialogo diretta sia con la controparte libica, sia con gli alleati americani. Le milizie libiche si sono delle "felici" per la disponibilità italiana. Intanto a livello politico c'è da rimarcare che l'UE ha esteso la missione Eubam Libia fino al 21 agosto del 2017, approvando un finanziamento di 17 milioni per 12 mesi. La missione, stabilita nel 2013 per sostenere le embrionali istituzioni del Paese nordafricano nel miglioramento della sicurezza ai suoi confini e del controllo sui flussi di migranti, era già stata estesa lo scorso febbraio per un periodo di 6 mesi. In quella stessa occasione, al mandato era stata aggiunta l'assistenza Ue in termini di "capacity building" nel settore della sicurezza e in particolare in quelli di giustizia e antiterrorismo. Sempre la UE però dichiara che le istituzioni libiche dovranno con maggiore concretezza affrontare le questioni dell'immigrazione irregolare, del traffico di migranti e di esseri umani promuovendo al tempo stesso impegni a lungo termine di riforma del settore della sicurezza. Una sorta di reciproco patto di assistenza.
Iraq.Sangue in una moschea sciita.
di Ilenia Marini
40 morti in un mausoleo alle porte di Bagdad.
Ancora un brutto attentato in Iraq avvenuto ieri presso una moschea sciita nella città di Balad a nord di Bagdad. Le forze dell'ordine parlano di 40 morti civili, una carneficina provocata da un atto terroristico rivendicato dai miliziani dello Stato Islamico. Con precisione all'una di notte l'attentatore di è lasciato esplodere all'ingresso del Mausoleo - moschea di Sayyid Muhammad bin Ali al-Hadi, dopo che il grosso dei fedeli era entrato.Dopo l'esplosione, secondo la ricostruzione della polizia, numerosi terroristi hanno fatto irruzione all'interno del santuario aprendo il fuoco all'impazzata sulla folla in preghiera.
Successivamente un altro terrorista si è fatto esplodere in mezzo alla gente che celebrava la festa dell'Eid al Fitr, che segna la fine del mese di Ramadan.Le forze di sicurezza sono riuscite ad arrestare il terzo attentatore suicida e a neutralizzarlo prima che facesse esplodere la sua cintura esplosiva.
A distanza di poche ore dall'attentato, riferiscono i media iraqeni, è arrivata la rivendicazione dell'Isis.L'Iraq non si è ancora ripreso dal sanguinoso attentato del quartiere al Karada di Bagdad che appena una settimana fa ha causato la morte di 292 persone, inducendo il premier al-Abadi a proclamare tre giorni di lutto nazionale. Secondo gli esperti, gli attentati terroristici degli ultimi giorni sono la reazione dei terroristi che sono stati sconfitti militarmente a Fallujah, riconquistata dalle forze dell'esercito e dalle forze volontarie irachene.
Ancora un brutto attentato in Iraq avvenuto ieri presso una moschea sciita nella città di Balad a nord di Bagdad. Le forze dell'ordine parlano di 40 morti civili, una carneficina provocata da un atto terroristico rivendicato dai miliziani dello Stato Islamico. Con precisione all'una di notte l'attentatore di è lasciato esplodere all'ingresso del Mausoleo - moschea di Sayyid Muhammad bin Ali al-Hadi, dopo che il grosso dei fedeli era entrato.Dopo l'esplosione, secondo la ricostruzione della polizia, numerosi terroristi hanno fatto irruzione all'interno del santuario aprendo il fuoco all'impazzata sulla folla in preghiera.
Successivamente un altro terrorista si è fatto esplodere in mezzo alla gente che celebrava la festa dell'Eid al Fitr, che segna la fine del mese di Ramadan.Le forze di sicurezza sono riuscite ad arrestare il terzo attentatore suicida e a neutralizzarlo prima che facesse esplodere la sua cintura esplosiva.
A distanza di poche ore dall'attentato, riferiscono i media iraqeni, è arrivata la rivendicazione dell'Isis.L'Iraq non si è ancora ripreso dal sanguinoso attentato del quartiere al Karada di Bagdad che appena una settimana fa ha causato la morte di 292 persone, inducendo il premier al-Abadi a proclamare tre giorni di lutto nazionale. Secondo gli esperti, gli attentati terroristici degli ultimi giorni sono la reazione dei terroristi che sono stati sconfitti militarmente a Fallujah, riconquistata dalle forze dell'esercito e dalle forze volontarie irachene.
Dacca.Terrore e morte in nome di Allah.
di Ilenia Marini
L'Isis non si ferma.Attentato nella capitale bengalese.
E' davvero sanguinoso il bilancio dopo il blitz delle forze speciali dell'esercito bengalese al bar-ristorante dove un commando di jihadisti si era barricato per dieci ore con un numero imprecisato di persone.C'erano anche italiani nel locale come confermato dall'ambasciatore italiano.L'Is ha rivendicato l'azione prima dell'intervento delle teste di cuoio. La Farnesina da subito aveva sottolineato che erano ben sette gli italiani coinvolti nell'attentato a poche centinaia di metri dalla nostra sede diplomatica a Dacca e forse lasciava presagire il peggio. Quanto si temeva è ora confermato. Shahab Uddin, portavoce dell'esercito bengalese, fa sapere che i venti civili uccisi dai jihadisti sono tutti stranieri, per la maggior parte italiani e giapponesi.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che segue gli sviluppi a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Matteo Renzi, ha avuto un colloquio telefonico con l'omologo bengalese Abul Hassan Mahmood Ali, secondo il quale, riferisce la nota, le autorità locali non hanno ancora elementi sulla nazionalità delle vittime. Il ministro Mahmood Ali si è impegnato a dare informazioni il più presto possibile sulla sorte dei connazionali coinvolti.Il gruppo di terroristi, composto da almeno sette elementi, li aveva trattenuti con sè dopo aver dato l'assalto, intorno alle 20,45 di venerdì sera, al Holey Artisan Bakery. Gowher Rizvi, un consigliere del primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina, ha dichiarato che prima del blitz le forze di sicurezza avevano cercato di negoziare una via d'uscita dalla crisi.
L'ambasciatore italiano aveva poi detto a Rainews che non c'era "alcuna volontà di negoziare" da parte degli attaccanti. Intanto, il sito dell'agenzia di stampa filo-Isis Amaq ha pubblicato foto di cadaveri all'interno del ristorante, rimbalzate sul web. Sono immagini dalla provenienza non verificata, in cui si vedono cadaveri di uomini e donne per terra, in un lago di sangue, fra i tavoli con i piatti della cena che le vittime stavano consumando.I precedenti. Dacca è già stata teatro di attentati terroristici. Il 23 aprile un professore universitario è stato ucciso a colpi di ascia da militanti islamici, prima di lui attacchi simili erano avvenuti in passato contro dei blogger e intellettuali laici.
E' davvero sanguinoso il bilancio dopo il blitz delle forze speciali dell'esercito bengalese al bar-ristorante dove un commando di jihadisti si era barricato per dieci ore con un numero imprecisato di persone.C'erano anche italiani nel locale come confermato dall'ambasciatore italiano.L'Is ha rivendicato l'azione prima dell'intervento delle teste di cuoio. La Farnesina da subito aveva sottolineato che erano ben sette gli italiani coinvolti nell'attentato a poche centinaia di metri dalla nostra sede diplomatica a Dacca e forse lasciava presagire il peggio. Quanto si temeva è ora confermato. Shahab Uddin, portavoce dell'esercito bengalese, fa sapere che i venti civili uccisi dai jihadisti sono tutti stranieri, per la maggior parte italiani e giapponesi.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che segue gli sviluppi a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Matteo Renzi, ha avuto un colloquio telefonico con l'omologo bengalese Abul Hassan Mahmood Ali, secondo il quale, riferisce la nota, le autorità locali non hanno ancora elementi sulla nazionalità delle vittime. Il ministro Mahmood Ali si è impegnato a dare informazioni il più presto possibile sulla sorte dei connazionali coinvolti.Il gruppo di terroristi, composto da almeno sette elementi, li aveva trattenuti con sè dopo aver dato l'assalto, intorno alle 20,45 di venerdì sera, al Holey Artisan Bakery. Gowher Rizvi, un consigliere del primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina, ha dichiarato che prima del blitz le forze di sicurezza avevano cercato di negoziare una via d'uscita dalla crisi.
L'ambasciatore italiano aveva poi detto a Rainews che non c'era "alcuna volontà di negoziare" da parte degli attaccanti. Intanto, il sito dell'agenzia di stampa filo-Isis Amaq ha pubblicato foto di cadaveri all'interno del ristorante, rimbalzate sul web. Sono immagini dalla provenienza non verificata, in cui si vedono cadaveri di uomini e donne per terra, in un lago di sangue, fra i tavoli con i piatti della cena che le vittime stavano consumando.I precedenti. Dacca è già stata teatro di attentati terroristici. Il 23 aprile un professore universitario è stato ucciso a colpi di ascia da militanti islamici, prima di lui attacchi simili erano avvenuti in passato contro dei blogger e intellettuali laici.
Spagna.Elezioni per ridare stabilità al paese.
di Ilenia Marini
La penisola iberica va al voto oer risolvere i suoi problemi.
Dopo sei mesi di instabilità e forte precarietà politica la Spagna domani torna al voto per dare una guida unità alla nazione.E' terminato lo storico duopolio trai partiti Pp-Psoe, ed è stata inaugurata la corsa a quattro per conquistare il governo del paese.Si torna alle urne in questa prima domenica d'estate ma per molti c'è ancora lo spettro dell'ingovernabilità all'orizzonte. Stabile l'orientamento dell'elettorato, l'unico scossone potrebbe venire da una scelta di carattere strategico: l'alleanza stipulata tra Podemos e i comunisti di Izquierda Unida consentirà alla formazione di Pablo Iglesias di sommare ai voti del suo partito tutto il milione di consensi riscosso a dicembre dalla sigla storica della sinistra. Voti che, in quell'occasione, valsero a IU appena due seggi in Parlamento, per via di una legge elettorale che penalizza oltre misura i gruppi minori nella ripartizione dei resti su base provinciale.
Se sommiamo queste preferenze viene a crearsi un vero effetto multiplo che potrebbe aiutare Iglesias a coronare il sogno coltivato fin da quando, due anni fa, entrò in politica: superare per numero di voti e seggi il Psoe, diventando così forza egemone della sinistra.Non solo, al termine di una campagna segnata da un'estrema polarizzazione, Podemos non nasconde l'obiettivo di puntare a consacrarsi come prima forza assoluta, insidiando la posizione dei conservatori del Partito Popolare.
Passando invece ai suoi principali avversari e cose non sono più semplici. I centristi di Ciudadanos guidati da Albert Rivera sarebbero anche disponibili a trattare con i popolari, ma solo nel caso in cui il loro candidato, il premier uscente Mariano Rajoy, accettasse di fare un passo indietro. È troppo compromesso, sostengono, dagli scandali di corruzione che hanno sconvolto il partito. E in più, Rivera critica anche la gestione della crisi economica nel corso dell'ultima legislatura in cui la destra governò con maggioranza assoluta.Rajoy, per il momento, tira dritto e replica snobbando Ciudadanos, nella speranza di poter recuperare sottoforma di "voto utile" anti-Podemos almeno una parte dei consensi che a dicembre andarono a Rivera. Il forte rischio che egli corre è di ricreare uno schema di governo cercando di nuovo l'accordo con i socialisti.A questa ipotesi niente affatto immaginaria gli stessi socialisti però rispondo picche,almeno per adesso.
Dopo sei mesi di instabilità e forte precarietà politica la Spagna domani torna al voto per dare una guida unità alla nazione.E' terminato lo storico duopolio trai partiti Pp-Psoe, ed è stata inaugurata la corsa a quattro per conquistare il governo del paese.Si torna alle urne in questa prima domenica d'estate ma per molti c'è ancora lo spettro dell'ingovernabilità all'orizzonte. Stabile l'orientamento dell'elettorato, l'unico scossone potrebbe venire da una scelta di carattere strategico: l'alleanza stipulata tra Podemos e i comunisti di Izquierda Unida consentirà alla formazione di Pablo Iglesias di sommare ai voti del suo partito tutto il milione di consensi riscosso a dicembre dalla sigla storica della sinistra. Voti che, in quell'occasione, valsero a IU appena due seggi in Parlamento, per via di una legge elettorale che penalizza oltre misura i gruppi minori nella ripartizione dei resti su base provinciale.
Se sommiamo queste preferenze viene a crearsi un vero effetto multiplo che potrebbe aiutare Iglesias a coronare il sogno coltivato fin da quando, due anni fa, entrò in politica: superare per numero di voti e seggi il Psoe, diventando così forza egemone della sinistra.Non solo, al termine di una campagna segnata da un'estrema polarizzazione, Podemos non nasconde l'obiettivo di puntare a consacrarsi come prima forza assoluta, insidiando la posizione dei conservatori del Partito Popolare.
Passando invece ai suoi principali avversari e cose non sono più semplici. I centristi di Ciudadanos guidati da Albert Rivera sarebbero anche disponibili a trattare con i popolari, ma solo nel caso in cui il loro candidato, il premier uscente Mariano Rajoy, accettasse di fare un passo indietro. È troppo compromesso, sostengono, dagli scandali di corruzione che hanno sconvolto il partito. E in più, Rivera critica anche la gestione della crisi economica nel corso dell'ultima legislatura in cui la destra governò con maggioranza assoluta.Rajoy, per il momento, tira dritto e replica snobbando Ciudadanos, nella speranza di poter recuperare sottoforma di "voto utile" anti-Podemos almeno una parte dei consensi che a dicembre andarono a Rivera. Il forte rischio che egli corre è di ricreare uno schema di governo cercando di nuovo l'accordo con i socialisti.A questa ipotesi niente affatto immaginaria gli stessi socialisti però rispondo picche,almeno per adesso.
Iraq.Riconquistata la città di Falluja.
di Ilenia Marini
L'Isis arretra e ora perde il controllo della sua roccaforte.
La città sacra di Falluja è finalmente libera.Ammainata la bandiera nera con la shahada, il giuramento di fede islamica: adesso sul centro dell'antica cittadina irachena è ben visibile la bandiera nazionale dell'Iraq.Le lettere verdi sulla fascia centrale ribadiscono: "Dio è grande", e confermano che la riconquista della città più riottosa è stata compiuta dalle truppe governative, non da eserciti stranieri. A sostenere i soldati di Bagdad c'era ovviamente la copertura aerea garantita dai caccia della coalizione internazionale a guida Usa, ma il fatto che la presa materiale della città sia stata compiuta fisicamente dalle truppe regolari irachene attribuisce un valore politico maggiore all'avanzata.
I governativi hanno ripreso gran parte di Falluja e gli uomini del sedicente Stato islamico sono in difficoltà, bombardati dall'alto e accerchiati in pochi edifici, compreso l'ospedale. La città non è ancora del tutto sotto controllo, ma l'arrivo dei governativi negli edifici di governo, nel quartiere centrale di Nazzal, indica che la battaglia è ormai decisa, dopo settimane di avanzata difficile nella periferia, fra attentati kamikaze e trappole esplosive lasciate dai militanti in ritirata.Gli iracheni avevano perso il controllo di Falluja nel 2014, pochi mesi prima di abbandonare nelle mani dello Stato islamico anche Mosul, nel nord del paese.
Per questo la ripresa della città, nel pieno del "triangolo sunnita", a meno di un'ora dalla capitale, ha valore anche di augurio: presto sarà il momento dell'offensiva nel nord, per far dimenticare la vergogna di aver lasciato cadere Mosul senza combattimenti.In realtà diversi osservatori sottolineano che la resistenza da parte degli uomini dell'Is è stata modesta: la spinta dei governativi e delle forze sciite.Gruppi di mobilitazione popolare, con il sostegno aereo internazionale, sembrano averne avuto ragione in tempi abbastanza rapidi. E com'era accaduto per i successi, anche le sconfitte hanno un effetto psicologico molto forte sui miliziani del gruppo integralista. Ne è una prova anche il riposizionamento dei capi tribali della provincia, che stanno progressivamente abbandonando il fronte fondamentalista per schierarsi con Bagdad. E la tattica di difesa dell'Is, affidata in prevalenza ad attentatori suicidi e a un massiccio uso di ordigni esplosivi nascosti, in queste ore appare poco efficace di fronte all'addestramento e alla determinazione dei militari governativi. A Falluja invece sono rimaste, secondo le stime, circa 90 mila persone. I più coraggiosi, o forse quelli più vicini alle zone dove si combatte, hanno già cominciato a sfollare.
La città sacra di Falluja è finalmente libera.Ammainata la bandiera nera con la shahada, il giuramento di fede islamica: adesso sul centro dell'antica cittadina irachena è ben visibile la bandiera nazionale dell'Iraq.Le lettere verdi sulla fascia centrale ribadiscono: "Dio è grande", e confermano che la riconquista della città più riottosa è stata compiuta dalle truppe governative, non da eserciti stranieri. A sostenere i soldati di Bagdad c'era ovviamente la copertura aerea garantita dai caccia della coalizione internazionale a guida Usa, ma il fatto che la presa materiale della città sia stata compiuta fisicamente dalle truppe regolari irachene attribuisce un valore politico maggiore all'avanzata.
I governativi hanno ripreso gran parte di Falluja e gli uomini del sedicente Stato islamico sono in difficoltà, bombardati dall'alto e accerchiati in pochi edifici, compreso l'ospedale. La città non è ancora del tutto sotto controllo, ma l'arrivo dei governativi negli edifici di governo, nel quartiere centrale di Nazzal, indica che la battaglia è ormai decisa, dopo settimane di avanzata difficile nella periferia, fra attentati kamikaze e trappole esplosive lasciate dai militanti in ritirata.Gli iracheni avevano perso il controllo di Falluja nel 2014, pochi mesi prima di abbandonare nelle mani dello Stato islamico anche Mosul, nel nord del paese.
Per questo la ripresa della città, nel pieno del "triangolo sunnita", a meno di un'ora dalla capitale, ha valore anche di augurio: presto sarà il momento dell'offensiva nel nord, per far dimenticare la vergogna di aver lasciato cadere Mosul senza combattimenti.In realtà diversi osservatori sottolineano che la resistenza da parte degli uomini dell'Is è stata modesta: la spinta dei governativi e delle forze sciite.Gruppi di mobilitazione popolare, con il sostegno aereo internazionale, sembrano averne avuto ragione in tempi abbastanza rapidi. E com'era accaduto per i successi, anche le sconfitte hanno un effetto psicologico molto forte sui miliziani del gruppo integralista. Ne è una prova anche il riposizionamento dei capi tribali della provincia, che stanno progressivamente abbandonando il fronte fondamentalista per schierarsi con Bagdad. E la tattica di difesa dell'Is, affidata in prevalenza ad attentatori suicidi e a un massiccio uso di ordigni esplosivi nascosti, in queste ore appare poco efficace di fronte all'addestramento e alla determinazione dei militari governativi. A Falluja invece sono rimaste, secondo le stime, circa 90 mila persone. I più coraggiosi, o forse quelli più vicini alle zone dove si combatte, hanno già cominciato a sfollare.
Somalia.Attentato sanguinoso in hotel.
di Ilenia Marini
Scorre ancora sangue nella polveriera somala.
Ieri nuovo attentato dinamitardo in Somalia.C'è stata infatti l'esplosione di un'autobomba davanti all'ingresso dell'Hotel Ambassador, in Makka Al Mukarama street, a Mogadiscio,seguita poi da colpi di arma da fuoco. Un vero inferno che è iniziato nella capitale somala verso le ore 17.Il gruppo integralista Al-Shabaab rivendica tempestivamente l'azione.Il portavoce del gruppo, lo sceicco Abu Masab ha dichiarato che la bomba è stata messa per poter entrare nell'albergo e per poter poi iniziare l'operazione terroristica.Secondo la polizia locale almeno 4 sarebbero le vittime accertate.
La Bbc invece afferma che secondo le fonti ospedaliere le vittime sarebbero almeno 10 con ben 50 feriti.L'albego era frequentato da note personalità politiche locali,infatti tra le vittime ci sarebbero diversi deputati, tra cui Abdullahi Jaamac Kabaayne e Mohamed Mohamud Gure. L'attacco è stato portato con un'autobomba e poi con 5 uomini armati che hanno fatto irruzione nell'hotel. Secondo l'Agenzia nazionale di informazione e sicurezza somala (Nise), "tre uomini armati hanno fatto irruzione nell'hotel, uno è rimasto ucciso all'ingresso", probabilmente quello alla guida dell'autobomba. Si tratterebbe, secondo Nise, di "attentatori suicidi"
Al piano terra dell'hotel "ricoperto di sangue", prosegue il racconto di Omar Nor via Twitter, "i corpi senza vita di alcune guardie".Ancora Nise riferisce di "dieci persone soccorse, tre piani dell'albergo sono stati liberati. Ne resta un quarto", dove si sono barricati gli assalitori, impegnati nella sparatoria con le forze governative. La polizia non conferma: "Crediamo che vi siano alcuni combattenti, ma non ne siamo sicuri. Finora possiamo confermare che tre persone sono morte e una dozzina sono ferite".
Ieri nuovo attentato dinamitardo in Somalia.C'è stata infatti l'esplosione di un'autobomba davanti all'ingresso dell'Hotel Ambassador, in Makka Al Mukarama street, a Mogadiscio,seguita poi da colpi di arma da fuoco. Un vero inferno che è iniziato nella capitale somala verso le ore 17.Il gruppo integralista Al-Shabaab rivendica tempestivamente l'azione.Il portavoce del gruppo, lo sceicco Abu Masab ha dichiarato che la bomba è stata messa per poter entrare nell'albergo e per poter poi iniziare l'operazione terroristica.Secondo la polizia locale almeno 4 sarebbero le vittime accertate.
La Bbc invece afferma che secondo le fonti ospedaliere le vittime sarebbero almeno 10 con ben 50 feriti.L'albego era frequentato da note personalità politiche locali,infatti tra le vittime ci sarebbero diversi deputati, tra cui Abdullahi Jaamac Kabaayne e Mohamed Mohamud Gure. L'attacco è stato portato con un'autobomba e poi con 5 uomini armati che hanno fatto irruzione nell'hotel. Secondo l'Agenzia nazionale di informazione e sicurezza somala (Nise), "tre uomini armati hanno fatto irruzione nell'hotel, uno è rimasto ucciso all'ingresso", probabilmente quello alla guida dell'autobomba. Si tratterebbe, secondo Nise, di "attentatori suicidi"
Al piano terra dell'hotel "ricoperto di sangue", prosegue il racconto di Omar Nor via Twitter, "i corpi senza vita di alcune guardie".Ancora Nise riferisce di "dieci persone soccorse, tre piani dell'albergo sono stati liberati. Ne resta un quarto", dove si sono barricati gli assalitori, impegnati nella sparatoria con le forze governative. La polizia non conferma: "Crediamo che vi siano alcuni combattenti, ma non ne siamo sicuri. Finora possiamo confermare che tre persone sono morte e una dozzina sono ferite".
Siria.Il dramma dei profughi continua.
di Ilenia Marini
La popolazione siriana continua a fuggire dalla guerra.
Due giorni fa in Siria ennesima fuga di massa.Circa 300mila persone, un numero enorme, sono fuggite dal campo di Raqqa, roccaforte dell'Is in Siria, per evitare di perdere la vita. Il paura è quella di rimanere coinvolti nell'offensiva anti ISIS che le truppe curdo-siriane, sostenute dalla Coalizione a guida Usa, sta organizzando. Lo riporta anche l'agenzia statale turca Anadolu, citando fonti locali. I civili starebbero fuggendo verso le zone di Bab, Manbij, Jarabulus e Cobanbey a nord di Aleppo e Deir el Zor a sud.In mattinata diversi aerei della Coalizione internazionale, partiti dalla base di Incirlik nel sud della Turchia, hanno cominciato a bombardare alcuni obiettivi del Califfato a nord di Raqqa.
Jet e droni con bombe a guida laser avevano l'obiettivo di aprire la strada all'offensiva di terra. Dopo la liberazione dai terroristi, Raqqa diventerà parte del sistema democratico federale di Rojava e Siria del Nord. Questo almeno è il progetto indicato anche da Gharib Hassou, rappresentante della Democratic Union Party curda della Siria nel Kurdistan iracheno. Il portavoce ha dichiarato che visto che l'assalto a Raqqa è stato effettuato dalle Forze siriane democratiche guidate dai curdi, ha senso che dopo la sua riconquista, la città diventi una parte del sistema federale democratico creato nel nord della Siria.Molti civili siriani rischiano di morire di fame se Damasco e i gruppi ribelli non permetteranno un maggiore accesso alle aree in conflitto per i convogli umanitari che portano generi di prima necessità, ha intanto denunciato il rappresentante Onu in Siria Staffan de Mistura.
Ci sono "molti civili al momento in pericolo di morte per fame", ha detto dopo la settimanale riunione della taskforce delle Nazioni Unite che coordinano le forniture di aiuti umanitari in Siria. Solo oggi una fossa comune con 31 corpi, tra cui quelli di una donna e di un bambino, è stata scoperta dall'esercito del regime di Damasco nell'area a sudovest all'aeroporto di Palmira, nella zona orientale della provincia centrale di Homs. Sono tutte vittime del sedicente Stato Islamico. Sui corpi sono presenti evidenti segni di torture e che alcuni sono stati decapitati. Il primo maggio un'altra fossa comune era stata scoperta a nordest di Palmira con 40 tra donne e bambini uccisi dall'Is.
Due giorni fa in Siria ennesima fuga di massa.Circa 300mila persone, un numero enorme, sono fuggite dal campo di Raqqa, roccaforte dell'Is in Siria, per evitare di perdere la vita. Il paura è quella di rimanere coinvolti nell'offensiva anti ISIS che le truppe curdo-siriane, sostenute dalla Coalizione a guida Usa, sta organizzando. Lo riporta anche l'agenzia statale turca Anadolu, citando fonti locali. I civili starebbero fuggendo verso le zone di Bab, Manbij, Jarabulus e Cobanbey a nord di Aleppo e Deir el Zor a sud.In mattinata diversi aerei della Coalizione internazionale, partiti dalla base di Incirlik nel sud della Turchia, hanno cominciato a bombardare alcuni obiettivi del Califfato a nord di Raqqa.
Jet e droni con bombe a guida laser avevano l'obiettivo di aprire la strada all'offensiva di terra. Dopo la liberazione dai terroristi, Raqqa diventerà parte del sistema democratico federale di Rojava e Siria del Nord. Questo almeno è il progetto indicato anche da Gharib Hassou, rappresentante della Democratic Union Party curda della Siria nel Kurdistan iracheno. Il portavoce ha dichiarato che visto che l'assalto a Raqqa è stato effettuato dalle Forze siriane democratiche guidate dai curdi, ha senso che dopo la sua riconquista, la città diventi una parte del sistema federale democratico creato nel nord della Siria.Molti civili siriani rischiano di morire di fame se Damasco e i gruppi ribelli non permetteranno un maggiore accesso alle aree in conflitto per i convogli umanitari che portano generi di prima necessità, ha intanto denunciato il rappresentante Onu in Siria Staffan de Mistura.
Ci sono "molti civili al momento in pericolo di morte per fame", ha detto dopo la settimanale riunione della taskforce delle Nazioni Unite che coordinano le forniture di aiuti umanitari in Siria. Solo oggi una fossa comune con 31 corpi, tra cui quelli di una donna e di un bambino, è stata scoperta dall'esercito del regime di Damasco nell'area a sudovest all'aeroporto di Palmira, nella zona orientale della provincia centrale di Homs. Sono tutte vittime del sedicente Stato Islamico. Sui corpi sono presenti evidenti segni di torture e che alcuni sono stati decapitati. Il primo maggio un'altra fossa comune era stata scoperta a nordest di Palmira con 40 tra donne e bambini uccisi dall'Is.
USA.Obama riflette sulla Russia.
di Ilenia Marini
Tensione crescente tra gli Stati Uniti e la Russia di Putin.
Ieri davanti alla presenza di ben cinque capi di stato di paesi del Nord Europa Barack Obama ha espresso tutta la sua preoccupazione per la presenza sempre più invadente ed agressiva della Russia nella regione del baltico.Una presenza che lo stesso Obama non ha esitato a definire "preoccupante".Quello che chiede Obama alla Russia è di rispettare i suoi impegni internazionali. Il Presidente Usa ha sottolineato che gli Stati Uniti temono gli atteggiamenti militari di Mosca chiaro sintomo di squilibrio geopolitico nella zona baltica.Tutto questo in seno al vertice alla Casa Bianca con i leader di Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia. Ha affermato Obama che gli Usa intendono tenere un dialogo continuo con la Russia ma che si desidera ugualmente assicurare che gli Usa sono forti e pronti ad agire se necessario.
In un comunicato comune, gli Usa e i cinque Paesi nordici hanno denunciato la "crescente presenza militare" della Russia in questa regione e condannano le "provocazioni" di Mosca.Nelle ultime settimane aerei russi hanno sfiorato navi ed aerei americani sul Mar Baltico, sullo sfondo di ricorrenti tensioni tra i due vecchi nemici della Guerra Fredda. Eppure a Mosca su questo punto sono categorici. Mosca si difende dalle accuse e secondo l’ammiraglio Vladimir Komoyedov, presidente della commissione Difesa della Duma, queste sono state operazioni militari preventivate solo per tutelare l'arsenale russo.
La questione, dunque, oltre che politica è squisitamente militare. Per il ministero degli Esteri russo gli Usa non sono esenti da critiche perchè con lo scudo missilistico “si altera l’equilibrio strategico” in Europa e, inoltre, si “viola” – per colpa degli Usa – il trattato sugli armamenti nucleari di medio raggio (INF). Tutto ciò va detto apertamente, senza giri di parole diplomatici”, ha tuonato la portavoce del ministero. Che ha sottolineato come ora Mosca “si riserva il diritto” di reagire come meglio crede.
Ieri davanti alla presenza di ben cinque capi di stato di paesi del Nord Europa Barack Obama ha espresso tutta la sua preoccupazione per la presenza sempre più invadente ed agressiva della Russia nella regione del baltico.Una presenza che lo stesso Obama non ha esitato a definire "preoccupante".Quello che chiede Obama alla Russia è di rispettare i suoi impegni internazionali. Il Presidente Usa ha sottolineato che gli Stati Uniti temono gli atteggiamenti militari di Mosca chiaro sintomo di squilibrio geopolitico nella zona baltica.Tutto questo in seno al vertice alla Casa Bianca con i leader di Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia. Ha affermato Obama che gli Usa intendono tenere un dialogo continuo con la Russia ma che si desidera ugualmente assicurare che gli Usa sono forti e pronti ad agire se necessario.
In un comunicato comune, gli Usa e i cinque Paesi nordici hanno denunciato la "crescente presenza militare" della Russia in questa regione e condannano le "provocazioni" di Mosca.Nelle ultime settimane aerei russi hanno sfiorato navi ed aerei americani sul Mar Baltico, sullo sfondo di ricorrenti tensioni tra i due vecchi nemici della Guerra Fredda. Eppure a Mosca su questo punto sono categorici. Mosca si difende dalle accuse e secondo l’ammiraglio Vladimir Komoyedov, presidente della commissione Difesa della Duma, queste sono state operazioni militari preventivate solo per tutelare l'arsenale russo.
La questione, dunque, oltre che politica è squisitamente militare. Per il ministero degli Esteri russo gli Usa non sono esenti da critiche perchè con lo scudo missilistico “si altera l’equilibrio strategico” in Europa e, inoltre, si “viola” – per colpa degli Usa – il trattato sugli armamenti nucleari di medio raggio (INF). Tutto ciò va detto apertamente, senza giri di parole diplomatici”, ha tuonato la portavoce del ministero. Che ha sottolineato come ora Mosca “si riserva il diritto” di reagire come meglio crede.
Brasile.Rousseff risponde alle accuse.
di Ilenia Marini
Periodo davvero complicato per la Presidentessa brasiliana.
Dilma Rousseff in queste settimane è stata al centro di polemiche ed inchieste.Il Parlamento brasiliano infatti ha votato a favore del suo impeachment, la messa in stato di accusa del Presidente dello Stato,la Rousseff ha quindi ancora tre settimane di tempo, fino al voto del Senato (11 maggio), prima di essere sospesa e costretta a lasciare il Planalto, il palazzo della presidenza a Brasilia. Ieri in un'infuocata conferenza stampa Dilma ha lanciato accuse pesanti dicendosi pronta a controbbattere punto su punto le accuse che le vengono fatte."Contro di me - ha detto - sta per essere commessa una grande ingiustizia. Sono vittima di una frode politica e giuridica che - ha avvertito - non porterà stabilità politica perché rompe le fondamenta della democrazia".
L'ingiustizia di cui parla la presidente brasiliana è la fumosità dell'accusa che è stata usata per giustificare l'inizio della procedura di impeachment, votata a grande maggioranza, domenica notte, dal Parlamento. Poi ha usato parole pesantissime verso il presidente della Camera, Eduardo Cunha, aggiungendo: "Sono vittima di un processo in cui chi mi giudica non ha l'autorità per giudicare nulla, perché è il realtà colpevole", riferendosi al fatto che Cunha è indagato, mentre lei no, dai giudici della "Mani pulite" brasiliana."Sono profondamente indignata" ha insistito Dilma, per il voto favorevole alla sua destituzione. "Ma non mi lascerò abbattere, la battaglia è appena cominciata. Ho il coraggio e la forza necessaria per affrontare questa ingiustizia". In un altro momento della conferenza stampa Dilma Rousseff si è detta convinta anche del fatto che è stata presa di mira in questo modo perché è una donna, "a un uomo non sarebbe stato riservato questo trattamento". Rispondendo a chi giustifica la richiesta di impeachment con la recessione economica del Brasile ha detto: "Se la crisi economica fosse un motivo per giustificare la destituzione di un presidente eletto democraticamente, allora non ci sarebbe un solo presidente in nessun Paese che rimarrebbe in carica per tutto il suo mandato".
Valutando oggettivamente la situazione brasiliana c'è da dire che quasi al 100% il Senato brasiliano non cambierà la sua decisione e quindi non fermerà il processo contro Dilma. Anche perché basterà la maggioranza semplice dei senatori per metterla in Stato d'accusa. Dopo il voto del Senato Dilma verrà sospesa per 180 giorni (sei mesi), nel corso dei quali i senatori avranno il tempo di esaminare le carte dell'impeachment preparate dalla Camera. Alla fine ci sarà un altro voto, questa volta a maggioranza dei due terzi, che potrà destituirla definitivamente ma dovrà essere confermato dal Tribunale supremo. Il vice-presidente Michel Temer, grande regista insieme a Cunha dell'impeachment, si prepara ad assumere la presidenza ma ha tenuto a precisare che non farà nessuna dichiarazione prima del voto del Senato a maggio.
Dilma Rousseff in queste settimane è stata al centro di polemiche ed inchieste.Il Parlamento brasiliano infatti ha votato a favore del suo impeachment, la messa in stato di accusa del Presidente dello Stato,la Rousseff ha quindi ancora tre settimane di tempo, fino al voto del Senato (11 maggio), prima di essere sospesa e costretta a lasciare il Planalto, il palazzo della presidenza a Brasilia. Ieri in un'infuocata conferenza stampa Dilma ha lanciato accuse pesanti dicendosi pronta a controbbattere punto su punto le accuse che le vengono fatte."Contro di me - ha detto - sta per essere commessa una grande ingiustizia. Sono vittima di una frode politica e giuridica che - ha avvertito - non porterà stabilità politica perché rompe le fondamenta della democrazia".
L'ingiustizia di cui parla la presidente brasiliana è la fumosità dell'accusa che è stata usata per giustificare l'inizio della procedura di impeachment, votata a grande maggioranza, domenica notte, dal Parlamento. Poi ha usato parole pesantissime verso il presidente della Camera, Eduardo Cunha, aggiungendo: "Sono vittima di un processo in cui chi mi giudica non ha l'autorità per giudicare nulla, perché è il realtà colpevole", riferendosi al fatto che Cunha è indagato, mentre lei no, dai giudici della "Mani pulite" brasiliana."Sono profondamente indignata" ha insistito Dilma, per il voto favorevole alla sua destituzione. "Ma non mi lascerò abbattere, la battaglia è appena cominciata. Ho il coraggio e la forza necessaria per affrontare questa ingiustizia". In un altro momento della conferenza stampa Dilma Rousseff si è detta convinta anche del fatto che è stata presa di mira in questo modo perché è una donna, "a un uomo non sarebbe stato riservato questo trattamento". Rispondendo a chi giustifica la richiesta di impeachment con la recessione economica del Brasile ha detto: "Se la crisi economica fosse un motivo per giustificare la destituzione di un presidente eletto democraticamente, allora non ci sarebbe un solo presidente in nessun Paese che rimarrebbe in carica per tutto il suo mandato".
Valutando oggettivamente la situazione brasiliana c'è da dire che quasi al 100% il Senato brasiliano non cambierà la sua decisione e quindi non fermerà il processo contro Dilma. Anche perché basterà la maggioranza semplice dei senatori per metterla in Stato d'accusa. Dopo il voto del Senato Dilma verrà sospesa per 180 giorni (sei mesi), nel corso dei quali i senatori avranno il tempo di esaminare le carte dell'impeachment preparate dalla Camera. Alla fine ci sarà un altro voto, questa volta a maggioranza dei due terzi, che potrà destituirla definitivamente ma dovrà essere confermato dal Tribunale supremo. Il vice-presidente Michel Temer, grande regista insieme a Cunha dell'impeachment, si prepara ad assumere la presidenza ma ha tenuto a precisare che non farà nessuna dichiarazione prima del voto del Senato a maggio.
Libia.E' una guerra civile senza fine.
di Ilenia Marini
Cambiano i governi ma in Libia tutto rimane instabile.
In Libia la situazione interna resta instabile e pericolosa,nonostante la nuova presidenza abbia assicurato il ritorno della pace.Le prossime 72 ore saranno decisive per capire se la guerra civile libica ripartirà con violenza ancora maggiore, e questa volta sarà la fine, oppure se fra mille difficoltà le istituzioni,seppur sempre politicamente deboli, riusciranno a trovare un modo per negoziare, per trattare politicamente, per provare a far ripartire un paese che ormai è in ginocchio.
A Tripoli si combatte da mesi,per le strade e nei quartieri affollati. La situazione può degenerare da un momento all'altro.I confronti militari di queste ore nella capitale per il momento sono solo un pre-posizionamento: le milizie ostili al governo Serraj sono scese in strada per alzare il prezzo, per fargli capire che non ha libertà d'azione, e che anche se è appoggiato dalle Nazioni unite lui deve fare i conti con loro,soprattutto con loro.Non siamo ancora allo scontro finale contr il governo ufficiale di Serraj.
Secondo gli analisti ancora no, ma manca poco: purtroppo se inizieranno ad esserci morti sarà un disastro, perché sangue chiamerà sangue, vendetta chiamerà vendetta, e si avranno, dice la CIA, giorni di scontri che lasceranno un segno profondo sul paese. Anche la Comunità Internazionale è spaventata soprattutto perchè al momento non è ancora partito un negoziato politico fra Serraj e i gruppi presenti a Tripoli: tutte le istituzioni internazioni si augurano che inizino a trattare al più presto.La totalità dei cittadini libici è ormai stanca,tutti sperano e desiderano la pace,a maggior ragione perchè le condizioni del paese sono drammatiche: le scorte alimentari sono poche e costano tantissimo rispetto alla normalità, la banca centrale rinvia pagamenti ormai da 6 mesi, l'inflazione sta sconvolgendo ogni possibilità di commercio,e quindi dopo 5 anni la popolazione è in condizioni davvero allarmanti. Questa del governo Serraj è la meno peggiore di opzioni tutte difficili: sono stati anni di grossa instabilità politica e militare ma adesso la fine del tunnel pare ancora lontana e l'impressione generale in Libia è che la partita sarà difficilissima, e soprattutto molto pericolosa.
In Libia la situazione interna resta instabile e pericolosa,nonostante la nuova presidenza abbia assicurato il ritorno della pace.Le prossime 72 ore saranno decisive per capire se la guerra civile libica ripartirà con violenza ancora maggiore, e questa volta sarà la fine, oppure se fra mille difficoltà le istituzioni,seppur sempre politicamente deboli, riusciranno a trovare un modo per negoziare, per trattare politicamente, per provare a far ripartire un paese che ormai è in ginocchio.
A Tripoli si combatte da mesi,per le strade e nei quartieri affollati. La situazione può degenerare da un momento all'altro.I confronti militari di queste ore nella capitale per il momento sono solo un pre-posizionamento: le milizie ostili al governo Serraj sono scese in strada per alzare il prezzo, per fargli capire che non ha libertà d'azione, e che anche se è appoggiato dalle Nazioni unite lui deve fare i conti con loro,soprattutto con loro.Non siamo ancora allo scontro finale contr il governo ufficiale di Serraj.
Secondo gli analisti ancora no, ma manca poco: purtroppo se inizieranno ad esserci morti sarà un disastro, perché sangue chiamerà sangue, vendetta chiamerà vendetta, e si avranno, dice la CIA, giorni di scontri che lasceranno un segno profondo sul paese. Anche la Comunità Internazionale è spaventata soprattutto perchè al momento non è ancora partito un negoziato politico fra Serraj e i gruppi presenti a Tripoli: tutte le istituzioni internazioni si augurano che inizino a trattare al più presto.La totalità dei cittadini libici è ormai stanca,tutti sperano e desiderano la pace,a maggior ragione perchè le condizioni del paese sono drammatiche: le scorte alimentari sono poche e costano tantissimo rispetto alla normalità, la banca centrale rinvia pagamenti ormai da 6 mesi, l'inflazione sta sconvolgendo ogni possibilità di commercio,e quindi dopo 5 anni la popolazione è in condizioni davvero allarmanti. Questa del governo Serraj è la meno peggiore di opzioni tutte difficili: sono stati anni di grossa instabilità politica e militare ma adesso la fine del tunnel pare ancora lontana e l'impressione generale in Libia è che la partita sarà difficilissima, e soprattutto molto pericolosa.
Siria-L'ISIS non sembra arretrare.
di Ilenia Marini
In Siria gli islamisti non intendono farsi da parte.
Le truppe russe e amaricaneci parlano di un Califfatto in forte ripiegamento,qualcosa che somiglia sempre più ad una ritirata dai territori siriani.Ma le ultime notizie sono non positive. questo a rimarcare come sia sempre complessa la situazione sul campo.L'ultima di queste rivelazioni arriva da una radio locale siriana che ha descritto un colpo clamoroso dell'armata jihadista: ha catturato uno dei più grandi arsenali dell'esercito siriano. I video diffusi dalla propaganda dell'Is permettono di comprendere l'importanza di questo bottino: è una sorta di caverna di Ali Babà del terrorismo, con milioni di munizioni e migliaia di armi d'ogni tipo. Una preda sufficiente per alimentare mesi di combattimenti. Infatti nella base di Ayyash a fine gennaio i miliziani islamici hanno trovato di tutto.
Circa mille casse di proiettili per kalashnikov, mitragliatrici pesanti, mortai e cannoni. Più di cento missili controcarro sofisticati. E sette micidiali missili terra-aria a medio raggio con il semovente per lanciarli: gli stessi ordigni di fabbricazione russa che si ritiene abbiano abbattuto il Boeing malese in volo sull'Ucraina.Tutto qui? No, perché sono riusciti a mettere le mani anche su tre carri armati, una decina di blindati e una ventina di altri veicoli militari. E questi sono solo i materiali documentati dal video, mentre la lista finale del bottino potrebbe essere ancora più grande. Il deposito infatti era una delle riserve strategiche costruite alla fine degli anni Novanta in vista di un possibile conflitto con l'Iraq di Saddam Hussein, con cui i siriani si erano già scontrati durante la prima guerra del Golfo: conteneva scorte di munizioni e mezzi per equipaggiare un'intera brigata.
I miliziani del Califfato sostengono di avere trasferito gran parte delle prede in depositi più sicuri. Mentre alcuni giorni dopo la caduta di Ayyash caccia russi avrebbero bombardato la zona, distruggendo i terribili semoventi contraerei prima che potessero venire utilizzati contro gli stormi di Mosca. Ma sono informazioni difficili da verificare. Resta invece una certezza: la strada per cancellare lo Stato islamico sarà ancora lunga.
Le truppe russe e amaricaneci parlano di un Califfatto in forte ripiegamento,qualcosa che somiglia sempre più ad una ritirata dai territori siriani.Ma le ultime notizie sono non positive. questo a rimarcare come sia sempre complessa la situazione sul campo.L'ultima di queste rivelazioni arriva da una radio locale siriana che ha descritto un colpo clamoroso dell'armata jihadista: ha catturato uno dei più grandi arsenali dell'esercito siriano. I video diffusi dalla propaganda dell'Is permettono di comprendere l'importanza di questo bottino: è una sorta di caverna di Ali Babà del terrorismo, con milioni di munizioni e migliaia di armi d'ogni tipo. Una preda sufficiente per alimentare mesi di combattimenti. Infatti nella base di Ayyash a fine gennaio i miliziani islamici hanno trovato di tutto.
Circa mille casse di proiettili per kalashnikov, mitragliatrici pesanti, mortai e cannoni. Più di cento missili controcarro sofisticati. E sette micidiali missili terra-aria a medio raggio con il semovente per lanciarli: gli stessi ordigni di fabbricazione russa che si ritiene abbiano abbattuto il Boeing malese in volo sull'Ucraina.Tutto qui? No, perché sono riusciti a mettere le mani anche su tre carri armati, una decina di blindati e una ventina di altri veicoli militari. E questi sono solo i materiali documentati dal video, mentre la lista finale del bottino potrebbe essere ancora più grande. Il deposito infatti era una delle riserve strategiche costruite alla fine degli anni Novanta in vista di un possibile conflitto con l'Iraq di Saddam Hussein, con cui i siriani si erano già scontrati durante la prima guerra del Golfo: conteneva scorte di munizioni e mezzi per equipaggiare un'intera brigata.
I miliziani del Califfato sostengono di avere trasferito gran parte delle prede in depositi più sicuri. Mentre alcuni giorni dopo la caduta di Ayyash caccia russi avrebbero bombardato la zona, distruggendo i terribili semoventi contraerei prima che potessero venire utilizzati contro gli stormi di Mosca. Ma sono informazioni difficili da verificare. Resta invece una certezza: la strada per cancellare lo Stato islamico sarà ancora lunga.
Iran.I Riformisti stravincono le elezioni.
di Ilenia Marini
Finalmente svolta riformista nel Parlamento iraniano.
Primi risultati per le elezioni parlamentari in Iran.Il popolo premia la politica progressista del presidente Hassan Rohani e il suo partito riformista stravince a Teheran, dove la sua lista conquista 29 seggi sui 30 messi a disposizione per il collegio della capitale iraniana.Anche nelle altre città, da cui giungono per ora solo notizie ufficiose, i sostenitori di Rohani starebbero conquistando oltre il 40% dei seggi. Ovunque i conservatori arretrano, mentre si sta affermando anche un buon numero di candidati indipendenti.Queste elezioni quindi stanno letteralmente modificando il volto del Parlamento, il decimo Majlis della Repubblica islamica, e la nuova Assemblea degli Esperti che dovrà nominare la prossima Guida Suprema.
Rohani insomma vince la sua sfida contro i conservatori isolazionisti, che detenevano una strabordante maggioranza nel nono Majlis e che gli hanno messo i bastoni tra le ruote durante tutto il negoziato sull'accordo per la revisione del programma nucleare iraniano e sui nuovi rapporti con l'Occidente.Non si sa ancora con certezza di chi sarà il 50% + 1 dei 290 seggi parlamentari. Molto resta ancora nella nebbia, perché i dati ufficiali arrivano con il contagocce e per avere un quadro definitivo, ha avvertito il ministero degli Interni, bisognerà aspettare fino a martedì prossimo, quando tutti i milioni di voti deposti nei 52mila seggi sparpagliati per il Paese saranno stati scrutinati e controfirmati dal Consiglio dei Guardiani, l'organismo giuridico-religioso che controlla l'attività parlamentare, seleziona le candidature e mette il timbro anche sui risultati di ogni voto popolare. E neanche allora sarà finita del tutto, in quanto in alcuni collegi elettorali nessun candidato ha raggiunto il quorum, ovvero il 25% dei voti, e sarà necessario andare ad un ballottaggio, previsto per fine aprile. Anche una manciata di deputati dell'ultima ora potrebbe cambiare i rapporti di forza in Parlamento.Anche se ci troviamo davanti a risultati non definitivi è evidente la portata rivoluzionaria degli eventi.
Anche nell'Assemblea degli Esperti, organismo religioso di 88 membri in carica per 8 anni, i riformisti, pur non ottenendo la maggioranza, hanno umiliato gli ultra-conservatori. Anche qui, nel collegio di Teheran, i primi posti dei sedici assegnati sono stati occupati dai moderati.La presenza massiccia di uomini legati a Rafsajani, pur se presenti in liste conservatrici, e l'alleanza tra Rafsajani e Rohani potrebbero creare scenari inediti nel caso si dovesse eleggere una nuova Guida Suprema, in un'era post-Khamenei.
Primi risultati per le elezioni parlamentari in Iran.Il popolo premia la politica progressista del presidente Hassan Rohani e il suo partito riformista stravince a Teheran, dove la sua lista conquista 29 seggi sui 30 messi a disposizione per il collegio della capitale iraniana.Anche nelle altre città, da cui giungono per ora solo notizie ufficiose, i sostenitori di Rohani starebbero conquistando oltre il 40% dei seggi. Ovunque i conservatori arretrano, mentre si sta affermando anche un buon numero di candidati indipendenti.Queste elezioni quindi stanno letteralmente modificando il volto del Parlamento, il decimo Majlis della Repubblica islamica, e la nuova Assemblea degli Esperti che dovrà nominare la prossima Guida Suprema.
Rohani insomma vince la sua sfida contro i conservatori isolazionisti, che detenevano una strabordante maggioranza nel nono Majlis e che gli hanno messo i bastoni tra le ruote durante tutto il negoziato sull'accordo per la revisione del programma nucleare iraniano e sui nuovi rapporti con l'Occidente.Non si sa ancora con certezza di chi sarà il 50% + 1 dei 290 seggi parlamentari. Molto resta ancora nella nebbia, perché i dati ufficiali arrivano con il contagocce e per avere un quadro definitivo, ha avvertito il ministero degli Interni, bisognerà aspettare fino a martedì prossimo, quando tutti i milioni di voti deposti nei 52mila seggi sparpagliati per il Paese saranno stati scrutinati e controfirmati dal Consiglio dei Guardiani, l'organismo giuridico-religioso che controlla l'attività parlamentare, seleziona le candidature e mette il timbro anche sui risultati di ogni voto popolare. E neanche allora sarà finita del tutto, in quanto in alcuni collegi elettorali nessun candidato ha raggiunto il quorum, ovvero il 25% dei voti, e sarà necessario andare ad un ballottaggio, previsto per fine aprile. Anche una manciata di deputati dell'ultima ora potrebbe cambiare i rapporti di forza in Parlamento.Anche se ci troviamo davanti a risultati non definitivi è evidente la portata rivoluzionaria degli eventi.
Anche nell'Assemblea degli Esperti, organismo religioso di 88 membri in carica per 8 anni, i riformisti, pur non ottenendo la maggioranza, hanno umiliato gli ultra-conservatori. Anche qui, nel collegio di Teheran, i primi posti dei sedici assegnati sono stati occupati dai moderati.La presenza massiccia di uomini legati a Rafsajani, pur se presenti in liste conservatrici, e l'alleanza tra Rafsajani e Rohani potrebbero creare scenari inediti nel caso si dovesse eleggere una nuova Guida Suprema, in un'era post-Khamenei.
Siria.Finalmente c'è il cessate il fuoco.
di Ilenia Marini
Forse c'è speranza per il povero popolo siriano.
Giorni importanti questi a Monaco per risolvere la questione siriana.Il Segretario di Stato americano John Kerry si dice soddisfatto per aver fatto passi importanti su tutti i fronti, le ostilità e gli aiuti. E questi progressi hanno il potenziale di cambiare la vita quotidiana dei siriani.Una maratona conclusasi a notte fonda in cui il Gruppo internazionale di sostegno alla Siria ha trovato un accordo. Si è deciso che gli aiuti umanitari per le città siriane sotto assedio dovranno arrivare subito, a partire da questa settimana, mentre la cessazione delle ostilità dovrà aver luogo entro i prossimi sette giorni.Non sono mancati momenti di tensione. Le trattative, cui hanno preso parte le delegazioni di 17 Stati tra cui l'Italia, sono andate avanti per tutta la giornata e sono state caratterizzate da momenti di tensione, in particolare sulla cessazione delle ostilità.
Da una parte i russi che si erano detti disposti a una tregua per il primo marzo, dall'altra Usa e Unione europea che chiedevano lo stop immediato ai combattimenti. Nell'illustrare i contenuti dell'intesa, Kerry e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov avevano annunciato una riunione oggi a Ginevra della task force composta da membri del Gruppo internazionale di sostegno, a cui verrà sottoposto un piano delle Nazioni Unite di interventi umanitari la cui attuazione sarà monitorata dalla task force stessa. Il presidente siriano Assad ha espresso il suo fermo concetto,ossia che la Guerra al terrorismo va avanti e ha inoltre dichiarato di sostenere i negoziati per una soluzione diplomatica del conflitto in corso ma ha ribadito che non fermerà la guerra al terrorismo.
Credere ai negoziati, tuttavia, non significa che stoppare la lotta al terrorismo. Le due strade sono indipendenti in Siria, ha affermato in un'intervista esclusiva all'Afp. L'esercito governativo siriano tenterà di riconquistare tutta la Siria "senza alcuna esitazione", ha assicurato Assad. Tuttavia, ha aggiunto, il coinvolgimento di protagonisti regionali "significa che la soluzione richiederà molto tempo e un alto prezzo". Il presidente siriano ha rigettato definendola "politicizzata" l'accusa di "crimini di guerra" lanciata di recente dalle Nazioni Unite ed accusa l'Europa di essere "la causa diretta" della fuga dei siriani dal loro paese. Assad ha poi inoltre attaccato la Francia: "Deve cambiare politica nei confronti della Siria per combattere il terrorismo": Si è detto inoltre convinto che non spetti al suo Paese fare un "gesto verso" Parigi per migliorare le relazioni. Parigi, ha intimato Assad, deve mettere fine alle sue "politiche distruttive a diretto sostegno del terrorismo".
Giorni importanti questi a Monaco per risolvere la questione siriana.Il Segretario di Stato americano John Kerry si dice soddisfatto per aver fatto passi importanti su tutti i fronti, le ostilità e gli aiuti. E questi progressi hanno il potenziale di cambiare la vita quotidiana dei siriani.Una maratona conclusasi a notte fonda in cui il Gruppo internazionale di sostegno alla Siria ha trovato un accordo. Si è deciso che gli aiuti umanitari per le città siriane sotto assedio dovranno arrivare subito, a partire da questa settimana, mentre la cessazione delle ostilità dovrà aver luogo entro i prossimi sette giorni.Non sono mancati momenti di tensione. Le trattative, cui hanno preso parte le delegazioni di 17 Stati tra cui l'Italia, sono andate avanti per tutta la giornata e sono state caratterizzate da momenti di tensione, in particolare sulla cessazione delle ostilità.
Da una parte i russi che si erano detti disposti a una tregua per il primo marzo, dall'altra Usa e Unione europea che chiedevano lo stop immediato ai combattimenti. Nell'illustrare i contenuti dell'intesa, Kerry e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov avevano annunciato una riunione oggi a Ginevra della task force composta da membri del Gruppo internazionale di sostegno, a cui verrà sottoposto un piano delle Nazioni Unite di interventi umanitari la cui attuazione sarà monitorata dalla task force stessa. Il presidente siriano Assad ha espresso il suo fermo concetto,ossia che la Guerra al terrorismo va avanti e ha inoltre dichiarato di sostenere i negoziati per una soluzione diplomatica del conflitto in corso ma ha ribadito che non fermerà la guerra al terrorismo.
Credere ai negoziati, tuttavia, non significa che stoppare la lotta al terrorismo. Le due strade sono indipendenti in Siria, ha affermato in un'intervista esclusiva all'Afp. L'esercito governativo siriano tenterà di riconquistare tutta la Siria "senza alcuna esitazione", ha assicurato Assad. Tuttavia, ha aggiunto, il coinvolgimento di protagonisti regionali "significa che la soluzione richiederà molto tempo e un alto prezzo". Il presidente siriano ha rigettato definendola "politicizzata" l'accusa di "crimini di guerra" lanciata di recente dalle Nazioni Unite ed accusa l'Europa di essere "la causa diretta" della fuga dei siriani dal loro paese. Assad ha poi inoltre attaccato la Francia: "Deve cambiare politica nei confronti della Siria per combattere il terrorismo": Si è detto inoltre convinto che non spetti al suo Paese fare un "gesto verso" Parigi per migliorare le relazioni. Parigi, ha intimato Assad, deve mettere fine alle sue "politiche distruttive a diretto sostegno del terrorismo".
Libia.Quale orizzonte è alle porte.
di Ilenia Marini
Che sorti sono in serbo all'ex paese di Gheddafi?
La Libia è un paese a noi vicinissimo,quasi alle nostre porte,ma dopo la caduta del regime di Gheddafi l'anarchia istituzionale si è impossessata della zona e il rischio di una deriva estremista è sempre dietro l'angolo. In questo immenso spazio frammentato, conteso fra milizie, contrabbandieri e banditi indigeni o d’importazione, molti dei quali sponsorizzati da attori esterni che trattano i resti della nostra ex colonia nel contesto delle loro dispute regionali, è spuntato nello scorso autunno il vessillo dello Stato Islamico. A Derna, Bengasi, Sirte, Sabrata, Tripoli e in qualche centro minore, jihadisti locali, talvolta in combutta con i gheddafiani – incarnazione libica dello «Stato profondo» – hanno scelto il marchio del «califfo » per guadagnare pubblicità, carisma e influenza.
Inizialmente qualche centinaio di armati, oggi forse un paio di migliaia, i neo adepti di al-Baghdadi hanno occupato i media globali con l’attentato del 27 gennaio di quest’anno all’hotel Corinthia, nel cuore di Tripoli, poi con la decapitazione di ventuno egiziani copti – ammesso che il video fatto circolare in febbraio non sia una fabbricazione. Il rebranding minaccia di fungere da pretesto per un nuovo intervento armato contro i terroristi islamici.Se il mondo che conta era parso indifferente alla guerra per bande scoppiata nell’autunno 2011 subito dopo la liquidazione di Gheddafi per mano della coalizione fra ribelli, ex coloniali europei (francesi, britannici, italiani) appoggiati senza convinzione dagli americani, e sceiccati del Golfo, appena l’ombra dell’Is si è profilata in Cirenaica è squillato l’allarme generale.
Obiettivo proclamato: sradicare lo Stato Islamico prima che s’impadronisca della Libia e dei suoi tesori energetici.Ma gli interventisti, arabi od occidentali, seguono ciascuno la propria agenda. Per loro la comparsa del marchio «califfale» nelle terre libiche è una vera manna. Da gustare nel contesto della corrente rappresentazione geostrategica del caso libico.”
La Libia è un paese a noi vicinissimo,quasi alle nostre porte,ma dopo la caduta del regime di Gheddafi l'anarchia istituzionale si è impossessata della zona e il rischio di una deriva estremista è sempre dietro l'angolo. In questo immenso spazio frammentato, conteso fra milizie, contrabbandieri e banditi indigeni o d’importazione, molti dei quali sponsorizzati da attori esterni che trattano i resti della nostra ex colonia nel contesto delle loro dispute regionali, è spuntato nello scorso autunno il vessillo dello Stato Islamico. A Derna, Bengasi, Sirte, Sabrata, Tripoli e in qualche centro minore, jihadisti locali, talvolta in combutta con i gheddafiani – incarnazione libica dello «Stato profondo» – hanno scelto il marchio del «califfo » per guadagnare pubblicità, carisma e influenza.
Inizialmente qualche centinaio di armati, oggi forse un paio di migliaia, i neo adepti di al-Baghdadi hanno occupato i media globali con l’attentato del 27 gennaio di quest’anno all’hotel Corinthia, nel cuore di Tripoli, poi con la decapitazione di ventuno egiziani copti – ammesso che il video fatto circolare in febbraio non sia una fabbricazione. Il rebranding minaccia di fungere da pretesto per un nuovo intervento armato contro i terroristi islamici.Se il mondo che conta era parso indifferente alla guerra per bande scoppiata nell’autunno 2011 subito dopo la liquidazione di Gheddafi per mano della coalizione fra ribelli, ex coloniali europei (francesi, britannici, italiani) appoggiati senza convinzione dagli americani, e sceiccati del Golfo, appena l’ombra dell’Is si è profilata in Cirenaica è squillato l’allarme generale.
Obiettivo proclamato: sradicare lo Stato Islamico prima che s’impadronisca della Libia e dei suoi tesori energetici.Ma gli interventisti, arabi od occidentali, seguono ciascuno la propria agenda. Per loro la comparsa del marchio «califfale» nelle terre libiche è una vera manna. Da gustare nel contesto della corrente rappresentazione geostrategica del caso libico.”
Burkina Faso.Al Qaeda uccide ancora.
di Ilenia Marini
Scorre ancora sangue per le strade delle città africane.
L'Africa torna ad essere campo di battaglia del terrorismo dopo alcuni mesi di apparente calma.A Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, un commando di almeno cinque uomini armati ha preso d'assalto l'hotel Splendid e il caffè-ristorante "Le Cappuccino". L'attacco è partitocon l'esplosione di un ordigno in pieno centro ed è proseguito con l'attacco ad un'albergo che ospita solitamente molti clienti occidentali ed è frequentato in particolare da personale dell'Onu. Le vittime secondo il direttore dell'ospedale sarebbero almeno 20.Circa due ore dopo le esplosioni, le forze speciali hanno dato il via al blitz all'interno dell'hotel.
Secondo quanto riferito dal Ministero degli interni del Burkina Faso, tre jihadisti (un arabo e due africani) sono stati uccisi dopo un violento scontro a fuoco e le forze di sicurezza sono riuscite a liberare 126 persone. I feriti sono 33. Tra gli ostaggi liberati c'è anche il ministro dei Lavori Pubblici, Clement Sawadogo. Il ministro ha però aggiunto che è in corso un altro attacco terroristico all'hotel Ybi, vicino a Le Cappuccino.
Secondo il sito di intelligence Site, l'attacco all'hotel di Ouagadougou sarebbe stato rivendicato da Aqim (Al Qaeda Maghreb Islamico). Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon condanna i fatti ed esprime condoglianze ai familiari dei colpiti. Il Burkina Faso ha imposto il coprifuoco dalle 23 alle 6 di mattina Stando alle ricostruzioni, intorno alle 20.30 ora italiana due autobomba sono esplose davanti all'albergo, preso poi d'assalto da un gruppo di uomini armati, con turbanti in testa e mascherati. Gli assalitori e le forze di sicurezza sul posto hanno dato vita a uno scontro a fuoco. Come sempre in questi casi, sui social media si sono accavallate testimonianze e notizie: alcuni sostengono che il gruppo armato abbia inneggiato ad Allah. L'ambasciata francese parla apertamente di "attacco terroristico". Allo Splendid era in corso una cena con decine di invitati organizzata dall'Asecna, l'Agenzia per la sicurezza della navigazione aerea in Africa e Madagascar.
L'Africa torna ad essere campo di battaglia del terrorismo dopo alcuni mesi di apparente calma.A Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, un commando di almeno cinque uomini armati ha preso d'assalto l'hotel Splendid e il caffè-ristorante "Le Cappuccino". L'attacco è partitocon l'esplosione di un ordigno in pieno centro ed è proseguito con l'attacco ad un'albergo che ospita solitamente molti clienti occidentali ed è frequentato in particolare da personale dell'Onu. Le vittime secondo il direttore dell'ospedale sarebbero almeno 20.Circa due ore dopo le esplosioni, le forze speciali hanno dato il via al blitz all'interno dell'hotel.
Secondo quanto riferito dal Ministero degli interni del Burkina Faso, tre jihadisti (un arabo e due africani) sono stati uccisi dopo un violento scontro a fuoco e le forze di sicurezza sono riuscite a liberare 126 persone. I feriti sono 33. Tra gli ostaggi liberati c'è anche il ministro dei Lavori Pubblici, Clement Sawadogo. Il ministro ha però aggiunto che è in corso un altro attacco terroristico all'hotel Ybi, vicino a Le Cappuccino.
Secondo il sito di intelligence Site, l'attacco all'hotel di Ouagadougou sarebbe stato rivendicato da Aqim (Al Qaeda Maghreb Islamico). Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon condanna i fatti ed esprime condoglianze ai familiari dei colpiti. Il Burkina Faso ha imposto il coprifuoco dalle 23 alle 6 di mattina Stando alle ricostruzioni, intorno alle 20.30 ora italiana due autobomba sono esplose davanti all'albergo, preso poi d'assalto da un gruppo di uomini armati, con turbanti in testa e mascherati. Gli assalitori e le forze di sicurezza sul posto hanno dato vita a uno scontro a fuoco. Come sempre in questi casi, sui social media si sono accavallate testimonianze e notizie: alcuni sostengono che il gruppo armato abbia inneggiato ad Allah. L'ambasciata francese parla apertamente di "attacco terroristico". Allo Splendid era in corso una cena con decine di invitati organizzata dall'Asecna, l'Agenzia per la sicurezza della navigazione aerea in Africa e Madagascar.
Israele.Di nuovo morte in CisGiordania.
di Ilenia Marini
Continua ancora l'intifada dei coltelli in Israele.
Ennesimo fatto di sangue nellazona mediorientale.Ieri nei territori della Cisgiordania due palestinesi sono stati uccisi a colpi d'arma da fuoco mentre tentavano di accoltellare dei soldati israeliani, nei pressi dell'insediamento di Bekaot. Questi fatti sono stati riferiti da fonti vicine all'esercito di Israele. E' accaduto il tutto nei pressi di un checkpoint a Bekaot, nell'alta valle del Giordano. Le Forze di difesa israeliane hanno affermato che i soldati stavano svolgendo attività di sicurezza di routine al valico quando sono stati assaliti. I militari, illesi, hanno sparato e ucciso i due aggressori. La cui morte è stata confermata dal ministero della Salute palestinese.Dall'inizio di ottobre, gli assalti all'arma bianca, gli investimenti in auto e le sparatorie ad opera dei palestinesi è costata la vita a 21 israeliani e a un cittadino americano.
La reazione delle forze di sicurezza della Stella di Davide e degli israeliani armati ha determinato la morte di 139 palestinesi, 80 dei quali descritti dalle autorità di Tel Aviv come "aggressori". Altri palestinesi sono invece deceduti a seguito degli scontri con l'esercito e la polizia israeliana.Un'escalation di violenza derivata dalla concomitanza tra il fallimento del negoziato di pace sponsorizzato dagli Usa, l'aumento degli insediamenti di coloni ebrei nei territori occupati e che le autorità palestinesi reclamano per la formazione futura di un loro Stato e, infine, l'appello del fondamentalismo islamico alla distruzione di Israele. Anche se ad accendere la miccia della cosiddetta "intifada dei coltelli", a metà settembre, è stato soprattutto l'opposizione dei musulmani a un aumento delle visite di israeliani al complesso della moschea di al Aqsa a Gerusalemme, terzo più importante luogo di culto per l'Islam ma sacro anche per il Giudaismo in quanto luogo di residenza di due templi biblici.
Gli Stati Uniti hanno manifestato nuovamente le loro critiche al piano di espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, sottolineando ancora una volta come esso mini la soluzione al conflitto basata sulla realizzazione di due Stati, israeliano e palestinese. "La continua attività di insediamento ed espansione solleva un onesto interrogativo su quali siano le intenzioni di Israele a lungo termine e rende il raggiungimento della soluzione dei due Stati più difficile" ha dichiarato John Kirby, portavoce del Dipartimento di Stato, durante un briefing. Aggiungendo che l'amministrazione americana è "profondamente preoccupata" dall'approvazione da parte di Israele, mercoledì scorso, della espansione degli attuali limiti dell'insediamento ebraico di Gush Etzion, nei pressi di Gerusalemme. Pur restando i più forti alleati di Israele, ha concluso Kirby, gli Usa considerano la politica espansionista di Tel Aviv "illegittima e controproducente per la causa della pace".
Ennesimo fatto di sangue nellazona mediorientale.Ieri nei territori della Cisgiordania due palestinesi sono stati uccisi a colpi d'arma da fuoco mentre tentavano di accoltellare dei soldati israeliani, nei pressi dell'insediamento di Bekaot. Questi fatti sono stati riferiti da fonti vicine all'esercito di Israele. E' accaduto il tutto nei pressi di un checkpoint a Bekaot, nell'alta valle del Giordano. Le Forze di difesa israeliane hanno affermato che i soldati stavano svolgendo attività di sicurezza di routine al valico quando sono stati assaliti. I militari, illesi, hanno sparato e ucciso i due aggressori. La cui morte è stata confermata dal ministero della Salute palestinese.Dall'inizio di ottobre, gli assalti all'arma bianca, gli investimenti in auto e le sparatorie ad opera dei palestinesi è costata la vita a 21 israeliani e a un cittadino americano.
La reazione delle forze di sicurezza della Stella di Davide e degli israeliani armati ha determinato la morte di 139 palestinesi, 80 dei quali descritti dalle autorità di Tel Aviv come "aggressori". Altri palestinesi sono invece deceduti a seguito degli scontri con l'esercito e la polizia israeliana.Un'escalation di violenza derivata dalla concomitanza tra il fallimento del negoziato di pace sponsorizzato dagli Usa, l'aumento degli insediamenti di coloni ebrei nei territori occupati e che le autorità palestinesi reclamano per la formazione futura di un loro Stato e, infine, l'appello del fondamentalismo islamico alla distruzione di Israele. Anche se ad accendere la miccia della cosiddetta "intifada dei coltelli", a metà settembre, è stato soprattutto l'opposizione dei musulmani a un aumento delle visite di israeliani al complesso della moschea di al Aqsa a Gerusalemme, terzo più importante luogo di culto per l'Islam ma sacro anche per il Giudaismo in quanto luogo di residenza di due templi biblici.
Gli Stati Uniti hanno manifestato nuovamente le loro critiche al piano di espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, sottolineando ancora una volta come esso mini la soluzione al conflitto basata sulla realizzazione di due Stati, israeliano e palestinese. "La continua attività di insediamento ed espansione solleva un onesto interrogativo su quali siano le intenzioni di Israele a lungo termine e rende il raggiungimento della soluzione dei due Stati più difficile" ha dichiarato John Kirby, portavoce del Dipartimento di Stato, durante un briefing. Aggiungendo che l'amministrazione americana è "profondamente preoccupata" dall'approvazione da parte di Israele, mercoledì scorso, della espansione degli attuali limiti dell'insediamento ebraico di Gush Etzion, nei pressi di Gerusalemme. Pur restando i più forti alleati di Israele, ha concluso Kirby, gli Usa considerano la politica espansionista di Tel Aviv "illegittima e controproducente per la causa della pace".
Arabia Saudita.Prime donne in politica.
di Ilenia Marini
Svolta davvero epocale nel paese del petrolio e dell'Islam antico.
Sono almeno quattro le donne saudite che sono state elette nello storico voto di ieri per le regionali. Lo scrive al Jazeera citando media locali. Il conteggio delle schede è ancora in corso, ma secondo i primi dati due hanno ottenuto un seggio nel consigli comunali nel governatorato di Ihsaa e due rispettivamente in quello di Tobouk e della Mecca. Le elezioni di ieri sono state le prime in cui le donne potevano votare ed essere elette.Oltre 900 donne si erano candidate, contro quasi 6.000 uomini, in 284 comuni che hanno poteri limitati alle questioni locali, come gestione di strade, giardini pubblici e raccolta dei rifiuti. «Sono felice di aver votato per la prima volta nella mia vita», ha dichiarato una donna, che ha rifiutato di dare il suo nome, all’agenzia di stampa Dpa.
Per le saudite è stata una giornata storica. Ancora oggi non possono uscire di casa senza un parente di sesso maschile che le accompagni, guidare un’automobile, parlare in pubblico con uomini che non siano famigliari, ma in 130 mila (su un milione e mezzo circa di aventi diritto) sono andate a votare.
Queste elezioni aperte alle donne sono anche una strategia messa in campo dai sauditi per riavvicinarsi all’Occidente, alleato indispensabile. I seggi elettivi, va specificato, sono due terzi del totale. L’altro terzo sarà occupato da componenti nominati dal governo. Come del resto tutti i membri della Shura, il consiglio consultivo nazionale. Un quinto in futuro saranno donne. Non basta.
Sono almeno quattro le donne saudite che sono state elette nello storico voto di ieri per le regionali. Lo scrive al Jazeera citando media locali. Il conteggio delle schede è ancora in corso, ma secondo i primi dati due hanno ottenuto un seggio nel consigli comunali nel governatorato di Ihsaa e due rispettivamente in quello di Tobouk e della Mecca. Le elezioni di ieri sono state le prime in cui le donne potevano votare ed essere elette.Oltre 900 donne si erano candidate, contro quasi 6.000 uomini, in 284 comuni che hanno poteri limitati alle questioni locali, come gestione di strade, giardini pubblici e raccolta dei rifiuti. «Sono felice di aver votato per la prima volta nella mia vita», ha dichiarato una donna, che ha rifiutato di dare il suo nome, all’agenzia di stampa Dpa.
Per le saudite è stata una giornata storica. Ancora oggi non possono uscire di casa senza un parente di sesso maschile che le accompagni, guidare un’automobile, parlare in pubblico con uomini che non siano famigliari, ma in 130 mila (su un milione e mezzo circa di aventi diritto) sono andate a votare.
Queste elezioni aperte alle donne sono anche una strategia messa in campo dai sauditi per riavvicinarsi all’Occidente, alleato indispensabile. I seggi elettivi, va specificato, sono due terzi del totale. L’altro terzo sarà occupato da componenti nominati dal governo. Come del resto tutti i membri della Shura, il consiglio consultivo nazionale. Un quinto in futuro saranno donne. Non basta.
Albania.La nuova frontiera del terrorismo
Ai nostri confini la minaccia terroristica si fa pericolosa.
La notizia è sicura e mette davvero paura,la vicina Albania sta diventando una delle culle dello Stato Islamico dell'Isis, una vera e forte penetrazione anche nei Balcani, e non solo nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. A evidenziare questo nuovo fronte è la recente operazione di Polizia che ha portato allo smantellamento di una cellula jihadista i che operava tra il nostro Paese e i Balcani. I Balcani, per l’appunto. Il terrorismo di matrice islamista, ha le sue origini proprio con la disgregazione della Jugoslavia di Tito. La Bosnia-Erzegovina è stato il primo Paese balcanico ad assistere ad una forte penetrazione, a causa della guerra e della necessità dei musulmani bosniaci di finanziamenti e armi. La crescita dell’islamismo militante nei Balcani occidentali è il risultato di sforzi a lungo termine di persone legate col filo del terrorismo e che hanno radicalizzato frange della popolazione locale.
Nel corso degli ultimi decenni, alcuni movimenti islamisti nei paesi dei Balcani occidentali hanno realizzato una infrastruttura capillare, sofisticata, composta da rifugi sicuri in villaggi isolati e nelle moschee controllate da imam radicali. Ma anche una vasta gamma di mezzi elettronici e di stampa online, che si propagano notizie da vari fronti del jihad e propaganda politica. Interessante è il lavoro svolto da diversi giornalisti balcanici che hanno ricostruito, più o meno dettagliatamente, il percorso che un volontario deve seguire per unirsi ai vari gruppi integralisti presenti in Siria. Il Parlamento del Kosovo ha approvato nelle scorse una legge che vieta ai propri cittadini di partecipare a conflitti all'estero nel tentativo d'impedire ai suoi giovani di andare a unirsi ai gruppi jihadisti in Siria o in Iraq. La norma prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque violi il divieto di prendere parte a conflitti armati all'estero. Per quanto concerne il Montenegro, da un rapporto stilato la scorsa estate dai servizi di sicurezza di Podgorica, si evince che sul territorio della giovane repubblica sarebbero presenti diverse centinaia tra agenti e guerriglieri salafiti pronti anch’essi ad entrare in azione al momento più opportuno. I cosiddetti ribelli sono strettamente collegati con molti gruppi terroristici di al-Qaeda e le ragioni per cui stanno lasciando la Siria sono diverse, in ogni caso è facile immaginare che anche quando non sono membri di qualche gruppo terroristico vi saranno facilmente cooptati.
E questo significa che le organizzazioni terroristiche potranno organizzare più facilmente una rete europea. Un fenomeno che viene da lontano,l’area dei Balcani ha rappresentato la parte più ricettiva di questo lento processo di radicalizzazione islamista che apparentemente ha al centro le nuove generazioni nate negli anni novanta e che, per motivi anagrafici, non hanno partecipato direttamente alle guerre di dissoluzione della ex Jugoslavia. Come Blerim Heta, il primo attentatore suicida kosovaro che il 25 marzo del 2014 ha compiuto a Baghdad un attentato con decine di morti. Heta aveva compiuto 18 anni nel 2008, l’anno dell’indipendenza del Kosovo. Oggi, i giovani del Balcani vanno a combattere in altri Paesi, diventando esportatori del fondamentalismo islamico, pur rappresentando, quel territorio, proprio la regione che prima li ospitava”, annota, in un’intervista per l’Indro, Zoran Dragisic, docente alla facoltà di Scienze della Sicurezza di Belgrado. Già negli anni della sanguinosa guerra civile i terroristi al soldo di Osama Bin Laden s'infiltrarono in Bosnia e anche in Kosovo, dove, per esempio, l'egiziano Ayman al-Zawahiri, addestrò personalmente i guerriglieri dell'Uçk. Sciolta la milizia, è rimasta negli irriducibili l'eredità militare votata alla parola d'ordine della Jihad.
La notizia è sicura e mette davvero paura,la vicina Albania sta diventando una delle culle dello Stato Islamico dell'Isis, una vera e forte penetrazione anche nei Balcani, e non solo nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. A evidenziare questo nuovo fronte è la recente operazione di Polizia che ha portato allo smantellamento di una cellula jihadista i che operava tra il nostro Paese e i Balcani. I Balcani, per l’appunto. Il terrorismo di matrice islamista, ha le sue origini proprio con la disgregazione della Jugoslavia di Tito. La Bosnia-Erzegovina è stato il primo Paese balcanico ad assistere ad una forte penetrazione, a causa della guerra e della necessità dei musulmani bosniaci di finanziamenti e armi. La crescita dell’islamismo militante nei Balcani occidentali è il risultato di sforzi a lungo termine di persone legate col filo del terrorismo e che hanno radicalizzato frange della popolazione locale.
Nel corso degli ultimi decenni, alcuni movimenti islamisti nei paesi dei Balcani occidentali hanno realizzato una infrastruttura capillare, sofisticata, composta da rifugi sicuri in villaggi isolati e nelle moschee controllate da imam radicali. Ma anche una vasta gamma di mezzi elettronici e di stampa online, che si propagano notizie da vari fronti del jihad e propaganda politica. Interessante è il lavoro svolto da diversi giornalisti balcanici che hanno ricostruito, più o meno dettagliatamente, il percorso che un volontario deve seguire per unirsi ai vari gruppi integralisti presenti in Siria. Il Parlamento del Kosovo ha approvato nelle scorse una legge che vieta ai propri cittadini di partecipare a conflitti all'estero nel tentativo d'impedire ai suoi giovani di andare a unirsi ai gruppi jihadisti in Siria o in Iraq. La norma prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque violi il divieto di prendere parte a conflitti armati all'estero. Per quanto concerne il Montenegro, da un rapporto stilato la scorsa estate dai servizi di sicurezza di Podgorica, si evince che sul territorio della giovane repubblica sarebbero presenti diverse centinaia tra agenti e guerriglieri salafiti pronti anch’essi ad entrare in azione al momento più opportuno. I cosiddetti ribelli sono strettamente collegati con molti gruppi terroristici di al-Qaeda e le ragioni per cui stanno lasciando la Siria sono diverse, in ogni caso è facile immaginare che anche quando non sono membri di qualche gruppo terroristico vi saranno facilmente cooptati.
E questo significa che le organizzazioni terroristiche potranno organizzare più facilmente una rete europea. Un fenomeno che viene da lontano,l’area dei Balcani ha rappresentato la parte più ricettiva di questo lento processo di radicalizzazione islamista che apparentemente ha al centro le nuove generazioni nate negli anni novanta e che, per motivi anagrafici, non hanno partecipato direttamente alle guerre di dissoluzione della ex Jugoslavia. Come Blerim Heta, il primo attentatore suicida kosovaro che il 25 marzo del 2014 ha compiuto a Baghdad un attentato con decine di morti. Heta aveva compiuto 18 anni nel 2008, l’anno dell’indipendenza del Kosovo. Oggi, i giovani del Balcani vanno a combattere in altri Paesi, diventando esportatori del fondamentalismo islamico, pur rappresentando, quel territorio, proprio la regione che prima li ospitava”, annota, in un’intervista per l’Indro, Zoran Dragisic, docente alla facoltà di Scienze della Sicurezza di Belgrado. Già negli anni della sanguinosa guerra civile i terroristi al soldo di Osama Bin Laden s'infiltrarono in Bosnia e anche in Kosovo, dove, per esempio, l'egiziano Ayman al-Zawahiri, addestrò personalmente i guerriglieri dell'Uçk. Sciolta la milizia, è rimasta negli irriducibili l'eredità militare votata alla parola d'ordine della Jihad.
Russia - Turchia.Sale forte la tensione.
di Ilenia Marini
Rapporti complicati tra le due grandi nazioni.
In questi giorni aumenta la tensione politica tra Turchia e Russia sul .Ieri Putin aveva chiesto le scuse di Ankara, e il premier Erdogan aveva assicurato di aver chiamato il capo del Cremlino. Una notizia smentita oggi dal ministro degli esteri Serghiei Lavrov secondo cui non c'è stata nessuna telefonata nelle scorse ore, salvo poi ammettere che da Ankara è arrivata una chiamata "circa 7-8 ore dopo" l'abbattimento del caccia.Oggi la Turchia ha provato ad allentare il braccio di ferro sospendendo temporaneamente i suoi voli militari in Siria contro l'Isis. Secondo il quotidiano Hurriyet la decisione sarebbe stata presa in accordo con la Russia proprio per evitare il rischio di nuovi incidenti.
Lo stop potrebbe durare fino a quando Ankara e Mosca non riapriranno i canali di dialogo, tra cui una hotline per la trasmissione di comunicazioni militari ritenuta necessaria per la prevenzione di possibili episodi ulteriori di tensione al confine.Erdogan ha anche proposto di fissare un bilaterale il 30 novrembre a Parigi, alla vigilia del vertice sul clima. Vladimir Putin non ha però risposto alle richieste di Erdogan di avere una conversazione telefonica con lui a causa della "mancanza di prontezza da parte turca a porgere le scuse più elementari". La Russia ha inoltre deciso di sospendere dal primo gennaio 2016 il regime visa free con la Turchia: questo significa che i viaggiatori turchi non potranno più viaggiare in Russia senza un visto.
Il presidente turco Erdogan è davvero perenterio sull'argomento lanciando parole dure: "Avvisiamo cordialmente la Russia di non scherzare col fuoco, supportare il regime di Assad in Siria, che ha ucciso 380 mila persone, significa giocare col fuoco. Colpire gruppi di opposizione che hanno una legittimazione internazionale con la scusa di combattere contro l'Isis significa giocare col fuoco. Usare un incidente in cui la ragione della Turchia è accettata dal mondo intero come scusa per tormentare i nostri cittadini che erano in Russia significa giocare col fuoco. Colpire irresponsabilmente camion che sono nella regione per ragioni commerciali o umanitarie significa giocare col fuoco".Insomma la tensione è davvero altissima.
In questi giorni aumenta la tensione politica tra Turchia e Russia sul .Ieri Putin aveva chiesto le scuse di Ankara, e il premier Erdogan aveva assicurato di aver chiamato il capo del Cremlino. Una notizia smentita oggi dal ministro degli esteri Serghiei Lavrov secondo cui non c'è stata nessuna telefonata nelle scorse ore, salvo poi ammettere che da Ankara è arrivata una chiamata "circa 7-8 ore dopo" l'abbattimento del caccia.Oggi la Turchia ha provato ad allentare il braccio di ferro sospendendo temporaneamente i suoi voli militari in Siria contro l'Isis. Secondo il quotidiano Hurriyet la decisione sarebbe stata presa in accordo con la Russia proprio per evitare il rischio di nuovi incidenti.
Lo stop potrebbe durare fino a quando Ankara e Mosca non riapriranno i canali di dialogo, tra cui una hotline per la trasmissione di comunicazioni militari ritenuta necessaria per la prevenzione di possibili episodi ulteriori di tensione al confine.Erdogan ha anche proposto di fissare un bilaterale il 30 novrembre a Parigi, alla vigilia del vertice sul clima. Vladimir Putin non ha però risposto alle richieste di Erdogan di avere una conversazione telefonica con lui a causa della "mancanza di prontezza da parte turca a porgere le scuse più elementari". La Russia ha inoltre deciso di sospendere dal primo gennaio 2016 il regime visa free con la Turchia: questo significa che i viaggiatori turchi non potranno più viaggiare in Russia senza un visto.
Il presidente turco Erdogan è davvero perenterio sull'argomento lanciando parole dure: "Avvisiamo cordialmente la Russia di non scherzare col fuoco, supportare il regime di Assad in Siria, che ha ucciso 380 mila persone, significa giocare col fuoco. Colpire gruppi di opposizione che hanno una legittimazione internazionale con la scusa di combattere contro l'Isis significa giocare col fuoco. Usare un incidente in cui la ragione della Turchia è accettata dal mondo intero come scusa per tormentare i nostri cittadini che erano in Russia significa giocare col fuoco. Colpire irresponsabilmente camion che sono nella regione per ragioni commerciali o umanitarie significa giocare col fuoco".Insomma la tensione è davvero altissima.
Africa.La nuova tana del terrorismo.
di Ilenia Marini
La terra africana sempre più centro delle dinamiche terroristiche.
Ormai da alcuni anni la verità è questa.L'Africa sembra essere diventata la nuova culla del terrore islamico.Si catturano ostaggi stranieri, si attaccano i simboli della presenza occidentale e si uccidono cristiani ogni giorno senza motivo.Sull’attacco al Radisson Blu di Bamako, in Mali, ci sono le impronte dei salafiti del Sahel, protagonisti del fronte africano della Jihad contro la Francia.Resta da appurare se il mandante sia l’imprendibile Mokhtar Belmokthar o il suo colonnello ribelle Adnan Abu Walid al Sahrawi. La rivalità fra i due leader del «Mourabitoun» (Le sentinelle) nasce da quanto avvenuto a metà maggio quando Al Sahrawi ha scelto di giurare fedeltà al Califfo dello Stato Islamico (Isis), Abu Bakr al-Baghdadi, con un gesto di rottura rispetto a Belmokthar, cresciuto dentro «Al Qaeda nel Maghreb Islamico», protagonista nel 2012 del tentativo di Al Qaeda di creare un mini-Stato jihadista nel Nord del Mali, autore nel gennaio 2013 della cattura di 800 ostaggi stranieri nell’impianto di gas algerino «In Amenas» e ancora legato ad Ayman al-Zawahiri, successore di Osama bin Laden, pur avendo creato una propria costellazione jihadista: fondando due anni fa «Al Mourabitoun» dalla confluenza fra i fedelissimi del «Battaglione al-Mulathamun» (Coloro che firmano con il sangue) e il Movimento per l’unione dei jihadisti in Africa Occidentale.
Secodno informazioni della CIA,Belmokhtar, 43 anni, è il terrorista «Most Wanted» del Maghreb: più volte Parigi e Washington hanno creduto di averlo eliminato - anche con i droni - e lui è sempre puntualmente ricomparso dal nulla fino a meritarsi dagli 007 di Parigi il soprannome «L’imprendibile».Attorno al duello tutto interno ai «Mourabitoun» ruota una galassia di gruppi jihadisti che continua a operare nel Nord del Mali e ha nei difensori della fede di «Ansar Dine» l’espressione più organizzata. Per tutti costoro la Francia di François Hollande è il nemico da battere perché fu l’Eliseo, nel gennaio 2013, a guidare l’intervento militare che spazzò via la possibilità di creare l’enclave jihadista attorno a Kidal e Gao. E da allora è la Francia ad addestrare le unità anti-terrorismo di una dozzina di nazioni dell’Africa Occidentale impegnate a fronteggiare soprattutto Boko Haram. In totale i soldati di Parigi in questo scacchiere sono 3000. Ecco perché Patrick Maisonnave, ambasciatore francese in Israele, descrive il suo Paese «in prima linea contro i jihadisti su due fronti, in Siria-Iraq e nell’Africa Occidentale».
Se con il massacro di Parigi l'Isis ha voluto rispondere ai raid aerei contro Raqqa e Mosul, con l’assalto di Bamako i «Mourabitoun» attestano che lo scontro terrestre in Mali con legionari e parà resta aperto. Su ogni fronte l’offensiva anti-francese ha caratteristiche proprie: in Siria-Iraq il Califfo imputa agli «infedeli» l’alleanza con gli «apostati» perché in Medio Oriente il suo primo nemico sono gli sciiti mentre i terroristi del Radisson Blu hanno usato la recitazione della «Shahada» come un’arma perché in Africa Occidentale i nemici da umiliare ed eliminare sono anzitutto i cristiani.
Ormai da alcuni anni la verità è questa.L'Africa sembra essere diventata la nuova culla del terrore islamico.Si catturano ostaggi stranieri, si attaccano i simboli della presenza occidentale e si uccidono cristiani ogni giorno senza motivo.Sull’attacco al Radisson Blu di Bamako, in Mali, ci sono le impronte dei salafiti del Sahel, protagonisti del fronte africano della Jihad contro la Francia.Resta da appurare se il mandante sia l’imprendibile Mokhtar Belmokthar o il suo colonnello ribelle Adnan Abu Walid al Sahrawi. La rivalità fra i due leader del «Mourabitoun» (Le sentinelle) nasce da quanto avvenuto a metà maggio quando Al Sahrawi ha scelto di giurare fedeltà al Califfo dello Stato Islamico (Isis), Abu Bakr al-Baghdadi, con un gesto di rottura rispetto a Belmokthar, cresciuto dentro «Al Qaeda nel Maghreb Islamico», protagonista nel 2012 del tentativo di Al Qaeda di creare un mini-Stato jihadista nel Nord del Mali, autore nel gennaio 2013 della cattura di 800 ostaggi stranieri nell’impianto di gas algerino «In Amenas» e ancora legato ad Ayman al-Zawahiri, successore di Osama bin Laden, pur avendo creato una propria costellazione jihadista: fondando due anni fa «Al Mourabitoun» dalla confluenza fra i fedelissimi del «Battaglione al-Mulathamun» (Coloro che firmano con il sangue) e il Movimento per l’unione dei jihadisti in Africa Occidentale.
Secodno informazioni della CIA,Belmokhtar, 43 anni, è il terrorista «Most Wanted» del Maghreb: più volte Parigi e Washington hanno creduto di averlo eliminato - anche con i droni - e lui è sempre puntualmente ricomparso dal nulla fino a meritarsi dagli 007 di Parigi il soprannome «L’imprendibile».Attorno al duello tutto interno ai «Mourabitoun» ruota una galassia di gruppi jihadisti che continua a operare nel Nord del Mali e ha nei difensori della fede di «Ansar Dine» l’espressione più organizzata. Per tutti costoro la Francia di François Hollande è il nemico da battere perché fu l’Eliseo, nel gennaio 2013, a guidare l’intervento militare che spazzò via la possibilità di creare l’enclave jihadista attorno a Kidal e Gao. E da allora è la Francia ad addestrare le unità anti-terrorismo di una dozzina di nazioni dell’Africa Occidentale impegnate a fronteggiare soprattutto Boko Haram. In totale i soldati di Parigi in questo scacchiere sono 3000. Ecco perché Patrick Maisonnave, ambasciatore francese in Israele, descrive il suo Paese «in prima linea contro i jihadisti su due fronti, in Siria-Iraq e nell’Africa Occidentale».
Se con il massacro di Parigi l'Isis ha voluto rispondere ai raid aerei contro Raqqa e Mosul, con l’assalto di Bamako i «Mourabitoun» attestano che lo scontro terrestre in Mali con legionari e parà resta aperto. Su ogni fronte l’offensiva anti-francese ha caratteristiche proprie: in Siria-Iraq il Califfo imputa agli «infedeli» l’alleanza con gli «apostati» perché in Medio Oriente il suo primo nemico sono gli sciiti mentre i terroristi del Radisson Blu hanno usato la recitazione della «Shahada» come un’arma perché in Africa Occidentale i nemici da umiliare ed eliminare sono anzitutto i cristiani.
Siria.Ecco una nuova coalizione anti-Isis.
di Ilenia Marini
Gli Usa spingono per una diversa soluzione del conflitto siriano.
Da alcune settimane si parla in Siria della nascita di una nuova coalizione per combattere lo Stato Islamico. Alcuni gruppi armati, tra cui i curdi dell’Ypg e una branca dell’Esercito libero siriano, hanno annunciato la formazione di “Forze democratiche di Siria” con nemico dichiarato l’Is. Pare che proprio gli Usa siano dietro questo tipo di nuova coalizone.Dopo la chiusura del fallimentare programma d’addestramento dei ribelli anti-Asad da 500 milioni di dollari, gli Stati Uniti hanno iniziato a rifornire alcuni ribelli del nord con 50 tonnellate di armi e munizioni, oltre a un’ingente quantità di missili anticarro.Anche il programma di addestramento di miliziani siriani a nord di Aleppo, più volte osteggiati da loro rivali qaedisti, sembra quindi essersi arenato ed è stata allora formata una nuova coalizione mista curdo-araba sostenuta dagli Stati Uniti in funzione anti-Isis.
L’annuncio era nell'aria e alla fine è giunto dal raggruppamento formato in larga parte da milizie curde Ypg e da sparuti gruppi armati arabi e cristiani assiri della zona di Raqqa, la città conquistata dai jihadisti più di due anni fa e da allora diventata la capitale del cosiddetto Stato islamico. Solo qualche giorno fa Washington aveva ammesso di aver sbagliato metodo nel tentare di formare una milizia araba anti-Isis a nord di Aleppo, affermando di voler tentare con la carta curda.Non si sa quanto questo gruppo – che si professa composto da miliziani laici e progressisti – riuscirà nell’intento, ma la sua strategia è chiara: con le armi americane, tentare di aprirsi un varco nel ventre jihadista a partire dalla Turchia, fino ad arrivare a Raqqa. “Possiamo riuscirci in due mesi”, assicurano i portavoce del gruppo. Gli americani – e con loro i turchi – confermano così di volersi fare da parte nella zona a nord di Aleppo, ora investita dall’avanzata dell’Isis, e anche da ogni velleità di guidare la “lotta al terrorismo” in tutta la Siria.
La Russia e l’Iran sono ormai padroni dell’iniziativa nella Siria centro-settentrionale (Hama-Idlib-Latakia) e affermano di voler in seguito puntare a isolare Aleppo. I curdi siriani continuano a voler essere amici dei grandi: dialogano con Mosca (a Parigi l’incontro tre giorni fa tra il vice ministro Bogdanov e il leader curdo-siriano Saleh Muslim) e si accordano col duetto Ankara-Washington. Ma anche amici dei piccoli: gli arabi “moderati” di Raqqa e gli assiri della Jazira.
Da alcune settimane si parla in Siria della nascita di una nuova coalizione per combattere lo Stato Islamico. Alcuni gruppi armati, tra cui i curdi dell’Ypg e una branca dell’Esercito libero siriano, hanno annunciato la formazione di “Forze democratiche di Siria” con nemico dichiarato l’Is. Pare che proprio gli Usa siano dietro questo tipo di nuova coalizone.Dopo la chiusura del fallimentare programma d’addestramento dei ribelli anti-Asad da 500 milioni di dollari, gli Stati Uniti hanno iniziato a rifornire alcuni ribelli del nord con 50 tonnellate di armi e munizioni, oltre a un’ingente quantità di missili anticarro.Anche il programma di addestramento di miliziani siriani a nord di Aleppo, più volte osteggiati da loro rivali qaedisti, sembra quindi essersi arenato ed è stata allora formata una nuova coalizione mista curdo-araba sostenuta dagli Stati Uniti in funzione anti-Isis.
L’annuncio era nell'aria e alla fine è giunto dal raggruppamento formato in larga parte da milizie curde Ypg e da sparuti gruppi armati arabi e cristiani assiri della zona di Raqqa, la città conquistata dai jihadisti più di due anni fa e da allora diventata la capitale del cosiddetto Stato islamico. Solo qualche giorno fa Washington aveva ammesso di aver sbagliato metodo nel tentare di formare una milizia araba anti-Isis a nord di Aleppo, affermando di voler tentare con la carta curda.Non si sa quanto questo gruppo – che si professa composto da miliziani laici e progressisti – riuscirà nell’intento, ma la sua strategia è chiara: con le armi americane, tentare di aprirsi un varco nel ventre jihadista a partire dalla Turchia, fino ad arrivare a Raqqa. “Possiamo riuscirci in due mesi”, assicurano i portavoce del gruppo. Gli americani – e con loro i turchi – confermano così di volersi fare da parte nella zona a nord di Aleppo, ora investita dall’avanzata dell’Isis, e anche da ogni velleità di guidare la “lotta al terrorismo” in tutta la Siria.
La Russia e l’Iran sono ormai padroni dell’iniziativa nella Siria centro-settentrionale (Hama-Idlib-Latakia) e affermano di voler in seguito puntare a isolare Aleppo. I curdi siriani continuano a voler essere amici dei grandi: dialogano con Mosca (a Parigi l’incontro tre giorni fa tra il vice ministro Bogdanov e il leader curdo-siriano Saleh Muslim) e si accordano col duetto Ankara-Washington. Ma anche amici dei piccoli: gli arabi “moderati” di Raqqa e gli assiri della Jazira.
Polonia.Alle elezioni la destra è in pole.
di Ilenia Marini
Battaglia politica tutta al femminile per la presidenza polacca.
Oggi in Polonia si terranno le nuove elezioni politiche e i sondaggi affermano che comunque vada vi sarà una vittoria della destra nazionalista.Le ultime previsioni danno favorita con il 32% Beata Szydlo, candidata del partito nazionalista Diritto e Giustizia (Pis), in netto vantaggio sull’attuale primo ministro, Ewa Kopacz, 58enne leader della formazione di centrodestra Piattaforma civica che non dovrebbe andare oltre il 20% delle preferenze.Più staccata la giovane e bella Magdalena Ogorek, ex presentatrice del tg nazionale che guida la formazione socialdemocratica ma che ha nel suo 16% di preferenze un limite difficilmente recuperabile. Oltre a questi nomi una notevole outsider potrebbe essere il vertice di Sinistra unita, Barbara Nowacka, che durante la campagna elettorale ha sottolineato la necessità di formare una coalizione per sostenere l’europeismo a Varsavia contro Diritto e Giustizia.
Il Pis difende soprattutto i valori patriottici, è molto vicino alle gerarchie cattoliche ed è riluttante ad accettare tutte le direttive provenienti daBruxelles, in particolare quelle che impongono di ridurre la dipendenza polacca dal carbone. C'è poi il curioso caso del 35enne professore di Storia, Adrian Zandberg, leader del partito quasi sconosciuto Razem una formazione che ha molte somiglianze alla spagnola Podemos, anche se i sondaggi lo danno senza possibilità di avere un posto in Parlamento visto che la soglia di sbarramento è fissata a 5% (8% per le coalizioni).Tornando ai veri favoriti,come detto posto d'oonore per la Szydlo, 52enne antropologa e sindaco di una piccola città prima di diventare vicepresidente di Diritto e Giustizia, è stata designata candidata premier da uno dei capi indiscussi del partito Jaroslaw Kaczynski,che si ispira alle politiche di stampo xenofobo del governo ungherese di Viktor Orban.
Una vittoria dei nazionalisti non è vista di buon occhio dagli altri stati membri europei, anche perché sposterebbe il centro di interesse di Varsavia verso Est.L’appuntamento elettorale di oggi è comunque molto atteso e chiamerà al voto oltre trenta milioni di polacchi che dovranno eleggere 460 deputati e un centinaio di senatori, e potrebbe porre fine agli otto anni di governo del centrodestra in uno scontro tutto al femminile. Nonostante il buon andamento dell’economia di Varsavia, gli elettori pare siano decisi a voltare pagina col partito governativo anche a causa dei vari scandali di corruzione e di una politica ritenuta troppo europeista a danno degli interessi nazionali,spesso messi in secondo e terzo piano.
Oggi in Polonia si terranno le nuove elezioni politiche e i sondaggi affermano che comunque vada vi sarà una vittoria della destra nazionalista.Le ultime previsioni danno favorita con il 32% Beata Szydlo, candidata del partito nazionalista Diritto e Giustizia (Pis), in netto vantaggio sull’attuale primo ministro, Ewa Kopacz, 58enne leader della formazione di centrodestra Piattaforma civica che non dovrebbe andare oltre il 20% delle preferenze.Più staccata la giovane e bella Magdalena Ogorek, ex presentatrice del tg nazionale che guida la formazione socialdemocratica ma che ha nel suo 16% di preferenze un limite difficilmente recuperabile. Oltre a questi nomi una notevole outsider potrebbe essere il vertice di Sinistra unita, Barbara Nowacka, che durante la campagna elettorale ha sottolineato la necessità di formare una coalizione per sostenere l’europeismo a Varsavia contro Diritto e Giustizia.
Il Pis difende soprattutto i valori patriottici, è molto vicino alle gerarchie cattoliche ed è riluttante ad accettare tutte le direttive provenienti daBruxelles, in particolare quelle che impongono di ridurre la dipendenza polacca dal carbone. C'è poi il curioso caso del 35enne professore di Storia, Adrian Zandberg, leader del partito quasi sconosciuto Razem una formazione che ha molte somiglianze alla spagnola Podemos, anche se i sondaggi lo danno senza possibilità di avere un posto in Parlamento visto che la soglia di sbarramento è fissata a 5% (8% per le coalizioni).Tornando ai veri favoriti,come detto posto d'oonore per la Szydlo, 52enne antropologa e sindaco di una piccola città prima di diventare vicepresidente di Diritto e Giustizia, è stata designata candidata premier da uno dei capi indiscussi del partito Jaroslaw Kaczynski,che si ispira alle politiche di stampo xenofobo del governo ungherese di Viktor Orban.
Una vittoria dei nazionalisti non è vista di buon occhio dagli altri stati membri europei, anche perché sposterebbe il centro di interesse di Varsavia verso Est.L’appuntamento elettorale di oggi è comunque molto atteso e chiamerà al voto oltre trenta milioni di polacchi che dovranno eleggere 460 deputati e un centinaio di senatori, e potrebbe porre fine agli otto anni di governo del centrodestra in uno scontro tutto al femminile. Nonostante il buon andamento dell’economia di Varsavia, gli elettori pare siano decisi a voltare pagina col partito governativo anche a causa dei vari scandali di corruzione e di una politica ritenuta troppo europeista a danno degli interessi nazionali,spesso messi in secondo e terzo piano.
Israele.Sanguinosi scontri a Gaza.
di Ilenia Marini
Situazione molto pericolosa nella Striscia di Gaza.
Da almeno una settimana la Striscia di Gaza è sconvolta da durissimi scontri in strada tra palestinesi e forze dell'ordine israeliane con episcentro nel campo di Shuafat a Gerusalemme est,soprattutto nel corso della notte. Lo riferiscono portavoce del governo di Israele. Secondo la polizia inoltre ieri c'è stato anche un morto,in particolare un giovane palestinese aveva aperto il fuoco contro gli agenti che hanno risposto. Non solo,sempre ieri un razzo è stato sparato dalla Striscia di Gaza verso Israele, cadendo in una zona disabitata «nella regione amministrativa di Eshkol» a sud. Il tutto a poche ore di distanza dalla battaglia al confine tra Gaza e Israele, che a fine giornata ha lasciato un bilancio drammatico: sette palestinesi uccisi negli scontri.
Non accenna dunque ad attenuarsi l’escalation di violenza in Israele. Gli scontri di ieri sono iniziati dopo che Hamas ha proclamato il «Giorno della rabbia», incitando centinaia di palestinesi a dare l’assalto al confine con Israele per guadagnare sul campo la guida della terza «Intifada», come l’ha definita il suo leader Ismail Haniyeh. Le violenze sono iniziate al termine delle preghiere del venerdì, quando due colonne di giovani palestinesi si sono messe in marcia verso Israele.
Le recenti cronache sottolineano che tali gruppi si sono avvicinati al confine lanciando molotov, sassi e pneumatici infiammati, con l’intenzione di sfondare la rete e penetrare in Israele. Almeno 7 giovani sono morti - tutti fra i 15 e i 20 anni - e 60 sono feriti, ma oltre una dozzina di loro, spiega il ministro della Sanità a Gaza, Shadi Hussam Dawla, «versano in gravi condizioni perché hanno ferite al collo e alla testa».Insomma il delicato equilibrio nella terra palestinese sembra essersi rotto.
Da almeno una settimana la Striscia di Gaza è sconvolta da durissimi scontri in strada tra palestinesi e forze dell'ordine israeliane con episcentro nel campo di Shuafat a Gerusalemme est,soprattutto nel corso della notte. Lo riferiscono portavoce del governo di Israele. Secondo la polizia inoltre ieri c'è stato anche un morto,in particolare un giovane palestinese aveva aperto il fuoco contro gli agenti che hanno risposto. Non solo,sempre ieri un razzo è stato sparato dalla Striscia di Gaza verso Israele, cadendo in una zona disabitata «nella regione amministrativa di Eshkol» a sud. Il tutto a poche ore di distanza dalla battaglia al confine tra Gaza e Israele, che a fine giornata ha lasciato un bilancio drammatico: sette palestinesi uccisi negli scontri.
Non accenna dunque ad attenuarsi l’escalation di violenza in Israele. Gli scontri di ieri sono iniziati dopo che Hamas ha proclamato il «Giorno della rabbia», incitando centinaia di palestinesi a dare l’assalto al confine con Israele per guadagnare sul campo la guida della terza «Intifada», come l’ha definita il suo leader Ismail Haniyeh. Le violenze sono iniziate al termine delle preghiere del venerdì, quando due colonne di giovani palestinesi si sono messe in marcia verso Israele.
Le recenti cronache sottolineano che tali gruppi si sono avvicinati al confine lanciando molotov, sassi e pneumatici infiammati, con l’intenzione di sfondare la rete e penetrare in Israele. Almeno 7 giovani sono morti - tutti fra i 15 e i 20 anni - e 60 sono feriti, ma oltre una dozzina di loro, spiega il ministro della Sanità a Gaza, Shadi Hussam Dawla, «versano in gravi condizioni perché hanno ferite al collo e alla testa».Insomma il delicato equilibrio nella terra palestinese sembra essersi rotto.
Siria.Si preparano bombardamenti anti-Isis.
di Ilenia Marini
Putin e Hollande vogliono colpire duramente l'Isis.
Russia e Francia sono pronte ad un vero piano militare contro le postazioni dell'Isis in terra siriana.Un programma di attacco che prevede bombardamenti a tappeto delle roccaforti del Califfato nel paese di Assad.Putin l'ha fatto capire a chiare lettere, solo in tal modo la coalizione anti Isis può sbloccare lo stallo di questi ultimi mesi. Solo gli Usa sembrano contrari e preferiscono seguire la solita e lenta strada della diplomazia e del trapasso democratico. Tutto ciò viene riferito dall'agenzia Bloomberg spiegando a cosa serva l'imponente dispiegamento di forze russe (da ultimo 25 caccia-bombardieri e 9 elicotteri d'attacco) in Siria nella regione costiera di Latakia, cuore della sette sciita aluita degli Assad e sede, più a sud, dell'unico porto di Mosca nel Mediterraneo, la base di Tartus.
Putin ed Hollande preferirebbero che le proprie forze e quelle della coalizione internazionale a guida Usa, che dal 23 settembre martellano - senza grandi risultati - il Califfato in Siria possano coordinarsi nell'attacco contro Is, unendo le forze con i pasdaran iraniani e l'esercito regolare siriano.Nei giorni scorsi, la Russia ha allargato la sua presenza militare a nord e a sud della città siriana di Latakia. La proposta di Putin infatti, che la Russia ha comunicato agli Usa, si basa su " un binario parallelo" per un'azione militare congiunta accompagnata da una politica di transizione lontano da Assad, un fattore chiave della richiesta Usa, secondo quanto ha riferito un'altra fonte.
L'iniziativa sarà in cima all'agenda della visita di un giorno del presidente Putin all'assemblea dell' Onu, il 29 settembre, e che potrebbe anche includere un colloquio con Obama. La speranza comune è che Obama accetti la proposta franco-russa e decida di colpire in modo duro i jihadisti dell'Isis,ma le probabilità che ciò succeda sono molto poche.
Russia e Francia sono pronte ad un vero piano militare contro le postazioni dell'Isis in terra siriana.Un programma di attacco che prevede bombardamenti a tappeto delle roccaforti del Califfato nel paese di Assad.Putin l'ha fatto capire a chiare lettere, solo in tal modo la coalizione anti Isis può sbloccare lo stallo di questi ultimi mesi. Solo gli Usa sembrano contrari e preferiscono seguire la solita e lenta strada della diplomazia e del trapasso democratico. Tutto ciò viene riferito dall'agenzia Bloomberg spiegando a cosa serva l'imponente dispiegamento di forze russe (da ultimo 25 caccia-bombardieri e 9 elicotteri d'attacco) in Siria nella regione costiera di Latakia, cuore della sette sciita aluita degli Assad e sede, più a sud, dell'unico porto di Mosca nel Mediterraneo, la base di Tartus.
Putin ed Hollande preferirebbero che le proprie forze e quelle della coalizione internazionale a guida Usa, che dal 23 settembre martellano - senza grandi risultati - il Califfato in Siria possano coordinarsi nell'attacco contro Is, unendo le forze con i pasdaran iraniani e l'esercito regolare siriano.Nei giorni scorsi, la Russia ha allargato la sua presenza militare a nord e a sud della città siriana di Latakia. La proposta di Putin infatti, che la Russia ha comunicato agli Usa, si basa su " un binario parallelo" per un'azione militare congiunta accompagnata da una politica di transizione lontano da Assad, un fattore chiave della richiesta Usa, secondo quanto ha riferito un'altra fonte.
L'iniziativa sarà in cima all'agenda della visita di un giorno del presidente Putin all'assemblea dell' Onu, il 29 settembre, e che potrebbe anche includere un colloquio con Obama. La speranza comune è che Obama accetti la proposta franco-russa e decida di colpire in modo duro i jihadisti dell'Isis,ma le probabilità che ciò succeda sono molto poche.
Tsipras.Il suo consenso già cala.
di Ilenia Marini
In pochi mesi il premier greco è già in forte difficoltà.
Alexis Tsipras in Grecia era stato accolto da molti come il salvatore della nazione,colui che avrebbe con poche e rapide scelte cambiato il destino ed il declino politico-economico di una paese intero.Dopo pochi mesi di attività politica però, già sono in molti ad alimentare dubbi e critiche sulla sua figura e sulla sua effettiva valenza politica.Nelle piazze infatti da alcune settimane crescono a vista d'occhio le manifestazioni anti governo ed il consenso personale dello stesso Tsipras è già cominciato a calare. I militanti del partito conservatore Nuova Democrazia e del partito di sinistra radicale Unità Popolare non si sono fatti intimorire dal caldo torrido di Atene e hanno partecipato ai comizi dei loro leader non solo per sostenerli, ma anche per manifestare tutta la loro delusione nei confronti del giovane primo ministro. E, per uno strano caso della sorte, la piazza di Atene da cui arriva la sfida è Omonia, la stessa da cui, nel gennaio scorso, Tsipras aveva messo un’ipoteca sulla sua vittoria.
Una campagna elettorale segnata da due confronti televisivi importanti, ma da un numero di manifesti in circolazione ridotto e soprattutto dove è mancato il «popolo», almeno quello non schierato a priori. Come se l’elettorato greco, dopo mesi di crisi politica e anni di crisi economica, avesse perso soprattutto la speranza, come testimoniano le percentuali di indecisi e di possibili astenuti. L’opposizione conservatrice vuole riprendersi quello che meno di un anno fa Tsipras aveva portato via. Gli avversari politici sottolineano che il premier non solo non è riuscito a ottenere condizioni più favorevoli per il Paese ma che la Grecia è in una situazione ancora più precaria di prima.Molti inoltre affermano che slle sue spalle Tsipras ha gente che fa politica da anni e sembravano meno corrotti degli altri solo perché non erano mai stati al potere, di nuovo nel suo staff c'è veramente poco.
Se i giudizi della piazza di Nuova Democrazia nei confronti di Alexis Tsipras non sono teneri, i più velenosi arrivano proprio da quelli che una volta erano i suoi compagni di partito. Unità Popolare, nata a fine agosto e che raccoglie gli elementi più radicali di Syriza, è pronta a dare battaglia. Nei loro discorsi pre elettorali, l’ex ministro dell’Energia, Panagiotis Lafazanis e l’ex presidente della Camera, Zoe Kostantopoulou, hanno attaccato il premier, reo di aver tradito gli elettori e di aver accettato tutte le richieste di un’Europa interessata non a salvare la Grecia, ma a umiliarla. Il più grande argomento a loro favore, il referendum dello scorso 5 luglio, dove il No a nuove, dure condizioni da parte della troika ha vinto con il 62% dei consensi. Tsipras è stato una grossa delusione e si evidenzia come forse non abbia la forza necessaria per affrontare i ricatti politici ed economici di Bruxelles. Dal canto suo però il premier greco cerca di reagire e afferma che il suo governo della sinistra non è stata una piccola parentesi. Insieme ai partiti di sinistra di Spagna, Portogallo e Gran Bretagna continua la sua lotta contro i conservatori in Europa, il partito della Merkel e di Meimarakis, per rendere l’Europa più progressista.Basterà per riaccendere la passione politica del popolo greco?
Alexis Tsipras in Grecia era stato accolto da molti come il salvatore della nazione,colui che avrebbe con poche e rapide scelte cambiato il destino ed il declino politico-economico di una paese intero.Dopo pochi mesi di attività politica però, già sono in molti ad alimentare dubbi e critiche sulla sua figura e sulla sua effettiva valenza politica.Nelle piazze infatti da alcune settimane crescono a vista d'occhio le manifestazioni anti governo ed il consenso personale dello stesso Tsipras è già cominciato a calare. I militanti del partito conservatore Nuova Democrazia e del partito di sinistra radicale Unità Popolare non si sono fatti intimorire dal caldo torrido di Atene e hanno partecipato ai comizi dei loro leader non solo per sostenerli, ma anche per manifestare tutta la loro delusione nei confronti del giovane primo ministro. E, per uno strano caso della sorte, la piazza di Atene da cui arriva la sfida è Omonia, la stessa da cui, nel gennaio scorso, Tsipras aveva messo un’ipoteca sulla sua vittoria.
Una campagna elettorale segnata da due confronti televisivi importanti, ma da un numero di manifesti in circolazione ridotto e soprattutto dove è mancato il «popolo», almeno quello non schierato a priori. Come se l’elettorato greco, dopo mesi di crisi politica e anni di crisi economica, avesse perso soprattutto la speranza, come testimoniano le percentuali di indecisi e di possibili astenuti. L’opposizione conservatrice vuole riprendersi quello che meno di un anno fa Tsipras aveva portato via. Gli avversari politici sottolineano che il premier non solo non è riuscito a ottenere condizioni più favorevoli per il Paese ma che la Grecia è in una situazione ancora più precaria di prima.Molti inoltre affermano che slle sue spalle Tsipras ha gente che fa politica da anni e sembravano meno corrotti degli altri solo perché non erano mai stati al potere, di nuovo nel suo staff c'è veramente poco.
Se i giudizi della piazza di Nuova Democrazia nei confronti di Alexis Tsipras non sono teneri, i più velenosi arrivano proprio da quelli che una volta erano i suoi compagni di partito. Unità Popolare, nata a fine agosto e che raccoglie gli elementi più radicali di Syriza, è pronta a dare battaglia. Nei loro discorsi pre elettorali, l’ex ministro dell’Energia, Panagiotis Lafazanis e l’ex presidente della Camera, Zoe Kostantopoulou, hanno attaccato il premier, reo di aver tradito gli elettori e di aver accettato tutte le richieste di un’Europa interessata non a salvare la Grecia, ma a umiliarla. Il più grande argomento a loro favore, il referendum dello scorso 5 luglio, dove il No a nuove, dure condizioni da parte della troika ha vinto con il 62% dei consensi. Tsipras è stato una grossa delusione e si evidenzia come forse non abbia la forza necessaria per affrontare i ricatti politici ed economici di Bruxelles. Dal canto suo però il premier greco cerca di reagire e afferma che il suo governo della sinistra non è stata una piccola parentesi. Insieme ai partiti di sinistra di Spagna, Portogallo e Gran Bretagna continua la sua lotta contro i conservatori in Europa, il partito della Merkel e di Meimarakis, per rendere l’Europa più progressista.Basterà per riaccendere la passione politica del popolo greco?
Inghilterra.Corbyn è il nuovo leader Labour.
di Ilenia Marini
Coraggiosa nuova svolta nel partito Labour inglese.
In Inghilterra il nuovo leader laburista è il pacifista,progressista e anti nucleare Jeremy Corbyn.Una vittoria a sorpresa che segna una svolta molto rischiosa per il più votato partito inglese.Un leader che porterà avanti nuove istanze Labour radicali: no tagli alla spesa pubblica, disarmo, anti imperialismo Usa, basta con il mercato globale, tariffe, nazionalizzazioni quando serve. Corbyn è stato votato dal 59% dei laburisti soprattutto giovani e disoccupati, un vero voto di protesta anti-sistema.Il nuovo leader viene ricordato soprattutto per aver votato negli ultimi due anni ben 98 volte contro il suo stesso partito e per la frase infelice verso Barack Obama dopo la morte di Osama Bin Laden «Una tragedia… non c’è stato neppure un tentativo di arrestarlo o processarlo…».La sua scelta è il segno che in America, in Europa e in Italia, è in corso una rivolta contro l’equilibrio economico e politico seguito alla Guerra Fredda.
Tecnologia e globalizzazione hanno impoverito ceto medio e classe operaia e chi non ha sapere e tecniche necessari nella nuova economia si sente abbandonato e ha paura. La stessa angoscia, distillata in livore dai demagoghi, polarizza gli elettori anche a destra: Donald Trump nelle primarie repubblicane Usa, Le Pen in Francia, Ukip a Londra, Orban e Jobbik in Ungheria, da noi la rinata Lega Nord. Movimenti diversi tra loro, Salvini non va confuso mai con Casa Pound, né Grillo con il Front National, ma che colgono, su un altro fronte, la stessa angoscia.Destra e sinistra che si oppongono a mercato, patti internazionali, Ue, commerci globale, innovazione tecnologica, corporation digitali alla Google, mischiano toni inaccettabili ma tutti pongono ai leader moderati, progressisti o conservatori, una sfida ineludibile.
Capire questo formidabile disagio è indispensabile ai leader che vogliono resistere alla deriva populista, Merkel, Obama, Renzi, Hollande come può, il nuovo Tsipras, Rajoy, Cameron se resiste alle sirene anti Ue di Ukip. Devono confrontare la paura dei cittadini con coraggio e rigore, regolare l’economia globale senza protezionismi che porterebbero prima povertà poi nuovi fascismi, dare - via scuola, ricerca, digitale, investimenti su infrastrutture web e no, tagli fiscali - una chance ai ragazzi delle periferie e agli anziani alienati dal vecchio lavoro. Sull’emigrazione resistere agli xenofobi ma senza guerre tra poveri nelle metropoli. Corbyn è stato eletto da chi si illude nel sogno di un Labour selvaggio ma se i leader raziocinanti appaiono burocrati senza passione, nella loro furia di creare benessere e lavoro, il disastro politico è dietro l'angolo.
In Inghilterra il nuovo leader laburista è il pacifista,progressista e anti nucleare Jeremy Corbyn.Una vittoria a sorpresa che segna una svolta molto rischiosa per il più votato partito inglese.Un leader che porterà avanti nuove istanze Labour radicali: no tagli alla spesa pubblica, disarmo, anti imperialismo Usa, basta con il mercato globale, tariffe, nazionalizzazioni quando serve. Corbyn è stato votato dal 59% dei laburisti soprattutto giovani e disoccupati, un vero voto di protesta anti-sistema.Il nuovo leader viene ricordato soprattutto per aver votato negli ultimi due anni ben 98 volte contro il suo stesso partito e per la frase infelice verso Barack Obama dopo la morte di Osama Bin Laden «Una tragedia… non c’è stato neppure un tentativo di arrestarlo o processarlo…».La sua scelta è il segno che in America, in Europa e in Italia, è in corso una rivolta contro l’equilibrio economico e politico seguito alla Guerra Fredda.
Tecnologia e globalizzazione hanno impoverito ceto medio e classe operaia e chi non ha sapere e tecniche necessari nella nuova economia si sente abbandonato e ha paura. La stessa angoscia, distillata in livore dai demagoghi, polarizza gli elettori anche a destra: Donald Trump nelle primarie repubblicane Usa, Le Pen in Francia, Ukip a Londra, Orban e Jobbik in Ungheria, da noi la rinata Lega Nord. Movimenti diversi tra loro, Salvini non va confuso mai con Casa Pound, né Grillo con il Front National, ma che colgono, su un altro fronte, la stessa angoscia.Destra e sinistra che si oppongono a mercato, patti internazionali, Ue, commerci globale, innovazione tecnologica, corporation digitali alla Google, mischiano toni inaccettabili ma tutti pongono ai leader moderati, progressisti o conservatori, una sfida ineludibile.
Capire questo formidabile disagio è indispensabile ai leader che vogliono resistere alla deriva populista, Merkel, Obama, Renzi, Hollande come può, il nuovo Tsipras, Rajoy, Cameron se resiste alle sirene anti Ue di Ukip. Devono confrontare la paura dei cittadini con coraggio e rigore, regolare l’economia globale senza protezionismi che porterebbero prima povertà poi nuovi fascismi, dare - via scuola, ricerca, digitale, investimenti su infrastrutture web e no, tagli fiscali - una chance ai ragazzi delle periferie e agli anziani alienati dal vecchio lavoro. Sull’emigrazione resistere agli xenofobi ma senza guerre tra poveri nelle metropoli. Corbyn è stato eletto da chi si illude nel sogno di un Labour selvaggio ma se i leader raziocinanti appaiono burocrati senza passione, nella loro furia di creare benessere e lavoro, il disastro politico è dietro l'angolo.
Cina.Espansione marittima nel Pacifico.
di Ilenia Marini
Mosse strategiche molto pericolose all'orizzonte cinese.
La Cina inizia la sua incredibile espansione marittima nel Pacifico.Sono ben otto le isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale, munite con banchine di attracco e piste per navi e aerei militari.La zona scelta è ricca di risorse e lungo le vitali rotte marittime che portano merci e petrolio da e per Cina, Giappone, Corea del Sud e tutti i paesi del Sud Est asiatico.Ma proprio pochi giorni fa il Ministro Usa alla Difesa Ash Carter si è detto allarmato sottolineando che Pechino debba fermarsi con l’espansione nel Mar Cinese Meridionale.Si tratta della prima volta che gli americani mettono voce nelle vicenda cinesi in modo così plateale.
È l’equivalente di una bomba atomica pronta a esplodere e a sconvolgere non solo gli equilibri regionali, ma anche il confronto Usa-Cina.Andando nello specifico le isole Paracel e Spratly sono poco più che scogli, ma di grande rilevanza strategica per le rotte marittime e per i diritti su queste porzioni di mare ricche di risorse nel sottosuolo, che la sovranità sulle isole consente di rivendicare sulla base del diritto internazionale del mare.
Sono contese da Cina, Vietnam, Taiwan, Malaysia, Filippine e Brunei. La controversia nacque nel 1947, ma solo ora la Marina di Pechino comincia a disporre dei mezzi per dar seguito concreto alle rivendicazioni su questi atolli lontani mille chilometri dalla Cina continentale. Le isole artificiali sono le teste di ponte ideali per dislocare mezzi navali e aerei così lontano dalla propria costa.Una minaccia diretta per tutti i paesi confinanti e non solo.Il tema è davvero molto delicato e strategico.
La Cina inizia la sua incredibile espansione marittima nel Pacifico.Sono ben otto le isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale, munite con banchine di attracco e piste per navi e aerei militari.La zona scelta è ricca di risorse e lungo le vitali rotte marittime che portano merci e petrolio da e per Cina, Giappone, Corea del Sud e tutti i paesi del Sud Est asiatico.Ma proprio pochi giorni fa il Ministro Usa alla Difesa Ash Carter si è detto allarmato sottolineando che Pechino debba fermarsi con l’espansione nel Mar Cinese Meridionale.Si tratta della prima volta che gli americani mettono voce nelle vicenda cinesi in modo così plateale.
È l’equivalente di una bomba atomica pronta a esplodere e a sconvolgere non solo gli equilibri regionali, ma anche il confronto Usa-Cina.Andando nello specifico le isole Paracel e Spratly sono poco più che scogli, ma di grande rilevanza strategica per le rotte marittime e per i diritti su queste porzioni di mare ricche di risorse nel sottosuolo, che la sovranità sulle isole consente di rivendicare sulla base del diritto internazionale del mare.
Sono contese da Cina, Vietnam, Taiwan, Malaysia, Filippine e Brunei. La controversia nacque nel 1947, ma solo ora la Marina di Pechino comincia a disporre dei mezzi per dar seguito concreto alle rivendicazioni su questi atolli lontani mille chilometri dalla Cina continentale. Le isole artificiali sono le teste di ponte ideali per dislocare mezzi navali e aerei così lontano dalla propria costa.Una minaccia diretta per tutti i paesi confinanti e non solo.Il tema è davvero molto delicato e strategico.
Argentina.In arrivo nuova crisi economica.
di Ilenia Marini
Periodo davvero complicato per il paese argentino.
A Buenos Aires sono mesi ricchi di problemi.Il peso è in caduta libera rispetto al dollaro, l’inflazione è schizzata il 25%, la crescita sta rallentando. Il calo del prezzo delle materie prime mette in crisi un modello economico fondato sulla svalutazione. La scarsa fiducia dei mercati finanziari internazionali e il rischio-contagio. L’Argentina non viveva un evento economico così scioccante dal dicembre 2001, tristemente noto per i cacerolazos nelle strade e il default sul debito estero, preludio della pesantissima recessione che fece sprofondare quasi metà della popolazione sotto la soglia di povertà. Il 23 luglio 2015 il peso, la valuta nazionale, ha perso in una sola giornata il 10% del suo valore nei confronti del dollaro statunitense, finendo a 7.16/1. Il tasso di cambio è ancora più basso sul mercato nero (oltre 11 pesos per un dollaro), cui gli argentini fanno ricorso per aggirare le restrizioni imposte dal governo ai movimenti di capitale.
Come l’ultima, relativa all’acquisto di merci su internet: dallo scorso 22 luglio sono ammessi non più di due acquisti all’anno per un valore di 25$ ciascuno, oltre i quali scatta una tassa del 50%.Quello che è accaduto 2 settimane fa, tuttavia, è solo la punta dell’iceberg di una situazione economica e politica sempre più complessa per la presidente Cristina Kirchner. A meno di due anni dalle elezioni, il “modello K”, ovvero la serie di politiche economiche di stampo nazionalista adottate dagli esecutivi Kirchner da un decennio a questa parte, si sta logorando. L’inflazione, a dispetto delle statistiche ufficiali, viaggia oltre il 25%; la crescita del pil sta rallentando ed è stimata per il 2016 di poco superiore al 2%; il surplus commerciale, vera chiave del “miracolo economico” argentino dell’ultimo decennio, si sta assottigliando sempre più: nel 2015 è stato di appena 9 miliardi di dollari. Il caso argentino e il rischio che il contagio si estenda ai mercati emergenti si inseriscono in un contesto finanziario internazionale già molto delicato per via del tapering della Federal Reserve statunitense.
Sulla carta, il pericolo di una trasmissione della crisi agli altri paesi (Brasile in primis) è contenuto vista la bassa integrazione di Buenos Aires con i mercati globali. Tuttavia, due membri del Mercosur, Uruguay e Paraguay, dipendono significativamente dall’Argentina e potrebbero soffrire per via della nuova ondata di volatilità. Non a caso pochi giorni fa la senatrice Lucia Topolansky dell’Uruguay (moglie del presidente José Mujica) ha dichiarato: “Se l’Argentina starnutisce, l’Uruguay prende il raffreddore”. Non va inoltre sottovalutato l’aspetto psicologico, che potrebbe indurre i risparmiatori di altri paesi emergenti a disfarsi delle valute locali per cercare rifugio negli asset denominati in dollari.L’Argentina è così tornata a muoversi lungo un crinale pericoloso. Gli episodi delle ultime settimane hanno messo a nudo le fragilità strutturali del suo sistema economico e dovrebbero aprire gli occhi al governo che entrerà in carica alla fine del 2015. Per dare soluzione alle molteplici criticità della sua economia, sarà necessaria una forte volontà politica.
A Buenos Aires sono mesi ricchi di problemi.Il peso è in caduta libera rispetto al dollaro, l’inflazione è schizzata il 25%, la crescita sta rallentando. Il calo del prezzo delle materie prime mette in crisi un modello economico fondato sulla svalutazione. La scarsa fiducia dei mercati finanziari internazionali e il rischio-contagio. L’Argentina non viveva un evento economico così scioccante dal dicembre 2001, tristemente noto per i cacerolazos nelle strade e il default sul debito estero, preludio della pesantissima recessione che fece sprofondare quasi metà della popolazione sotto la soglia di povertà. Il 23 luglio 2015 il peso, la valuta nazionale, ha perso in una sola giornata il 10% del suo valore nei confronti del dollaro statunitense, finendo a 7.16/1. Il tasso di cambio è ancora più basso sul mercato nero (oltre 11 pesos per un dollaro), cui gli argentini fanno ricorso per aggirare le restrizioni imposte dal governo ai movimenti di capitale.
Come l’ultima, relativa all’acquisto di merci su internet: dallo scorso 22 luglio sono ammessi non più di due acquisti all’anno per un valore di 25$ ciascuno, oltre i quali scatta una tassa del 50%.Quello che è accaduto 2 settimane fa, tuttavia, è solo la punta dell’iceberg di una situazione economica e politica sempre più complessa per la presidente Cristina Kirchner. A meno di due anni dalle elezioni, il “modello K”, ovvero la serie di politiche economiche di stampo nazionalista adottate dagli esecutivi Kirchner da un decennio a questa parte, si sta logorando. L’inflazione, a dispetto delle statistiche ufficiali, viaggia oltre il 25%; la crescita del pil sta rallentando ed è stimata per il 2016 di poco superiore al 2%; il surplus commerciale, vera chiave del “miracolo economico” argentino dell’ultimo decennio, si sta assottigliando sempre più: nel 2015 è stato di appena 9 miliardi di dollari. Il caso argentino e il rischio che il contagio si estenda ai mercati emergenti si inseriscono in un contesto finanziario internazionale già molto delicato per via del tapering della Federal Reserve statunitense.
Sulla carta, il pericolo di una trasmissione della crisi agli altri paesi (Brasile in primis) è contenuto vista la bassa integrazione di Buenos Aires con i mercati globali. Tuttavia, due membri del Mercosur, Uruguay e Paraguay, dipendono significativamente dall’Argentina e potrebbero soffrire per via della nuova ondata di volatilità. Non a caso pochi giorni fa la senatrice Lucia Topolansky dell’Uruguay (moglie del presidente José Mujica) ha dichiarato: “Se l’Argentina starnutisce, l’Uruguay prende il raffreddore”. Non va inoltre sottovalutato l’aspetto psicologico, che potrebbe indurre i risparmiatori di altri paesi emergenti a disfarsi delle valute locali per cercare rifugio negli asset denominati in dollari.L’Argentina è così tornata a muoversi lungo un crinale pericoloso. Gli episodi delle ultime settimane hanno messo a nudo le fragilità strutturali del suo sistema economico e dovrebbero aprire gli occhi al governo che entrerà in carica alla fine del 2015. Per dare soluzione alle molteplici criticità della sua economia, sarà necessaria una forte volontà politica.
ISIS.Missile verso nave egiziana.
di Ilenia Marini
Atto terroristico gravissimo da parte dei miliziani del Califfato.
Due giorni fa i miliziani dello Stato Islamico (Isis) hanno colpito un’unità della Marina da guerra egiziana davanti alle coste del Nord Sinai. Si parla di un vero attacco con un missile terra-nave lanciato da circa un miglio di distanza allo scopo di abbattere una nave adibita al trasporto truppe. E’ stato poche ore dopo proprio l'Isis a rivendicare l’azione, diffondendo le immagini del lancio e dell’impatto. Già in passato gruppi islamici avevano tentato di attaccare navi militari egiziane, ma senza successo. La riuscita di tale atto terroristico dimostra il notevole livello di pericolosità che hanno raggiunto adesso i miliziani del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.E sono trascorse solo due settimane dalla battaglia di terra a Sheick Zuwaid nella quale i jihadisti sono riusciti ad uccidere almeno cento soldati, inclusi 14 ufficiali.
La cosa che davvero colpisce del fatto accaduto è la completa assenza di contromisure da parte della nave egiziana, evidentemente colta di sorpresa e soprattutto non dotata di dispositivi di protezione da questo tipo di missili. Un testimone palestinese presente nella zona afferma di aver assistito all’impatto, a seguito del quale due piccole imbarcazioni militari si sono avvicinate per spegnere il fuoco con potenti getti d’acqua. Il generale egiziano Mohammed Samir, portavoce dell'esercito, parla di “attacco terroristico” senza fornire dettagli sull’entità dei danni subiti come delle eventuali vittime.
La nave colpita dal missile è capace di trasportare circa 80 militari e viene adoperata dal Cairo come navetta per i soldati destinati al Nord Sinai evitando un pericoloso percorso attraverso il deserto infestato da bande criminali e cellule jihadiste. Proprio in quella zona infatti un gruppo di jihadisti è stato fermato ieri con a bordo 100 kg di tritolo,la pericolosità della zona rimane quindi davvero altissima.
Due giorni fa i miliziani dello Stato Islamico (Isis) hanno colpito un’unità della Marina da guerra egiziana davanti alle coste del Nord Sinai. Si parla di un vero attacco con un missile terra-nave lanciato da circa un miglio di distanza allo scopo di abbattere una nave adibita al trasporto truppe. E’ stato poche ore dopo proprio l'Isis a rivendicare l’azione, diffondendo le immagini del lancio e dell’impatto. Già in passato gruppi islamici avevano tentato di attaccare navi militari egiziane, ma senza successo. La riuscita di tale atto terroristico dimostra il notevole livello di pericolosità che hanno raggiunto adesso i miliziani del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.E sono trascorse solo due settimane dalla battaglia di terra a Sheick Zuwaid nella quale i jihadisti sono riusciti ad uccidere almeno cento soldati, inclusi 14 ufficiali.
La cosa che davvero colpisce del fatto accaduto è la completa assenza di contromisure da parte della nave egiziana, evidentemente colta di sorpresa e soprattutto non dotata di dispositivi di protezione da questo tipo di missili. Un testimone palestinese presente nella zona afferma di aver assistito all’impatto, a seguito del quale due piccole imbarcazioni militari si sono avvicinate per spegnere il fuoco con potenti getti d’acqua. Il generale egiziano Mohammed Samir, portavoce dell'esercito, parla di “attacco terroristico” senza fornire dettagli sull’entità dei danni subiti come delle eventuali vittime.
La nave colpita dal missile è capace di trasportare circa 80 militari e viene adoperata dal Cairo come navetta per i soldati destinati al Nord Sinai evitando un pericoloso percorso attraverso il deserto infestato da bande criminali e cellule jihadiste. Proprio in quella zona infatti un gruppo di jihadisti è stato fermato ieri con a bordo 100 kg di tritolo,la pericolosità della zona rimane quindi davvero altissima.
Afghanistan.Il futuro resta molto incerto.
di Ilenia Marini
Tirando le somme dopo la lunga guerra afghana.
Nella guerra combattuta in Afghanista dal 2002 ad oggi ci sono state ben 90mila persone uccise di cui circa 30mila civili innocenti.Tale guerra era stata avviata con lo scopo esplicito di neutralizzare le capacità di al-Qaida nel paese, ma ben presto la stessa missione militare internazionale in Afghanistan ha rivelato carenze sotto il profilo della pianificazione, finendo per rispondere più a logiche dettate dagli sviluppi sul terreno che a una chiara visione strategica.Oggi dopo 13 anni dall’avvio delle operazioni, il bilancio appare negativo. Da una parte è forse vero che una buona percentuale della popolazione afghana beneficia di migliori condizioni di vita e che numerosi esponenti di al-Qaida in Afghanistan e Pakistan sono stati eliminati, tali successi appaiono quanto mai effimeri.In dieci anni l’economia afghana è cresciuta del 10% ma negli ultimi due ha subìto un forte rallentamento, con un incremento del pil pari al 3,7 e all’1,5% rispettivamente nel 2013 e nel 2014.
Rallentamento dovuto principalmente al ritiro di decine di migliaia di soldati stranieri (ne sono rimasti circa 13 mila, dopo un picco di 150 mila nel 2011), una presenza che alimentava un indotto economico di svariati miliardi di dollari. Lo stato delle finanze pubbliche afghane è a dir poco preoccupante, con un deficit in costante aumento e gravi difficoltà a sfruttare, anche solo in parte, il potenziale economico del paese, in particolare le sue abbondanti risorse minerarie. Incapacità dovute in primo luogo all’estrema precarietà del quadro di sicurezza.Che la guerra non possa essere vinta sul piano militare è chiaro ormai da diversi anni. Non a caso, l’ipotesi di negoziati con i taliban è sul tavolo dal 2010, quando si è registrato il primo incontro ufficiale tra diplomatici americani e rappresentanti del movimento guidato dal Mullah Omar. Da allora sono stati effettuati vari tentativi di dialogo, tutti falliti. Il più noto di questi ha portato, nel 2013, alla creazione di un ufficio politico talebano a Doha, capitale del Qatar.
Ufficio sul quale potrebbero presto riaccendersi i riflettori internazionali. Le preoccupazioni dei taliban sembrerebbero in parte condivise dallo stesso Pakistan, attento a non forzare troppo la mano per non rischiare di ritrovarsi con un movimento spaccato, dunque poco funzionale ai suoi interessi – primo tra tutti, il mantenimento di un’influenza nel paese vicino, in funzione prevalentemente anti-indiana. Inoltre, i viaggi a Teheran di alcuni membri della leadership talebana hanno evidenziato la capacità del gruppo di emanciparsi, almeno in parte, dalla dipendenza da Islamabad. Sebbene quella tra l’Iran e i taliban appaia più come un’alleanza tattica (dettata anche dalla comune opposizione allo Stato Islamico, presente anche nell’ovest dell’Afghanistan), essa rappresenta il sintomo inequivocabile di una situazione in fieri, la cui complessità si fa fatica a comprendere, poiché troppi e troppo diversi sono gli interessi in gioco.Solo il tempo dirà se gli sforzi di Ghani saranno valsi a qualcosa o se tutto si concluderà con un nulla di fatto. Resta, intanto, la netta sensazione che molte occasioni siano state colpevolmente sprecate e che altre ancora verranno ignorate prima che all’Afghanistan venga concessa la chance di costruire un futuro di pace e stabilità.
Nella guerra combattuta in Afghanista dal 2002 ad oggi ci sono state ben 90mila persone uccise di cui circa 30mila civili innocenti.Tale guerra era stata avviata con lo scopo esplicito di neutralizzare le capacità di al-Qaida nel paese, ma ben presto la stessa missione militare internazionale in Afghanistan ha rivelato carenze sotto il profilo della pianificazione, finendo per rispondere più a logiche dettate dagli sviluppi sul terreno che a una chiara visione strategica.Oggi dopo 13 anni dall’avvio delle operazioni, il bilancio appare negativo. Da una parte è forse vero che una buona percentuale della popolazione afghana beneficia di migliori condizioni di vita e che numerosi esponenti di al-Qaida in Afghanistan e Pakistan sono stati eliminati, tali successi appaiono quanto mai effimeri.In dieci anni l’economia afghana è cresciuta del 10% ma negli ultimi due ha subìto un forte rallentamento, con un incremento del pil pari al 3,7 e all’1,5% rispettivamente nel 2013 e nel 2014.
Rallentamento dovuto principalmente al ritiro di decine di migliaia di soldati stranieri (ne sono rimasti circa 13 mila, dopo un picco di 150 mila nel 2011), una presenza che alimentava un indotto economico di svariati miliardi di dollari. Lo stato delle finanze pubbliche afghane è a dir poco preoccupante, con un deficit in costante aumento e gravi difficoltà a sfruttare, anche solo in parte, il potenziale economico del paese, in particolare le sue abbondanti risorse minerarie. Incapacità dovute in primo luogo all’estrema precarietà del quadro di sicurezza.Che la guerra non possa essere vinta sul piano militare è chiaro ormai da diversi anni. Non a caso, l’ipotesi di negoziati con i taliban è sul tavolo dal 2010, quando si è registrato il primo incontro ufficiale tra diplomatici americani e rappresentanti del movimento guidato dal Mullah Omar. Da allora sono stati effettuati vari tentativi di dialogo, tutti falliti. Il più noto di questi ha portato, nel 2013, alla creazione di un ufficio politico talebano a Doha, capitale del Qatar.
Ufficio sul quale potrebbero presto riaccendersi i riflettori internazionali. Le preoccupazioni dei taliban sembrerebbero in parte condivise dallo stesso Pakistan, attento a non forzare troppo la mano per non rischiare di ritrovarsi con un movimento spaccato, dunque poco funzionale ai suoi interessi – primo tra tutti, il mantenimento di un’influenza nel paese vicino, in funzione prevalentemente anti-indiana. Inoltre, i viaggi a Teheran di alcuni membri della leadership talebana hanno evidenziato la capacità del gruppo di emanciparsi, almeno in parte, dalla dipendenza da Islamabad. Sebbene quella tra l’Iran e i taliban appaia più come un’alleanza tattica (dettata anche dalla comune opposizione allo Stato Islamico, presente anche nell’ovest dell’Afghanistan), essa rappresenta il sintomo inequivocabile di una situazione in fieri, la cui complessità si fa fatica a comprendere, poiché troppi e troppo diversi sono gli interessi in gioco.Solo il tempo dirà se gli sforzi di Ghani saranno valsi a qualcosa o se tutto si concluderà con un nulla di fatto. Resta, intanto, la netta sensazione che molte occasioni siano state colpevolmente sprecate e che altre ancora verranno ignorate prima che all’Afghanistan venga concessa la chance di costruire un futuro di pace e stabilità.
USA-Iran.Finalmente patto sul nucleare.
di Ilenia Marini
Patto storico sul tema nucleare tra Iran e potenze ONU.
Finalmente Usa ed Iran ce l'hanno fatta e dopo un lungo percorso di dibattiti e smentite è stata annunciata la firma dell’accordo con i paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina + Germania), concludendo un iter negoziale lunghissimo e caratterizzato da colpi di scena continui.È un accordo storico quello firmato a Vienna ed è stato voluto fortemente dagli Stati Uniti e dall’Iran, con la partecipazione di attori secondari non sempre utili al risultato finale. Le amministrazioni di Washington e Teheran hanno a lungo preparato il laborioso accordo che ha portato all’intesa.Nel difficilissimo percorso negoziale entrambe le nazioni hanno combattuto anche le ostilità delle varie lobby all’interno dei propri parlamenti nazionali e la determinazione di politici internazionali per nulla propensi a favorire un passo così significativo per l’assetto regionale e globale.
Molto forte è stato l’impegno dell’alto commissario per la Politica Estera e di Sicurezza Federica Mogherini, che ha difeso l’apparenza di un’entità europea, mentre non positivo è stato l'atteggiamento dei paesi dell’Ue che hanno negoziato.La Francia, notoriamente opposta al negoziato, ha cercato sino all’ultimo di frapporre ostacoli. In quest’ultima fase ha sostenuto l’introduzione di un provvedimento che permetta di sospendere l’obiettivo raggiunto, con quasi contestuale rispristino delle sanzioni, qualora si dimostrino passate infrazioni dell’Iran alle disposizioni sullo sviluppo di un programma nucleare civile.
Un inutile ostacolo giuridico, ignorato dagli Stati Uniti in sede negoziale, per cercare di lasciare la porta aperta al roll back delle sanzioni che comunque rimane sempre possibile.Perché è stata assunta questa posizione? Parigi in questi mesi vive una forte crisi economica di portata non trascurabile, alla quale cerca di trovare soluzione anche attraverso forti sinergie commerciali con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che, tuttavia, portano ad una vera posizione politica netta nei confronti dell’Iran. La Francia è certamente consapevole dell’impossibilità di arginare la riapertura a Teheran,ma alla fine sembra aver ceduto alla pressione generale,soprattutto americana.
Finalmente Usa ed Iran ce l'hanno fatta e dopo un lungo percorso di dibattiti e smentite è stata annunciata la firma dell’accordo con i paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina + Germania), concludendo un iter negoziale lunghissimo e caratterizzato da colpi di scena continui.È un accordo storico quello firmato a Vienna ed è stato voluto fortemente dagli Stati Uniti e dall’Iran, con la partecipazione di attori secondari non sempre utili al risultato finale. Le amministrazioni di Washington e Teheran hanno a lungo preparato il laborioso accordo che ha portato all’intesa.Nel difficilissimo percorso negoziale entrambe le nazioni hanno combattuto anche le ostilità delle varie lobby all’interno dei propri parlamenti nazionali e la determinazione di politici internazionali per nulla propensi a favorire un passo così significativo per l’assetto regionale e globale.
Molto forte è stato l’impegno dell’alto commissario per la Politica Estera e di Sicurezza Federica Mogherini, che ha difeso l’apparenza di un’entità europea, mentre non positivo è stato l'atteggiamento dei paesi dell’Ue che hanno negoziato.La Francia, notoriamente opposta al negoziato, ha cercato sino all’ultimo di frapporre ostacoli. In quest’ultima fase ha sostenuto l’introduzione di un provvedimento che permetta di sospendere l’obiettivo raggiunto, con quasi contestuale rispristino delle sanzioni, qualora si dimostrino passate infrazioni dell’Iran alle disposizioni sullo sviluppo di un programma nucleare civile.
Un inutile ostacolo giuridico, ignorato dagli Stati Uniti in sede negoziale, per cercare di lasciare la porta aperta al roll back delle sanzioni che comunque rimane sempre possibile.Perché è stata assunta questa posizione? Parigi in questi mesi vive una forte crisi economica di portata non trascurabile, alla quale cerca di trovare soluzione anche attraverso forti sinergie commerciali con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che, tuttavia, portano ad una vera posizione politica netta nei confronti dell’Iran. La Francia è certamente consapevole dell’impossibilità di arginare la riapertura a Teheran,ma alla fine sembra aver ceduto alla pressione generale,soprattutto americana.
Iran.Arrivano soldati in aiuto di Assad.
di Ilenia Marini
Iran e Russia iniziano a muoversi a favore della Siria.
La Siria nella sua lunga guerra civile contro gli estremisti non è abbandonata a se stessa.Mentre alcune nazioni arabe di stirpe sunnita appoggiano più o meno direttamente gli islamisti anti-Assad,mentre l’Europa è colpevolmente assente e gli Stati Uniti attenti a non farsi nemici con il mondo arabo,soprattutto Arabia Saudita e Turchia, il primo vero esplicito aiuto alla Siria giunge da Teheran.Secondo il quotidiano libanese As-Safir circa 15 mila soldati sciiti iraniani, libanesi, della Guardia Repubblicana e delle Quads Force iraniane, sarebbero stati inviati dal ministero della Difesa nell’area calda del conflitto attorno ad Idlib pronti a lanciare un’offensiva al fianco dei soldati del presidente siriano Bashar al-Assad contro i jihadisti che recentemente hanno conquistato Palmira.
E' cosa risaputa che tra Iran e Siria esiste un'alleanza storica di mutua difesa che può essere ufficialmente attivata soltanto se un’altra nazione prende parte al conflitto interno a uno dei due Stati. Se l’avanzata dell’Isis, giunto fino alle porte di Damasco, poteva non bastare per giustificare l’invio di militari sul campo siriano da parte di Teheran, il sostegno sempre più manifesto della Turchia agli islamisti anti-Assad può essere la carta che l’Iran proverà a giocarsi per giustificare il proprio legittimo intervento nel caso di probabili proteste internazionali. E’ cosa molto chiara che nessuno potrebbe riuscire a dimostrare l'illeggittimità o meno dell’ingerenza iraniana, che apparirebbe comunque conseguenziale alle ormai continue mosse sul campo da parte di Arabia Saudita, Qatar e in particolare della Turchia.
Comunque sia è cosa evidente che l’Iran non può permettersi di assistere impotente, a prescindere dagli accordi internazionali, all’avanzata dell’Isis verso la costa siriana e le zone militarmente più strategiche e decisive per le sorti della guerra. In particolare è basilare per Assad e per l’Iran stesso salvaguardare la fetta di territorio che collega Damasco a Latakia e Tartus, ovvero, in ordine, il principale porto siriano e la città che ospita l’unica base navale russa del Mediterraneo. Non stando inerte Teheran a breve anche la Russia inizierà a prendere posizione contro l' avanzata dell’Isis verso la costa.Del tutto ovvio sottolineare come diverrebbe cosa gravissima anche per l'Europa permettere ai jihadisti di controllare l’accesso ai porti del Mediterraneo orientale. Il conflitto diventa davvero uno scacchiere complicato ma una cosa è certa oggi più che mai: la Siria non è la Libia, la Siria non è sola.
La Siria nella sua lunga guerra civile contro gli estremisti non è abbandonata a se stessa.Mentre alcune nazioni arabe di stirpe sunnita appoggiano più o meno direttamente gli islamisti anti-Assad,mentre l’Europa è colpevolmente assente e gli Stati Uniti attenti a non farsi nemici con il mondo arabo,soprattutto Arabia Saudita e Turchia, il primo vero esplicito aiuto alla Siria giunge da Teheran.Secondo il quotidiano libanese As-Safir circa 15 mila soldati sciiti iraniani, libanesi, della Guardia Repubblicana e delle Quads Force iraniane, sarebbero stati inviati dal ministero della Difesa nell’area calda del conflitto attorno ad Idlib pronti a lanciare un’offensiva al fianco dei soldati del presidente siriano Bashar al-Assad contro i jihadisti che recentemente hanno conquistato Palmira.
E' cosa risaputa che tra Iran e Siria esiste un'alleanza storica di mutua difesa che può essere ufficialmente attivata soltanto se un’altra nazione prende parte al conflitto interno a uno dei due Stati. Se l’avanzata dell’Isis, giunto fino alle porte di Damasco, poteva non bastare per giustificare l’invio di militari sul campo siriano da parte di Teheran, il sostegno sempre più manifesto della Turchia agli islamisti anti-Assad può essere la carta che l’Iran proverà a giocarsi per giustificare il proprio legittimo intervento nel caso di probabili proteste internazionali. E’ cosa molto chiara che nessuno potrebbe riuscire a dimostrare l'illeggittimità o meno dell’ingerenza iraniana, che apparirebbe comunque conseguenziale alle ormai continue mosse sul campo da parte di Arabia Saudita, Qatar e in particolare della Turchia.
Comunque sia è cosa evidente che l’Iran non può permettersi di assistere impotente, a prescindere dagli accordi internazionali, all’avanzata dell’Isis verso la costa siriana e le zone militarmente più strategiche e decisive per le sorti della guerra. In particolare è basilare per Assad e per l’Iran stesso salvaguardare la fetta di territorio che collega Damasco a Latakia e Tartus, ovvero, in ordine, il principale porto siriano e la città che ospita l’unica base navale russa del Mediterraneo. Non stando inerte Teheran a breve anche la Russia inizierà a prendere posizione contro l' avanzata dell’Isis verso la costa.Del tutto ovvio sottolineare come diverrebbe cosa gravissima anche per l'Europa permettere ai jihadisti di controllare l’accesso ai porti del Mediterraneo orientale. Il conflitto diventa davvero uno scacchiere complicato ma una cosa è certa oggi più che mai: la Siria non è la Libia, la Siria non è sola.
Tunisia.L’ISIS rivendica la strage.
di Ilenia Marini
Maggiore chiarezza sull'attentato in spiaggia a Tunisi.
Ora è ufficiale.E' stato l’Isis che ieri infatti ha rivendicato nella notte la paternità dell’attentato contro i turisti sulla spiaggia di Sousse in Tunisia e che ha causato almeno 40 morti, mentre da subito si era già attribuito l’altro attacco, quello contro una moschea a Kuwait City che ha fatto 25 vittime. Tunisia, Francia, Kuwait e Somalia: sembra che la jihad si sia scatenata nel venerdì del Ramadan colpendo in ben tre continenti quasi simultaneamente. Nel frattempo il dipartimento anti-terrorismo di Scotland Yard ha anche annunciato di avere sventato un attentato terroristico contro una parata nel giorno delle forze armate a Merton, quartiere sud-occidentale di Londra. Il piano, secondo la stampa inglese, prevedeva l’esplosione di un ordigno rudimentale ma letale.
L’obiettivo era ovviamente causare una strage di innocenti tra soldati e civili presenti alla parata per la ricorrenza, il 27 giugno, del giorno delle forze armate. Tornando all'attentato di Tunisi sulla spiaggia di fronte a due hotel di lusso a Sousse, nel golfo di Hammamet in Tunisia:40 morti e 36 feriti, in buona parte stranieri, tre mesi dopo il massacro del museo del Bardo a Tunisi, 21 morti tra cui 4 italiani. Gli investigatori del posto ritengono che non siano coinvolti criminali locali, anche se l’Unità di crisi della Farnesina prosegue le verifiche. Di certo si sa che i morti britannici sono cinque, tra i quali una donna irlandese. Ma potrebbero essere di più, perché il resort colpito era molto frequebtato dal turismo britannico.Ci sarebbero anche vittime di nazionalità tedesca, belga, ucraina e norvegese, oltre che tunisina.
Il racconto dei testimoni è spaventoso.Si racconta che un gruppo di jihadisti sia arrivato via mare, altri a bordo di una piccola mongolfiera. Un terrorista è stato ucciso dalle forze di sicurezza: è uno studente non conosciuto alla giustizia, proveniente dalla regione di Kairouan, nel centro del Paese, una delle città sante dell’Islam. Era vestito come un comune bagnante, ed è arrivato in spiaggia con un kalashnikov nascosto nell’ombrellone. Secondo un sito specializzato nel monitoraggio dell’attività jihadista nella rete, l'Isis ha anche pubblicato la foto dell’attentatore, un giovane identificato come Abu Yahya al-Qayarawani, che appare sorridente in maglietta bianca con accanto due kalashnikov.I vari profili Twitter che appoggiano il Califfato lodano il gesto e l'azione che avrebbe eliminato i 40 infedeli.Si attendono le risposte ufficiali di Usa e Gran Bretagna.
Ora è ufficiale.E' stato l’Isis che ieri infatti ha rivendicato nella notte la paternità dell’attentato contro i turisti sulla spiaggia di Sousse in Tunisia e che ha causato almeno 40 morti, mentre da subito si era già attribuito l’altro attacco, quello contro una moschea a Kuwait City che ha fatto 25 vittime. Tunisia, Francia, Kuwait e Somalia: sembra che la jihad si sia scatenata nel venerdì del Ramadan colpendo in ben tre continenti quasi simultaneamente. Nel frattempo il dipartimento anti-terrorismo di Scotland Yard ha anche annunciato di avere sventato un attentato terroristico contro una parata nel giorno delle forze armate a Merton, quartiere sud-occidentale di Londra. Il piano, secondo la stampa inglese, prevedeva l’esplosione di un ordigno rudimentale ma letale.
L’obiettivo era ovviamente causare una strage di innocenti tra soldati e civili presenti alla parata per la ricorrenza, il 27 giugno, del giorno delle forze armate. Tornando all'attentato di Tunisi sulla spiaggia di fronte a due hotel di lusso a Sousse, nel golfo di Hammamet in Tunisia:40 morti e 36 feriti, in buona parte stranieri, tre mesi dopo il massacro del museo del Bardo a Tunisi, 21 morti tra cui 4 italiani. Gli investigatori del posto ritengono che non siano coinvolti criminali locali, anche se l’Unità di crisi della Farnesina prosegue le verifiche. Di certo si sa che i morti britannici sono cinque, tra i quali una donna irlandese. Ma potrebbero essere di più, perché il resort colpito era molto frequebtato dal turismo britannico.Ci sarebbero anche vittime di nazionalità tedesca, belga, ucraina e norvegese, oltre che tunisina.
Il racconto dei testimoni è spaventoso.Si racconta che un gruppo di jihadisti sia arrivato via mare, altri a bordo di una piccola mongolfiera. Un terrorista è stato ucciso dalle forze di sicurezza: è uno studente non conosciuto alla giustizia, proveniente dalla regione di Kairouan, nel centro del Paese, una delle città sante dell’Islam. Era vestito come un comune bagnante, ed è arrivato in spiaggia con un kalashnikov nascosto nell’ombrellone. Secondo un sito specializzato nel monitoraggio dell’attività jihadista nella rete, l'Isis ha anche pubblicato la foto dell’attentatore, un giovane identificato come Abu Yahya al-Qayarawani, che appare sorridente in maglietta bianca con accanto due kalashnikov.I vari profili Twitter che appoggiano il Califfato lodano il gesto e l'azione che avrebbe eliminato i 40 infedeli.Si attendono le risposte ufficiali di Usa e Gran Bretagna.
Kenya.Bombe aeree contro al Shabaab.
di Ilenia Marini
L'aeronautica kenyota attacca le basi di al Shabaab.
In Somalia, il Kenya due giorni fa ha effettuato pesanti bombardamenti aerei contro le postazioni del gruppo terroristico islamico al Shabaab, organizzazione affiliata direttamente ad al Qaeda.La stessa organizzazione che due settimane fa aveva massacrato 140 persone nel campus universitario di Garissa, a circa 200 chilometri dal confine tra Somalia e Kenya.Secondo Nairobi, l’ideatore di quel terrbile atto fu Mohamed Kuno, uno dei leader del gruppo jihadista. Adesso una taglia di 300 mila dollari pende sul suo capo.Oltre alle azioni militari anche quelle investigative.Il ministero kenyota della Giustizia ha bloccato circa 80 conti bancari di sospetti finanziatori del terrorismo.Tornando ai bombardamenti il capo delle Forze armate locali David Obonyo, ha sottolineato che le foto aeree confermano che i bombardamenti hanno distrutto due campi di addestramento di al Shabaab nella regione di Gedo.
Il gruppo jihadista per propaganda sostiene che le bombe non hanno prodotto alcun danno ai campi in questione,cosa difficile da credere.Il Kenya da almeno due anni è insieme all’Uganda tra i paesi più impegnati nel contrastare le attività di al Shabaab, sia nell’ambito della Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) sia al di fuori di essa, come nel caso dell’operazione Linda Nchi tra il 2012 e il 2013. Per questo motivo il gruppo jihadista ha messoi due stati fra i propri nemici principali.Dal 2012, al Shabaab ha provocato ufficialmente ben 500 vittime solo sul territorio keniano. Il primoatto eclayante fu nel 2013, con l’assalto al centro commerciale Westgate di Nairobi che produsse ben 70 morti e che grazie anche al sapiente uso dei social network da parte dei jihadisti nelle ore dell’attacco, ha dato a questa organizzazione notevole visibilità mediatica. Visibilità che al Shabaab ha ottenuto nuovamente con l’attentato di Garissa. Ad ogni modo, l’organizzazione terroristica presenta alcune vulnerabilità sul piano tattico ed economico.
Oggi al Shabaab subisce la pressione dell’esercito somalo, di Amisom e dei raid aerei Usa e il suo raggio d’azione al momento si limita alla Somalia e ai paesi confinanti. Inoltre, l’organizzazione terroristica è stata in qualche modo oscurata dell’ascesa di altri gruppi, come Boko Haram in Nigeria e soprattutto dell’Is in Iraq e Siria. Del resto, oggi lo Stato Islamico ha risorse economiche superiori, quindi recluta più facilmente. Inoltre, anche se Al Shabaab lo ha preceduto nel massiccio utilizzo dei nuovi media, oggi la propaganda del “califfo” Abu Bakr al Baghdadi è certamente più sofisticata. Non a caso, numerosi musulmani cittadini americani hanno deciso di unirsi alla guerra santa contro gli occidentali preferendo arruolarsi nelle fila dell'Isis e non certo di al Shabaab. Con il sanguinoso attentato di Garissa, al Shabaab ha probabilmente voluto attirare l’attenzione dei media e intimorire Nairobi per spingerla a ritirare le sue truppe dalla Somalia. La promessa di nuovi sanguinosi attentati è sempre attuale insomma.
In Somalia, il Kenya due giorni fa ha effettuato pesanti bombardamenti aerei contro le postazioni del gruppo terroristico islamico al Shabaab, organizzazione affiliata direttamente ad al Qaeda.La stessa organizzazione che due settimane fa aveva massacrato 140 persone nel campus universitario di Garissa, a circa 200 chilometri dal confine tra Somalia e Kenya.Secondo Nairobi, l’ideatore di quel terrbile atto fu Mohamed Kuno, uno dei leader del gruppo jihadista. Adesso una taglia di 300 mila dollari pende sul suo capo.Oltre alle azioni militari anche quelle investigative.Il ministero kenyota della Giustizia ha bloccato circa 80 conti bancari di sospetti finanziatori del terrorismo.Tornando ai bombardamenti il capo delle Forze armate locali David Obonyo, ha sottolineato che le foto aeree confermano che i bombardamenti hanno distrutto due campi di addestramento di al Shabaab nella regione di Gedo.
Il gruppo jihadista per propaganda sostiene che le bombe non hanno prodotto alcun danno ai campi in questione,cosa difficile da credere.Il Kenya da almeno due anni è insieme all’Uganda tra i paesi più impegnati nel contrastare le attività di al Shabaab, sia nell’ambito della Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) sia al di fuori di essa, come nel caso dell’operazione Linda Nchi tra il 2012 e il 2013. Per questo motivo il gruppo jihadista ha messoi due stati fra i propri nemici principali.Dal 2012, al Shabaab ha provocato ufficialmente ben 500 vittime solo sul territorio keniano. Il primoatto eclayante fu nel 2013, con l’assalto al centro commerciale Westgate di Nairobi che produsse ben 70 morti e che grazie anche al sapiente uso dei social network da parte dei jihadisti nelle ore dell’attacco, ha dato a questa organizzazione notevole visibilità mediatica. Visibilità che al Shabaab ha ottenuto nuovamente con l’attentato di Garissa. Ad ogni modo, l’organizzazione terroristica presenta alcune vulnerabilità sul piano tattico ed economico.
Oggi al Shabaab subisce la pressione dell’esercito somalo, di Amisom e dei raid aerei Usa e il suo raggio d’azione al momento si limita alla Somalia e ai paesi confinanti. Inoltre, l’organizzazione terroristica è stata in qualche modo oscurata dell’ascesa di altri gruppi, come Boko Haram in Nigeria e soprattutto dell’Is in Iraq e Siria. Del resto, oggi lo Stato Islamico ha risorse economiche superiori, quindi recluta più facilmente. Inoltre, anche se Al Shabaab lo ha preceduto nel massiccio utilizzo dei nuovi media, oggi la propaganda del “califfo” Abu Bakr al Baghdadi è certamente più sofisticata. Non a caso, numerosi musulmani cittadini americani hanno deciso di unirsi alla guerra santa contro gli occidentali preferendo arruolarsi nelle fila dell'Isis e non certo di al Shabaab. Con il sanguinoso attentato di Garissa, al Shabaab ha probabilmente voluto attirare l’attenzione dei media e intimorire Nairobi per spingerla a ritirare le sue truppe dalla Somalia. La promessa di nuovi sanguinosi attentati è sempre attuale insomma.
Brasile.La crescita economica è ferma.
di Ilenia Marini
Il Gigante sud-americano è entrato in una fase di recessione.
Il Brasile era diventato la prima economia latinoamericana ma da alcuni mesi è in atto una sorta di regressione generale con lo stop della crescita del PIL ed un aumento del tasso di disoccupazione. La presidente neo eletta Dilma Rousseff dice di aver esaurito le misure possibili per il rilancio e sembra avere ragione. Crescite del pil repentine addirittura a doppia cifra per alcuni anni mentre adesso è vera recessione.Le limitazioni croniche del Brasile lo hanno portato, ancora una volta, a non dar seguito al lungo periodo di sviluppo economico.Dopo un decennio di crescita sostenuta, ormai è ufficiale: il Brasile ha smesso di crescere. L’Instituto Brasiliano di Statistica ha recentemente comunicato che nel 2014 il suo pil è cresciuto solo dello 0,1%, una distanza siderale dal 7,5% registrato nel 2010. Anche le potenze emergenti non sfuggono alla grande recessione.Il rallentamento non è stato improvviso.
Dal 2011 al 2013 il pil brasiliano ha infatti registrato timide espansioni, rispettivamente del 2,7%, 1% e 2,5%, molto lontane dai ritmi del decennio 2000-2010, quando, pur dovendo affrontare due crisi finanziarie internazionali, la crescita media era stata del 3,7% all’anno.Il governo della presidente Dilma Rousseff ha finora cercato di minimizzare le deludenti performance economiche. Ma all’annuncio dei dati anche l’esecutivo ha dovuto ammettere che il paese è in una situazione complessa.I dati negativi hanno portato la Presidentessa a promettere un cambio di passo e qualche modifica nella squadra di governo. Spicca tra queste la scelta del nuovo ministro dell’Economia: si tratta di Joaquim Levy un esperto dalle idee molto ortodosse, che riesce a mandare su tutte le furie i parlamentari del Partido dos Trabalhadores (Pt) ogni volta che dichiara le sue intenzioni di modificare la politica economica nazionale.Un chiaro segnale agli operatori del mercato, che ormai a cadenza mensile continuano a rivedere al ribasso le prospettive di crescita del Brasile per il 2015. Secondo la Confederazione nazionale delle imprese quest’anno il pil registrerà una contrazione di circa l’1,2%.
Una recessione in piena regola, con un crollo della produzione industriale dell’8% nel 2014 rispetto al 2008, che sta provocando conseguenze molto gravi sia sul fronte della disoccupazione salita fino al 9%.Il decennio di forte crescita, conciso con l’amministrazione Lula, non é stato sfruttato dal Brasile per rendere più efficiente la sua economia, aprirsi alla concorrenza internazionale, realizzare le infrastrutture indispensabili, investire in capitale umano, aumentare la produttività e la competitività complessiva del sistema paese. Il governo ha ritenuto che usando la leva pubblica per stimolare i consumi gli investimenti privati sarebbero naturalmente seguiti. Non è successo. Il risultato è un’inflazione da domanda, dovuta alla carenza di prodotti.In un primo momento le misure espansive del credito e delle spese del governo hanno contribuito a evitare che il Brasile venisse colpito duramente dalla crisi internazionale del 2008. Tuttavia, oggi questo modello sembra aver finito la sua forza propulsiva. Le misure di stimolo avrebbero dovuto essere interrotte quando l’economia brasiliana ha iniziato a riprendersi, nel 2010. Se il governo avesse rapidamente fatto marcia indietro per concentrarsi sul surplus fiscale i tassi di interesse e l’inflazione sarebbero oggi più bassi e il Brasile crescerebbe di più.
Il Brasile era diventato la prima economia latinoamericana ma da alcuni mesi è in atto una sorta di regressione generale con lo stop della crescita del PIL ed un aumento del tasso di disoccupazione. La presidente neo eletta Dilma Rousseff dice di aver esaurito le misure possibili per il rilancio e sembra avere ragione. Crescite del pil repentine addirittura a doppia cifra per alcuni anni mentre adesso è vera recessione.Le limitazioni croniche del Brasile lo hanno portato, ancora una volta, a non dar seguito al lungo periodo di sviluppo economico.Dopo un decennio di crescita sostenuta, ormai è ufficiale: il Brasile ha smesso di crescere. L’Instituto Brasiliano di Statistica ha recentemente comunicato che nel 2014 il suo pil è cresciuto solo dello 0,1%, una distanza siderale dal 7,5% registrato nel 2010. Anche le potenze emergenti non sfuggono alla grande recessione.Il rallentamento non è stato improvviso.
Dal 2011 al 2013 il pil brasiliano ha infatti registrato timide espansioni, rispettivamente del 2,7%, 1% e 2,5%, molto lontane dai ritmi del decennio 2000-2010, quando, pur dovendo affrontare due crisi finanziarie internazionali, la crescita media era stata del 3,7% all’anno.Il governo della presidente Dilma Rousseff ha finora cercato di minimizzare le deludenti performance economiche. Ma all’annuncio dei dati anche l’esecutivo ha dovuto ammettere che il paese è in una situazione complessa.I dati negativi hanno portato la Presidentessa a promettere un cambio di passo e qualche modifica nella squadra di governo. Spicca tra queste la scelta del nuovo ministro dell’Economia: si tratta di Joaquim Levy un esperto dalle idee molto ortodosse, che riesce a mandare su tutte le furie i parlamentari del Partido dos Trabalhadores (Pt) ogni volta che dichiara le sue intenzioni di modificare la politica economica nazionale.Un chiaro segnale agli operatori del mercato, che ormai a cadenza mensile continuano a rivedere al ribasso le prospettive di crescita del Brasile per il 2015. Secondo la Confederazione nazionale delle imprese quest’anno il pil registrerà una contrazione di circa l’1,2%.
Una recessione in piena regola, con un crollo della produzione industriale dell’8% nel 2014 rispetto al 2008, che sta provocando conseguenze molto gravi sia sul fronte della disoccupazione salita fino al 9%.Il decennio di forte crescita, conciso con l’amministrazione Lula, non é stato sfruttato dal Brasile per rendere più efficiente la sua economia, aprirsi alla concorrenza internazionale, realizzare le infrastrutture indispensabili, investire in capitale umano, aumentare la produttività e la competitività complessiva del sistema paese. Il governo ha ritenuto che usando la leva pubblica per stimolare i consumi gli investimenti privati sarebbero naturalmente seguiti. Non è successo. Il risultato è un’inflazione da domanda, dovuta alla carenza di prodotti.In un primo momento le misure espansive del credito e delle spese del governo hanno contribuito a evitare che il Brasile venisse colpito duramente dalla crisi internazionale del 2008. Tuttavia, oggi questo modello sembra aver finito la sua forza propulsiva. Le misure di stimolo avrebbero dovuto essere interrotte quando l’economia brasiliana ha iniziato a riprendersi, nel 2010. Se il governo avesse rapidamente fatto marcia indietro per concentrarsi sul surplus fiscale i tassi di interesse e l’inflazione sarebbero oggi più bassi e il Brasile crescerebbe di più.
Siria.Assad prepara il contrattacco.
di Ilenia Marini
Il presidente siriano intende riprendersi le sue città.
In Siria la situazione resta sempre di estremo pericolo.Mentre gli USA di Obama si interrogano su eventuali modifiche inerenti il metodo di lotta anti ISIS ipotizzando aiuti militari più massicci verso i sunniti e i peshmerga, sui campi di battaglia le forze si organizzano e l'esercito siriano prepara vere offensive per riprendersi le roccaforti recentemente cadute nelle mani dei terroristi,in particolare la città di Palmira.L'esercito di Damasco - secondo quanto riferiscono fonti locali citate dai media americani - starebbe in queste ore dispiegando le sue truppe vicino all'antica città patrimonio dell'Unesco, pronto a sferrare l'attacco. Le notizie che arrivano da Palmira sono terrificanti, con esecuzioni di massa da parte dei jihadisti che non risparmiano nemmeno i bambini. Le forze di Assad inoltre potrebbero contare su aiuti diretti anche da parte delle milizie sciite libanesi Hezbollah, che avrebbero promesso un maggior coinvolgimento al fianco dell'esercito regolare siriano.
Sul fronte iracheno, ugualmente, le forze regolari di Baghdad si sarebbero radunate a circa 25 chilometri da Ramadi anche loro in attesa di sferrare il contrattacco, con l'obiettivo di riprendere in pochi giorni - come assicurato dal premier al Abadi - la città.Città che intanto è sotto il fuoco dei raid aerei della coalizione guidata dagli Usa e dalla quale - secondo le Nazioni Unite - sono almeno 55 mila le persone in fuga, la maggior parte verso Baghdad. In campo il personale di varie agenzie Onu che sta cercando il più possibile di dare sostegno alle circa 9 mila famiglie in marcia. Intanto nelle ultime ore si sono intensificati i raid aerei delle forze della coalizione guidata dagli Usa sia in Siria che in Iraq: i bombardamenti sono stati circa 15 in meno di 24 ore tra sabato e domenica, come ha riferito il Dipartimento di stato americano.
In particolare sulle roccaforti e le postazioni dell'Isis in Siria gli attacchi aerei sono stati 10: per nove volte le forze della coalizione hanno colpito la zona di Hasakah, nel nordest del Paese, distruggendo postazioni di combattimento e veicoli. Due altri raid sono stati effettuati su Kobane. In Iraq invece gli attacchi aerei sono stati 14, portati a termine con l'approvazione del ministero della Difesa iracheno, tra questi ben otto hanno coinvolto le popolose città di Mosul e Ramadi.
In Siria la situazione resta sempre di estremo pericolo.Mentre gli USA di Obama si interrogano su eventuali modifiche inerenti il metodo di lotta anti ISIS ipotizzando aiuti militari più massicci verso i sunniti e i peshmerga, sui campi di battaglia le forze si organizzano e l'esercito siriano prepara vere offensive per riprendersi le roccaforti recentemente cadute nelle mani dei terroristi,in particolare la città di Palmira.L'esercito di Damasco - secondo quanto riferiscono fonti locali citate dai media americani - starebbe in queste ore dispiegando le sue truppe vicino all'antica città patrimonio dell'Unesco, pronto a sferrare l'attacco. Le notizie che arrivano da Palmira sono terrificanti, con esecuzioni di massa da parte dei jihadisti che non risparmiano nemmeno i bambini. Le forze di Assad inoltre potrebbero contare su aiuti diretti anche da parte delle milizie sciite libanesi Hezbollah, che avrebbero promesso un maggior coinvolgimento al fianco dell'esercito regolare siriano.
Sul fronte iracheno, ugualmente, le forze regolari di Baghdad si sarebbero radunate a circa 25 chilometri da Ramadi anche loro in attesa di sferrare il contrattacco, con l'obiettivo di riprendere in pochi giorni - come assicurato dal premier al Abadi - la città.Città che intanto è sotto il fuoco dei raid aerei della coalizione guidata dagli Usa e dalla quale - secondo le Nazioni Unite - sono almeno 55 mila le persone in fuga, la maggior parte verso Baghdad. In campo il personale di varie agenzie Onu che sta cercando il più possibile di dare sostegno alle circa 9 mila famiglie in marcia. Intanto nelle ultime ore si sono intensificati i raid aerei delle forze della coalizione guidata dagli Usa sia in Siria che in Iraq: i bombardamenti sono stati circa 15 in meno di 24 ore tra sabato e domenica, come ha riferito il Dipartimento di stato americano.
In particolare sulle roccaforti e le postazioni dell'Isis in Siria gli attacchi aerei sono stati 10: per nove volte le forze della coalizione hanno colpito la zona di Hasakah, nel nordest del Paese, distruggendo postazioni di combattimento e veicoli. Due altri raid sono stati effettuati su Kobane. In Iraq invece gli attacchi aerei sono stati 14, portati a termine con l'approvazione del ministero della Difesa iracheno, tra questi ben otto hanno coinvolto le popolose città di Mosul e Ramadi.
L'ISIS adesso avanza senza sosta.
di Ilenia Marini
Lo Stato Islamico porta avanti la sua offensiva militare.
Giorni davvero preoccupanti per la questione medio-orientale.In queste ore la città siriana di Palmira nella zona centrale del paese arabo è invasa dalle forze terroristiche dello Stato Islamico ISIS e sul palazzo governativo di Ramadi al confine iracheno sventola la bandiera nera del califfato a simboleggiare il consolidamento del dominio jihadista a est e a ovest della zona. A Palmira, gioiello archeologico, patrimonio dell’Unesco e noto per le sue maestose rovine romane, l’Isis è entrato nel museo locale dal quale il governo aveva però in precedenza portato via preziosi manufatti, almeno quelli trasportabili. Sui social media sono apparse foto pubblicate da account solidali con l’Isis di miliziani che issano la bandiera nera sull’antica cittadella che sovrasta Palmira e le rovine. «Attacchi barbarici» li definisce il Consiglio di sicurezza dell’Onu che condanna con forza la violenta occupazione di Palmira.
Da Baghdad, fonti del ministero della difesa assicurano che militari, truppe speciali di polizia e brigate di miliziani sunniti si stanno ammassando nella caserma di Habbaniya, a est di Ramadi, per preparare la controffensiva contro il capoluogo di Anbar. Sempre dalla capitale irachena assicurano che le forze governative e i loro alleati miliziani sciiti hanno invece ripreso oggi il controllo di Hussiba, località minore situata ad Anbar e lungo la direttrice Ramadi-Baghdad. Più volte il premier iracheno Haidar al Abadi ha assicurato che Ramadi e l’intera regione di Anbar, confinante con la Siria, saranno riportate sotto il controllo governativo. Analoghi proclami sono stati pronunciati nei mesi scorsi quando si preparava il terreno all’attesa campagna per la liberazione di Mosul, seconda città dell’Iraq e conquistata dall’Isis circa un anno fa.
Dall’interno di Ramadi giungono testimonianze di rastrellamenti casa per casa che proseguono da giorni da parte dei jihadisti alla ricerca di poliziotti, soldati o rappresentanti del governo centrale, considerato «corrotto» e «apostata». La strada che collega Damasco e Homs con l’est siriano è ormai controllata in gran parte dall’Isis. Dal nord-ovest siriano sono intanto giunti nuovi dettagli sui sanguinosi scontri che nelle ultime ore hanno visto confrontarsi militari governativi con miliziani anti-regime e loro alleati qaedisti.Sembra davvero che il califfato stia portando avanti una grande offensiva senza precedenti.La Comunità Internazionale non può più stare ferma a guardare.
Giorni davvero preoccupanti per la questione medio-orientale.In queste ore la città siriana di Palmira nella zona centrale del paese arabo è invasa dalle forze terroristiche dello Stato Islamico ISIS e sul palazzo governativo di Ramadi al confine iracheno sventola la bandiera nera del califfato a simboleggiare il consolidamento del dominio jihadista a est e a ovest della zona. A Palmira, gioiello archeologico, patrimonio dell’Unesco e noto per le sue maestose rovine romane, l’Isis è entrato nel museo locale dal quale il governo aveva però in precedenza portato via preziosi manufatti, almeno quelli trasportabili. Sui social media sono apparse foto pubblicate da account solidali con l’Isis di miliziani che issano la bandiera nera sull’antica cittadella che sovrasta Palmira e le rovine. «Attacchi barbarici» li definisce il Consiglio di sicurezza dell’Onu che condanna con forza la violenta occupazione di Palmira.
Da Baghdad, fonti del ministero della difesa assicurano che militari, truppe speciali di polizia e brigate di miliziani sunniti si stanno ammassando nella caserma di Habbaniya, a est di Ramadi, per preparare la controffensiva contro il capoluogo di Anbar. Sempre dalla capitale irachena assicurano che le forze governative e i loro alleati miliziani sciiti hanno invece ripreso oggi il controllo di Hussiba, località minore situata ad Anbar e lungo la direttrice Ramadi-Baghdad. Più volte il premier iracheno Haidar al Abadi ha assicurato che Ramadi e l’intera regione di Anbar, confinante con la Siria, saranno riportate sotto il controllo governativo. Analoghi proclami sono stati pronunciati nei mesi scorsi quando si preparava il terreno all’attesa campagna per la liberazione di Mosul, seconda città dell’Iraq e conquistata dall’Isis circa un anno fa.
Dall’interno di Ramadi giungono testimonianze di rastrellamenti casa per casa che proseguono da giorni da parte dei jihadisti alla ricerca di poliziotti, soldati o rappresentanti del governo centrale, considerato «corrotto» e «apostata». La strada che collega Damasco e Homs con l’est siriano è ormai controllata in gran parte dall’Isis. Dal nord-ovest siriano sono intanto giunti nuovi dettagli sui sanguinosi scontri che nelle ultime ore hanno visto confrontarsi militari governativi con miliziani anti-regime e loro alleati qaedisti.Sembra davvero che il califfato stia portando avanti una grande offensiva senza precedenti.La Comunità Internazionale non può più stare ferma a guardare.
Kabul.Strage talebana in un hotel.
di Ilenia Marini
Scorre ancora sangue innocente per le strade della capitale afghana.
Ieri le terre afghane sono state di nuovo insanguinate dai terroristi talebani.La città di Kabul ha subito l'ennesimo sfregio.Un vero massacro con ben 14 persone rimaste uccise ell’attacco di un commando armato ad un albergo molto frequentato da stranieri nella capitale dell’Afghanistan. Tra le vittime c’è anche un italiano, come conferma anche la Farnesina. Che non commenta invece la notizia di alcuni media locali, secondo cui i connazionali morti sarebbero due. Tra le vittime, 9 stranieri tra i quali anche uno statunitense e quattro indiani. I taleban afghani hanno rivendicato l’incursione e l’assedio alla Guest House Park Plaza, durato diverse ore e avvenuto mentre gli ospiti nell’hotel erano in giardino in attesa di un concerto di un noto cantante locale.
Il portavoce dei taleban, Zabihullah Mujahid, in una e-mail inviata ai media ha detto che il gruppo ha preso di mira il residence perché frequentato da stranieri, tra cui statunitensi. È stata una missione suicida di uno dei combattenti: l’attacco è stato accuratamente pianificato contro una festa a cui partecipavano persone importanti, tra i quali americani, hanno fatto sapere i taleban in un comunicato. Nella zona dell’attacco, che ha causato anche diversi feriti, si trovano anche un complesso delle Nazioni Unite, varie ambasciate e diverse foresterie.
L’assalto rientrerebbe nell’«offensiva di primavera» annunciata il 24 aprile dai talebani, quando minacciarono attacchi contro gli «occupanti stranieri», le loro basi militari e il governo «fantoccio» di Kabul. Il nome scelto quest’anno per l’offensiva è «Azm», ovvero «perseveranza, determinazione». Le forze Nato hanno concluso a dicembre la missione di combattimento in Afghanistan ed è la prima volta che le forze di sicurezza afghane si trovano a fronteggiare i talebani senza il pieno appoggio dei militari dell’Alleanza. Con la decisione degli Usa di rallentare il ritiro, nel Paese martoriato da decenni di guerre restano comunque 12.500 soldati stranieri, la gran parte statunitensi, con scopi limitati al solo addestramento delle forze armate afghane.
Ieri le terre afghane sono state di nuovo insanguinate dai terroristi talebani.La città di Kabul ha subito l'ennesimo sfregio.Un vero massacro con ben 14 persone rimaste uccise ell’attacco di un commando armato ad un albergo molto frequentato da stranieri nella capitale dell’Afghanistan. Tra le vittime c’è anche un italiano, come conferma anche la Farnesina. Che non commenta invece la notizia di alcuni media locali, secondo cui i connazionali morti sarebbero due. Tra le vittime, 9 stranieri tra i quali anche uno statunitense e quattro indiani. I taleban afghani hanno rivendicato l’incursione e l’assedio alla Guest House Park Plaza, durato diverse ore e avvenuto mentre gli ospiti nell’hotel erano in giardino in attesa di un concerto di un noto cantante locale.
Il portavoce dei taleban, Zabihullah Mujahid, in una e-mail inviata ai media ha detto che il gruppo ha preso di mira il residence perché frequentato da stranieri, tra cui statunitensi. È stata una missione suicida di uno dei combattenti: l’attacco è stato accuratamente pianificato contro una festa a cui partecipavano persone importanti, tra i quali americani, hanno fatto sapere i taleban in un comunicato. Nella zona dell’attacco, che ha causato anche diversi feriti, si trovano anche un complesso delle Nazioni Unite, varie ambasciate e diverse foresterie.
L’assalto rientrerebbe nell’«offensiva di primavera» annunciata il 24 aprile dai talebani, quando minacciarono attacchi contro gli «occupanti stranieri», le loro basi militari e il governo «fantoccio» di Kabul. Il nome scelto quest’anno per l’offensiva è «Azm», ovvero «perseveranza, determinazione». Le forze Nato hanno concluso a dicembre la missione di combattimento in Afghanistan ed è la prima volta che le forze di sicurezza afghane si trovano a fronteggiare i talebani senza il pieno appoggio dei militari dell’Alleanza. Con la decisione degli Usa di rallentare il ritiro, nel Paese martoriato da decenni di guerre restano comunque 12.500 soldati stranieri, la gran parte statunitensi, con scopi limitati al solo addestramento delle forze armate afghane.
Yemen.Bombe arabe sulle città.
di Ilenia Marini
Piovono ordigni e morte nel paese yemenita.
Da circa cinque giorni l'esercito arabo sta riempiendo di bombe i cieli yemeniti e ieri sembra aver costretto i ribelli houthi ad accettare l’offerta di un cessate il fuoco a partire da martedì. In Yemen era da giorni che un diluvio di fuoco si stava riversando sulle città principali.Il colonnello Sharaf Luqman, portavoce dei ribelli di origine sciita che in febbraio hanno rovesciato il presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi, che ha poi chiesto aiuto alla Lega Araba., ha sottolineato che i suoi sono pronti a rispettare la tregua ma in caso di violazioni ugualmente pronti a riprendere le armi.
La scelta diplomatica dei ribelli è arrivata dopo la terza notte consecutiva di pesanti bombardamenti dell’aviazione di Riad sulla regione confinante di Saada, roccaforte degli houthi. Almeno 100 attacchi aerei sono avvenuti solo nelle ultime 12 ore. Le milizie dell’ex presidente Ali Saleh, alleate dei ribelli, sono state le prime a far sapere di essere pronte ad accettare la proposta di tregua.
L’Onu critica intanto Riad per i troppi civili morti, facendo presente che le vittime sarebbero almeno 1400 dall’inizio delle operazioni lo scorso 26 marzo, ma i militari sauditi replicano che spesso gli houthi si nascondono fra i civili, per questo ci sono vittime nella popolazione. I raid aerei hanno demolito anche la residenza dell’ex presidente Saleh. Riad offre la tregua a partire da martedì, alla vigilia dell’inizio del summit a Camp David fra il presidente Usa Barack Obama e i leader del “Consiglio di Cooperazione del Golfo” a cominciare da re Salman, nuovo sovrano del segno wahabita.
Da circa cinque giorni l'esercito arabo sta riempiendo di bombe i cieli yemeniti e ieri sembra aver costretto i ribelli houthi ad accettare l’offerta di un cessate il fuoco a partire da martedì. In Yemen era da giorni che un diluvio di fuoco si stava riversando sulle città principali.Il colonnello Sharaf Luqman, portavoce dei ribelli di origine sciita che in febbraio hanno rovesciato il presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi, che ha poi chiesto aiuto alla Lega Araba., ha sottolineato che i suoi sono pronti a rispettare la tregua ma in caso di violazioni ugualmente pronti a riprendere le armi.
La scelta diplomatica dei ribelli è arrivata dopo la terza notte consecutiva di pesanti bombardamenti dell’aviazione di Riad sulla regione confinante di Saada, roccaforte degli houthi. Almeno 100 attacchi aerei sono avvenuti solo nelle ultime 12 ore. Le milizie dell’ex presidente Ali Saleh, alleate dei ribelli, sono state le prime a far sapere di essere pronte ad accettare la proposta di tregua.
L’Onu critica intanto Riad per i troppi civili morti, facendo presente che le vittime sarebbero almeno 1400 dall’inizio delle operazioni lo scorso 26 marzo, ma i militari sauditi replicano che spesso gli houthi si nascondono fra i civili, per questo ci sono vittime nella popolazione. I raid aerei hanno demolito anche la residenza dell’ex presidente Saleh. Riad offre la tregua a partire da martedì, alla vigilia dell’inizio del summit a Camp David fra il presidente Usa Barack Obama e i leader del “Consiglio di Cooperazione del Golfo” a cominciare da re Salman, nuovo sovrano del segno wahabita.
Arabia Saudita.Vento di grandi novità.
di Ilenia Marini
Il nuovo re saudita vira verso la modernità politica.
Negli ultimi mesi il Regno Saudita ha mostrato non pochi segni di instabilità poltica ed istituzionale.La Casa reale saudita è stata caratterizzata da fragilità interna e un esempio recente riguarda re Salman,succeduto a gennaio all'anziano predecessore re Abdullah.Nei suoi primi atti ha mostrato una forte energia, una determinazione e una visione strategica assai poco compatibile con l'effige di ultra-conservatorismo del regno saudita.Certo, ha inaugurato il suo regno con la tradizionale regalia ai suoi sudditi, ma ha anche effettuato un grande rimpasto di governo e ha creato nuovi organismi collegiali chiamati a coadiuvarne l’azione esecutiva.
Insomma sta tentando di ricollocare l'Arabia Saudita nel contesto geo-politico del medio oriente.Inoltre ha condannato il terrorismo yemenita,ha dato appoggio incondizionato alle Nazioni Unite e economicamente si è rivolto verso i colossi dell’Est asiatico.
Tutte cose che fanno credere in una svolta in chiave moderna del paese.Il re Salman negli ultimi giorni ha poi compiuto cambiamenti ancor più importanti.In primis ha posto al vertice del Ministero degli Esteri Adel Al Jubeir, un brillante diplomatico 50enne che raccoglie un’ingombrante eredità, soprattutto nei rapporti con mondo arabo e islamico, e che avrà nella sua lucida assertività e nei suoi legami con l’Occidente, Usa in testa, ma anche Europa, le sue azioni più remunerative.Adel al Jubeir non appartiene alla Casa reale.Con lui la squadra degli uomini di governo “laici” si incrementa significativamente.Infine al Salman ha scelto suo figlio trentenne come suo nuovo vice principe ereditario.Vento nuovo e soprattutto laico in un paese strategicamente fondamentale per le sorti della zona medio-orientale.
Negli ultimi mesi il Regno Saudita ha mostrato non pochi segni di instabilità poltica ed istituzionale.La Casa reale saudita è stata caratterizzata da fragilità interna e un esempio recente riguarda re Salman,succeduto a gennaio all'anziano predecessore re Abdullah.Nei suoi primi atti ha mostrato una forte energia, una determinazione e una visione strategica assai poco compatibile con l'effige di ultra-conservatorismo del regno saudita.Certo, ha inaugurato il suo regno con la tradizionale regalia ai suoi sudditi, ma ha anche effettuato un grande rimpasto di governo e ha creato nuovi organismi collegiali chiamati a coadiuvarne l’azione esecutiva.
Insomma sta tentando di ricollocare l'Arabia Saudita nel contesto geo-politico del medio oriente.Inoltre ha condannato il terrorismo yemenita,ha dato appoggio incondizionato alle Nazioni Unite e economicamente si è rivolto verso i colossi dell’Est asiatico.
Tutte cose che fanno credere in una svolta in chiave moderna del paese.Il re Salman negli ultimi giorni ha poi compiuto cambiamenti ancor più importanti.In primis ha posto al vertice del Ministero degli Esteri Adel Al Jubeir, un brillante diplomatico 50enne che raccoglie un’ingombrante eredità, soprattutto nei rapporti con mondo arabo e islamico, e che avrà nella sua lucida assertività e nei suoi legami con l’Occidente, Usa in testa, ma anche Europa, le sue azioni più remunerative.Adel al Jubeir non appartiene alla Casa reale.Con lui la squadra degli uomini di governo “laici” si incrementa significativamente.Infine al Salman ha scelto suo figlio trentenne come suo nuovo vice principe ereditario.Vento nuovo e soprattutto laico in un paese strategicamente fondamentale per le sorti della zona medio-orientale.
Pakistan.Nella culla del terrorismo islamico.
di Ilenia Marini
I gruppi talebani si evolvono pericolosamente in direzione Isis
Il Pakistan da alcuni anni è uno stato sotto osservazione.Dopo la sanguinosa strage di Peshawar, il parlamento ha conferito pieni poteri all’esercito in materia di terrorismo. Nonostante questo però proliferano i gruppi islamisti che si sono federati e aiutanol'Isis a guadagnare terreno.Ahmed Rashid li ha definiti i nuovi taliban. Forse è solo una delle tante frasi ad effetto anche perchè tra talebani e Isis permangono forti differenze strategiche e ideologiche. Ma senz’altro l’Is e i taliban hanno in comune parecchie cose.Alcune tecniche di combattimento e di guerriglia, ad esempio. L’uso delirante ma mirato dei media e del Web e il vezzo di pubblicare video che mostrano scene raccapriccianti firmate dalla premiata macelleria del terrore.
Molto spesso però in Pakistan le notizie in ambito terroristico svaniscono nel nulla,in quel nulla eterno che somiglia molto al fiancheggiamento.Mentre l’attenzione del mondo è da molti, troppi mesi concentrata sulla zona Siria-Iraq, nella parte ad est dove si dice che la guerra al terrore sia stata vinta e dove la democrazia è stata regalata all'Afghanistan,il Pakistan resta un paese destabilizzato ed il califfato comincia a muovere le sue pedine.Non c'è il rischio imminente che il Pakistan, dicono gli esperti, rischi di trasformarsi in una succursale dell’Is,ma di sicuro sta diventando, o è già diventato, una sorta di supermercato del jihād da cui i fautori dell’internazionale del terrore possono fare shopping a piene mani.
Da alcuni mesi infatti i primi opuscoli a firma Is, con tanto di bandiere nere sulla copertina, sono comparsi anche a Peshawar e nei campi di rifugiati afghani al confine tra Pakistan e Afghanistan. Gli opuscoli, stampati in lingua dari e in pashtun, annunciavano la creazione dello Stato Islamico e chiamavano al jihād i gruppi locali, invocando l’unità di tutti i musulmani e la creazione di un califfato che parte dal Pakistan per arrivare in Siria e in Iraq.Scritte inneggianti al califfato sono poi comparse sui muri di tutte le principali città pakistane, Lahore in testa. Secondo fonti della polizia e dell’intelligence, molte cellule locali starebbero evolvendosi in direzione Isis nelle strutture usate dai membri del network Haqqani.Il rischio quindi è diventato davvero concreto.
Il Pakistan da alcuni anni è uno stato sotto osservazione.Dopo la sanguinosa strage di Peshawar, il parlamento ha conferito pieni poteri all’esercito in materia di terrorismo. Nonostante questo però proliferano i gruppi islamisti che si sono federati e aiutanol'Isis a guadagnare terreno.Ahmed Rashid li ha definiti i nuovi taliban. Forse è solo una delle tante frasi ad effetto anche perchè tra talebani e Isis permangono forti differenze strategiche e ideologiche. Ma senz’altro l’Is e i taliban hanno in comune parecchie cose.Alcune tecniche di combattimento e di guerriglia, ad esempio. L’uso delirante ma mirato dei media e del Web e il vezzo di pubblicare video che mostrano scene raccapriccianti firmate dalla premiata macelleria del terrore.
Molto spesso però in Pakistan le notizie in ambito terroristico svaniscono nel nulla,in quel nulla eterno che somiglia molto al fiancheggiamento.Mentre l’attenzione del mondo è da molti, troppi mesi concentrata sulla zona Siria-Iraq, nella parte ad est dove si dice che la guerra al terrore sia stata vinta e dove la democrazia è stata regalata all'Afghanistan,il Pakistan resta un paese destabilizzato ed il califfato comincia a muovere le sue pedine.Non c'è il rischio imminente che il Pakistan, dicono gli esperti, rischi di trasformarsi in una succursale dell’Is,ma di sicuro sta diventando, o è già diventato, una sorta di supermercato del jihād da cui i fautori dell’internazionale del terrore possono fare shopping a piene mani.
Da alcuni mesi infatti i primi opuscoli a firma Is, con tanto di bandiere nere sulla copertina, sono comparsi anche a Peshawar e nei campi di rifugiati afghani al confine tra Pakistan e Afghanistan. Gli opuscoli, stampati in lingua dari e in pashtun, annunciavano la creazione dello Stato Islamico e chiamavano al jihād i gruppi locali, invocando l’unità di tutti i musulmani e la creazione di un califfato che parte dal Pakistan per arrivare in Siria e in Iraq.Scritte inneggianti al califfato sono poi comparse sui muri di tutte le principali città pakistane, Lahore in testa. Secondo fonti della polizia e dell’intelligence, molte cellule locali starebbero evolvendosi in direzione Isis nelle strutture usate dai membri del network Haqqani.Il rischio quindi è diventato davvero concreto.
Libia.La situazione si fa molto delicata.
di Ilenia Marini
Nello stato libico continua la crisi politico-militare.
In Libia si sta assistendo ad una forte escalation di violenza.Ieri un plotone di paracadutisti francesi si è posizionato al confine tra Niger e Libia, mentre un gruppo di aerei radar della Nato sono stati avvistati oltre in Sicilia.I media internazionali si chiedono se la guerra in Libia sia alle porte.Da settimane si dice e si scrive che la situazione in Libia sta precipitando ed infatti il flusso di migranti in arrivo verso l'Italia è enormemente aumentato,tanto da spingere lo stesso Obama a parlare di prossima emergenza Libia.Da almeno tre giorni nella città di Tripoli si sono intensificati gli scontri tra le milizie islamiche di Fajr Libya e le forze locali che appoggiano l’esercito nazionale libico.Nell'ultima settimana ci sono state 25 vittime accertate presso l'ospedale di Zawia e di decine di feriti nella zona intorno al quartiere di Tajoura.
Le milizie islamiche di Fajr Lybia non accettano il governo nazionale e per questo sono in armi spalleggiate dalle varie cellule di jihadisti della zona,hanno anche creato un governo autonomo ovviamente non riconosciuto dalla Comunità Internazionale.Il loro portavoce Mohamad Shami nega l’avanzata dell’esercito regolare libico, che guidato dal generale ex gheddafiano Haftar è impegnato nella riconquista di Tripoli, e ha ribadito il pieno controllo di Tajoura. L’escalation sarebbe iniziata a un posto di blocco, ma tanto a Tajoura quanto a Fashloom sono frequenti gli scontri a fuoco tra le due fazioni in piena guerra civile nonostante i tentativi della comunità internazionale e dei vicini Algeria e Marocco di far sedere i contendenti al tavolo negoziale. Il governo in esilio a Tobruk non è mai di fatto retrocesso dalla posizione di voler riconquistare Tripoli con la forza e i tentativi dei mediatori non hanno per ora prodotto nulla.
L’Unione Europa sta spingendo per dare alla Libia un governo di Unità con il quale eventualmente concordare operazioni di sicurezza e difesa con un mandato specifico Onu. Le ipotesi sono diverse, dal sostegno al monitoraggio dei cessate il fuoco locali con un contributo aereo della UE fino alla messa in sicurezza delle infrastrutture strategiche e delle frontiere libiche. Sono al vaglio della diplomazia anche operazioni di sorveglianza marittima che avrebbero il mandato di bloccare il contrabbando di armi e munizioni e monitorare le attività dei terroristi legati allo Stato Islamico. Quest’ultimo intervento interesserebbe la zona a sud e dovrebbe avere il placet anche di paesi vicini, primi fra tutti Tunisia e Egitto.Obama ha sottolineato la necessità di monitorare la vicenda libica e affidare a paesi come Italia e Francia il compito di guidare le operazioni di sicurezza nell'ex paese di Gheddafi.Resta comunque difficilissimo l'accordo tra le due principali fazioni in lotta, le forze islamiche di Tripoli e l'esercito regolare di Tobruk.
In Libia si sta assistendo ad una forte escalation di violenza.Ieri un plotone di paracadutisti francesi si è posizionato al confine tra Niger e Libia, mentre un gruppo di aerei radar della Nato sono stati avvistati oltre in Sicilia.I media internazionali si chiedono se la guerra in Libia sia alle porte.Da settimane si dice e si scrive che la situazione in Libia sta precipitando ed infatti il flusso di migranti in arrivo verso l'Italia è enormemente aumentato,tanto da spingere lo stesso Obama a parlare di prossima emergenza Libia.Da almeno tre giorni nella città di Tripoli si sono intensificati gli scontri tra le milizie islamiche di Fajr Libya e le forze locali che appoggiano l’esercito nazionale libico.Nell'ultima settimana ci sono state 25 vittime accertate presso l'ospedale di Zawia e di decine di feriti nella zona intorno al quartiere di Tajoura.
Le milizie islamiche di Fajr Lybia non accettano il governo nazionale e per questo sono in armi spalleggiate dalle varie cellule di jihadisti della zona,hanno anche creato un governo autonomo ovviamente non riconosciuto dalla Comunità Internazionale.Il loro portavoce Mohamad Shami nega l’avanzata dell’esercito regolare libico, che guidato dal generale ex gheddafiano Haftar è impegnato nella riconquista di Tripoli, e ha ribadito il pieno controllo di Tajoura. L’escalation sarebbe iniziata a un posto di blocco, ma tanto a Tajoura quanto a Fashloom sono frequenti gli scontri a fuoco tra le due fazioni in piena guerra civile nonostante i tentativi della comunità internazionale e dei vicini Algeria e Marocco di far sedere i contendenti al tavolo negoziale. Il governo in esilio a Tobruk non è mai di fatto retrocesso dalla posizione di voler riconquistare Tripoli con la forza e i tentativi dei mediatori non hanno per ora prodotto nulla.
L’Unione Europa sta spingendo per dare alla Libia un governo di Unità con il quale eventualmente concordare operazioni di sicurezza e difesa con un mandato specifico Onu. Le ipotesi sono diverse, dal sostegno al monitoraggio dei cessate il fuoco locali con un contributo aereo della UE fino alla messa in sicurezza delle infrastrutture strategiche e delle frontiere libiche. Sono al vaglio della diplomazia anche operazioni di sorveglianza marittima che avrebbero il mandato di bloccare il contrabbando di armi e munizioni e monitorare le attività dei terroristi legati allo Stato Islamico. Quest’ultimo intervento interesserebbe la zona a sud e dovrebbe avere il placet anche di paesi vicini, primi fra tutti Tunisia e Egitto.Obama ha sottolineato la necessità di monitorare la vicenda libica e affidare a paesi come Italia e Francia il compito di guidare le operazioni di sicurezza nell'ex paese di Gheddafi.Resta comunque difficilissimo l'accordo tra le due principali fazioni in lotta, le forze islamiche di Tripoli e l'esercito regolare di Tobruk.
Usa-Cuba.Iniziano le prove di disgelo.
di Ilenia Marini
Incontro storico a Panama tra Obama e Castro.
Ieri presso la città di Panama è iniziato il nuovo summit dell'Organizzazione degli Stati Americani (Osa) nel quale si attende unostorico incontro tra i presidentidiUsa e Cuba.L'evento è un vero importante passo per agevolare le operazioni di disgelo politico ed economico tra i due storici nemici.Obama potrebbe in quel caso anche annunciare la rimozione di Cuba dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo, ultimo ostacolo alla riapertura delle rispettive ambasciate e al riallacciamento di relazioni diplomatiche interrotte nel 1961.Papa Francesco si è detto felice del fatto e ha invocato al dialogo e alla collaborazione i due presidenti delle nazioni da decenni in antagonismo.
Il messaggio del Papa è stato letto al summit dal suo portavoce dinanzi ai 33 leader americani.Presso tale convegno si tratteranno tematiche molteplici in primis l'iniqua e l'ingiusta distribuzione delle risorse spesso fonte di conflitto e di violenza tra i popoli.Tutti sono consapevoli che la grande sfida del mondo è la globalizzazione ma questa ovviamente non deve portare a limitare la solidarietà tra i popoli.In attesa del vero incontro Usa-Cuba comunque ieri Raul Castro e Barak Obama si sono salutati con affetto nella cerimonia di apertura. Le immagini mostrano i due leader sorridenti e intenti a parlare con grande colloquialità.
Una stretta di mano storica, l'immagine che più di altre illustra il momento, la svolta, e rende concreto il processo di disgelo tra Stati Uniti a Cuba avviato lo scorso dicembre.Già da alcuni mesi gli Usa limitato i divieti economici verso Cuba e agevolato il turismo e la cooperazione con le aziende dell'Avana.Unico neo forse è stata la visita di Barack Obama con i dissidenti cubani che secondomolti ha irritato e non poco il presidente Cubano.I capi della delegazione cubana comunque sottolineano che già oggi potrebbe esserci il tanto invocato incontro, anche se non vi è certezza assoluta.Di sicuro dopo l'incontro si aprirà una nuovissima pagina nella storia dei rapporti Usa-Cuba.L'anacronistico scontro tra i due grandi blocchi sembrerebbe davvero finito.
Ieri presso la città di Panama è iniziato il nuovo summit dell'Organizzazione degli Stati Americani (Osa) nel quale si attende unostorico incontro tra i presidentidiUsa e Cuba.L'evento è un vero importante passo per agevolare le operazioni di disgelo politico ed economico tra i due storici nemici.Obama potrebbe in quel caso anche annunciare la rimozione di Cuba dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo, ultimo ostacolo alla riapertura delle rispettive ambasciate e al riallacciamento di relazioni diplomatiche interrotte nel 1961.Papa Francesco si è detto felice del fatto e ha invocato al dialogo e alla collaborazione i due presidenti delle nazioni da decenni in antagonismo.
Il messaggio del Papa è stato letto al summit dal suo portavoce dinanzi ai 33 leader americani.Presso tale convegno si tratteranno tematiche molteplici in primis l'iniqua e l'ingiusta distribuzione delle risorse spesso fonte di conflitto e di violenza tra i popoli.Tutti sono consapevoli che la grande sfida del mondo è la globalizzazione ma questa ovviamente non deve portare a limitare la solidarietà tra i popoli.In attesa del vero incontro Usa-Cuba comunque ieri Raul Castro e Barak Obama si sono salutati con affetto nella cerimonia di apertura. Le immagini mostrano i due leader sorridenti e intenti a parlare con grande colloquialità.
Una stretta di mano storica, l'immagine che più di altre illustra il momento, la svolta, e rende concreto il processo di disgelo tra Stati Uniti a Cuba avviato lo scorso dicembre.Già da alcuni mesi gli Usa limitato i divieti economici verso Cuba e agevolato il turismo e la cooperazione con le aziende dell'Avana.Unico neo forse è stata la visita di Barack Obama con i dissidenti cubani che secondomolti ha irritato e non poco il presidente Cubano.I capi della delegazione cubana comunque sottolineano che già oggi potrebbe esserci il tanto invocato incontro, anche se non vi è certezza assoluta.Di sicuro dopo l'incontro si aprirà una nuovissima pagina nella storia dei rapporti Usa-Cuba.L'anacronistico scontro tra i due grandi blocchi sembrerebbe davvero finito.
Kenya.Massacro jihadista 147 morti.
di Ilenia Marini
Gli Shabaab somali compiono un atto disumano in Kenya.
Giovedì altro assurdo massacro di cristiani in Kenya.Nel college dell' Università di Garissa un folle commando di Shabaab somali è penetrato nel campus alle prime ore del mattino e dopo aver eliminato le guardie private,armati di mitra Uzi si sono diretti nelle camerate e hanno radunato gli 800 studenti presenti.I musulmani sono stati divisi e liberati,mentre i cristiani sono stati messi al muro e giustiziati.Alla fine saranno 147 i cadaveri trovati a terra e 300 quelli sequestrati.Le forze di sicurezza però sono riusciti attraverso un blitz ad intervenire e ad uccidere i 5 attentatori.Secondo alcune testimonianze alcune delle vittime erano anche state decapitate,scene davvero orribili e disumane.
La polizia ha iniziato ad interrogare i suprestiti ma intanto il portavoce degli Shabaab, jihadisti somali, Sheikh Ali Mohamud, ha già rivendicato l’attacco alla “North-Eastern Garissa University” tramite un comunicato all'agenzia kenyota ATF.Anche il capodegli Shabaab ha affermato che i musulmani sono stati separati dagli infedeli cristiani e salvati.La propaganda jihadista ha dichiarato che l'atto va considerato un atto militare essendo il Kenya in guerra religiosa con la Somalia e dunque la gente somala avrebbe il compito di uccidere chiunque sia contro le regole degli Shabaab.L’ateneo del massacro è situato a circa 100 km dal confine somalo,ed è frequentato ogni anno da una media di 1000 studenti, inclusi molti somali immigrati in Kenya.
L’assalto all’ateneo è il più grave attacco terroristico avvenuto in Kenya dal 2012 quando proprio gli Shabaab assaltarono lo shopping center «Westgate» a Nairobi, uccidendo 77 persone. Gli Shabaab sono una fanatica cellula somala di Al Qaeda in Africa Orientale, sono impegnati in una violenta guerra civile in Somalia e combattono in Kenya dal 2011, quando Nairobi inviò le truppe nel Paese confinante per aiutare il governo a combatterli.
Giovedì altro assurdo massacro di cristiani in Kenya.Nel college dell' Università di Garissa un folle commando di Shabaab somali è penetrato nel campus alle prime ore del mattino e dopo aver eliminato le guardie private,armati di mitra Uzi si sono diretti nelle camerate e hanno radunato gli 800 studenti presenti.I musulmani sono stati divisi e liberati,mentre i cristiani sono stati messi al muro e giustiziati.Alla fine saranno 147 i cadaveri trovati a terra e 300 quelli sequestrati.Le forze di sicurezza però sono riusciti attraverso un blitz ad intervenire e ad uccidere i 5 attentatori.Secondo alcune testimonianze alcune delle vittime erano anche state decapitate,scene davvero orribili e disumane.
La polizia ha iniziato ad interrogare i suprestiti ma intanto il portavoce degli Shabaab, jihadisti somali, Sheikh Ali Mohamud, ha già rivendicato l’attacco alla “North-Eastern Garissa University” tramite un comunicato all'agenzia kenyota ATF.Anche il capodegli Shabaab ha affermato che i musulmani sono stati separati dagli infedeli cristiani e salvati.La propaganda jihadista ha dichiarato che l'atto va considerato un atto militare essendo il Kenya in guerra religiosa con la Somalia e dunque la gente somala avrebbe il compito di uccidere chiunque sia contro le regole degli Shabaab.L’ateneo del massacro è situato a circa 100 km dal confine somalo,ed è frequentato ogni anno da una media di 1000 studenti, inclusi molti somali immigrati in Kenya.
L’assalto all’ateneo è il più grave attacco terroristico avvenuto in Kenya dal 2012 quando proprio gli Shabaab assaltarono lo shopping center «Westgate» a Nairobi, uccidendo 77 persone. Gli Shabaab sono una fanatica cellula somala di Al Qaeda in Africa Orientale, sono impegnati in una violenta guerra civile in Somalia e combattono in Kenya dal 2011, quando Nairobi inviò le truppe nel Paese confinante per aiutare il governo a combatterli.
Nigeria.Boko Haram continua a crescere.
di Ilenia Marini
La situazione del terrorismo in Nigeria non accenna a migliorare.
Era il lontano 2009 quando Boko Haram lanciò il suo primo attacco terroristico verso il governo di Lagos.Oggi dopo sei anni la sua violenta azione rimane la più grande sfida per la sicurezza della Nigeria. Non ci sono dubbi che la lotta a questo sanguinario gruppo armato sarà uno dei principali obiettivi del nuovo esecutivo nigeriano che a breve nascerà.Ma una serie di dati sono importanti da ricordare: dal 2009 ad oggi il gruppo ha causato ben 13 mila morti e generato 1,5 milioni di sfollati. L’impatto delle sue operazioni di terrore ha sollevato seri interrogativi sulla capacità dello Stato nigeriano e dell’attuale amministrazione Jonathan di promuovere la sicurezza e il benessere dei cittadini.
Per il partito all’opposizione All Progressive Congress, questo è un punto chiave nella campagna contro il Partito democratico popolare al governo.In secondo luogo, è essenziale affrontare Boko Haram per fare in modo che vi siano le condizioni per garantire in Nigeria la libera vita democratica.In terzo luogo, diventa una sfida importante limitare la grande dispersione di abitanti provocata dagli attacchi di Boko Haram tra sfollati all’interno del paese e rifugiati all’estero.Il fallimento delle elezioni in alcuni Stati africani negli ultimi mesi potrebbe generare una grave crisi costituzionale perché alcune forze politiche nigeriane potrebbero rifiutare il risultato elettorale, a meno che il presidente non dichiari l’insurrezione in corso come una “guerra”, secondo la modalità prevista dalla Costituzione. La battaglia contro Boko Haram sembra durissima perchè il gruppo continua a fare proseliti.L'utilizzo dell’esercito è l’aspetto più importante degli sforzi governativi per contrastare il terrorismo islamico sul territorio.Anche se il portavoce di Jonathan aveva dichiarato che non si può negoziare con i “fantasmi”, un tentativo di raggiungere un accordo con i jihadisti a metà 2014 è fallito miseramente, quando si è scoperto che Abuja stava trattando con un gruppo di impostori.
Tuttavia, il governo nigeriano aveva optato per un approccio politico-mediatico piuttosto morbido verso l'Islam,approccio che non ha porta grandi risultati.Tale tattica adesso cambia e si volge verso la deradicalizzazione, la contro-radicalizzazione e la comunicazione strategica.Questo approccio potrebbe finalmente portare qualche risultato positivo in più e limitare la crescita terroristica. Il mese scorso infine è partito il Presidential Initiative on the North East (Pine), una specie di ambizioso Piano Marshall per la ripresa economica del Nord-Est africano colpito dall’insurrezione. I processi contro i militanti di Boko Haram sono aumentati così come la ristrutturazione delle scuole almajiri, che combinano l’insegnamento del Corano a metodi occidentali, con l'importante obiettivo di togliere dalla strada i bambini a rischio nella Nigeria settentrionale. Nel passato inoltre la presenza pericolosa di Boko Haram è stato un elemento problematico anche nelle relazioni tra la Nigeria e i suoi vicini. Ci sono state accuse reciproche per il fallimento della lotta alla minaccia del terrorismo. Tuttavia di recente ci sono stati accordi bilaterali tra la Nigeria e paesi come Camerun,Ciad e Niger allo scopo di alimentare la cooperazione e rendere migliore la lotta al terrore.Ad ogni modo, il rafforzamento della cooperazione regionale è un fattore decisivo per combattere e infine sconfiggere Boko Haram.
Era il lontano 2009 quando Boko Haram lanciò il suo primo attacco terroristico verso il governo di Lagos.Oggi dopo sei anni la sua violenta azione rimane la più grande sfida per la sicurezza della Nigeria. Non ci sono dubbi che la lotta a questo sanguinario gruppo armato sarà uno dei principali obiettivi del nuovo esecutivo nigeriano che a breve nascerà.Ma una serie di dati sono importanti da ricordare: dal 2009 ad oggi il gruppo ha causato ben 13 mila morti e generato 1,5 milioni di sfollati. L’impatto delle sue operazioni di terrore ha sollevato seri interrogativi sulla capacità dello Stato nigeriano e dell’attuale amministrazione Jonathan di promuovere la sicurezza e il benessere dei cittadini.
Per il partito all’opposizione All Progressive Congress, questo è un punto chiave nella campagna contro il Partito democratico popolare al governo.In secondo luogo, è essenziale affrontare Boko Haram per fare in modo che vi siano le condizioni per garantire in Nigeria la libera vita democratica.In terzo luogo, diventa una sfida importante limitare la grande dispersione di abitanti provocata dagli attacchi di Boko Haram tra sfollati all’interno del paese e rifugiati all’estero.Il fallimento delle elezioni in alcuni Stati africani negli ultimi mesi potrebbe generare una grave crisi costituzionale perché alcune forze politiche nigeriane potrebbero rifiutare il risultato elettorale, a meno che il presidente non dichiari l’insurrezione in corso come una “guerra”, secondo la modalità prevista dalla Costituzione. La battaglia contro Boko Haram sembra durissima perchè il gruppo continua a fare proseliti.L'utilizzo dell’esercito è l’aspetto più importante degli sforzi governativi per contrastare il terrorismo islamico sul territorio.Anche se il portavoce di Jonathan aveva dichiarato che non si può negoziare con i “fantasmi”, un tentativo di raggiungere un accordo con i jihadisti a metà 2014 è fallito miseramente, quando si è scoperto che Abuja stava trattando con un gruppo di impostori.
Tuttavia, il governo nigeriano aveva optato per un approccio politico-mediatico piuttosto morbido verso l'Islam,approccio che non ha porta grandi risultati.Tale tattica adesso cambia e si volge verso la deradicalizzazione, la contro-radicalizzazione e la comunicazione strategica.Questo approccio potrebbe finalmente portare qualche risultato positivo in più e limitare la crescita terroristica. Il mese scorso infine è partito il Presidential Initiative on the North East (Pine), una specie di ambizioso Piano Marshall per la ripresa economica del Nord-Est africano colpito dall’insurrezione. I processi contro i militanti di Boko Haram sono aumentati così come la ristrutturazione delle scuole almajiri, che combinano l’insegnamento del Corano a metodi occidentali, con l'importante obiettivo di togliere dalla strada i bambini a rischio nella Nigeria settentrionale. Nel passato inoltre la presenza pericolosa di Boko Haram è stato un elemento problematico anche nelle relazioni tra la Nigeria e i suoi vicini. Ci sono state accuse reciproche per il fallimento della lotta alla minaccia del terrorismo. Tuttavia di recente ci sono stati accordi bilaterali tra la Nigeria e paesi come Camerun,Ciad e Niger allo scopo di alimentare la cooperazione e rendere migliore la lotta al terrore.Ad ogni modo, il rafforzamento della cooperazione regionale è un fattore decisivo per combattere e infine sconfiggere Boko Haram.
Yemen.Altro massacro nelle moschee.
di Ilenia Marini
Grave strage nella città yemenita di Sanaa.
Lo Yemen sembra non avere pace.Un paese in ginocchio, flagellato anche da una guerra civile,ieri ha subito un sanguinoso attentato presso le moschee sciite di Badr e Hashoush, nella zona centrale di Sanaa.Una strage con ben 137 morti e circa 345 feriti. Secondo fonti locali i terroristi hanno utilizzato la stessa strategia: un primo attentatore si è fatto esplodere all’interno dell’edificio, mentre un secondo a bordo di un’autobomba è entrato in azione poco dopo per colpire i fedeli in fuga. Un quinto attentatore suicida, infine, non è riuscito a colpire a Saadah, altra roccaforte Houthi nel nord del paese, essendo stato ucciso prima di riuscire a farsi esplodere all’interno della moschea al Imam al Hadi. Due noti dirigenti dei ribelli houthi, sono rimasti gravemente feriti negli attentati. Morto un religioso legato al movimento, Murtada al-Maktouri.
Questo è il secondo atto terroristico subito dalla città Sanaa dall'inizio dell'anno, dopo che al-Qaeda il 7 gennaio scorso aveva colpito un'accademia di polizia uccidendo almeno 50 cadetti.Le due moschee non sono state scelte a caso ma sono luoghi molto frequentati dagli alti dirigenti e sostenitori degli Huthi, i ribelli sciiti che dal settembre scorso controllano Sanaa e che in gennaio hanno sciolto parlamento e governo. Gli Huthi, come le forze armate regolari, vengono presi di mira in attacchi e attentati compiuti da al Qaeda nello Yemen. Gli Usa li considerano la branca più pericolosa della rete terroristica a livello planetario.
Il doppio attentato è il seguito dei violenti scontri avutisi la settimana scorsa presso Aden, nel Sud del Paese, tra truppe fedeli rispettivamente al presidente Abed Rabbo Mansur Hadi e al suo predecessore Ali Abdullah Saleh. Hadi si è rifugiato a Aden, l'ex capitale dello Yemen del Sud, nel febbraio scorso, dopo essere fuggito da Sanaa, dove gli Huthi lo tenevano agli arresti domiciliari. Ieri Hadi è scampato a un raid aereo che ha colpito il palazzo presidenziale. Gli uomini della sicurezza hanno trasferito il presidente in un luogo sicuro dopo che l’edificio era stato bombardato.La filiale dell'ISIS in Yemen, denominata Wilayat al-Yemen, ha rivendicato ufficialmente la serie di attentati contro i ribelli houthi (sciiti), dopo che già nelle scorse ore sul web erano circolate le rivendicazioni di alcuni militanti vicini all’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi. Nel comunicato, diffuso si legge che i cinque kamikaze hanno colpito degli sciiti a Sanaa e uno a Saada. Secondo la nota dell'Isis sarebbero 70 i dirigenti sciiti morti negli attentati.Dato però da verificare ancora.
Lo Yemen sembra non avere pace.Un paese in ginocchio, flagellato anche da una guerra civile,ieri ha subito un sanguinoso attentato presso le moschee sciite di Badr e Hashoush, nella zona centrale di Sanaa.Una strage con ben 137 morti e circa 345 feriti. Secondo fonti locali i terroristi hanno utilizzato la stessa strategia: un primo attentatore si è fatto esplodere all’interno dell’edificio, mentre un secondo a bordo di un’autobomba è entrato in azione poco dopo per colpire i fedeli in fuga. Un quinto attentatore suicida, infine, non è riuscito a colpire a Saadah, altra roccaforte Houthi nel nord del paese, essendo stato ucciso prima di riuscire a farsi esplodere all’interno della moschea al Imam al Hadi. Due noti dirigenti dei ribelli houthi, sono rimasti gravemente feriti negli attentati. Morto un religioso legato al movimento, Murtada al-Maktouri.
Questo è il secondo atto terroristico subito dalla città Sanaa dall'inizio dell'anno, dopo che al-Qaeda il 7 gennaio scorso aveva colpito un'accademia di polizia uccidendo almeno 50 cadetti.Le due moschee non sono state scelte a caso ma sono luoghi molto frequentati dagli alti dirigenti e sostenitori degli Huthi, i ribelli sciiti che dal settembre scorso controllano Sanaa e che in gennaio hanno sciolto parlamento e governo. Gli Huthi, come le forze armate regolari, vengono presi di mira in attacchi e attentati compiuti da al Qaeda nello Yemen. Gli Usa li considerano la branca più pericolosa della rete terroristica a livello planetario.
Il doppio attentato è il seguito dei violenti scontri avutisi la settimana scorsa presso Aden, nel Sud del Paese, tra truppe fedeli rispettivamente al presidente Abed Rabbo Mansur Hadi e al suo predecessore Ali Abdullah Saleh. Hadi si è rifugiato a Aden, l'ex capitale dello Yemen del Sud, nel febbraio scorso, dopo essere fuggito da Sanaa, dove gli Huthi lo tenevano agli arresti domiciliari. Ieri Hadi è scampato a un raid aereo che ha colpito il palazzo presidenziale. Gli uomini della sicurezza hanno trasferito il presidente in un luogo sicuro dopo che l’edificio era stato bombardato.La filiale dell'ISIS in Yemen, denominata Wilayat al-Yemen, ha rivendicato ufficialmente la serie di attentati contro i ribelli houthi (sciiti), dopo che già nelle scorse ore sul web erano circolate le rivendicazioni di alcuni militanti vicini all’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi. Nel comunicato, diffuso si legge che i cinque kamikaze hanno colpito degli sciiti a Sanaa e uno a Saada. Secondo la nota dell'Isis sarebbero 70 i dirigenti sciiti morti negli attentati.Dato però da verificare ancora.
Iraq.L'offensiva anti Isis continua.
di Ilenia Marini
Le milizie irachene attaccano la città natale di Saddam.
Ieri le prime truppe irachene e alcune milizie sciite filo-iraniane sono entrate nei quartieri settentrionali della città di Tikrit, dove da almeno due settimane era in atto una violentissima battaglia strada per strada contro le truppe del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato Islamico (Isis) controllava interamente la città di Tikrit dallo scorso giugno e le forze irachene hanno deciso una vera offensiva allo scopo di aprire un varco verso la roccaforte di Mosul.L'esercito iracheno è stato rafforzato numericamente con ben 20mila soldati in più composti da una coalizione tra iracheni e iraniani, impegnati tutti contro l'Isis.
Ieri appunto hanno iniziato ad entrare nella zona di Qadisiyah, raggiungendo il più importante ospedale che si trova a breve distanza dal centro della città-roccaforte dei sunniti, già luogo natale del dittatore Saddam Hussein.Le milizie del califfato hanno cominciato ad indietreggiare riuscendo però a rallentare l’avanzata dei governativi grazie all'esplosione di numerosi ponti fatti detonare lungo le strade e con un frequente ricorso ai cecchini. Nei quartieri Sud e Ovest di Tikrit le difese dell’Isis continuano a tenere, respingendo gli assalti delle truppe irachene che purtroppo non sono sostenute dai raid aerei della coalizione internazionale.
I comandi Usa dalla base di Tampa affermano di non aver ricevuto richieste specifiche da parte di Baghdad ma l’impressione è che l’assenza della copertura aerea si leghi alla presenza, a fianco degli iracheni, di reparti di Guardie della Rivoluzione iraniane comandate dal generale Qassem Suleimani, capo della Forza Al Qods.Non a caso il generale americano Martin Dempsey, capo degli Stati Maggiori Congiunti, proprio di recente ha detto al Congresso che il coinvolgimento di milizie iraniane alleate dell’Iran desta preoccupazione in più Paesi del Medio Oriente come Libano, Siria, Iraq e Yemen.
Ieri le prime truppe irachene e alcune milizie sciite filo-iraniane sono entrate nei quartieri settentrionali della città di Tikrit, dove da almeno due settimane era in atto una violentissima battaglia strada per strada contro le truppe del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato Islamico (Isis) controllava interamente la città di Tikrit dallo scorso giugno e le forze irachene hanno deciso una vera offensiva allo scopo di aprire un varco verso la roccaforte di Mosul.L'esercito iracheno è stato rafforzato numericamente con ben 20mila soldati in più composti da una coalizione tra iracheni e iraniani, impegnati tutti contro l'Isis.
Ieri appunto hanno iniziato ad entrare nella zona di Qadisiyah, raggiungendo il più importante ospedale che si trova a breve distanza dal centro della città-roccaforte dei sunniti, già luogo natale del dittatore Saddam Hussein.Le milizie del califfato hanno cominciato ad indietreggiare riuscendo però a rallentare l’avanzata dei governativi grazie all'esplosione di numerosi ponti fatti detonare lungo le strade e con un frequente ricorso ai cecchini. Nei quartieri Sud e Ovest di Tikrit le difese dell’Isis continuano a tenere, respingendo gli assalti delle truppe irachene che purtroppo non sono sostenute dai raid aerei della coalizione internazionale.
I comandi Usa dalla base di Tampa affermano di non aver ricevuto richieste specifiche da parte di Baghdad ma l’impressione è che l’assenza della copertura aerea si leghi alla presenza, a fianco degli iracheni, di reparti di Guardie della Rivoluzione iraniane comandate dal generale Qassem Suleimani, capo della Forza Al Qods.Non a caso il generale americano Martin Dempsey, capo degli Stati Maggiori Congiunti, proprio di recente ha detto al Congresso che il coinvolgimento di milizie iraniane alleate dell’Iran desta preoccupazione in più Paesi del Medio Oriente come Libano, Siria, Iraq e Yemen.
Isis.Raid francese contro il Califfato.
di Ilenia Marini
Attacco francese presso le roccaforti dell'Isis.
Venerdì grazie ad un raid aereo dell'aereonautica francese al confine tra Siria e Iraq,sono state inflitte molte perdite ad un campo militare dell'Isis nelchiaro obiettivo di eliminare Abu Bakr al-Baghdadi, Califfo dello Stato Islamico. A dare la notizia è stata la tv araba «Al-Arabiya Al-Hadath», che ha raccontato come i jet francesi sarebbero partiti dalla nave militare De Gaulle in navigazione nel Golfo e avrebbero colpito cinque diversi punti abbattendo un campo militare e diversi edifici usati come depositi armi lungo il fiume Eufrate. L’obiettivo è partito a causa della notizia di un raduno di miliziani jihadisti a cui avrebbe dovuto partecipare anche Al-Baghdadi nella casa di un colonnello dell'Isis. Le vittime sarebbero almeno 17 uomini dello Stato Islamico mentre altri 29 sarebbero stati ricoverati in ospedali dell’area. L’attacco francese è stato violento e preciso nel chiaro scopo di indebolire la leadership dell'Isis come il re giordano Abdullah e il Segretario di Stato Usa, John Kerry avevano anticipato di recente.
Il blitz aereo inoltre sottolineacome il presidente francese François Hollande abbia optato per una politica estera decisionista e ferrea anche dopo il dramma della strage parigina presso la sede della rivista «Charlie Hebdo».Purtroppo non si hanno notizie sulla sorte di Al-Baghdadi che lo scorso settembre era già stato obiettivo di un raid aereo americano sempre nella regione siriana di Al-Qaim, dove l'Isis spesso si appoggia per agevolare il passaggio di uomini e mezzi fra i territori controllati in Iraq e in Siria. Al-Baghdadi finora è stato fortunato e furbo a sfuggire agli attacchi e agli attentati, grazie anche ad una esposizione mediatica molto limitata e da continui spostamenti per la sua sicurezza personale che, secondo fonti arabe, avrebbe a sua disposizione anche la protezione di ex ufficiali dell’intelligence di Saddam Hussein. Anche la radio «Al-Bayan»,radio di regime, ha confermato l’attacco subito, ma per propaganda ha sottolineato che a rimanere uccisi siano stati solo donne e bambini.
La caccia ad Al-Baghdadi fa parte del piano militare approntato dalla nuova coalizione internazionale guidata dagli Usa che è finalizzata ad abbattere l'Isis anche in vista dell’offensiva per liberare Mosul.Ieri inoltre anche delle truppe irachene di terra hanno colpito con l’artiglieria posizioni di Isis presso Tikrit, l’ex città di Saddam Hussein, mentre aerei Usa hanno bombardato milizie jihadiste vicino alla roccaforte di al-Rutba, a Ovest di Baghdad, una delle 15 località dove l'Isis ha catturato un grosso numero di cittadini cristiani ed ebrei. Per l'archimandrita Emanuel Youkhana, leader spirituale dei cristiani caldei,circa 20 cristiani sarebbero stati uccisi solo nell'ultimo mese mentre tentavano di difendere le loro famiglie e i loro villaggi,addirittuta presso il borgo di al Hamuz una donna caldea sarebbe stata decapitata e mostrata da monito all'intero villaggio.L'orrore non ha fine in Medio Oriente.
Venerdì grazie ad un raid aereo dell'aereonautica francese al confine tra Siria e Iraq,sono state inflitte molte perdite ad un campo militare dell'Isis nelchiaro obiettivo di eliminare Abu Bakr al-Baghdadi, Califfo dello Stato Islamico. A dare la notizia è stata la tv araba «Al-Arabiya Al-Hadath», che ha raccontato come i jet francesi sarebbero partiti dalla nave militare De Gaulle in navigazione nel Golfo e avrebbero colpito cinque diversi punti abbattendo un campo militare e diversi edifici usati come depositi armi lungo il fiume Eufrate. L’obiettivo è partito a causa della notizia di un raduno di miliziani jihadisti a cui avrebbe dovuto partecipare anche Al-Baghdadi nella casa di un colonnello dell'Isis. Le vittime sarebbero almeno 17 uomini dello Stato Islamico mentre altri 29 sarebbero stati ricoverati in ospedali dell’area. L’attacco francese è stato violento e preciso nel chiaro scopo di indebolire la leadership dell'Isis come il re giordano Abdullah e il Segretario di Stato Usa, John Kerry avevano anticipato di recente.
Il blitz aereo inoltre sottolineacome il presidente francese François Hollande abbia optato per una politica estera decisionista e ferrea anche dopo il dramma della strage parigina presso la sede della rivista «Charlie Hebdo».Purtroppo non si hanno notizie sulla sorte di Al-Baghdadi che lo scorso settembre era già stato obiettivo di un raid aereo americano sempre nella regione siriana di Al-Qaim, dove l'Isis spesso si appoggia per agevolare il passaggio di uomini e mezzi fra i territori controllati in Iraq e in Siria. Al-Baghdadi finora è stato fortunato e furbo a sfuggire agli attacchi e agli attentati, grazie anche ad una esposizione mediatica molto limitata e da continui spostamenti per la sua sicurezza personale che, secondo fonti arabe, avrebbe a sua disposizione anche la protezione di ex ufficiali dell’intelligence di Saddam Hussein. Anche la radio «Al-Bayan»,radio di regime, ha confermato l’attacco subito, ma per propaganda ha sottolineato che a rimanere uccisi siano stati solo donne e bambini.
La caccia ad Al-Baghdadi fa parte del piano militare approntato dalla nuova coalizione internazionale guidata dagli Usa che è finalizzata ad abbattere l'Isis anche in vista dell’offensiva per liberare Mosul.Ieri inoltre anche delle truppe irachene di terra hanno colpito con l’artiglieria posizioni di Isis presso Tikrit, l’ex città di Saddam Hussein, mentre aerei Usa hanno bombardato milizie jihadiste vicino alla roccaforte di al-Rutba, a Ovest di Baghdad, una delle 15 località dove l'Isis ha catturato un grosso numero di cittadini cristiani ed ebrei. Per l'archimandrita Emanuel Youkhana, leader spirituale dei cristiani caldei,circa 20 cristiani sarebbero stati uccisi solo nell'ultimo mese mentre tentavano di difendere le loro famiglie e i loro villaggi,addirittuta presso il borgo di al Hamuz una donna caldea sarebbe stata decapitata e mostrata da monito all'intero villaggio.L'orrore non ha fine in Medio Oriente.
Uruguay.Ecco il nuovo Presidente.
di Ilenia Marini
Sorpresa elettorale alle urne uruguayane.
Dopo il Brasile,dove la nuova candidata Dilma Rousseff è riuscita a trionfare alle elezioni presidenziali non senza una campagna elettorale sgradevole e con scelte che probabilmente hanno solo rinviato la soluzione di alcuni problemi cruciali, anche l'Uruguay è stato protagonista di una cambiamento non di poco conto,per fortuna tramite una campagna elettorale che è stata al confronto molto più pulita, caratterizzata da proposte positive piuttosto che da attacchi agli avversari. La sinistra è riuscita a recuperare il suo enorme distacco dal partito conservatore e al primo turno il socialista Tabaré Vázquez ha ottenuto più del previsto alle elezioni presidenziali, e la sua coalizione Frente Amplio è riuscito, un po’ a sorpresa, a confermare la sua maggioranza assoluta all’Assemblea Generale.
Già dopo le elezioni del primo turno si era capito che le quotazioni di Vázquez erano in fortissima crescita fino a fargli raggiungere un distacco record: il 56,63%, contro il 43,47%. La popolarità sua e la riduzione della povertà dal 40 al 10,5% e un pil pro capite di 16.834 dollari (il primo dell’America Latina) hanno avuto per gli elettori più importanza che non la preoccupazione per l’ordine pubblico, quella per il deterioramento del sistema educativo o l’impopolarità della legge sulla legalizzazione della marijuana. Il neo presidente ha utilizzato il particolare slogan “Decennio guadagnato” che alla fine ha davvero fatto grande presa sull'elettorato uruguaiano.Alla fine l'avversario Lacalle,ha applaudito la vittoria dell'avversario augurandogli di relizzare gli obiettivi prefissati.
Tra cinque anni il Frente Amplio avrà l’obbligo di trovarsi una nuova generazione di leader, in grado di affrontare la sfida tuttora pendente di limitare una dipendenza eccessiva dall’export di cereali e carne.Il grande obiettivo politivo-commerciale è quello di ampliare il porto di Montevideo in modo di farne una specie di Rotterdam del Sud Atlantico, punto di sbocco non solo per paesi senza mare come Bolivia e Paraguay, ma anche per l’est dell’Argentina e il sud del Brasile.Altra importante priorità sarà l'istruzione, cui il nuovo presidente promette ora di destinare il 6% del pil, trovando le risorse con una nuova imposta sui grandi latifondi.Cosa che potrebbe fare infuriare i ricchi possidenti del sud.Insomma,vento di cambiamento in Uruguay,finalmente.
Dopo il Brasile,dove la nuova candidata Dilma Rousseff è riuscita a trionfare alle elezioni presidenziali non senza una campagna elettorale sgradevole e con scelte che probabilmente hanno solo rinviato la soluzione di alcuni problemi cruciali, anche l'Uruguay è stato protagonista di una cambiamento non di poco conto,per fortuna tramite una campagna elettorale che è stata al confronto molto più pulita, caratterizzata da proposte positive piuttosto che da attacchi agli avversari. La sinistra è riuscita a recuperare il suo enorme distacco dal partito conservatore e al primo turno il socialista Tabaré Vázquez ha ottenuto più del previsto alle elezioni presidenziali, e la sua coalizione Frente Amplio è riuscito, un po’ a sorpresa, a confermare la sua maggioranza assoluta all’Assemblea Generale.
Già dopo le elezioni del primo turno si era capito che le quotazioni di Vázquez erano in fortissima crescita fino a fargli raggiungere un distacco record: il 56,63%, contro il 43,47%. La popolarità sua e la riduzione della povertà dal 40 al 10,5% e un pil pro capite di 16.834 dollari (il primo dell’America Latina) hanno avuto per gli elettori più importanza che non la preoccupazione per l’ordine pubblico, quella per il deterioramento del sistema educativo o l’impopolarità della legge sulla legalizzazione della marijuana. Il neo presidente ha utilizzato il particolare slogan “Decennio guadagnato” che alla fine ha davvero fatto grande presa sull'elettorato uruguaiano.Alla fine l'avversario Lacalle,ha applaudito la vittoria dell'avversario augurandogli di relizzare gli obiettivi prefissati.
Tra cinque anni il Frente Amplio avrà l’obbligo di trovarsi una nuova generazione di leader, in grado di affrontare la sfida tuttora pendente di limitare una dipendenza eccessiva dall’export di cereali e carne.Il grande obiettivo politivo-commerciale è quello di ampliare il porto di Montevideo in modo di farne una specie di Rotterdam del Sud Atlantico, punto di sbocco non solo per paesi senza mare come Bolivia e Paraguay, ma anche per l’est dell’Argentina e il sud del Brasile.Altra importante priorità sarà l'istruzione, cui il nuovo presidente promette ora di destinare il 6% del pil, trovando le risorse con una nuova imposta sui grandi latifondi.Cosa che potrebbe fare infuriare i ricchi possidenti del sud.Insomma,vento di cambiamento in Uruguay,finalmente.
Libia.Italiani in fuga da Tripoli.
di Ilenia Marini
Situazione critica in Libia per tutti gli occidentali presenti.
In questi giorni la Libia sta tornando ad essere un campo minato,pericoloso per gli stranieri in primis per gli italiani la cui comunità lì presente è tra le più numerose e storicamente coinvolte.Via dalla Libia. Immediatamente.Questo è il messaggio che dall’Ambasciata italiana a Tripoli giunge da giorni ai vari connazionali li presenti.Nessuno può più sentirsi al sicuro. Tutti sono diventati dei potenziali obiettivi per i gruppi armati collegati all'Isis che per le strade della capitale libica imperversano con violenza e terrore.Per il momento la nostra ambasciata è ancora aperta e non ha subito danni però si dice che il piano di evacuazione è prossimo.La chiusura della sede diplomatica secondo fonti bene informate dovrebbe avvenire la prossima settimana.L’accelerazione della fuga è stata decisa a causa della conquista da parte della cellula libica dell'Isis della città di Sirte, a 500 chilometri a est di Tripoli.
Una conquista piena tanto da istituire anche il loro quartier generale in un edificio nella zona centrale. In più un gruppo armato della medesima cellula si è anche impossessato di Radio Sirte, una stazione radiofonica dell'omonima città costiera e da lì dispensa i propri messaggi per la jihad. La conferma viene dalla polizia del luogo e da alcune immagini dei guerriglieri negli studi radiofonici armati di kalashnikov.In Libia da almeno un anno sono presenti tre gruppi jihadisti filo-al Qaeda. L'Aqmi, il ramo nordafricano del network del terrore; El-Muwaqiin Bi Dam guidato Mokhtar Belmokhtar, la mente dell'attacco all'impianto petrolifero di In Amenas in Algeria finito in strage; e Ansar Al Sharia, particolarmente attiva a Bengasi e nell'est del Paese. Al vertice di Ansar al Sharia, gruppo affiliatosi all’Isis e accusato dell'attacco a Bengasi del 2012 in cui rimase ucciso l'ambasciatore Usa Chris Stevens, c'è Sufyan ben Qumu, ex detenuto di Guantanamo, poi incarcerato in Libia e uscito di prigione nel 2010, nell'ambito del programma di de-radicalizzazione portato avanti dallo stesso Gheddafi.
L’avanzata delle truppe terroristiche di al-Baghdadi sembra inarrestabile: dopo aver conquistato Derna, i guerriglieri dell’Isis si sono insediati nella regione di Bengasi. Poi, continuando la marcia verso ovest, nella zona di Sirte e quindi di Misurata, quella che fino a poco tempo fa era un vitale centro di commerci e di affari anche per gli stranieri. Infine, scavalcata, almeno per ora, la capitale Tripoli, truppe di jihadisti hanno occupato Sabrata e, infine, il porto di Harat az Zawiyah, ai tempi di Gheddafi scalo di una certa importanza per le rotte petrolifere verso la Turchia e l’Asia.Poco alla volta ogni singola regione della Libia sta cadendo nelle insanguinate mani del califfo del terrore.
In questi giorni la Libia sta tornando ad essere un campo minato,pericoloso per gli stranieri in primis per gli italiani la cui comunità lì presente è tra le più numerose e storicamente coinvolte.Via dalla Libia. Immediatamente.Questo è il messaggio che dall’Ambasciata italiana a Tripoli giunge da giorni ai vari connazionali li presenti.Nessuno può più sentirsi al sicuro. Tutti sono diventati dei potenziali obiettivi per i gruppi armati collegati all'Isis che per le strade della capitale libica imperversano con violenza e terrore.Per il momento la nostra ambasciata è ancora aperta e non ha subito danni però si dice che il piano di evacuazione è prossimo.La chiusura della sede diplomatica secondo fonti bene informate dovrebbe avvenire la prossima settimana.L’accelerazione della fuga è stata decisa a causa della conquista da parte della cellula libica dell'Isis della città di Sirte, a 500 chilometri a est di Tripoli.
Una conquista piena tanto da istituire anche il loro quartier generale in un edificio nella zona centrale. In più un gruppo armato della medesima cellula si è anche impossessato di Radio Sirte, una stazione radiofonica dell'omonima città costiera e da lì dispensa i propri messaggi per la jihad. La conferma viene dalla polizia del luogo e da alcune immagini dei guerriglieri negli studi radiofonici armati di kalashnikov.In Libia da almeno un anno sono presenti tre gruppi jihadisti filo-al Qaeda. L'Aqmi, il ramo nordafricano del network del terrore; El-Muwaqiin Bi Dam guidato Mokhtar Belmokhtar, la mente dell'attacco all'impianto petrolifero di In Amenas in Algeria finito in strage; e Ansar Al Sharia, particolarmente attiva a Bengasi e nell'est del Paese. Al vertice di Ansar al Sharia, gruppo affiliatosi all’Isis e accusato dell'attacco a Bengasi del 2012 in cui rimase ucciso l'ambasciatore Usa Chris Stevens, c'è Sufyan ben Qumu, ex detenuto di Guantanamo, poi incarcerato in Libia e uscito di prigione nel 2010, nell'ambito del programma di de-radicalizzazione portato avanti dallo stesso Gheddafi.
L’avanzata delle truppe terroristiche di al-Baghdadi sembra inarrestabile: dopo aver conquistato Derna, i guerriglieri dell’Isis si sono insediati nella regione di Bengasi. Poi, continuando la marcia verso ovest, nella zona di Sirte e quindi di Misurata, quella che fino a poco tempo fa era un vitale centro di commerci e di affari anche per gli stranieri. Infine, scavalcata, almeno per ora, la capitale Tripoli, truppe di jihadisti hanno occupato Sabrata e, infine, il porto di Harat az Zawiyah, ai tempi di Gheddafi scalo di una certa importanza per le rotte petrolifere verso la Turchia e l’Asia.Poco alla volta ogni singola regione della Libia sta cadendo nelle insanguinate mani del califfo del terrore.
Ucraina.Putin vede la Merkel e Hollande.
di Ilenia Marini
Nuovi incontri trilaterali sulla pericolosa crisi ucraina.
L'ultima chance è stata giocata,l'incontro trilaterale tra Russia,Germania e Francia sembra essere l'ultima occasione per evitare una vera guerra nel territorio ucraino.Alla fine forse si elaborerà un documento per attuare gli accordi di Minsk e dopo preciso patto telefonico tra Putin e il presidente ucraino Petro Poroshenko si tenterà di rispolverare il “formato Normandia” grazie a nuovi negoziati mettere fine a dieci mesi di guerra nel martoriato sud-est della Nazione ucraina. Alla fine il trilaterale sembra essere stato concreto e costruttivo afferma il portavoce del Cremlino e dopo quasi cinque ore i tre leaders avrebbero raggiunto una sorta di patto per mantenere la pace in Europa fermo restando che Putin ha comunque sottolineato il suo disappunto sull'atteggiamento da conquistatori che da anni gli USA mantengono in Europa.
Prima di partire per Mosca, tuttavia, la Merkel e il presidente francese Francois Hollande avevano manifestato il loro forte scetticismo sulla possibilità di convincere il leader russo ad accettare un piano di cui non si conoscono ancora i dettagli ma che stando alle indiscrezioni generali parrebbe modificare i vecchi accordi di Minsk, ripetutamente violati da ambo le parti.I punti base sarebbero in primis il cessate il fuoco, poi arretramento delle armi pesanti, scambio di prigionieri, larga autonomia, ritiro di tutte le formazione illegittime armate e dei mezzi militari e soprattutto il controllo capillare dei confini. Le uniche varianti potrebbero essere la ridefinizione della linea di contatto, con il riconoscimento delle conquiste fatte nel frattempo dai ribelli filo-russi e la presenza stabile per almeno tre anni dei caschi blu dell'Onu.
La Merkel prima di partire per Mosca aveva evidenziato che tutto ciò in suo potere sarebbe stato usato per convincere Putin a cambiare le sue idee belligeranti.La situazione generale resta però molto aperta e non si sà ancora adesso cosa accadrà dopo l'incontro trilaterale, forse saranno necessarie altre discussioni,lunghi o brevi e altri colloqui,ma il necessario va comunque fatto.L'obiettivo però resta uno solo: mettere fine al bagno di sangue e a far rivivere gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina,«la pace europea» va protetta con ogni mezzo,sempre e comunque.
L'ultima chance è stata giocata,l'incontro trilaterale tra Russia,Germania e Francia sembra essere l'ultima occasione per evitare una vera guerra nel territorio ucraino.Alla fine forse si elaborerà un documento per attuare gli accordi di Minsk e dopo preciso patto telefonico tra Putin e il presidente ucraino Petro Poroshenko si tenterà di rispolverare il “formato Normandia” grazie a nuovi negoziati mettere fine a dieci mesi di guerra nel martoriato sud-est della Nazione ucraina. Alla fine il trilaterale sembra essere stato concreto e costruttivo afferma il portavoce del Cremlino e dopo quasi cinque ore i tre leaders avrebbero raggiunto una sorta di patto per mantenere la pace in Europa fermo restando che Putin ha comunque sottolineato il suo disappunto sull'atteggiamento da conquistatori che da anni gli USA mantengono in Europa.
Prima di partire per Mosca, tuttavia, la Merkel e il presidente francese Francois Hollande avevano manifestato il loro forte scetticismo sulla possibilità di convincere il leader russo ad accettare un piano di cui non si conoscono ancora i dettagli ma che stando alle indiscrezioni generali parrebbe modificare i vecchi accordi di Minsk, ripetutamente violati da ambo le parti.I punti base sarebbero in primis il cessate il fuoco, poi arretramento delle armi pesanti, scambio di prigionieri, larga autonomia, ritiro di tutte le formazione illegittime armate e dei mezzi militari e soprattutto il controllo capillare dei confini. Le uniche varianti potrebbero essere la ridefinizione della linea di contatto, con il riconoscimento delle conquiste fatte nel frattempo dai ribelli filo-russi e la presenza stabile per almeno tre anni dei caschi blu dell'Onu.
La Merkel prima di partire per Mosca aveva evidenziato che tutto ciò in suo potere sarebbe stato usato per convincere Putin a cambiare le sue idee belligeranti.La situazione generale resta però molto aperta e non si sà ancora adesso cosa accadrà dopo l'incontro trilaterale, forse saranno necessarie altre discussioni,lunghi o brevi e altri colloqui,ma il necessario va comunque fatto.L'obiettivo però resta uno solo: mettere fine al bagno di sangue e a far rivivere gli accordi di Minsk per la pace in Ucraina,«la pace europea» va protetta con ogni mezzo,sempre e comunque.
Sud-Africa.Zuma rimane ancora al potere.
di Ilenia Marini
Conferma alle elezioni per il successore di Nelson Mandela.
Alle recenti elezioni in SudAfrica il Presidente Zuma è stato riconfermato e il suo partito l' African National Congress, al potere dalla fine dell’apartheid ha riconfermato la sua costanza non senza qualche perdita di voti.Avevano impressionato i fischi al recente Mandela Memorial contro Zuma e l’opinione pubblica mondiale sembrava essersi convinta che una svolta nella politica sudafricana fosse imminente. Si ipotizzava che il presidente avrebbe preso meno del 50% delle preferenze segnando l'inizio di un lento declino anche per l’Anc spianando la strada all’ascesa dell’opposizione, la Democratic Alliance (Da) guidata dall’ex giornalista ed ex attivista anti-apartheid (bianca e liberale) Helen Zille, attuale premier della Provincia del Western Country.
Invece i sondaggi hanno descritto altro e altro si è verificato. L' Anc era accreditato di un risultato vicino al 65%, mentre per la Da il 30%, assunto come obiettivo alla fine del 2014, appariva ormai abbondantemente fuori portata. I risultati hanno ribadito i sondaggi stessi.L’Anc, con il 62%, ha mantenuto il suo potere sul territorio e l'opposizione è andata al 23% al di sotto anche delle previsioni mantenendo però il governo del Western Cape e della sua capitale Città del Capo, uscendo sconfitta invece nella capitale Johannesburg e nella Provincia del Gauteng, rimaste entrambe sotto il partito di governo.
Quindi la speranza di molti di una vera alternanza di governo è stata vana,nonostante molti politologi continuano a sottolineare come in “società plurali” forse è proprio l'alternanza o almeno la coalizione ampia di governo la forma più democratica per governare. Si resta in attesa dei prosismi mesi di governo Zuma per vedere se la sua maggioranza terrà salda la guida o se il prossimo e futuro avvicendamento al vertice dell’Anc porterà a crolli anche in sede istituzionale.Il probabile successore potrebbe essere l’ex sindacalista e uomo d’affari Cecil Ramapahosa.
Alle recenti elezioni in SudAfrica il Presidente Zuma è stato riconfermato e il suo partito l' African National Congress, al potere dalla fine dell’apartheid ha riconfermato la sua costanza non senza qualche perdita di voti.Avevano impressionato i fischi al recente Mandela Memorial contro Zuma e l’opinione pubblica mondiale sembrava essersi convinta che una svolta nella politica sudafricana fosse imminente. Si ipotizzava che il presidente avrebbe preso meno del 50% delle preferenze segnando l'inizio di un lento declino anche per l’Anc spianando la strada all’ascesa dell’opposizione, la Democratic Alliance (Da) guidata dall’ex giornalista ed ex attivista anti-apartheid (bianca e liberale) Helen Zille, attuale premier della Provincia del Western Country.
Invece i sondaggi hanno descritto altro e altro si è verificato. L' Anc era accreditato di un risultato vicino al 65%, mentre per la Da il 30%, assunto come obiettivo alla fine del 2014, appariva ormai abbondantemente fuori portata. I risultati hanno ribadito i sondaggi stessi.L’Anc, con il 62%, ha mantenuto il suo potere sul territorio e l'opposizione è andata al 23% al di sotto anche delle previsioni mantenendo però il governo del Western Cape e della sua capitale Città del Capo, uscendo sconfitta invece nella capitale Johannesburg e nella Provincia del Gauteng, rimaste entrambe sotto il partito di governo.
Quindi la speranza di molti di una vera alternanza di governo è stata vana,nonostante molti politologi continuano a sottolineare come in “società plurali” forse è proprio l'alternanza o almeno la coalizione ampia di governo la forma più democratica per governare. Si resta in attesa dei prosismi mesi di governo Zuma per vedere se la sua maggioranza terrà salda la guida o se il prossimo e futuro avvicendamento al vertice dell’Anc porterà a crolli anche in sede istituzionale.Il probabile successore potrebbe essere l’ex sindacalista e uomo d’affari Cecil Ramapahosa.
Al Qaeda invita i giovani alla guerra santa.
di Ilenia Marini
Continua l'allarme terrorismo in ogni parte del mondo.
I recenti dossier degli analisti del Pentagono sono convinti che la strategia terroristica di Al Qaeda stia cambiando e un nuovo e forte allarme terrorismo è prossimo all'essere lanciato in tutto il mondo. In un video diffuso in Iraq e Siria, i militanti dell’Isis, lo Stato Islamico, spingono i giovani combattenti della guerra santa contro l’Occidente a bersagliare gli aerei di linea. Al Qaeda insomma spingerebbe i "lupi solitari" a compiere eclatanti attacchi dinamitardi negli aerei destinati alle principali città occidentali. Lo scopo sarebbe colpire i voli di linea di compagnie aeree come Ame-rican Airlines, United, Continental Airlines, Delta, ma anche British Airways, Easyjet e Air France. I servizi segreti stanno prendendo molto sul serio tali dossier e avrebbero sequestrato tanti manuali clandestini con le istruzioni per assemblare ordigni simili a quelli esplosi a Boston, il 15 aprile 2013.
Gli osservatori più accreditati considerano molto probabile un attentato terroristico contro l’Occidente e, in particolare, contro gli Stati Uniti. Il Capo del Dipartimento Anti-terrorismo americano sottolinea che c'è molta probabilità che l’Isis sia pronto a lanciare un attacco devastante sul territorio occidentale. Le indiscrezioni in arrivo da Washington, riprese da diverse fonti attendibili, concludono che non è più questione di sapere “se” ci sarà o meno un attentato ma solo di stabilire il quando.La Casa Bianca, come è comprensibile, non amplifica l’allerta. Anzi, alcuni giorni fa lo stesso presidente Barack Obama parlando dalle Hawaii dove era presente per un convegno ha definito il ritiro parziale dall’ Afghanistan come un successo della politica internazionale di sicurezza degli Stati Uniti.
Obama ha anche indicato la nuova strategia alternativa all’intervento militare nei Paesi in cui continuano a radicarsi le formazioni islamiche terroristiche. L’idea sarebbe quella di ampliare i collegamenti con i servizi segreti locali, finanziandoli e coordinandoli anche con personale più qualificato.Ma neanche questa è una strada semplice. L’esempio più eclatante infatti è quello dello Yemen, dove i miliziani di Al Qaeda hanno subito scoperto gli agenti al servizio degli Stati Uniti e li hanno rapiti e giustiziati con vere azioni di rastrellamento. Nonostante questi inconvenienti drammatici la nuova strada sembrerebbe segnata: meno soldati armati e più intelligence.
I recenti dossier degli analisti del Pentagono sono convinti che la strategia terroristica di Al Qaeda stia cambiando e un nuovo e forte allarme terrorismo è prossimo all'essere lanciato in tutto il mondo. In un video diffuso in Iraq e Siria, i militanti dell’Isis, lo Stato Islamico, spingono i giovani combattenti della guerra santa contro l’Occidente a bersagliare gli aerei di linea. Al Qaeda insomma spingerebbe i "lupi solitari" a compiere eclatanti attacchi dinamitardi negli aerei destinati alle principali città occidentali. Lo scopo sarebbe colpire i voli di linea di compagnie aeree come Ame-rican Airlines, United, Continental Airlines, Delta, ma anche British Airways, Easyjet e Air France. I servizi segreti stanno prendendo molto sul serio tali dossier e avrebbero sequestrato tanti manuali clandestini con le istruzioni per assemblare ordigni simili a quelli esplosi a Boston, il 15 aprile 2013.
Gli osservatori più accreditati considerano molto probabile un attentato terroristico contro l’Occidente e, in particolare, contro gli Stati Uniti. Il Capo del Dipartimento Anti-terrorismo americano sottolinea che c'è molta probabilità che l’Isis sia pronto a lanciare un attacco devastante sul territorio occidentale. Le indiscrezioni in arrivo da Washington, riprese da diverse fonti attendibili, concludono che non è più questione di sapere “se” ci sarà o meno un attentato ma solo di stabilire il quando.La Casa Bianca, come è comprensibile, non amplifica l’allerta. Anzi, alcuni giorni fa lo stesso presidente Barack Obama parlando dalle Hawaii dove era presente per un convegno ha definito il ritiro parziale dall’ Afghanistan come un successo della politica internazionale di sicurezza degli Stati Uniti.
Obama ha anche indicato la nuova strategia alternativa all’intervento militare nei Paesi in cui continuano a radicarsi le formazioni islamiche terroristiche. L’idea sarebbe quella di ampliare i collegamenti con i servizi segreti locali, finanziandoli e coordinandoli anche con personale più qualificato.Ma neanche questa è una strada semplice. L’esempio più eclatante infatti è quello dello Yemen, dove i miliziani di Al Qaeda hanno subito scoperto gli agenti al servizio degli Stati Uniti e li hanno rapiti e giustiziati con vere azioni di rastrellamento. Nonostante questi inconvenienti drammatici la nuova strada sembrerebbe segnata: meno soldati armati e più intelligence.
Israele.Laburisti favoriti alle elezioni.
di Ilenia Marini
Il partito di centro-sinistra grande favorito per il Governo.
Mancano quasi due mesi alle nuove elezioni in Israele e il partito laburista è dato in grande vantaggio sugli avversari politici per tornare a guidare il governo di Israele. I recenti sondaggi sottolineano il grande vantaggio elettorale grazie soprattutto alla notevole attenzione che il programma laburista presentato ha dato a temi come quelli sociali ed economici.Rispetto al partito Likud dell’attuale premier Benjamin Netanyahu quindi il vantaggio sembrerebbe non colmabile in 50 giorni di campagna elettorale. La lista Laburisti-Hatnuà avrebbe come previsione 25 seggi contro i 20 del Likud. Un discorso a parte merita invece il partito laico di Yair Lapid, dato in recupero fino a ottenere circa 11 seggi.
Ciò significa che Herzog, il grande leader laburista, ha davvero la concreta possibilità di ottenere dal presidente Rivlin il mandato di formare la coalizione per il governo anche se l’esito di precedenti competizioni elettorali suggerisce prudenza.Infatti nel lontano 1996 i laburisti di Shimon Peres erano dati come grandi favoriti ma all'alba delle elezioni e nello spoglio finale, proprio il partito Likud di Netanyahu vinse sul filo di lana. Nelle recenti primarie del partito laburista vi è stata la forte affermazione di due donne: Shelly Yachimovich, che guidava il partito prima di Herzog, e Stav Shaffir che a soli 29 anni è la più giovane deputata mai eletto alla Knesset,il Parlamento israeliano.
Il partito conservatore del Likud è in difficoltà innegabile, solo il ministro dell’Economia Naftali Bennett e il suo gruppo indipendente di parlamentari, gode di buona fama e i vari sondaggi gli assegnano circa 17 seggi nelle prossime consultazioni.Quindi il premier attuale Netanyahu ha davanti due mesi di campagna tutti in salita. Ma conoscendolo non demorderà affatto anzi i suoi affermano che è in queste situazioni particolari che riesce a far emergere la sua grinta carismatica.Vedremo cosà accadrà in Israele.
Mancano quasi due mesi alle nuove elezioni in Israele e il partito laburista è dato in grande vantaggio sugli avversari politici per tornare a guidare il governo di Israele. I recenti sondaggi sottolineano il grande vantaggio elettorale grazie soprattutto alla notevole attenzione che il programma laburista presentato ha dato a temi come quelli sociali ed economici.Rispetto al partito Likud dell’attuale premier Benjamin Netanyahu quindi il vantaggio sembrerebbe non colmabile in 50 giorni di campagna elettorale. La lista Laburisti-Hatnuà avrebbe come previsione 25 seggi contro i 20 del Likud. Un discorso a parte merita invece il partito laico di Yair Lapid, dato in recupero fino a ottenere circa 11 seggi.
Ciò significa che Herzog, il grande leader laburista, ha davvero la concreta possibilità di ottenere dal presidente Rivlin il mandato di formare la coalizione per il governo anche se l’esito di precedenti competizioni elettorali suggerisce prudenza.Infatti nel lontano 1996 i laburisti di Shimon Peres erano dati come grandi favoriti ma all'alba delle elezioni e nello spoglio finale, proprio il partito Likud di Netanyahu vinse sul filo di lana. Nelle recenti primarie del partito laburista vi è stata la forte affermazione di due donne: Shelly Yachimovich, che guidava il partito prima di Herzog, e Stav Shaffir che a soli 29 anni è la più giovane deputata mai eletto alla Knesset,il Parlamento israeliano.
Il partito conservatore del Likud è in difficoltà innegabile, solo il ministro dell’Economia Naftali Bennett e il suo gruppo indipendente di parlamentari, gode di buona fama e i vari sondaggi gli assegnano circa 17 seggi nelle prossime consultazioni.Quindi il premier attuale Netanyahu ha davanti due mesi di campagna tutti in salita. Ma conoscendolo non demorderà affatto anzi i suoi affermano che è in queste situazioni particolari che riesce a far emergere la sua grinta carismatica.Vedremo cosà accadrà in Israele.
Yemen.Kamikaze provoca una strage.
di Ilenia Marini
Altra autobomba nel caotico stato yemenita.
Ennesimo attentato terroristico nella provincia yemenita di Baida. Un gruppo di studenti a bordo di un piccolo pullmino sono morti,letteralmente saltati in aria, senza alcuna possibilità di salvezza, quando un’autobomba si è lanciata a tutta velocità contro di loro nel pieno centro città.Ben 12 adolescenti, seconto le prime testimonianze tutte femmine, sono morti,i loro corpi dilaniati insieme ai loro libri,alle penne e alle loro speranze. La polizia dello Yemen ritiene che sul gesto tragico vi sia la firma autografa di Al Qaeda l’organizzazione integralista islamica a stragrande maggioranza sunnita che negli ultimi mesi ha avuto pesanti scontri con i miliziani sciiti del gruppo Houthi, anch'esso in lotta per avere il controllo della città di Rada e delle aree circostanti. La polizia afferma che lo scuolabus era composto solo da ragazzi di etnia sciita,quindi una sorta di atto bellico contro il gruppo Houthi.
Dalle prime indagini sembra che forse oggetto vero del kamikaze fosse Abdallah Idris, uno dei leader del gruppo sciita.Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli attentati suicidi, le bombe e gli attacchi armati,soprattutto da quando le milizie sciite in autunno hanno rafforzato la loro presenza a Rada, sulla base di una grande offensiva nella roccaforte di Saada. Il 22 Novembre scorso infatti la milizia sciita si era impossesata della capitale Sanaa e da lì continuava ad avanzare nel centro del Paese. Questa grande avanzata non piace ovviamente ai vari gruppi sunniti e ad Al Qaeda che proprio tra le tribù sunnite recluta i suoi uomini. In questa sorta di scontro tra gruppi terroristici,il peso politico del governo centrale yemenita, capeggiato da Khaled Bahad diminuisce sempre di più.
Una vera inconsistenza testimoniata da alcuni recenti episodi come la mancanza della fiducia da parte del Parlamento e l'assedio del ministero della Difesa da parte dei miliziani houthi in armi.Si tratta insomma di un'evidente situazione sempre più fuori controllo da quando il vecchio presidente Alì Abdallah Saleh fu costretto a lasciare il potere nel 2012.Due anni in cui i vari «accordi» tra sciiti e sunniti sono sempre stati regolarmente infranti; nello scontro tra i vari gruppi terroristici i civili inermi continuano a morire per le strade dello Yemen.
Ennesimo attentato terroristico nella provincia yemenita di Baida. Un gruppo di studenti a bordo di un piccolo pullmino sono morti,letteralmente saltati in aria, senza alcuna possibilità di salvezza, quando un’autobomba si è lanciata a tutta velocità contro di loro nel pieno centro città.Ben 12 adolescenti, seconto le prime testimonianze tutte femmine, sono morti,i loro corpi dilaniati insieme ai loro libri,alle penne e alle loro speranze. La polizia dello Yemen ritiene che sul gesto tragico vi sia la firma autografa di Al Qaeda l’organizzazione integralista islamica a stragrande maggioranza sunnita che negli ultimi mesi ha avuto pesanti scontri con i miliziani sciiti del gruppo Houthi, anch'esso in lotta per avere il controllo della città di Rada e delle aree circostanti. La polizia afferma che lo scuolabus era composto solo da ragazzi di etnia sciita,quindi una sorta di atto bellico contro il gruppo Houthi.
Dalle prime indagini sembra che forse oggetto vero del kamikaze fosse Abdallah Idris, uno dei leader del gruppo sciita.Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli attentati suicidi, le bombe e gli attacchi armati,soprattutto da quando le milizie sciite in autunno hanno rafforzato la loro presenza a Rada, sulla base di una grande offensiva nella roccaforte di Saada. Il 22 Novembre scorso infatti la milizia sciita si era impossesata della capitale Sanaa e da lì continuava ad avanzare nel centro del Paese. Questa grande avanzata non piace ovviamente ai vari gruppi sunniti e ad Al Qaeda che proprio tra le tribù sunnite recluta i suoi uomini. In questa sorta di scontro tra gruppi terroristici,il peso politico del governo centrale yemenita, capeggiato da Khaled Bahad diminuisce sempre di più.
Una vera inconsistenza testimoniata da alcuni recenti episodi come la mancanza della fiducia da parte del Parlamento e l'assedio del ministero della Difesa da parte dei miliziani houthi in armi.Si tratta insomma di un'evidente situazione sempre più fuori controllo da quando il vecchio presidente Alì Abdallah Saleh fu costretto a lasciare il potere nel 2012.Due anni in cui i vari «accordi» tra sciiti e sunniti sono sempre stati regolarmente infranti; nello scontro tra i vari gruppi terroristici i civili inermi continuano a morire per le strade dello Yemen.
Nigeria.Boko Haram colpisce ancora.
di Ilenia Marini
Ancora rapimenti di massa nel paese africano.
In Nigeria la violenza del gruppo terroristico islamico di Boko Haram continua senza sosta.Ieri circa 40 ragazzi sono stati rapiti in massa in un piccolo villaggio rurale al Nord del paese e di loro si sono perse le tracce.Alcuni affermano di aver visto furgoni con a bordo membri del gruppo islamico essere giunti a Malari, sparando in aria e seminando il panico tra la gente.Ma il loro scopo non era uccidere nè rubare viveri nè tantomeno stuprare le donne e trasformarle in schiave. Volevano solo giovani uomini da aggiungere alle loro file di combattenti sanguinari.Prendere adolescenti a cui insegnare ad uccidere senza pietà chiunque, anche nei loro villaggi, anche tra i loro familiari. Tutti gli uomini si dice,siano usciti dalle loro case temendo incendi e distruzione,spaventati hanno cercato di fuggire, di nascondersi nella foresta.I terroristi di Boko Haram invece hanno circondato la zona, gli uomini sono stati catturati e portati nella piazza del villaggio.Lì solo i più giovani sono stati caricati e condotti via.
Ragazzi di età tra i 15 e i 30 anni sono stati costretti a frustate a salire sui pick-up e sono stati inghiottiti dalla giungla. Scomparsi.E' una prassi molto diffusa negli ultimi mesi, gli jihadisti hanno spesso compiuto sequestri di massa di questo tipo,Boko Haram, l’organizzazione fondamentalista islamica che si ispira all’Isis (Stato Islamico) e che nel nord-est della Nigeria ha proclamato un «califfato», prendendo a modello quello istituito in territorio siriano e iracheno da Abubakr al-Baghdadi, usa questa tecnica per alimentare le sue schiere di soldati pronti a tutto.A maggio dell'anno scorso il sequesto più eclatante fu quello di 200 liceali cristiane rapite, convertite con la forza all'Islam e ritratte mentre coperte da chador che lasciavano scoperti solo i loro volti, recitavano versi del Corano.
Il nord-est della Nigeria è flagellato da questo gruppo terroristico che in modo indisturbato, senza che i soldati inviati dal governo riescano (e probabilmente neppure vogliano, secondo gli abitanti dell’area) compiono violenze inaudite.Secondo i vari osservatori ONU già inviati nella zona la situazione forse peggiorerà con le prossime elezioni presidenziali che si terranno il 15 febbraio. Il presidente in carica Goodluck Jonathan, cristiano del sud, è il favorito alla vittoria ma nelle zone del Sud con grande presenza musulmana, a causa di Boko Haram, non sarà possibile garantire la regolarità del voto democratico.
In Nigeria la violenza del gruppo terroristico islamico di Boko Haram continua senza sosta.Ieri circa 40 ragazzi sono stati rapiti in massa in un piccolo villaggio rurale al Nord del paese e di loro si sono perse le tracce.Alcuni affermano di aver visto furgoni con a bordo membri del gruppo islamico essere giunti a Malari, sparando in aria e seminando il panico tra la gente.Ma il loro scopo non era uccidere nè rubare viveri nè tantomeno stuprare le donne e trasformarle in schiave. Volevano solo giovani uomini da aggiungere alle loro file di combattenti sanguinari.Prendere adolescenti a cui insegnare ad uccidere senza pietà chiunque, anche nei loro villaggi, anche tra i loro familiari. Tutti gli uomini si dice,siano usciti dalle loro case temendo incendi e distruzione,spaventati hanno cercato di fuggire, di nascondersi nella foresta.I terroristi di Boko Haram invece hanno circondato la zona, gli uomini sono stati catturati e portati nella piazza del villaggio.Lì solo i più giovani sono stati caricati e condotti via.
Ragazzi di età tra i 15 e i 30 anni sono stati costretti a frustate a salire sui pick-up e sono stati inghiottiti dalla giungla. Scomparsi.E' una prassi molto diffusa negli ultimi mesi, gli jihadisti hanno spesso compiuto sequestri di massa di questo tipo,Boko Haram, l’organizzazione fondamentalista islamica che si ispira all’Isis (Stato Islamico) e che nel nord-est della Nigeria ha proclamato un «califfato», prendendo a modello quello istituito in territorio siriano e iracheno da Abubakr al-Baghdadi, usa questa tecnica per alimentare le sue schiere di soldati pronti a tutto.A maggio dell'anno scorso il sequesto più eclatante fu quello di 200 liceali cristiane rapite, convertite con la forza all'Islam e ritratte mentre coperte da chador che lasciavano scoperti solo i loro volti, recitavano versi del Corano.
Il nord-est della Nigeria è flagellato da questo gruppo terroristico che in modo indisturbato, senza che i soldati inviati dal governo riescano (e probabilmente neppure vogliano, secondo gli abitanti dell’area) compiono violenze inaudite.Secondo i vari osservatori ONU già inviati nella zona la situazione forse peggiorerà con le prossime elezioni presidenziali che si terranno il 15 febbraio. Il presidente in carica Goodluck Jonathan, cristiano del sud, è il favorito alla vittoria ma nelle zone del Sud con grande presenza musulmana, a causa di Boko Haram, non sarà possibile garantire la regolarità del voto democratico.
Burkina Faso.Un golpe senza sangue.
di Ilenia Marini
Un colpo di Stato senza violenza.Modello per l'Africa.
Purtroppo i paesi africani in questi decenni sono stati sconvolti da guerre e colpi di stato violenti e sanguinosissimi.In Burkina Faso invece sta accadendo una grossa novità.Il paese africano sta subendo una transizione di potere in modo civile e quasi indolore.Un golpe morbido che potrebbe diventare un modello da esportare anche nelle altre realtà instabili del continente.Il presidente Blaise Compaoré invece di cambiare la costituzione in modo egoistico e risalire al potere per la terza volta,spinto dalle manifestazioni dell’opposizione e della società civile, ha ceduto pacificamente e se n'è andato.Prima è riparato in Costa d’Avorio e poi in Marocco.I militari hanno provato con la forza ad insediarsi al potere e sostituirsi al presidente che aveva governato per 25 anni il paese.
Per fortuna hanno fallito e i manifestanti hanno imposto una transizione civile, un comitato democratico ha elaborato una carta costituzionale, nominato un consiglio e ottenuto la nomina di un anziano diplomatico, Michel Kafando, alla guida dello Stato. L'esercito ha però preteso ben 4 ministeri importanti. Ma per fortuna non saranno loro i protagonisti della primavera del Burkina.I perchè di questo cambiamento civile del paese sono molti.Innanzittutto Compaoré non ha voluto arroccarsi sulle sue posizioni di despota e provocare una vera carneficina tra i rivoltosi dell'opposizione. In questi anni l’ex leader è cambiato, tramutando la sua personalità politica da tiranno militare a vero mediatore.La sua uscita è stata meno violenta di molte altre nel continente, anche recenti.Inoltre i militari non hanno avuto alcun appoggio politico e quindi in piazza si sono ritrovati soli contro migliaia di persone pronte a difendersi.
E' stato grazie ad una vera mobilitazione civile dalle proporzioni mai viste che il golpe pacifico è stato reso possibile. La compattezza della società civile ha tenuto senza divisioni, dimostrando forte maturità. L’opposizione politica ha svolto il suo ruolo senza eccessi nè divisioni interne.Una grande prova di maturità politica inaspettata.Il “modello Burkina” di transizione potrebbe davvero diventare un qualcosa da imitare in Africa.Un evento importante non solo per il Burkina Faso ma anche per l'Europa dato che il paese si trova in una zona delicata quasi da frontiera alla penetrazione jihadista islamica, come si è visto in altri paesi come Mali e Libia, una penetrazione pericoloso, nucleo di formazione delle cellule terroristiche.
Purtroppo i paesi africani in questi decenni sono stati sconvolti da guerre e colpi di stato violenti e sanguinosissimi.In Burkina Faso invece sta accadendo una grossa novità.Il paese africano sta subendo una transizione di potere in modo civile e quasi indolore.Un golpe morbido che potrebbe diventare un modello da esportare anche nelle altre realtà instabili del continente.Il presidente Blaise Compaoré invece di cambiare la costituzione in modo egoistico e risalire al potere per la terza volta,spinto dalle manifestazioni dell’opposizione e della società civile, ha ceduto pacificamente e se n'è andato.Prima è riparato in Costa d’Avorio e poi in Marocco.I militari hanno provato con la forza ad insediarsi al potere e sostituirsi al presidente che aveva governato per 25 anni il paese.
Per fortuna hanno fallito e i manifestanti hanno imposto una transizione civile, un comitato democratico ha elaborato una carta costituzionale, nominato un consiglio e ottenuto la nomina di un anziano diplomatico, Michel Kafando, alla guida dello Stato. L'esercito ha però preteso ben 4 ministeri importanti. Ma per fortuna non saranno loro i protagonisti della primavera del Burkina.I perchè di questo cambiamento civile del paese sono molti.Innanzittutto Compaoré non ha voluto arroccarsi sulle sue posizioni di despota e provocare una vera carneficina tra i rivoltosi dell'opposizione. In questi anni l’ex leader è cambiato, tramutando la sua personalità politica da tiranno militare a vero mediatore.La sua uscita è stata meno violenta di molte altre nel continente, anche recenti.Inoltre i militari non hanno avuto alcun appoggio politico e quindi in piazza si sono ritrovati soli contro migliaia di persone pronte a difendersi.
E' stato grazie ad una vera mobilitazione civile dalle proporzioni mai viste che il golpe pacifico è stato reso possibile. La compattezza della società civile ha tenuto senza divisioni, dimostrando forte maturità. L’opposizione politica ha svolto il suo ruolo senza eccessi nè divisioni interne.Una grande prova di maturità politica inaspettata.Il “modello Burkina” di transizione potrebbe davvero diventare un qualcosa da imitare in Africa.Un evento importante non solo per il Burkina Faso ma anche per l'Europa dato che il paese si trova in una zona delicata quasi da frontiera alla penetrazione jihadista islamica, come si è visto in altri paesi come Mali e Libia, una penetrazione pericoloso, nucleo di formazione delle cellule terroristiche.
Israele.Ucciso ufficiale di Hamas a Gaza.
di Ilenia Marini
La recente tregua stenta a decollare tra le parti.
Dopo solo tre mesi dalla firma della sospirata tregua fra Hamas ed Israele, la tensione fra le due parti torna fortemente a salire.Dopo un pericoloso fuoco di cecchini palestinesi l’esercito israeliano ha risposto ricorrendo all’artiglieria pesante e ad elicotteri da combattimento. La settimana scorsa c'erano stati episodi che facevano presagire qualcosa di grave,come il lancio di un razzo palestinese verso il Neghev e il successivo raid israeliano contro infrastrutture terroristiche nel sud della Striscia.Alla fine il raid ha portato alla morte di un ufficiale di Hamas, responsabile locale delle vedette della sua ala militare, e con il ferimento di altri palestinesi. Da parte israeliana invece non ci sono state vittime ma solo due feriti lievi tra cui un militare colpito al petto di striscio da un cecchino.
Lo scontro armato è iniziato quando una unità del genio militare addetta alla manutenzione dei reticolati di confine è stata presa in mezzo dal fuoco nemico. Fonti di Gaza affermano che aveva oltrepassato il confine, ma in Israele invece la notizia non è ritenuta veritiera.La reazione israeliana è stata immediata ed energica. Ma l’incidente è stato presto circoscritto. Un rappresentante di Hamas ha accusato Israele di aver volontariamente esagerato nella reazione per alzare la tensione lungo il confine assumendosi dunque una responsabilità grave. Israele ha respinto l'accusa e ha denunciato a sua volta l’attacco oltraggioso sottolineando che nessuna infrazione alla tregua sarà ammessa.
Nella zona,dove già in estate c'erano stati scontri armati, la tensione è elevata. Durante l’incidente gli agricoltori israeliani del Neghev occidentale sono stati costretti a lasciare i campi e a chiudersi in zone protette.Dall'altra parte del fronte c’è una popolazione stremata dalle difficoltà fisiche ed economiche, anche perché le operazioni di ricostruzione della Striscia stentano ancora a mettersi in moto. I capi di Hamas hanno affermato di non voler nuovi scontri armati,ma il Mossad invece ritiene che incombente sia il rischio di futuri incidenti e quindi l'attenzione va tenuta altissima sempre.
Dopo solo tre mesi dalla firma della sospirata tregua fra Hamas ed Israele, la tensione fra le due parti torna fortemente a salire.Dopo un pericoloso fuoco di cecchini palestinesi l’esercito israeliano ha risposto ricorrendo all’artiglieria pesante e ad elicotteri da combattimento. La settimana scorsa c'erano stati episodi che facevano presagire qualcosa di grave,come il lancio di un razzo palestinese verso il Neghev e il successivo raid israeliano contro infrastrutture terroristiche nel sud della Striscia.Alla fine il raid ha portato alla morte di un ufficiale di Hamas, responsabile locale delle vedette della sua ala militare, e con il ferimento di altri palestinesi. Da parte israeliana invece non ci sono state vittime ma solo due feriti lievi tra cui un militare colpito al petto di striscio da un cecchino.
Lo scontro armato è iniziato quando una unità del genio militare addetta alla manutenzione dei reticolati di confine è stata presa in mezzo dal fuoco nemico. Fonti di Gaza affermano che aveva oltrepassato il confine, ma in Israele invece la notizia non è ritenuta veritiera.La reazione israeliana è stata immediata ed energica. Ma l’incidente è stato presto circoscritto. Un rappresentante di Hamas ha accusato Israele di aver volontariamente esagerato nella reazione per alzare la tensione lungo il confine assumendosi dunque una responsabilità grave. Israele ha respinto l'accusa e ha denunciato a sua volta l’attacco oltraggioso sottolineando che nessuna infrazione alla tregua sarà ammessa.
Nella zona,dove già in estate c'erano stati scontri armati, la tensione è elevata. Durante l’incidente gli agricoltori israeliani del Neghev occidentale sono stati costretti a lasciare i campi e a chiudersi in zone protette.Dall'altra parte del fronte c’è una popolazione stremata dalle difficoltà fisiche ed economiche, anche perché le operazioni di ricostruzione della Striscia stentano ancora a mettersi in moto. I capi di Hamas hanno affermato di non voler nuovi scontri armati,ma il Mossad invece ritiene che incombente sia il rischio di futuri incidenti e quindi l'attenzione va tenuta altissima sempre.
Usa-Cuba.Svolta storica in arrivo.
di Ilenia Marini
Fine della tensione tra le due nazioni americane.
L'avvicinamento tra Cuba e gli Stati Uniti è iniziato e adesso ciò che alcuni anni fa sembrava impossibile ora è un obiettivo alla portata.Tutto è cominciato con la liberazione di Alan Gross. Il 64enne ingaggiato dall’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale Usaid che era stato arrestato a Cuba il 3 dicembre 2009 e condannato a 15 anni di carcere per “azioni contro l’integrità territoriale dello Stato”. Secondo il governo di Washington Gross era a Cuba solo per dare assistenza informatica alla comunità ebraica cubana per aggirare la censura imposta dal regime a Internet. Ma L’Avana aveva concepito il tutto come un attacco alla sua sicurezza interna.Dopo alcuni anni però Raúl Castro per “ragioni umanitarie”, date le pessime condizioni di salute di Gross ha optato per la sua liberazione.
Secondo i più maliziosi invece in realtà è avvenuto il classico scambio di prigionieri tra Gross e gli ultimi tre agenti dei servizi cubani che, per essersi infiltrati tra i gruppi anti-castristi di Miami fingendosi esuli, erano stati arrestati nel 1998 e condannati nel 2001.L'avvicinamento Usa-Cuba sarà graduale.Si è parlato in primis di facilitazione dei viaggi e dell'invio di denaro.Infine, due giorni fa i due discorsi presidenziali fatti da Barack Obama e Raúl Castro hanno fatto intuire che si tratta di una vera svolta epocale. I due presidenti si sono parlati per telefono il giorno prima e lo stesso papa Francesco aveva partecipato come mediatore nel tentativo di avvicinare le parti.Nel frattempo, dalla Casa Bianca Obama nel suo discorso sottolineava il compito degli Usa di paladini della libertà nel mondo e il suo impegno ad eliminare tutte le vecchie zavorre del passato nei rapporti con le altre nazioni. Solo così si potrà lasciare un futuro migliore: per gli interessi nazionali, per le persone che vivono negli Stati Uniti e per lo stesso popolo cubano.
Obama ha rimarcato che ben cinquant’anni di embargo non hanno funzionato,promettendo che il mese prossimo il Congresso esaminerà anche la possibilità di porre fine al blocco contro Cuba,seguendo però le normali procedure previste dalla legislazione americana,senza imporre per decreto il suo parere.L'idea normativa è quella di cambiare il quadro giuridico per favorire il rafforzamento della società civile e dell’imprenditoria privata a Cuba, facilitare i viaggi e alzare il livello di rimesse consentito. In tal modo sicuramente aumenteranno i permessi di export e import e verranno facilitate le operazioni di paesi terzi finora a rischio di subire anch’essi le conseguenze dell’embargo. Quello che preme molto allo stesso Castro è soprattutto un possibile accordo per i confini marittimi nel Golfo del Messico e nel giro di 6 mesi cancellare Cuba dalla lista nera degli Stati sponsor del terrorismo.Tutti obiettivi alla portata in vista di questa grande svolta storica.
L'avvicinamento tra Cuba e gli Stati Uniti è iniziato e adesso ciò che alcuni anni fa sembrava impossibile ora è un obiettivo alla portata.Tutto è cominciato con la liberazione di Alan Gross. Il 64enne ingaggiato dall’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale Usaid che era stato arrestato a Cuba il 3 dicembre 2009 e condannato a 15 anni di carcere per “azioni contro l’integrità territoriale dello Stato”. Secondo il governo di Washington Gross era a Cuba solo per dare assistenza informatica alla comunità ebraica cubana per aggirare la censura imposta dal regime a Internet. Ma L’Avana aveva concepito il tutto come un attacco alla sua sicurezza interna.Dopo alcuni anni però Raúl Castro per “ragioni umanitarie”, date le pessime condizioni di salute di Gross ha optato per la sua liberazione.
Secondo i più maliziosi invece in realtà è avvenuto il classico scambio di prigionieri tra Gross e gli ultimi tre agenti dei servizi cubani che, per essersi infiltrati tra i gruppi anti-castristi di Miami fingendosi esuli, erano stati arrestati nel 1998 e condannati nel 2001.L'avvicinamento Usa-Cuba sarà graduale.Si è parlato in primis di facilitazione dei viaggi e dell'invio di denaro.Infine, due giorni fa i due discorsi presidenziali fatti da Barack Obama e Raúl Castro hanno fatto intuire che si tratta di una vera svolta epocale. I due presidenti si sono parlati per telefono il giorno prima e lo stesso papa Francesco aveva partecipato come mediatore nel tentativo di avvicinare le parti.Nel frattempo, dalla Casa Bianca Obama nel suo discorso sottolineava il compito degli Usa di paladini della libertà nel mondo e il suo impegno ad eliminare tutte le vecchie zavorre del passato nei rapporti con le altre nazioni. Solo così si potrà lasciare un futuro migliore: per gli interessi nazionali, per le persone che vivono negli Stati Uniti e per lo stesso popolo cubano.
Obama ha rimarcato che ben cinquant’anni di embargo non hanno funzionato,promettendo che il mese prossimo il Congresso esaminerà anche la possibilità di porre fine al blocco contro Cuba,seguendo però le normali procedure previste dalla legislazione americana,senza imporre per decreto il suo parere.L'idea normativa è quella di cambiare il quadro giuridico per favorire il rafforzamento della società civile e dell’imprenditoria privata a Cuba, facilitare i viaggi e alzare il livello di rimesse consentito. In tal modo sicuramente aumenteranno i permessi di export e import e verranno facilitate le operazioni di paesi terzi finora a rischio di subire anch’essi le conseguenze dell’embargo. Quello che preme molto allo stesso Castro è soprattutto un possibile accordo per i confini marittimi nel Golfo del Messico e nel giro di 6 mesi cancellare Cuba dalla lista nera degli Stati sponsor del terrorismo.Tutti obiettivi alla portata in vista di questa grande svolta storica.
Siria.Aerei israeliani contro Hezbollah.
di Ilenia Marini
Piovono bombe su Damasco contro i terroristi.
Due giorni fa un'intero stormo di aerei israeliani ha attaccato depositi militari siriani in prossimità dell’aeroporto internazionale di Damasco e nella città di Dimas. La notizia è stata resa nota dalla stessa televisione di Stato siriana che ha espressamente parlato di aggressione diretta contro la nazione compiuta da Israele.Molti cittadini residenti a Damasco affermano di aver sentito numerose, potenti esplosioni. Per l’Osservatorio siriano sui Diritti Umani, di base a Londra, nei pressi di Dimas vi sarebbero state almeno dieci esplosioni.
La tv privata vicino al gruppo Hezbollah, conferma l’attacco aggiungendo che per fortuna nessuna vittima ci sarebbe nei bombardamenti.Alcuni reporter stranieri citati dal “Jerusalem Post”, affermano che l’attacco aereo abbia avuto come obiettivi depositi militari governativi dove si trovavano componenti, o lanciatori, dei missili russi C-300 molto probabilmente di proprietà dello stesso Hezbollah e pronti ad essere inviati in Libano nel fomentare la battaglia islamica.
Rivedendo i mesi appena passati ci rendiamo conto che lo Stato di Israele ha condotto almeni dieci raid aerei in Libano per impedire il trasferimento di armi sofisticate ad Hezbollah. La vicenda dei missili russi C-300 resta però molto misteriosa e ricca di domande.Il Cremlino ha più volte affermato di non fornire da due anni alcun tipo di arma a riguardo ma Israele al contrario ipotizza secondo informazioni del Mossad che un grande quantitativo di missili sia comunque giunto ai terroristi.
Due giorni fa un'intero stormo di aerei israeliani ha attaccato depositi militari siriani in prossimità dell’aeroporto internazionale di Damasco e nella città di Dimas. La notizia è stata resa nota dalla stessa televisione di Stato siriana che ha espressamente parlato di aggressione diretta contro la nazione compiuta da Israele.Molti cittadini residenti a Damasco affermano di aver sentito numerose, potenti esplosioni. Per l’Osservatorio siriano sui Diritti Umani, di base a Londra, nei pressi di Dimas vi sarebbero state almeno dieci esplosioni.
La tv privata vicino al gruppo Hezbollah, conferma l’attacco aggiungendo che per fortuna nessuna vittima ci sarebbe nei bombardamenti.Alcuni reporter stranieri citati dal “Jerusalem Post”, affermano che l’attacco aereo abbia avuto come obiettivi depositi militari governativi dove si trovavano componenti, o lanciatori, dei missili russi C-300 molto probabilmente di proprietà dello stesso Hezbollah e pronti ad essere inviati in Libano nel fomentare la battaglia islamica.
Rivedendo i mesi appena passati ci rendiamo conto che lo Stato di Israele ha condotto almeni dieci raid aerei in Libano per impedire il trasferimento di armi sofisticate ad Hezbollah. La vicenda dei missili russi C-300 resta però molto misteriosa e ricca di domande.Il Cremlino ha più volte affermato di non fornire da due anni alcun tipo di arma a riguardo ma Israele al contrario ipotizza secondo informazioni del Mossad che un grande quantitativo di missili sia comunque giunto ai terroristi.
Iran.Partono le prime bombe contro l'Isis.
di Ilenia Marini
Anche l'Iran inizia a bombardare il Califfato dell'Isis.
Da alcuni giorni l'aereonautica iraniana starebbe bombardando obiettivi sensibili dello Stato islamico (Isis) in Iraq. A rivelarlo è una fonte della Difesa statunitense e il Washington Post, secondo cui il governo americano sarebbe anche al corrente delle attività degli aerei da guerra iraniani che operano nel medesimo spazio aereo in cui agiscono anche i caccia della coalizione internazionale. Secondo la fonte, rimasta anonima, i raid aerei sono stati predisposti poichè l'Iran si sente minacciato lungo il proprio confine dalla presenza dei jihadisti del Califfato. Sui presunti raid iraniani non è necessaria una presa di posizione statunitense, almeno finché i caccia della Repubblica islamica non rappresenteranno una vera minaccia per la coalizione internazionale che gli USA guidano.
Il capo del Dipartimento alla Difesa ha rivelato di essere al corrente di queste attività ma non ci sono preoccupazioni solo un lavoro attento di monitoraggio della zona.Inoltre è stato precisato che i raid si starebbero concentrando vicino al confine iraniano, in una zona differente dell’Iraq rispetto a quella dove volano gli aerei della coalizione internazionale. La notizia è stata confermata dal Pentagono. Per il Washington Post il fatto che gli Usa, pur sapendo il livello di coinvolgimento iraniano nella lotta all’Isis decidano di non intromettersi, è una prova evidente e chiara che il Presidente Obama vede nel governo iraniano un partner tattico contro il Califfato.
Ma la conferma dei raid aerei di Teheran potrebbe non piacere agli altri alleati Usa come ad esempio Israele, Arabia Saudita ed Emirati, anche'essi impegnati nella coalizione anti-Isis, che potrebbero spaventarsi a causa dell'attività militare iraniana così vicina ai loto territori. Da parte sua Teheran ha smentito la notizia affermando che si tratta di cosa tendenziosa.Ma sembra tanto una smentita di facciata.
Da alcuni giorni l'aereonautica iraniana starebbe bombardando obiettivi sensibili dello Stato islamico (Isis) in Iraq. A rivelarlo è una fonte della Difesa statunitense e il Washington Post, secondo cui il governo americano sarebbe anche al corrente delle attività degli aerei da guerra iraniani che operano nel medesimo spazio aereo in cui agiscono anche i caccia della coalizione internazionale. Secondo la fonte, rimasta anonima, i raid aerei sono stati predisposti poichè l'Iran si sente minacciato lungo il proprio confine dalla presenza dei jihadisti del Califfato. Sui presunti raid iraniani non è necessaria una presa di posizione statunitense, almeno finché i caccia della Repubblica islamica non rappresenteranno una vera minaccia per la coalizione internazionale che gli USA guidano.
Il capo del Dipartimento alla Difesa ha rivelato di essere al corrente di queste attività ma non ci sono preoccupazioni solo un lavoro attento di monitoraggio della zona.Inoltre è stato precisato che i raid si starebbero concentrando vicino al confine iraniano, in una zona differente dell’Iraq rispetto a quella dove volano gli aerei della coalizione internazionale. La notizia è stata confermata dal Pentagono. Per il Washington Post il fatto che gli Usa, pur sapendo il livello di coinvolgimento iraniano nella lotta all’Isis decidano di non intromettersi, è una prova evidente e chiara che il Presidente Obama vede nel governo iraniano un partner tattico contro il Califfato.
Ma la conferma dei raid aerei di Teheran potrebbe non piacere agli altri alleati Usa come ad esempio Israele, Arabia Saudita ed Emirati, anche'essi impegnati nella coalizione anti-Isis, che potrebbero spaventarsi a causa dell'attività militare iraniana così vicina ai loto territori. Da parte sua Teheran ha smentito la notizia affermando che si tratta di cosa tendenziosa.Ma sembra tanto una smentita di facciata.
Russia.Putin mostra i muscoli alla Nato.
di Ilenia Marini
Il Presidente russo mette in chiaro le sue posizioni.
Vladimir Putin è stato ospite d'onore alla parata per i 70 anni della liberazione della città di Belgrado dall'occupazione nazista.L'evento è stato una sorta di avvertimento alle manovre orientali della Nato e un chiaro avviso anche per la stessa Unione Europea.Infatti quando l’operazione Steadfast Javelin II a settembre è iniziata Vladimir Putin sembra averla presa come una esercitazione militare che la Nato ha svolto per giorni nell’Europa dell’Est, a ridosso dei confini russi forse,secondo i malpensanti, per dimostrare, attraverso la mobilitazione di centinaia di militari (anche italiani), la sua capacità di intervento rapido sullo scenario ucraino.E' stata una scelta militare di importanza storica, che ha ribadito non solo l’allargamento a Est dell’Alleanza Atlantica, fin dentro a quello che un tempo era considerato il “cortile di casa” di Mosca, ma anche il ritorno di una proiezione strategica anti-russa che da anni sembrava essere ormai stata accantonata.
Lo zar Vladimir dopo aver incassato questo duro colpo non ha atteso molto tempo per fornire la sua risposta. La grande parata militare organizzata praticamente in suo onore, a Belgrado in occasione dei 70 anni dalla liberazione dai tedeschi della capitale serba da parte dell’Armata Rossa è sembrata una specie di reazione alla Nato. La delegazione russa era enorme,rappresentata da ben 150 persone e ha avuto anche modo di definire i reciproci impegni relativi alla realizzazione del gasdotto South Stream, la cui eccezionale importanza è nota, così come le difficoltà e le diffuse ostilità che attualmente il progetto incontra in sede europea. Il gasdotto, alla cui realizzazione l'ultimo governo Berlusconi ha dato un grosso contributo inserendo la Eni nel progetto,attraverserà l’intero territorio serbo prima di raggiungere l’Europa occidentale e l’Italia.Su questo argomento Putin ha espresso parole chiare e molto dirette come nel suo tipico stile.
Il South Stream arrecherà giganteschi vantaggi economici a tutte le economie europee rispetto a quelle del resto del mondo” ma,ha sottolineato il Presidente Russo,dovrà essere un vero scambio di interessi.Non è possibile andare avanti se la controparte è timorosa o mantiene perplessità sul tema.Questo è il succo del discorso.Il Nord Stream, l'altro gasdotto creato in pochi anni al nord del mar Baltico, ha fatto la felicità dei paesi del nord Europa. La stessa cosa potrebbe succedere con il South Stream, che in più potrebbe essere di grande utilità per i consumatori europei e diminuire i rischi energetici.Putin quindi ha letteralmente mostrato i muscoli evidenziando come l'Europa tutta sia a doppio filo legata alle scelte della Russia e quindi una minore aggressività nelle scelte Nato lungo i confini ucraini sarebbe ben accetta,onde evitare scontri di interessi negativi per tutte le parti in causa.
Vladimir Putin è stato ospite d'onore alla parata per i 70 anni della liberazione della città di Belgrado dall'occupazione nazista.L'evento è stato una sorta di avvertimento alle manovre orientali della Nato e un chiaro avviso anche per la stessa Unione Europea.Infatti quando l’operazione Steadfast Javelin II a settembre è iniziata Vladimir Putin sembra averla presa come una esercitazione militare che la Nato ha svolto per giorni nell’Europa dell’Est, a ridosso dei confini russi forse,secondo i malpensanti, per dimostrare, attraverso la mobilitazione di centinaia di militari (anche italiani), la sua capacità di intervento rapido sullo scenario ucraino.E' stata una scelta militare di importanza storica, che ha ribadito non solo l’allargamento a Est dell’Alleanza Atlantica, fin dentro a quello che un tempo era considerato il “cortile di casa” di Mosca, ma anche il ritorno di una proiezione strategica anti-russa che da anni sembrava essere ormai stata accantonata.
Lo zar Vladimir dopo aver incassato questo duro colpo non ha atteso molto tempo per fornire la sua risposta. La grande parata militare organizzata praticamente in suo onore, a Belgrado in occasione dei 70 anni dalla liberazione dai tedeschi della capitale serba da parte dell’Armata Rossa è sembrata una specie di reazione alla Nato. La delegazione russa era enorme,rappresentata da ben 150 persone e ha avuto anche modo di definire i reciproci impegni relativi alla realizzazione del gasdotto South Stream, la cui eccezionale importanza è nota, così come le difficoltà e le diffuse ostilità che attualmente il progetto incontra in sede europea. Il gasdotto, alla cui realizzazione l'ultimo governo Berlusconi ha dato un grosso contributo inserendo la Eni nel progetto,attraverserà l’intero territorio serbo prima di raggiungere l’Europa occidentale e l’Italia.Su questo argomento Putin ha espresso parole chiare e molto dirette come nel suo tipico stile.
Il South Stream arrecherà giganteschi vantaggi economici a tutte le economie europee rispetto a quelle del resto del mondo” ma,ha sottolineato il Presidente Russo,dovrà essere un vero scambio di interessi.Non è possibile andare avanti se la controparte è timorosa o mantiene perplessità sul tema.Questo è il succo del discorso.Il Nord Stream, l'altro gasdotto creato in pochi anni al nord del mar Baltico, ha fatto la felicità dei paesi del nord Europa. La stessa cosa potrebbe succedere con il South Stream, che in più potrebbe essere di grande utilità per i consumatori europei e diminuire i rischi energetici.Putin quindi ha letteralmente mostrato i muscoli evidenziando come l'Europa tutta sia a doppio filo legata alle scelte della Russia e quindi una minore aggressività nelle scelte Nato lungo i confini ucraini sarebbe ben accetta,onde evitare scontri di interessi negativi per tutte le parti in causa.
La Cina alla ricerca di un nuovo ordine.
di Ilenia Marini
Importante summit economico-politico tra Cina,Usa e Russia.
Pechino fino al 20 Novembre ha ospitato il summit della Cooperazione economica dell’Asia Pacifica (Apec, dall’inglese Asia Pacific economic cooperation). L’evento è stata una grande occasione per il Presidente cinese Xi Jinping per evidenziare il forte ruolo di fulcro della Cina e la notevole crescita economica del suo paese tentando anche di proporre il proprio ordine regionale di fronte al presidente Usa Barack Obama, al suo omologo Vladimir Putin e al primo ministro giapponese Shinzo Abe.L’Apec, sorto alla fine della Guerra Fredda, è un convegno mondiale formato dalle economie di 21 paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, e la cui economia di scambio è pari al 47% del commercio mondiale. Il suo scopo principale è incentivare il libero scambio e la cooperazione economica. Su richiesta esplicita di Pechino, il forum Apec ha stabilito una nuova roadmap della Free trade area of the Asia Pacific (Ftaap), un’area di libero scambio nata per la prima volta nel 2004 che comprenderebbe metà del commercio e dell’economia globale.
Per tale fine è stato anche presentato uno “studio strategico collettivo” i cui risultati saranno noti nel 2016.L’Ftaap è la proposta cinese alla Trans-Pacific partnership (Tpp), ovvero la recente strategia degli Usa per contenere l’ascesa di Pechino. La Tpp infatti contiene stringenti norme a tutela dei lavoratori, della proprietà intellettuale e dell’ambiente. Argomenti che la Repubblica popolare cinese gestisce sempre in modo non perfetto L’obiettivo degli Usa è quindi evidente: isolare economicamente la Cina, che infatti non ha partecipato ai negoziati, oppure costringerla a rispettare le regole del gioco stabilite dagli Usa. Il summit di Novembre invece si è concluso nettamente a favore della Cina. Pechino ha dato maggiore concretezza ai suoi progetti di politica estera, favorendo una maggiore collaborazione con gli Usa e proponendo un nuovo ordine economico nel pacifico.
La Ftaap rappresenta il “Sogno dell’Asia Pacifica”, con esso il Presidente Xi ha reso note le sue volontà e potenzialmente fare concorrenza agli Usa. In più ha stretto ulteriormente i rapporti con Putin il quale invece ha dialogato per poco tempo con Obama sui dossier Ucraina, Siria e Iran. Questo summit potrebbe dare inizio a una nuova fase del rapporto tra Cina e Usa, in cui entrambe potrebbero intensificare gli sforzi per dettare le regole in Estremo Oriente. Rimane da vedere fino a quando le strategie dei due colossi collimeranno. Xin ha sottolineato che il suo scopo è rafforzare la posizione economica cinese fino alla fine del suo mandato e anche oltre,Usa permettendo aggiungiamo noi.
Pechino fino al 20 Novembre ha ospitato il summit della Cooperazione economica dell’Asia Pacifica (Apec, dall’inglese Asia Pacific economic cooperation). L’evento è stata una grande occasione per il Presidente cinese Xi Jinping per evidenziare il forte ruolo di fulcro della Cina e la notevole crescita economica del suo paese tentando anche di proporre il proprio ordine regionale di fronte al presidente Usa Barack Obama, al suo omologo Vladimir Putin e al primo ministro giapponese Shinzo Abe.L’Apec, sorto alla fine della Guerra Fredda, è un convegno mondiale formato dalle economie di 21 paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, e la cui economia di scambio è pari al 47% del commercio mondiale. Il suo scopo principale è incentivare il libero scambio e la cooperazione economica. Su richiesta esplicita di Pechino, il forum Apec ha stabilito una nuova roadmap della Free trade area of the Asia Pacific (Ftaap), un’area di libero scambio nata per la prima volta nel 2004 che comprenderebbe metà del commercio e dell’economia globale.
Per tale fine è stato anche presentato uno “studio strategico collettivo” i cui risultati saranno noti nel 2016.L’Ftaap è la proposta cinese alla Trans-Pacific partnership (Tpp), ovvero la recente strategia degli Usa per contenere l’ascesa di Pechino. La Tpp infatti contiene stringenti norme a tutela dei lavoratori, della proprietà intellettuale e dell’ambiente. Argomenti che la Repubblica popolare cinese gestisce sempre in modo non perfetto L’obiettivo degli Usa è quindi evidente: isolare economicamente la Cina, che infatti non ha partecipato ai negoziati, oppure costringerla a rispettare le regole del gioco stabilite dagli Usa. Il summit di Novembre invece si è concluso nettamente a favore della Cina. Pechino ha dato maggiore concretezza ai suoi progetti di politica estera, favorendo una maggiore collaborazione con gli Usa e proponendo un nuovo ordine economico nel pacifico.
La Ftaap rappresenta il “Sogno dell’Asia Pacifica”, con esso il Presidente Xi ha reso note le sue volontà e potenzialmente fare concorrenza agli Usa. In più ha stretto ulteriormente i rapporti con Putin il quale invece ha dialogato per poco tempo con Obama sui dossier Ucraina, Siria e Iran. Questo summit potrebbe dare inizio a una nuova fase del rapporto tra Cina e Usa, in cui entrambe potrebbero intensificare gli sforzi per dettare le regole in Estremo Oriente. Rimane da vedere fino a quando le strategie dei due colossi collimeranno. Xin ha sottolineato che il suo scopo è rafforzare la posizione economica cinese fino alla fine del suo mandato e anche oltre,Usa permettendo aggiungiamo noi.
Brasile.Nuova Presidente e nuova epoca.
di Ilenia Marini
Grandi novità nella politica nazionale brasiliana.
Il Brasile canta e festeggia,dopo una delle campagna per le presidenziali più dure degli ultimi decenni,condita da insulti e offese personali, il popolo brasiliano si è espresso democraticamente.Dilma Rousseff ha vinto al secondo turno le elezioni nazionali battendo Aécio Neves, con il 51% dei voti. Il gigante sudamericano ha messo in mostra il suo grande senso democratico,cosa non scontata in sud America.Ma oggi una serie di riflessioni vanno comunque fatte.Il Brasile rimane un paese diviso. Molto diviso. In primis si è avuta una netta separazione territoriale, ma ancora più profonde solo le differenze di reddito e razziali. In sostanza, dalle urne sono emerse due nazioni differenti.La vittoria di Dilma è strettamente connessa ai 13 milioni di voti di vantaggio che ha ottenuto nelle regioni del nord e del nord-est, le zone più povere e arretrate dello Stato.
Aécio ha avuto la meglio negli altri territori del paese: sud, sud-est e centro-ovest, ovvero le aree più sviluppate economicamente. Una sorpresa gli stati federati di Rio de Janeiro e Minas Gerais, dove la presidente ha vinto di misura. Si è venuta quindi a creare una sorta di confine ideale tra nord e sud che ben rappresenta i tormenti sociali del Brasile in questi ultimi anni.Il nord-est é la regione che ha ottenuto i maggiori benefici dai programmi sociali dei governi del Partito dei Lavoratori come il “Bolsa Família”. Non è un caso che i residenti in quest'area hanno votato in massa per mantenere la situazione attuale. Il Partito dei Lavoratori ha usato queste riforme come minaccia parlando apertamente di tagli nel caso di vittoria del Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb), provocando vere e proprie manifestazioni di panico tra la popolazione.
Dilma è una vera anima nuova della politica brasiliana e non è mai stata una militante dura e pura del Pt infatti ha parlato di cacciare apertamente i colleghi corrotti del suo partito.Dovrà stare però attenta a non diventare ostaggio della più organizzata e agguerrita macchina elettorale del Brasile: un partito che secondo molti possiede un vero progetto di potere di lungo periodo e che punta a mantenere le posizioni a Brasilia, con o senza di lei.La nuova Presidente avrà molte possibilità di alleanze con parti dell’economia, della società civile e con le forze politiche desiderose di trovare un’uscita moderna e innovativa per il piano di sviluppo economico del Brasile,da alcuni anni appannatosi.Questo progetto si realizzerà solo se la “presidenta” metterà da parte le posizioni ideologiche e in maniera pratica e realistica guarderà al futuro del paese non al suo passato. accantonerà la sua ostinazione ideologica, guardando pragmaticamente al futuro e non al passato.
Il Brasile canta e festeggia,dopo una delle campagna per le presidenziali più dure degli ultimi decenni,condita da insulti e offese personali, il popolo brasiliano si è espresso democraticamente.Dilma Rousseff ha vinto al secondo turno le elezioni nazionali battendo Aécio Neves, con il 51% dei voti. Il gigante sudamericano ha messo in mostra il suo grande senso democratico,cosa non scontata in sud America.Ma oggi una serie di riflessioni vanno comunque fatte.Il Brasile rimane un paese diviso. Molto diviso. In primis si è avuta una netta separazione territoriale, ma ancora più profonde solo le differenze di reddito e razziali. In sostanza, dalle urne sono emerse due nazioni differenti.La vittoria di Dilma è strettamente connessa ai 13 milioni di voti di vantaggio che ha ottenuto nelle regioni del nord e del nord-est, le zone più povere e arretrate dello Stato.
Aécio ha avuto la meglio negli altri territori del paese: sud, sud-est e centro-ovest, ovvero le aree più sviluppate economicamente. Una sorpresa gli stati federati di Rio de Janeiro e Minas Gerais, dove la presidente ha vinto di misura. Si è venuta quindi a creare una sorta di confine ideale tra nord e sud che ben rappresenta i tormenti sociali del Brasile in questi ultimi anni.Il nord-est é la regione che ha ottenuto i maggiori benefici dai programmi sociali dei governi del Partito dei Lavoratori come il “Bolsa Família”. Non è un caso che i residenti in quest'area hanno votato in massa per mantenere la situazione attuale. Il Partito dei Lavoratori ha usato queste riforme come minaccia parlando apertamente di tagli nel caso di vittoria del Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb), provocando vere e proprie manifestazioni di panico tra la popolazione.
Dilma è una vera anima nuova della politica brasiliana e non è mai stata una militante dura e pura del Pt infatti ha parlato di cacciare apertamente i colleghi corrotti del suo partito.Dovrà stare però attenta a non diventare ostaggio della più organizzata e agguerrita macchina elettorale del Brasile: un partito che secondo molti possiede un vero progetto di potere di lungo periodo e che punta a mantenere le posizioni a Brasilia, con o senza di lei.La nuova Presidente avrà molte possibilità di alleanze con parti dell’economia, della società civile e con le forze politiche desiderose di trovare un’uscita moderna e innovativa per il piano di sviluppo economico del Brasile,da alcuni anni appannatosi.Questo progetto si realizzerà solo se la “presidenta” metterà da parte le posizioni ideologiche e in maniera pratica e realistica guarderà al futuro del paese non al suo passato. accantonerà la sua ostinazione ideologica, guardando pragmaticamente al futuro e non al passato.
Messico.Trovati i corpi dei 43 studenti.
di Ilenia Marini
Terribile scoperta che sconvolge la Comunità Internazionale.
Sono giorni di forte tensione in Messico,il Movimento Studentesco Nazionale è sconvolto dalla morte di circa 40 studenti spariti nel nulla un mese fa e ritrovati in una fosse comune trucidati e abbandonati. Era nell'area la macabra scoperta e anche alcuni gruppi criminali della zona avevano già da settimane ipotizzato la fine orribile per gli studenti messicani. Due persone delle 60 arrestate dalla polizia hanno già confessato di aver partecipato all'azione omicida sparando ai giovani alle spalle e di aver poi nascosto i corpi in un dirupo.Per questo da ieri in Messico è iniziato uno sciopero trasversale a tutte le scuole. Una sollevazione studentesca di tre giorni che chiede alle autorità di punire in modo esemplare i colpevoli di tale atto terribile.
Qualcosa sembra muoversi in tal senso visto che ieri la polizia criminale ha convalidato l'arresto del sindaco di Iguala, la località di montagna in cui si è svolta quella che ormai le cronache chiamano «La Strage di Ayotzinapa», in riferimento alla scuola da cui provenivano i manifestanti. Si tratta di un gesto importante ha anche sottolineato il presidente Enrique Peña Nieto, riguardo alla detenzione di colui che, insieme a membri del suo locale partito, è sospettato di aver scatenato contro gli studenti una banda di poliziotti e di sicari armati, per evitare che contestassero un loro comizio.
Il sindaco in questione è José Luis Abarca,detto l'Imperatore: è emerso nella politica ai danni di avversari quasi tutti uccisi in circostanze sospette, ancora più sconcerto riguarda la sua consorte, Isabela De Rojas,sorella di due narcotrafficanti ormai morti e legati al clan dei «Guerreros Unidos», una banda che si crede abbia conquistato l’esclusiva per portare la droga messicana a Chicago. La polizia ritiene quasi certamente che se qualcuno conosce il motivo dell'assassinio degli studenti scomparsi, questi sono loro. Intanto, è diventata enorme l’indignazione internazionale e l’immagine del Paese risulta completamente compromessa. Lo ha affermato ieri anche il ministro delle Finanze messicane, il quale ammette che da oggi in poi il nome del Messico sarà in modo indelebile collegato alle atrocità di un posto in cui 43 giovani studenti che protestavano pacificamente in piazza sono stati rapiti e trucidati senza motivo.
Sono giorni di forte tensione in Messico,il Movimento Studentesco Nazionale è sconvolto dalla morte di circa 40 studenti spariti nel nulla un mese fa e ritrovati in una fosse comune trucidati e abbandonati. Era nell'area la macabra scoperta e anche alcuni gruppi criminali della zona avevano già da settimane ipotizzato la fine orribile per gli studenti messicani. Due persone delle 60 arrestate dalla polizia hanno già confessato di aver partecipato all'azione omicida sparando ai giovani alle spalle e di aver poi nascosto i corpi in un dirupo.Per questo da ieri in Messico è iniziato uno sciopero trasversale a tutte le scuole. Una sollevazione studentesca di tre giorni che chiede alle autorità di punire in modo esemplare i colpevoli di tale atto terribile.
Qualcosa sembra muoversi in tal senso visto che ieri la polizia criminale ha convalidato l'arresto del sindaco di Iguala, la località di montagna in cui si è svolta quella che ormai le cronache chiamano «La Strage di Ayotzinapa», in riferimento alla scuola da cui provenivano i manifestanti. Si tratta di un gesto importante ha anche sottolineato il presidente Enrique Peña Nieto, riguardo alla detenzione di colui che, insieme a membri del suo locale partito, è sospettato di aver scatenato contro gli studenti una banda di poliziotti e di sicari armati, per evitare che contestassero un loro comizio.
Il sindaco in questione è José Luis Abarca,detto l'Imperatore: è emerso nella politica ai danni di avversari quasi tutti uccisi in circostanze sospette, ancora più sconcerto riguarda la sua consorte, Isabela De Rojas,sorella di due narcotrafficanti ormai morti e legati al clan dei «Guerreros Unidos», una banda che si crede abbia conquistato l’esclusiva per portare la droga messicana a Chicago. La polizia ritiene quasi certamente che se qualcuno conosce il motivo dell'assassinio degli studenti scomparsi, questi sono loro. Intanto, è diventata enorme l’indignazione internazionale e l’immagine del Paese risulta completamente compromessa. Lo ha affermato ieri anche il ministro delle Finanze messicane, il quale ammette che da oggi in poi il nome del Messico sarà in modo indelebile collegato alle atrocità di un posto in cui 43 giovani studenti che protestavano pacificamente in piazza sono stati rapiti e trucidati senza motivo.
Centro-Africa.Partita la missione ONU.
di Ilenia Marini
Rafforzata la missione di pace nel paese africano.
A Maggio il Consiglio di Sicurezza ONU aveva dato il via alla missione di peacekeeping nella Repubblica Centrafricana e circa duemila soldati erano stati allertati per sostituire le truppe dell’Unione africana allo scopo di donare finalmente stabilità al Paese. A Bangui e nell’entroterra occidentale è in corso da circa un anno infatti una vera guerra civile nel nome dell’Islam.Dopo circa un anno e mezzo dal colpo di Stato con cui i ribelli per lo più musulmani della coalizione Seleka hanno deposto il presidente François Bozizé, la Repubblica centrafricana è sconvolta dal disordine sociale.l conflitto tra i Seleka e le milizie cristiane degli anti-Balaka ha già provocato ad oggi 5 mila vittime e un milione e mezzo di sfollati. La situazione è peggiorata ancora di più dopo che la pericolosa milizia che aveva appoggiato il golpe, e nelle cui fila erano presenti molti criminali comuni e mercenari provenienti da Ciad e Sudan, è stata smembrata.
Gli ex miliziani non hanno accettato lo scioglimento del loro reggimento e hanno compiuto razzie ai danni della popolazione di ogni etnia e religione. Non sono stati risparmiati neanche i quartieri abitati in prevalenza da musulmani, che teoricamente l'alleanza golpista affermava di rappresentare. Nel giro di poche settimane si sono avute violenze inaudite,omicidi, stupri ed esecuzioni sommarie.Per opporsi a questi soprusi sono nati i gruppi degli anti-Balaka, letteralmente ‘anti-machete’, che hanno compiuto crimini simili se non peggiori degli antagonisti islamici. Nel solo villaggio di Bossemptélé, in poche ore, oltre cento musulmani sono stati trucidati e gettati in una fossa comune. Per frenare tale caos inizialmente è sorta la truppa militare Eufor Rca a Bangui, costituita da circa 700 soldati di diverse nazioni e comprende anche una forza di polizia.
Anche l'Italia,secondo le parole del ministro della Difesa Roberta Pinotti, darà il suo contributo inviando l’8° Reggimento genio guastatori della brigata paracadutisti ‘Folgore’ e anche alcuni elementi associati al comando di Eufor Rca a Bangui.I loro obiettivi saranno quelli di garantire la mobilità delle forze europee, la bonifica di residuati bellici e la realizzazione di lavori infrastrutturali di base in favore dei civili e del governo locale. In più sotto l'egida dell'Onu dovranno monitorare un importante progetto di ricostruzione di un ponte, finanziato dall’Ue e affidato a imprese locali.L'unica preoccupazione rimane quella di comprendere se la missione nel suo insieme servirà a garantire effettivamente una pacificazione del paese permettendo nel 2015 alla Repubblica Centrafricana di avere elezioni democratiche e quindi tornare ad essere una nazione normale.
A Maggio il Consiglio di Sicurezza ONU aveva dato il via alla missione di peacekeeping nella Repubblica Centrafricana e circa duemila soldati erano stati allertati per sostituire le truppe dell’Unione africana allo scopo di donare finalmente stabilità al Paese. A Bangui e nell’entroterra occidentale è in corso da circa un anno infatti una vera guerra civile nel nome dell’Islam.Dopo circa un anno e mezzo dal colpo di Stato con cui i ribelli per lo più musulmani della coalizione Seleka hanno deposto il presidente François Bozizé, la Repubblica centrafricana è sconvolta dal disordine sociale.l conflitto tra i Seleka e le milizie cristiane degli anti-Balaka ha già provocato ad oggi 5 mila vittime e un milione e mezzo di sfollati. La situazione è peggiorata ancora di più dopo che la pericolosa milizia che aveva appoggiato il golpe, e nelle cui fila erano presenti molti criminali comuni e mercenari provenienti da Ciad e Sudan, è stata smembrata.
Gli ex miliziani non hanno accettato lo scioglimento del loro reggimento e hanno compiuto razzie ai danni della popolazione di ogni etnia e religione. Non sono stati risparmiati neanche i quartieri abitati in prevalenza da musulmani, che teoricamente l'alleanza golpista affermava di rappresentare. Nel giro di poche settimane si sono avute violenze inaudite,omicidi, stupri ed esecuzioni sommarie.Per opporsi a questi soprusi sono nati i gruppi degli anti-Balaka, letteralmente ‘anti-machete’, che hanno compiuto crimini simili se non peggiori degli antagonisti islamici. Nel solo villaggio di Bossemptélé, in poche ore, oltre cento musulmani sono stati trucidati e gettati in una fossa comune. Per frenare tale caos inizialmente è sorta la truppa militare Eufor Rca a Bangui, costituita da circa 700 soldati di diverse nazioni e comprende anche una forza di polizia.
Anche l'Italia,secondo le parole del ministro della Difesa Roberta Pinotti, darà il suo contributo inviando l’8° Reggimento genio guastatori della brigata paracadutisti ‘Folgore’ e anche alcuni elementi associati al comando di Eufor Rca a Bangui.I loro obiettivi saranno quelli di garantire la mobilità delle forze europee, la bonifica di residuati bellici e la realizzazione di lavori infrastrutturali di base in favore dei civili e del governo locale. In più sotto l'egida dell'Onu dovranno monitorare un importante progetto di ricostruzione di un ponte, finanziato dall’Ue e affidato a imprese locali.L'unica preoccupazione rimane quella di comprendere se la missione nel suo insieme servirà a garantire effettivamente una pacificazione del paese permettendo nel 2015 alla Repubblica Centrafricana di avere elezioni democratiche e quindi tornare ad essere una nazione normale.
Libia.Il Parlamento sfida gli islamisti.
di Ilenia Marini
Speranza per la rinascita democratica della Libia.
Tobruk è il luogo della speranza,è qui infatti che in questi giorni il gruppo di deputati neo eletti,ben 188 parlamentari,si incontrerà per discutere e confrontarsi su idee e progetti politici per la nuova Libia.Hanno sfidato terroristi e criminali islamici che minacciavano la buona riuscita del summit che si prefigge lo scopo di dare un corso nuovo al paese tanto sconvolto dal regime di Gheddafi e dal caos delle primavere arabe degli ultimi due anni.Nella capitale della Cirenaica, la regione più ricca e sviluppata del paese, i deputati si scambieranno valutazioni e proposte che poi svilupperanno nel nuovo Parlamento. Nella città di Bengasi, nella quale gruppi di miliziani integralisti hanno proclamato un Emirato islamico pur non avendo conquistato la città, dovrebbero aver sede le riunioni politiche future ma in caso di minacce potrebbero poi essere dislocate proprio a Tobruk o ad Al Beida.
Molto dipenderà da quello che accadrà nelle prossime settimane.Le città di Bengasi e Tripoli sono città ingovernabili, teatri di scontri violenti tra milizie contrapposte, e il ministero della Salute libico parla di 214 morti e 981 feriti negli scontri nelle ultime settimane. Ma non solo i gruppi islamici la fanno da padrone.Sono oramai molte le manifestazioni che nelle città della Cirenaica e della Tripolitania iniziano a sorgere a favore del nuovo Parlamento libico,per dare sostegno al sogno democratico del paese. In Libia infatti da mesi regna il caos sociale e politico, a Tripoli come a Bengasi la gente ormai non esce di casa. In questi giorni molte sono le persone che scappano letteralmente verso i paesi confinanti.Almeno ottomila libici all’inizio della settimana, e giovedì diecimila sono scappati in Tunisia. Senza contare la miriade di persone pronte ad imbarcarsi sulle navi dei trafficanti e giungere in clandestinità sulle coste italiane.
Da gran parte dei partiti politici arriva intanto un chiaro messaggio di aiuto alla Comunità Internazionale.Si chiede di inviare con urgenza caschi blu nel territorio allo scopo di prendere il controllo presso Tripoli e Bengasi dei numerosi pozzi di petrolio che spesso in modo illegale vengono gestiti dai gruppi terroristici.Si invoca la presenza Nato per controllare le strade e monitorare lo spazio aereo in modo da evitare il lancio di armi clandestine che spesso paesi integralisti confinanti inviano alle truppe terroristiche sul suolo libico.Nei prossimi giorni quasi sicuramente le milizie proveranno a impedire che il Parlamento possa riunirsi a Bengasi. Basti pensare che di 200 seggi previsti, ne sono stati assegnati 188. All’appello ne mancano 12, eletti in collegi dove le elezioni non si sono potute svolgere per motivi di ordine pubblico. Mentre è in corso il lavoro dell’assemblea costituente (60 saggi democraticamente eletti), il nuovo Parlamento a breve sceglierà il Governo che avrà il compito importante di riformare un paese che negli ultimi anni è stato bloccato e mortificato dalle follie dell’islamismo integralista.
Tobruk è il luogo della speranza,è qui infatti che in questi giorni il gruppo di deputati neo eletti,ben 188 parlamentari,si incontrerà per discutere e confrontarsi su idee e progetti politici per la nuova Libia.Hanno sfidato terroristi e criminali islamici che minacciavano la buona riuscita del summit che si prefigge lo scopo di dare un corso nuovo al paese tanto sconvolto dal regime di Gheddafi e dal caos delle primavere arabe degli ultimi due anni.Nella capitale della Cirenaica, la regione più ricca e sviluppata del paese, i deputati si scambieranno valutazioni e proposte che poi svilupperanno nel nuovo Parlamento. Nella città di Bengasi, nella quale gruppi di miliziani integralisti hanno proclamato un Emirato islamico pur non avendo conquistato la città, dovrebbero aver sede le riunioni politiche future ma in caso di minacce potrebbero poi essere dislocate proprio a Tobruk o ad Al Beida.
Molto dipenderà da quello che accadrà nelle prossime settimane.Le città di Bengasi e Tripoli sono città ingovernabili, teatri di scontri violenti tra milizie contrapposte, e il ministero della Salute libico parla di 214 morti e 981 feriti negli scontri nelle ultime settimane. Ma non solo i gruppi islamici la fanno da padrone.Sono oramai molte le manifestazioni che nelle città della Cirenaica e della Tripolitania iniziano a sorgere a favore del nuovo Parlamento libico,per dare sostegno al sogno democratico del paese. In Libia infatti da mesi regna il caos sociale e politico, a Tripoli come a Bengasi la gente ormai non esce di casa. In questi giorni molte sono le persone che scappano letteralmente verso i paesi confinanti.Almeno ottomila libici all’inizio della settimana, e giovedì diecimila sono scappati in Tunisia. Senza contare la miriade di persone pronte ad imbarcarsi sulle navi dei trafficanti e giungere in clandestinità sulle coste italiane.
Da gran parte dei partiti politici arriva intanto un chiaro messaggio di aiuto alla Comunità Internazionale.Si chiede di inviare con urgenza caschi blu nel territorio allo scopo di prendere il controllo presso Tripoli e Bengasi dei numerosi pozzi di petrolio che spesso in modo illegale vengono gestiti dai gruppi terroristici.Si invoca la presenza Nato per controllare le strade e monitorare lo spazio aereo in modo da evitare il lancio di armi clandestine che spesso paesi integralisti confinanti inviano alle truppe terroristiche sul suolo libico.Nei prossimi giorni quasi sicuramente le milizie proveranno a impedire che il Parlamento possa riunirsi a Bengasi. Basti pensare che di 200 seggi previsti, ne sono stati assegnati 188. All’appello ne mancano 12, eletti in collegi dove le elezioni non si sono potute svolgere per motivi di ordine pubblico. Mentre è in corso il lavoro dell’assemblea costituente (60 saggi democraticamente eletti), il nuovo Parlamento a breve sceglierà il Governo che avrà il compito importante di riformare un paese che negli ultimi anni è stato bloccato e mortificato dalle follie dell’islamismo integralista.
Turchia.Un paese senza più diritti.
di Ilenia Marini
Situazione civile sempre critica nel Paese della Mezzaluna.
Come ogni anno arriva il dossier annuale di Bruxelles sui progressi dei Paese europei in tema di diritti e libertà garantite ai cittadini e ancora una volta la Turchia provoca forti perplessità per quanto riguarda la situazione della propria popolazione interna. A destare maggiore preoccupazione ci sono la limitazione dell’indipendenza della magistratura e della libertà di stampa. Tutti argomenti sui quali da Bruxelles sono nel corso dell'anno arrivati richiami continui. Dal dossier si evidenzia come in Turchia c'è grande pericolo per l’indipendenza della magistratura e per la separazione dei poteri. I numerosi ricollocamenti di ufficiali di polizia, giudici e pubblici ministeri, nonostante le dichiarazioni del governo che queste non erano legate al caso anti corruzione, hanno avuto un impatto sul funzionamento delle istituzioni e provocato enormi dubbi sulla legalità di tali procedure.
Forti preoccupazioni inoltre permangono anche in tema di libertà di stampa. Secondo Bruxelles la pressione sulla stampa in Turchia sta portando a una crescente autocensura, sviluppando in modo veloce un approccio restrittivo alla libertà di informazione. Grandi critiche sono giunte dalla Commissione anche per le limitazioni imposte alla libertà di assemblea. Intanto in tutto il Paese c'è tensione sociale,che cresce ed aumenta. A Kobane la cittadina oltre confine dove i curdi siriani stanno combattendo contro Isis, si lotta casa per casa nella speranza che la città non cada. Ma è una speranza sempre più vana. Proprio in queste ore arrivano notizie non rassicuranti e si ipotizza che circa metà città sia oramai finita nelle mani dell'esercito dell' Isis. A Suruc, fra i quasi 200mila rifugiati, la situazione è davvero drammatica per mancanza soprattutto di cure mediche e per le difficoltà dovute al caldo torrido dell’Anatolia.
Proprio ieri al confine iracheno è stata inoltre un'altra notte di grande tensione. Il bilancio dei morti è salito a 22, i feriti e gli arrestati sono a centinaia. In sette città è stato imposto il coprifuoco dalle autorità turche ed ha funzionato, ma in altre località, come Istanbul, i curdi sono tornati in piazza, dando inizio ad una vera guerriglia urbana e iniziando scontri non solo con la polizia, ma anche con vari movimenti islamici e ultra nazionalisti.
Come ogni anno arriva il dossier annuale di Bruxelles sui progressi dei Paese europei in tema di diritti e libertà garantite ai cittadini e ancora una volta la Turchia provoca forti perplessità per quanto riguarda la situazione della propria popolazione interna. A destare maggiore preoccupazione ci sono la limitazione dell’indipendenza della magistratura e della libertà di stampa. Tutti argomenti sui quali da Bruxelles sono nel corso dell'anno arrivati richiami continui. Dal dossier si evidenzia come in Turchia c'è grande pericolo per l’indipendenza della magistratura e per la separazione dei poteri. I numerosi ricollocamenti di ufficiali di polizia, giudici e pubblici ministeri, nonostante le dichiarazioni del governo che queste non erano legate al caso anti corruzione, hanno avuto un impatto sul funzionamento delle istituzioni e provocato enormi dubbi sulla legalità di tali procedure.
Forti preoccupazioni inoltre permangono anche in tema di libertà di stampa. Secondo Bruxelles la pressione sulla stampa in Turchia sta portando a una crescente autocensura, sviluppando in modo veloce un approccio restrittivo alla libertà di informazione. Grandi critiche sono giunte dalla Commissione anche per le limitazioni imposte alla libertà di assemblea. Intanto in tutto il Paese c'è tensione sociale,che cresce ed aumenta. A Kobane la cittadina oltre confine dove i curdi siriani stanno combattendo contro Isis, si lotta casa per casa nella speranza che la città non cada. Ma è una speranza sempre più vana. Proprio in queste ore arrivano notizie non rassicuranti e si ipotizza che circa metà città sia oramai finita nelle mani dell'esercito dell' Isis. A Suruc, fra i quasi 200mila rifugiati, la situazione è davvero drammatica per mancanza soprattutto di cure mediche e per le difficoltà dovute al caldo torrido dell’Anatolia.
Proprio ieri al confine iracheno è stata inoltre un'altra notte di grande tensione. Il bilancio dei morti è salito a 22, i feriti e gli arrestati sono a centinaia. In sette città è stato imposto il coprifuoco dalle autorità turche ed ha funzionato, ma in altre località, come Istanbul, i curdi sono tornati in piazza, dando inizio ad una vera guerriglia urbana e iniziando scontri non solo con la polizia, ma anche con vari movimenti islamici e ultra nazionalisti.
ISIS. Anche il quarto ostaggio decapitato.
di Ilenia Marini
Anche il volontario inglese assassinato in Siria.
Altre notizie terrificanti dal fronte islamico-terroristico. L'Isis avrebbe decapitato il cooperante britannico Alan Henning, 48 anni, già sequestrato a gennaio in Siria dove si era recato per scopi umanitari. Sarebbe il quarto ostaggio occidentale ucciso dalle milizie terroristiche dell'Isis. Un macabro video è stato ieri diffuso in rete e mostrerebbe la sua decapitazione. Gli jihadisti avevano anticipato l'annuncio della sua morte il giorno dopo l'altra decapitazione di David Haines, lo scorso mese.Totale condanna bipartisan è giunta da Stati Uniti e Gran Bretagna. Il presidente americano, Barack Obama, ha affermato che gli USA insieme alla Gran Bretagna e agli alleati continueranno a battersi affinchè venga fatta giustizia.Nel video dell'uccisione il boia si rivolge direttamente al premier britannico Cameron e lo accusa di aver,con le sue scelte politiche,provocato la morte del connazionale.
Inoltre sempre nelle immagini l'Isis annuncia che a breve stessa sorte sarà dedicata all'altro ostaggio statunitense Peter Kassig, anch'egli nelle mani dei jihadisti. Nei giorni scorsi la moglie di Alan Henning, Barbara, aveva inviato un intenso annuncio ai miliziani dell'Isis pregandoli di salvare la vita di suo marito,preghiera risultata però vana. Intanto si continua a combattere sul terreno. Le forze di autodifesa peshmerga in Siria lanciano un appello ai curdi per unirsi nella resistenza allo Stato Islamico. E sono giorni di forti scontri anche a Kobane, la città curda a nord della Siria e vicina al confine con la Turchia, che da oltre due settimane è sotto assedio e da cui nei giorni scorsi ben 150mila civili sono fuggiti cercando scampo in territorio turco.I membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu hanno condannato fermamente l'efferato e vile assassinio di Alan Kenning da parte dell'Isis. Il Consiglio afferma che tale ennesimo crimine è un tragico promemoria del pericolo che i volontari umanitari fronteggiano ogni giorno in Siria.
Inoltre si rimarca la totale brutalità dello Stato Islamico, responsabile di migliaia di abusi contro i popoli siriano e iracheno.Secondo l'ONU bisogna accelerare nella battaglia contro l'Isis e porre fine alle continue barbarie che non devono intimidire ma piuttosto rafforzare la determinazione e la coesione tra i vari stati,governi e istituzioni nel contrastare lo Stato Islamico e gli altri gruppi estremisti.Assicurare i responsabili di tali crimini alla giustizia e debellare il virus terroristico è lo scopo che la Comunità Internazionale deve porsi e realizzare al più presto possibile.
Altre notizie terrificanti dal fronte islamico-terroristico. L'Isis avrebbe decapitato il cooperante britannico Alan Henning, 48 anni, già sequestrato a gennaio in Siria dove si era recato per scopi umanitari. Sarebbe il quarto ostaggio occidentale ucciso dalle milizie terroristiche dell'Isis. Un macabro video è stato ieri diffuso in rete e mostrerebbe la sua decapitazione. Gli jihadisti avevano anticipato l'annuncio della sua morte il giorno dopo l'altra decapitazione di David Haines, lo scorso mese.Totale condanna bipartisan è giunta da Stati Uniti e Gran Bretagna. Il presidente americano, Barack Obama, ha affermato che gli USA insieme alla Gran Bretagna e agli alleati continueranno a battersi affinchè venga fatta giustizia.Nel video dell'uccisione il boia si rivolge direttamente al premier britannico Cameron e lo accusa di aver,con le sue scelte politiche,provocato la morte del connazionale.
Inoltre sempre nelle immagini l'Isis annuncia che a breve stessa sorte sarà dedicata all'altro ostaggio statunitense Peter Kassig, anch'egli nelle mani dei jihadisti. Nei giorni scorsi la moglie di Alan Henning, Barbara, aveva inviato un intenso annuncio ai miliziani dell'Isis pregandoli di salvare la vita di suo marito,preghiera risultata però vana. Intanto si continua a combattere sul terreno. Le forze di autodifesa peshmerga in Siria lanciano un appello ai curdi per unirsi nella resistenza allo Stato Islamico. E sono giorni di forti scontri anche a Kobane, la città curda a nord della Siria e vicina al confine con la Turchia, che da oltre due settimane è sotto assedio e da cui nei giorni scorsi ben 150mila civili sono fuggiti cercando scampo in territorio turco.I membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu hanno condannato fermamente l'efferato e vile assassinio di Alan Kenning da parte dell'Isis. Il Consiglio afferma che tale ennesimo crimine è un tragico promemoria del pericolo che i volontari umanitari fronteggiano ogni giorno in Siria.
Inoltre si rimarca la totale brutalità dello Stato Islamico, responsabile di migliaia di abusi contro i popoli siriano e iracheno.Secondo l'ONU bisogna accelerare nella battaglia contro l'Isis e porre fine alle continue barbarie che non devono intimidire ma piuttosto rafforzare la determinazione e la coesione tra i vari stati,governi e istituzioni nel contrastare lo Stato Islamico e gli altri gruppi estremisti.Assicurare i responsabili di tali crimini alla giustizia e debellare il virus terroristico è lo scopo che la Comunità Internazionale deve porsi e realizzare al più presto possibile.
Afghanistan.Orrore,15 turisti trucidati.
di Ilenia Marini
Morte e violenza senza fine nelle province intorno Kabul.
Notizie terribili giungono in queste ore dall'Afghanistan.Uomini armati hanno ucciso 15 passeggeri a bordo di un veicolo fermato mentre percorreva una strada nella provincia occidentale afghana di Ghor , solitamente risparmiata dalle violenze. Erano membri di una comitiva matrimoniale che stava recandosi a Kabul. Fra le vittime tre donne, un bambino e la coppia che si era appena sposata. Lo ha reso noto oggi il governatore provinciale, Anwar Rahmati. Lo stesso Rahmati ha aggiunto che il gruppo a bordo del piccolo autobus è stato bloccato mentre viaggiava verso la capitale nell’area di Badghah,a circa 25 chilometri dal capoluogo provinciale, Chaghcharan.
Le autorità ritengono che alla radice del massacro vi sia un obiettivo settario perché gli attaccanti hanno identificato ad uno ad uno ad uno i passeggeri, uccidendo quelli di etnia Hazara, che sono di religione sciita. Il governatore di Ghor non ha esitato a incolpare i talebani dell’attacco, confermando che sono stati uccisi “lo sposo e la sposa insieme a loro famigliari e ad uno studente di una accademia militare che stavano recandosi a Kabul per le festività dell’Eid (fine del Ramadan)” Un uomo è riuscito a scappare . Tutti gli altri sono stati uccisi, colpiti alla testa e al petto da un’arma da fuoco, assassinati a sangue freddo.
Il capo della polizia provinciale, Fahim Qaiem, ha confermato i fatti e ha accusato gli insorti talebani di aver compiuto la strage nella notte. Due operatrici umanitarie finlandesi, che viaggiavano a bordo di un taxi, erano state uccise ieri da uomini armati a Herat, grande crocevia dell’ovest afghano, meno interessato alle violenze del sud del Paese. Sei afghani sono stati uccisi in un attentato suicida nella remota provincia di Takhar, nel nord. Nel suo rapporto semestrale sulle vittime civili del conflitto afghano, la missione Onu (Unama) ha registrato un aumento del 24% del numero di civili uccisi o feriti in combattimenti, con bombe artigianali o in corso di attentati suicidi tra gennaio e giugno, rispetto allo stesso periodo del 2013.La violenza insomma rimane di casa nell'ex paese dei Taliban.
Notizie terribili giungono in queste ore dall'Afghanistan.Uomini armati hanno ucciso 15 passeggeri a bordo di un veicolo fermato mentre percorreva una strada nella provincia occidentale afghana di Ghor , solitamente risparmiata dalle violenze. Erano membri di una comitiva matrimoniale che stava recandosi a Kabul. Fra le vittime tre donne, un bambino e la coppia che si era appena sposata. Lo ha reso noto oggi il governatore provinciale, Anwar Rahmati. Lo stesso Rahmati ha aggiunto che il gruppo a bordo del piccolo autobus è stato bloccato mentre viaggiava verso la capitale nell’area di Badghah,a circa 25 chilometri dal capoluogo provinciale, Chaghcharan.
Le autorità ritengono che alla radice del massacro vi sia un obiettivo settario perché gli attaccanti hanno identificato ad uno ad uno ad uno i passeggeri, uccidendo quelli di etnia Hazara, che sono di religione sciita. Il governatore di Ghor non ha esitato a incolpare i talebani dell’attacco, confermando che sono stati uccisi “lo sposo e la sposa insieme a loro famigliari e ad uno studente di una accademia militare che stavano recandosi a Kabul per le festività dell’Eid (fine del Ramadan)” Un uomo è riuscito a scappare . Tutti gli altri sono stati uccisi, colpiti alla testa e al petto da un’arma da fuoco, assassinati a sangue freddo.
Il capo della polizia provinciale, Fahim Qaiem, ha confermato i fatti e ha accusato gli insorti talebani di aver compiuto la strage nella notte. Due operatrici umanitarie finlandesi, che viaggiavano a bordo di un taxi, erano state uccise ieri da uomini armati a Herat, grande crocevia dell’ovest afghano, meno interessato alle violenze del sud del Paese. Sei afghani sono stati uccisi in un attentato suicida nella remota provincia di Takhar, nel nord. Nel suo rapporto semestrale sulle vittime civili del conflitto afghano, la missione Onu (Unama) ha registrato un aumento del 24% del numero di civili uccisi o feriti in combattimenti, con bombe artigianali o in corso di attentati suicidi tra gennaio e giugno, rispetto allo stesso periodo del 2013.La violenza insomma rimane di casa nell'ex paese dei Taliban.
Iraq.Iniziano gli attacchi aerei americani.
di Ilenia Marini
Nella notte nuovi raid aerei statunitensi in Iraq.
Ieri il comando centrale delle forze armate americane ha comunicato che una serie di caccia e droni hanno attaccato e lanciato missili verso una colonna di blindati appartenenti alle milizie dello Stato islamico che avevano appena terminato di sparare sui civili,obbligandoli alla fuga sui monti della catena del Sinjar. Le azioni militari Usa sono state ordinate dal comando centrale allo scopo di frenare l'avanzata degli islamisti verso Erbil, capoluogo della regione autonoma del Kurdistan. Le truppe americane ed inglesi presenti in zona inoltre stanno inviando aiuti primari alla popolazione yazida in fuga sulle montagne del nord-ovest,in queste ore anche la Francia ha promesso l'invio soprattutto di medicinali.
Secondo le prime informazioni locali,circa 200 persone appartenenti ai villaggi di Koja, Hatimiya e Qaboshi,sarebbero state circondate da miliziani e obbligati da questi a convertirsi alla religione islamica pena la morte per fucilazione.Purtroppo gli aiuti umanitari,intesi come viveri, acqua, tende ed altro sono giunti in ritardo ai vari gruppi di iracheni appartenenti alle minoranze religiose che da mesi sono sotto l'attacco sanguinario degli estremisti sunniti che contro ogni previsione,sono riusciti ad avere la meglio negli scontri con le truppe governative addestrate ed equipaggiate dagli Stati Uniti.Ora riescono a controllare circa metà del paese iracheno.
L'esercito regolare di Bagdad ha reagito in modo confuso e ritardato e alla fine le truppe curde alleate si sono ritrovate sole contro l'avanzata dello Stato islamico,il risultato ovvio è stato la vittoria degli estremisti.Migliaia di persone di etnia sciita hanno dovuto lasciare le loro case. E i profughi yazidi sono stati costretti a rifugiarsi sulle aspre montagne del Sinjar. La Croce Rosse afferma che proprio a causa di ciò,su tali fredde montagne,nel giro di pochi giorni circa 60 bambini sono morti a causa del freddo e degli stenti.L'intelligence inglese ritiene che sul Sinjar in queste settimane si siano ammassate circa 55 mila persone scappate dalla furia estremista dell'Isis. Un vero dramma umanitario.
Ieri il comando centrale delle forze armate americane ha comunicato che una serie di caccia e droni hanno attaccato e lanciato missili verso una colonna di blindati appartenenti alle milizie dello Stato islamico che avevano appena terminato di sparare sui civili,obbligandoli alla fuga sui monti della catena del Sinjar. Le azioni militari Usa sono state ordinate dal comando centrale allo scopo di frenare l'avanzata degli islamisti verso Erbil, capoluogo della regione autonoma del Kurdistan. Le truppe americane ed inglesi presenti in zona inoltre stanno inviando aiuti primari alla popolazione yazida in fuga sulle montagne del nord-ovest,in queste ore anche la Francia ha promesso l'invio soprattutto di medicinali.
Secondo le prime informazioni locali,circa 200 persone appartenenti ai villaggi di Koja, Hatimiya e Qaboshi,sarebbero state circondate da miliziani e obbligati da questi a convertirsi alla religione islamica pena la morte per fucilazione.Purtroppo gli aiuti umanitari,intesi come viveri, acqua, tende ed altro sono giunti in ritardo ai vari gruppi di iracheni appartenenti alle minoranze religiose che da mesi sono sotto l'attacco sanguinario degli estremisti sunniti che contro ogni previsione,sono riusciti ad avere la meglio negli scontri con le truppe governative addestrate ed equipaggiate dagli Stati Uniti.Ora riescono a controllare circa metà del paese iracheno.
L'esercito regolare di Bagdad ha reagito in modo confuso e ritardato e alla fine le truppe curde alleate si sono ritrovate sole contro l'avanzata dello Stato islamico,il risultato ovvio è stato la vittoria degli estremisti.Migliaia di persone di etnia sciita hanno dovuto lasciare le loro case. E i profughi yazidi sono stati costretti a rifugiarsi sulle aspre montagne del Sinjar. La Croce Rosse afferma che proprio a causa di ciò,su tali fredde montagne,nel giro di pochi giorni circa 60 bambini sono morti a causa del freddo e degli stenti.L'intelligence inglese ritiene che sul Sinjar in queste settimane si siano ammassate circa 55 mila persone scappate dalla furia estremista dell'Isis. Un vero dramma umanitario.
Honk Kong si ribella al controllo cinese.
di Ilenia Marini
L'ex colonia cerca di sfuggire al peso politico della Cina.
A Hong Kong, la scorsa settimana,tantissime persone sono scese in piazza per un motivo unico,ribellarsi al governo di Pechino in occasione del diciassettesimo anniversario della restituzione dell’ex colonia britannica alla Repubblica Popolare Cinese (1 luglio 1997). La motivazione basilare delle varie manifestazioni è la richiesta fatta da Honk Kong di poter eleggere direttamente l'organo l’esecutivo e legislativo, “obiettivo finale” della Basic Law,ovvero la Costituzione dell'ex colonia inglese.Oggi Honk Kong è una vera Regione autonoma speciale (Hksar, che include l'isola di omonima, Kowloon, l'isola di Lantau e i Nuovi Territori) ed è da decenni tra le piazze finanziarie più floride al mondo.Per legge gode di forti privilegi politici, sociali ed economici che la stessa grande Cina non possiede.Tuttavia, il paradosso è che le sue istituzioni politiche nazionali sono sempre una sorta di diretta emanazione del governo cinese.
Ciò fa di questo Stato autonomo una sorta di Stato a metà.Su concessione di Pechino, nel 2017 gli hongkonghesi forse riusciranno a poter eleggere direttamente il loro Chief Executive (il capo del governo locale) ma i nomi dei vari candidati dovranno comunque passare il vaglio di una specifica commissione di esperti,nominati,guarda caso,dallo stesso governo cinese.Probabilmente la struttura favorirà i partiti locali vicini allo stesso governo centrale. Tutto quindi è partito da questo.La popolazione è stufa delle interferenze cinesi e rivendica vera indipendenza politica,chiede di poter scegliere tramite un referendum la propria legge elettorale,che sia il più possibile autonoma e democratica. Il governo cinese si è subito detto sorpreso e contrario,anzi ha evidenziato che un referendum di tale tipo sarebbe profondamente illegale.Hong Kong ha in effetti un organo legislativo e un organo giudiziario autonomi, ma esistono vari ostacoli alla sua vera democratizzazione: il forte legame tra l’élite economica locale e il governo di Pechino; il sistema particolare delle Functional Constituencies (Fc) e dell’Election Committee (Ec); il peso enorme che caratterizza il comitato permanente del Congresso Nazionale del Partito,inteso come solo organo cui è affidata l'applicazione della Basic Law; senza dimenticare la pur ancora radicata presenza del Partito comunista cinese sul territorio.
La pubblica opinione anche occidentale ha ora posto l'accento sulla questio di Honk Kong anche a causa del grande valore in termini finanziari di cui gode la Borsa locale,unica porta d’accesso privilegiata al mercato cinese. Tuttavia,negli ultimi anni la competitività di Honk Kong sta lentamente abbassandosi a causa dell’ascesa di alcuni distretti cinesi come Shenzhen, Guangzhou e Shanghai,diventati grandi universi industriali e finanziari. Il governo cinese infatti mira a tramutare proprio Shanghai,nel giro di alcuni anni,in una zona di libero commercio,senza dogane e tasse,una sorta di pietra preziosa dell'economia cinese.Ecco perchè Pechino desidera controllare politicamente Honk Kong,pilotando la sua economia e indirizzandola verso la propria,in un ragionamento di opportunità di sottile cinismo.I cittadini di Honk Kong hanno intuito la macchinazione cinese ecco perchè da giorni partono le proteste in piazza e nei prossimi mesi siamo sicuri che si intensificheranno ulteriormente.
A Hong Kong, la scorsa settimana,tantissime persone sono scese in piazza per un motivo unico,ribellarsi al governo di Pechino in occasione del diciassettesimo anniversario della restituzione dell’ex colonia britannica alla Repubblica Popolare Cinese (1 luglio 1997). La motivazione basilare delle varie manifestazioni è la richiesta fatta da Honk Kong di poter eleggere direttamente l'organo l’esecutivo e legislativo, “obiettivo finale” della Basic Law,ovvero la Costituzione dell'ex colonia inglese.Oggi Honk Kong è una vera Regione autonoma speciale (Hksar, che include l'isola di omonima, Kowloon, l'isola di Lantau e i Nuovi Territori) ed è da decenni tra le piazze finanziarie più floride al mondo.Per legge gode di forti privilegi politici, sociali ed economici che la stessa grande Cina non possiede.Tuttavia, il paradosso è che le sue istituzioni politiche nazionali sono sempre una sorta di diretta emanazione del governo cinese.
Ciò fa di questo Stato autonomo una sorta di Stato a metà.Su concessione di Pechino, nel 2017 gli hongkonghesi forse riusciranno a poter eleggere direttamente il loro Chief Executive (il capo del governo locale) ma i nomi dei vari candidati dovranno comunque passare il vaglio di una specifica commissione di esperti,nominati,guarda caso,dallo stesso governo cinese.Probabilmente la struttura favorirà i partiti locali vicini allo stesso governo centrale. Tutto quindi è partito da questo.La popolazione è stufa delle interferenze cinesi e rivendica vera indipendenza politica,chiede di poter scegliere tramite un referendum la propria legge elettorale,che sia il più possibile autonoma e democratica. Il governo cinese si è subito detto sorpreso e contrario,anzi ha evidenziato che un referendum di tale tipo sarebbe profondamente illegale.Hong Kong ha in effetti un organo legislativo e un organo giudiziario autonomi, ma esistono vari ostacoli alla sua vera democratizzazione: il forte legame tra l’élite economica locale e il governo di Pechino; il sistema particolare delle Functional Constituencies (Fc) e dell’Election Committee (Ec); il peso enorme che caratterizza il comitato permanente del Congresso Nazionale del Partito,inteso come solo organo cui è affidata l'applicazione della Basic Law; senza dimenticare la pur ancora radicata presenza del Partito comunista cinese sul territorio.
La pubblica opinione anche occidentale ha ora posto l'accento sulla questio di Honk Kong anche a causa del grande valore in termini finanziari di cui gode la Borsa locale,unica porta d’accesso privilegiata al mercato cinese. Tuttavia,negli ultimi anni la competitività di Honk Kong sta lentamente abbassandosi a causa dell’ascesa di alcuni distretti cinesi come Shenzhen, Guangzhou e Shanghai,diventati grandi universi industriali e finanziari. Il governo cinese infatti mira a tramutare proprio Shanghai,nel giro di alcuni anni,in una zona di libero commercio,senza dogane e tasse,una sorta di pietra preziosa dell'economia cinese.Ecco perchè Pechino desidera controllare politicamente Honk Kong,pilotando la sua economia e indirizzandola verso la propria,in un ragionamento di opportunità di sottile cinismo.I cittadini di Honk Kong hanno intuito la macchinazione cinese ecco perchè da giorni partono le proteste in piazza e nei prossimi mesi siamo sicuri che si intensificheranno ulteriormente.
Pakistan.Nuove strategie di terrore in atto.
di Ilenia Marini
Un nuovo equilibrio terroristico sta per sconvolgere il Pakistan.
Nel Pakistan riesplode la paura e i recenti attentati in sedi del partito nazionalista fanno intuire che i Taliban pakistani sono di nuovo pronti nella loro strategia del terrore. Non un punto di svolta, come dicono in molti, ma il segnale di una spaventosa continuità.Già alcuni mesi orsono i terroristi del Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp) mostrarono a tutti di essere in grado di compiere atti violentissimi e dure azioni contro strutture militari o governative, sia nella zona pericolosa di Karachi sia nel resto del paese. Azioni, come in questo caso, espressamente frutto di ritorsioni nei confronti dell'esercito, ritenuto "colpevole" di essere ossequioso verso gli stranieri invasori e pronto ad una nuova caccia al terrorista sulle montagne del Nord Waziristan. Già in passato il governo pakistano guidato dall'ex dittatore Musharraf, ultimo leader in grado di contrastare adeguatamente il terrorismo in Pakistan,aveva predisposto un'azione continua di vigilanza e controllo,forse anche fin troppo zelante.Ma da alcuni anni le cose sono cambiate e la politica sembra meno capace di controllare il territorio.
Nel nord del Waziristan, roccaforte dei Taliban sgraditi al regime, l'esercito starebbe per predisporre bombardamenti mirati contro i centri occulti degli jihadisti e dei loro fiancheggiatori. Il Sud Waziristan, dove si concentrano i "bravi" militanti, è invece convenientemente dimenticato. La verità è che c'è grande caos organizzativo e le cellule di terroristi sono miriadi impazzite e pronte ad essere autonome e pericolosissime. Nel caso specifico di Karachi anche la criminalità organizzata e alcune frange della politica locale e nazionale sembrano coinvolte nei rapporti con gli jihadisti poichè il nome di Dawood Ibrahim e dei suoi uomini è un nome che pesa in città e nessuna azione sarebbe presa senza il suo benestare.
Del resto è ovvio che per attaccare l'aeroporto come accaduto da parte dei terroristi,per di più travestiti da militari governativi,un aiuto dall'interno deve esserci stato per forza. Il caos e la tensione sono massimi e ci saranno sicuramente altri atti come quello di Karachi, ancora carneficine e stragi ai danni di sciiti, ahmadi e altre minoranze religiose. Ci saranno ancora cittadini scomparsi e ritrovati cadavere ai bordi delle strade ed altri attacchi ai danni della società civile.Il Pakistan sta scivolando in un lento isolamento,lontano dalla comunità internazionale,una vera polveriera nell'Asia centromeridionale.
Nel Pakistan riesplode la paura e i recenti attentati in sedi del partito nazionalista fanno intuire che i Taliban pakistani sono di nuovo pronti nella loro strategia del terrore. Non un punto di svolta, come dicono in molti, ma il segnale di una spaventosa continuità.Già alcuni mesi orsono i terroristi del Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp) mostrarono a tutti di essere in grado di compiere atti violentissimi e dure azioni contro strutture militari o governative, sia nella zona pericolosa di Karachi sia nel resto del paese. Azioni, come in questo caso, espressamente frutto di ritorsioni nei confronti dell'esercito, ritenuto "colpevole" di essere ossequioso verso gli stranieri invasori e pronto ad una nuova caccia al terrorista sulle montagne del Nord Waziristan. Già in passato il governo pakistano guidato dall'ex dittatore Musharraf, ultimo leader in grado di contrastare adeguatamente il terrorismo in Pakistan,aveva predisposto un'azione continua di vigilanza e controllo,forse anche fin troppo zelante.Ma da alcuni anni le cose sono cambiate e la politica sembra meno capace di controllare il territorio.
Nel nord del Waziristan, roccaforte dei Taliban sgraditi al regime, l'esercito starebbe per predisporre bombardamenti mirati contro i centri occulti degli jihadisti e dei loro fiancheggiatori. Il Sud Waziristan, dove si concentrano i "bravi" militanti, è invece convenientemente dimenticato. La verità è che c'è grande caos organizzativo e le cellule di terroristi sono miriadi impazzite e pronte ad essere autonome e pericolosissime. Nel caso specifico di Karachi anche la criminalità organizzata e alcune frange della politica locale e nazionale sembrano coinvolte nei rapporti con gli jihadisti poichè il nome di Dawood Ibrahim e dei suoi uomini è un nome che pesa in città e nessuna azione sarebbe presa senza il suo benestare.
Del resto è ovvio che per attaccare l'aeroporto come accaduto da parte dei terroristi,per di più travestiti da militari governativi,un aiuto dall'interno deve esserci stato per forza. Il caos e la tensione sono massimi e ci saranno sicuramente altri atti come quello di Karachi, ancora carneficine e stragi ai danni di sciiti, ahmadi e altre minoranze religiose. Ci saranno ancora cittadini scomparsi e ritrovati cadavere ai bordi delle strade ed altri attacchi ai danni della società civile.Il Pakistan sta scivolando in un lento isolamento,lontano dalla comunità internazionale,una vera polveriera nell'Asia centromeridionale.
Argentina.La crisi economica è alle porte.
di Ilenia Marini
Il paese sud-americano rischia un nuovo default finanziario.
L'Argentina purtroppo è di nuovo sulle soglie del baratro economico.Dopo il 2001 anno terribile in cui lo Stato sud-americano conobbe il default finanziario legato al debito estero, preludio alla incredibile recessione che fece crollare la metà della popolazione nella soglia della povertà. Dal mese scorso venti di crisi spirano forti ed il peso, la valuta nazionale, ha perso in un solo giorno il 12% del suo valore rispetto alla moneta americana. Il tasso di cambio è ancora peggiore se passiamo al mercato nero,molto usato dagli argentini per evitare le dure restrizioni imposte dal ministero dell'economia sui capitali.Ultima tassa è quella prevista per l'acquisto di merci su internet: un'imposta pesante del 45% per chi compra beni superiori a 50 dollari. La vicenda economica si fa tesa per la Presidente Cristina Kirchner. Mancano circa due anni alle prossime elezioni e la forza del “modello K”, ovvero la serie di politiche economiche di stampo nazionalista adottate dai vari governi Kirchner negli ultimi dieni anni ha perso la sua originaria spinta.
L’inflazione è elevatissima e va verso il 25%; la crescita del pil rallenta molto e nel 2014 sarà solo del 1%; il surplus commerciale, vera chiave del “miracolo economico” argentino dell’ultimo decennio, sta calando di molto e già nel 2013 è stato di soli 9 miliardi di dollari. In questo scenario, Kirchner sarà impossibilitata a candidarsi ancora alla presidenza e il Frente para la victoria sarà costretto ad un nome nuovo da inventare. L’opposizione è anch'essa in acque cattive,molto divisa fra le varie correnti e e le varie candidature. Al momento, il politico con più chances di successo è Sergio Massa, vincitore “morale” delle elezioni di medio termine nello scorso ottobre e kirchnerista dissidente. Il caos argentino e il timore che la sua crisi economica riguardi anche altri mercati è in parte molto legato anche alle politiche della Federal Reserve statunitense. Il rischio che la cattiva situazione passi anche a Stati emergenti come il Brasile non è realistico a causa della poca integrazione di Buenos Aires con i mercati globali.
Ma è importante sottolineare che due paesi alleati del Mercosur, Uruguay e Paraguay, sono molto collegati all’Argentina e potrebbero soffrire per via della nuova ondata di volatilità. Pochi giorni fa infatti la senatrice uruguagia Lucia Topolansky ha dichiarato che il legame economico tra Argentina ed Uruguay è forte e diretto e quindi conseguenze potrebbero senz'altro esserci.L’Argentina insomma vive su un filo pericoloso dove le incapacità strutturali del paese e del suo sistema economico rischiano di provocare il crollo finanziario,solo una leadership forte ed una linea politica chiara e diretta possono limitare i danni.
L'Argentina purtroppo è di nuovo sulle soglie del baratro economico.Dopo il 2001 anno terribile in cui lo Stato sud-americano conobbe il default finanziario legato al debito estero, preludio alla incredibile recessione che fece crollare la metà della popolazione nella soglia della povertà. Dal mese scorso venti di crisi spirano forti ed il peso, la valuta nazionale, ha perso in un solo giorno il 12% del suo valore rispetto alla moneta americana. Il tasso di cambio è ancora peggiore se passiamo al mercato nero,molto usato dagli argentini per evitare le dure restrizioni imposte dal ministero dell'economia sui capitali.Ultima tassa è quella prevista per l'acquisto di merci su internet: un'imposta pesante del 45% per chi compra beni superiori a 50 dollari. La vicenda economica si fa tesa per la Presidente Cristina Kirchner. Mancano circa due anni alle prossime elezioni e la forza del “modello K”, ovvero la serie di politiche economiche di stampo nazionalista adottate dai vari governi Kirchner negli ultimi dieni anni ha perso la sua originaria spinta.
L’inflazione è elevatissima e va verso il 25%; la crescita del pil rallenta molto e nel 2014 sarà solo del 1%; il surplus commerciale, vera chiave del “miracolo economico” argentino dell’ultimo decennio, sta calando di molto e già nel 2013 è stato di soli 9 miliardi di dollari. In questo scenario, Kirchner sarà impossibilitata a candidarsi ancora alla presidenza e il Frente para la victoria sarà costretto ad un nome nuovo da inventare. L’opposizione è anch'essa in acque cattive,molto divisa fra le varie correnti e e le varie candidature. Al momento, il politico con più chances di successo è Sergio Massa, vincitore “morale” delle elezioni di medio termine nello scorso ottobre e kirchnerista dissidente. Il caos argentino e il timore che la sua crisi economica riguardi anche altri mercati è in parte molto legato anche alle politiche della Federal Reserve statunitense. Il rischio che la cattiva situazione passi anche a Stati emergenti come il Brasile non è realistico a causa della poca integrazione di Buenos Aires con i mercati globali.
Ma è importante sottolineare che due paesi alleati del Mercosur, Uruguay e Paraguay, sono molto collegati all’Argentina e potrebbero soffrire per via della nuova ondata di volatilità. Pochi giorni fa infatti la senatrice uruguagia Lucia Topolansky ha dichiarato che il legame economico tra Argentina ed Uruguay è forte e diretto e quindi conseguenze potrebbero senz'altro esserci.L’Argentina insomma vive su un filo pericoloso dove le incapacità strutturali del paese e del suo sistema economico rischiano di provocare il crollo finanziario,solo una leadership forte ed una linea politica chiara e diretta possono limitare i danni.
Nigeria.Fuga dalla ferocia di Boko Haram.
di Ilenia Marini
66 nigeriane riescono a scappare dalle grinfie dei terroristi.
Per mesi la comunità internazionale è stata in ansia ma alla fine sono riuscite a fuggire e a ritornare a casa le ragazze nigeriane rapite dai miliziani jihadisti di Boko Haram nella zona nord-est della Nigeria. Delle 66 donne solo di 4 di loro non si ha traccia,le altre si sono salvate grazie alla loro furbizia,approfittando dell'assenza dei loro carcerieri impegnati in uno scontro a fuoco in un paese limitrofo.Nulla invece si sa delle circa duecento studentesse rapite dagli estremisti a Chibok, nella regione nord-orientale,nulla di buono sembra ipotizzarsi.Le 66 donne scappate lo hanno fatto nella notte di venerdi metre i miliziani erano coinvolti in un attacco violento a Djongob dove sono anche morti ben 45 uomini di Boko Haram, secondo l’esercito nigeriano.
La polizia locale di Lagos ha affermato che la fuga è vera e che delle 4 ragazze mancanti all'appello non si sa nulla,forse sono morte durante la prigionia.Durante la notte di venerdi mentre i pochi miliziani rimasti sono sprofondati nel sonno,in silenzio sono fuggite via. Alcune di loro, quelle della zona limitrofa sono riuscite a tornare da sole a casa. Altre invece si sono consegnate alla polizia vicina presso la citta di Gulak, e da li sono state scortate fino alle loro dimore.
L'agenzia di stampa France Presse sottolinea l'assenza di 4 donne dal gruppo mentre l'agenzia Sahara Reporters scrive che le donne assenti sono ben sette di cui due incinte e prossime al parto.Il gruppo di donne rapite era il frutto di varie operazioni di terrorismo compiute dal gruppo jihadista di Boko Haram nei villaggi di Kumabza, Dagu e Yaga a metà giugno. L’area purtroppo è la medesima dove a maggio ben 200 liceali di religione cristiana sono state rapite con la minacce di essere vendute come schiave e convertite con la forza all'Islam.A inizio maggio Boko Haram pubblicò un video delle giovani e chiese al governo in carica di scambiare le ragazze con un gruppo di circa 50 miliziani nelle carceri di Lagos.Ma il Presidente nigeriano rifiutò l'offerta.Ora delle studentesse non si hanno notizie da ben tre settimane.Il peggio è il pensiero più costante.
Per mesi la comunità internazionale è stata in ansia ma alla fine sono riuscite a fuggire e a ritornare a casa le ragazze nigeriane rapite dai miliziani jihadisti di Boko Haram nella zona nord-est della Nigeria. Delle 66 donne solo di 4 di loro non si ha traccia,le altre si sono salvate grazie alla loro furbizia,approfittando dell'assenza dei loro carcerieri impegnati in uno scontro a fuoco in un paese limitrofo.Nulla invece si sa delle circa duecento studentesse rapite dagli estremisti a Chibok, nella regione nord-orientale,nulla di buono sembra ipotizzarsi.Le 66 donne scappate lo hanno fatto nella notte di venerdi metre i miliziani erano coinvolti in un attacco violento a Djongob dove sono anche morti ben 45 uomini di Boko Haram, secondo l’esercito nigeriano.
La polizia locale di Lagos ha affermato che la fuga è vera e che delle 4 ragazze mancanti all'appello non si sa nulla,forse sono morte durante la prigionia.Durante la notte di venerdi mentre i pochi miliziani rimasti sono sprofondati nel sonno,in silenzio sono fuggite via. Alcune di loro, quelle della zona limitrofa sono riuscite a tornare da sole a casa. Altre invece si sono consegnate alla polizia vicina presso la citta di Gulak, e da li sono state scortate fino alle loro dimore.
L'agenzia di stampa France Presse sottolinea l'assenza di 4 donne dal gruppo mentre l'agenzia Sahara Reporters scrive che le donne assenti sono ben sette di cui due incinte e prossime al parto.Il gruppo di donne rapite era il frutto di varie operazioni di terrorismo compiute dal gruppo jihadista di Boko Haram nei villaggi di Kumabza, Dagu e Yaga a metà giugno. L’area purtroppo è la medesima dove a maggio ben 200 liceali di religione cristiana sono state rapite con la minacce di essere vendute come schiave e convertite con la forza all'Islam.A inizio maggio Boko Haram pubblicò un video delle giovani e chiese al governo in carica di scambiare le ragazze con un gruppo di circa 50 miliziani nelle carceri di Lagos.Ma il Presidente nigeriano rifiutò l'offerta.Ora delle studentesse non si hanno notizie da ben tre settimane.Il peggio è il pensiero più costante.
Israele.Continua l'invasione di Gaza.
di Ilenia Marini
Gli israeliani persistono per controllare la Striscia di Gaza.
I soldati dell'esercito di Israele portano avanti la loro offensiva nel territorio di Gaza. Siamo al 21° giorno di invasione di quello che sembra il più sanguinoso conflitto in Medio Oriente dal 2009.La scorsa settimana i vari raid hanno prodotto 50 morti, tra cui numerosi civili, nei popolosi sobborghi orientali di Gaza city (Sajaya, Zaitun, Tufach). Per ora il totale delle vittime palestinesi è giunto a 400 dall’inizio delle operazioni. La rete televisiva israeliana afferma che sono sei i soldati uccisi da Hamas mentre arriva a cinquanta il numero dei militari feriti. Abu Mazen ha criticato ieri il massacro commesso dal governo israeliano a Sajaya.Intanto oggi Hamas ha esplicitamente chiesto ad Israele una tregua di due ore per ragioni umanitarie. La richiesta è giunta direttamente dalla Croce Rossa per rendere possibile il recupero delle vittime. Il cessate il fuoco a Shejaeva sarà in vigore dalle 12.00 alle 14.00 ora italiana.
In continuo aumento il numero dei profughi e degli sfollati dalle città bombardate,sarebbe giunto a circa 70mila persone.L'agenzia per i rifugiati dell’Onu si è detta davvero molto preoccupata e spera che comunque cibo, cure mediche e aiuti d’emergenza giungano in modo continuo.Sono già tre giorni che il gruppo di artiglieria israeliana dirige il proprio fuoco verso i rioni popolari di Sajaya e Zaitun, a est di Gaza. L'attacco, a quanto sembra, è compiuto anche tramite elicotteri da combattimento. I soldati avevano consigliato alla popolazione di lasciare le loro abitazioni,ma non tutti hanno obbedito a ciò con scene di vero panico e paura.L'unica reazione di Hamas per ora è il massiccio lancio di razzi dalla Striscia verso il confine israeliano.
Per fortuna il sistema di difesa israeliano ha protetto la popolazione ma due razzi sono comunque piovuti nel centro abitato di Ashqelon,provocando molti feriti.A nulla sembrano valse le parole del Papa durante l’Angelus domenicale nel quale ha affermato che la violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace. Gli organi diplomatici continuano nel loro lavoro.Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, sarà al Cairo in questi giorni per un incontro bilaterale importante.Infine sempre ieri a Gerusalemme Est, un gruppo di giovani in protesta hanno lanciato molotov e pietre contro la polizia a Al-Issawiya, Shuafat, per protestare contro l'invasione israeliana,la polizia sarebbe intervenuta per calmare gli animi.
I soldati dell'esercito di Israele portano avanti la loro offensiva nel territorio di Gaza. Siamo al 21° giorno di invasione di quello che sembra il più sanguinoso conflitto in Medio Oriente dal 2009.La scorsa settimana i vari raid hanno prodotto 50 morti, tra cui numerosi civili, nei popolosi sobborghi orientali di Gaza city (Sajaya, Zaitun, Tufach). Per ora il totale delle vittime palestinesi è giunto a 400 dall’inizio delle operazioni. La rete televisiva israeliana afferma che sono sei i soldati uccisi da Hamas mentre arriva a cinquanta il numero dei militari feriti. Abu Mazen ha criticato ieri il massacro commesso dal governo israeliano a Sajaya.Intanto oggi Hamas ha esplicitamente chiesto ad Israele una tregua di due ore per ragioni umanitarie. La richiesta è giunta direttamente dalla Croce Rossa per rendere possibile il recupero delle vittime. Il cessate il fuoco a Shejaeva sarà in vigore dalle 12.00 alle 14.00 ora italiana.
In continuo aumento il numero dei profughi e degli sfollati dalle città bombardate,sarebbe giunto a circa 70mila persone.L'agenzia per i rifugiati dell’Onu si è detta davvero molto preoccupata e spera che comunque cibo, cure mediche e aiuti d’emergenza giungano in modo continuo.Sono già tre giorni che il gruppo di artiglieria israeliana dirige il proprio fuoco verso i rioni popolari di Sajaya e Zaitun, a est di Gaza. L'attacco, a quanto sembra, è compiuto anche tramite elicotteri da combattimento. I soldati avevano consigliato alla popolazione di lasciare le loro abitazioni,ma non tutti hanno obbedito a ciò con scene di vero panico e paura.L'unica reazione di Hamas per ora è il massiccio lancio di razzi dalla Striscia verso il confine israeliano.
Per fortuna il sistema di difesa israeliano ha protetto la popolazione ma due razzi sono comunque piovuti nel centro abitato di Ashqelon,provocando molti feriti.A nulla sembrano valse le parole del Papa durante l’Angelus domenicale nel quale ha affermato che la violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace. Gli organi diplomatici continuano nel loro lavoro.Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, sarà al Cairo in questi giorni per un incontro bilaterale importante.Infine sempre ieri a Gerusalemme Est, un gruppo di giovani in protesta hanno lanciato molotov e pietre contro la polizia a Al-Issawiya, Shuafat, per protestare contro l'invasione israeliana,la polizia sarebbe intervenuta per calmare gli animi.
Libia.Uccisa attivista per i diritti umani.
di Ilenia Marini
Macabro episodio a Bengasi contro i diritti civili.
Con un colpo alla nuca,così è stata giustiziata Salwa Bugaighis, avvocato, una delle donne libiche più impegnate nella lotta per i diritti civili e a tutela delle donne arabe. È stata ammazzata a Bengasi ieri, nel giorno delle elezioni per scegliere il nuovo Parlamento. Questa notizia viene rivelata dall’agenzia di stampa ufficiale libica Lana, raccontando che l'avvocato è stato sorpresa nella sua casa da un gruppo di uomini armati.Poi gli assassini sono scappati con la donna ancora agonizzante.Il marito forse era accanto a lei e alla fine è stato rapito dai criminali.Salwa è morta poco dopo, in ospedale.Dal 2010 era attiva contro il regime di Muammar Gheddafi, è stata anche fra le voci più ascoltate contro l’estremismo islamico.
Secondo alcuni testimoni ben sei uomini armati, tutti a volto coperto tranne uno, prima hanno chiesto del figlio di Bugaighis, Wael, poi cominciato a sparare alle due guardie private e alla fine sono riusciti ad irrompere nell'abitazione.A quel punto si sono sentiti altri spari. Non si conosce il motivo politico del gesto,forse le milizie radicali islamiche a Bengasi sono coinvolte e di recente responsabili di frequenti omicidi di attivisti, giudici, religiosi moderati, poliziotti e soldati. Stando ai media locali, dopo l’assalto alla casa il marito di Bugaighis, che pare si trovasse all’interno,sarebbe sparito.Durante il periodo della guerra civile contro Gheddafi, Bugaighis è stata membro del Consiglio nazionale di transizione (Cns), l’organo di leadership politica dei ribelli. Inoltre era stata anche vice capo della commissione per il dialogo nazionale, che aveva come obiettivo la riconciliazione tra fazioni, tribù e comunità rivali all’interno del Paese.
In passato Salwa Bugaighis era scappata per alcuni anni con la sua famiglia in Giordania a causa delle minacce di morte ricevute. Il figlio, Wael, era sopravvissuto quest’anno a un tentativo di rapimento. Alcuni familiari raccontano che suo marito recentemente era tornato a Tripoli mentre i due figli, compreso Wael, erano rimasti in Giordania. Sotto il governo di Gheddafi, in quanto avvocato, Salwa Bugaighis aveva rappresentato le famiglie dei prigionieri nella nota prigione Abu Selim di Tripoli, spingendo il governo a dire la verità su quanto fosse accaduto ai 1.200 prigionieri scomparsi, la maggior parte islamisti di Bengasi. La sua morte ha atterrito l'intera categoria di attivisti, politici e diplomatici:Hassan al-Amin, altro noto attivista ed ex capo della commissione diritti umani in Parlamento, ha sottolineato che in questo modo in Libia essere portatori di verità e difendere i più deboli è pericoloso e si rischia la vita.Anche lui dopo aver ricevuto minacce di morte è scappato in Giordania da alcuni mesi.
Con un colpo alla nuca,così è stata giustiziata Salwa Bugaighis, avvocato, una delle donne libiche più impegnate nella lotta per i diritti civili e a tutela delle donne arabe. È stata ammazzata a Bengasi ieri, nel giorno delle elezioni per scegliere il nuovo Parlamento. Questa notizia viene rivelata dall’agenzia di stampa ufficiale libica Lana, raccontando che l'avvocato è stato sorpresa nella sua casa da un gruppo di uomini armati.Poi gli assassini sono scappati con la donna ancora agonizzante.Il marito forse era accanto a lei e alla fine è stato rapito dai criminali.Salwa è morta poco dopo, in ospedale.Dal 2010 era attiva contro il regime di Muammar Gheddafi, è stata anche fra le voci più ascoltate contro l’estremismo islamico.
Secondo alcuni testimoni ben sei uomini armati, tutti a volto coperto tranne uno, prima hanno chiesto del figlio di Bugaighis, Wael, poi cominciato a sparare alle due guardie private e alla fine sono riusciti ad irrompere nell'abitazione.A quel punto si sono sentiti altri spari. Non si conosce il motivo politico del gesto,forse le milizie radicali islamiche a Bengasi sono coinvolte e di recente responsabili di frequenti omicidi di attivisti, giudici, religiosi moderati, poliziotti e soldati. Stando ai media locali, dopo l’assalto alla casa il marito di Bugaighis, che pare si trovasse all’interno,sarebbe sparito.Durante il periodo della guerra civile contro Gheddafi, Bugaighis è stata membro del Consiglio nazionale di transizione (Cns), l’organo di leadership politica dei ribelli. Inoltre era stata anche vice capo della commissione per il dialogo nazionale, che aveva come obiettivo la riconciliazione tra fazioni, tribù e comunità rivali all’interno del Paese.
In passato Salwa Bugaighis era scappata per alcuni anni con la sua famiglia in Giordania a causa delle minacce di morte ricevute. Il figlio, Wael, era sopravvissuto quest’anno a un tentativo di rapimento. Alcuni familiari raccontano che suo marito recentemente era tornato a Tripoli mentre i due figli, compreso Wael, erano rimasti in Giordania. Sotto il governo di Gheddafi, in quanto avvocato, Salwa Bugaighis aveva rappresentato le famiglie dei prigionieri nella nota prigione Abu Selim di Tripoli, spingendo il governo a dire la verità su quanto fosse accaduto ai 1.200 prigionieri scomparsi, la maggior parte islamisti di Bengasi. La sua morte ha atterrito l'intera categoria di attivisti, politici e diplomatici:Hassan al-Amin, altro noto attivista ed ex capo della commissione diritti umani in Parlamento, ha sottolineato che in questo modo in Libia essere portatori di verità e difendere i più deboli è pericoloso e si rischia la vita.Anche lui dopo aver ricevuto minacce di morte è scappato in Giordania da alcuni mesi.
Kenya.Una strage con tredici morti.
di Ilenia Marini
Vari attacchi insanguinano le terre keniote.
La zona costiera di Lamu, in Kenya è stata oggetto ieri di vari attacchi dinamitardi con circa tredici vittime. Lo ha riferito la Croce Rossa sottolineando che nella notte stessa ben 9 persone sono state uccise nel villaggio di Gamba ed altre 4 a Hindi. La regione è la medesima dove il 17 giugno i miliziani integralisti somali di Shabaab hanno ucciso 60 persone, a Mpeketoni e in altre due vicine località. Per quelle vittime la settimana scorsa gli investigatori avevano arrestato il governatore del distretto di Lamu, Issa Timamy, .
Il segretario del dipartimento di investigazioni criminali, aveva evidenziato che contro il governatore vi fossero dure accuse e testimonianze riguardan gli attacchi terroristici di giugno.In quei convulsi giorni però era giunta la rivendicazione del gruppo Shebab, legato ad Al-Qaeda,dopo ciò tre aerei militari kenioti avevano bombardato le basi degli jihadisti somali nei villaggi di Anole e Kuday, nella regione meridionale di Lower Juba, un attacco mirato che ha provocato almeno 80 miliziani. Il presidente kenyano Uhuru Kenyatta ha ribadito che per le responsabilità nelle violenze un filo diretto porta anche alle varie reti politiche locali,spesso reticenti nei loro legami con le reti di altre bande criminali.L'accusa principale è rivolta verso l’opposizione guidata da Raila Odinga, suo avversario alle presidenziali del 2013.
Le accuse durissime hanno provocato forti tensioni con i partiti di opposizione, in partiolare il Forum democratico unito (UDF), di cui Issa Timany e’ uno dei membri. Il leader dell’UDF, l’ex vice primo ministro Musalia Mudavadi, ha mosse dure prole per ciò che riguarda l’arresto del governatore di Lamu dichiarando di trovarsi dinanzi ad una criminalizzazione politica mirata.
La zona costiera di Lamu, in Kenya è stata oggetto ieri di vari attacchi dinamitardi con circa tredici vittime. Lo ha riferito la Croce Rossa sottolineando che nella notte stessa ben 9 persone sono state uccise nel villaggio di Gamba ed altre 4 a Hindi. La regione è la medesima dove il 17 giugno i miliziani integralisti somali di Shabaab hanno ucciso 60 persone, a Mpeketoni e in altre due vicine località. Per quelle vittime la settimana scorsa gli investigatori avevano arrestato il governatore del distretto di Lamu, Issa Timamy, .
Il segretario del dipartimento di investigazioni criminali, aveva evidenziato che contro il governatore vi fossero dure accuse e testimonianze riguardan gli attacchi terroristici di giugno.In quei convulsi giorni però era giunta la rivendicazione del gruppo Shebab, legato ad Al-Qaeda,dopo ciò tre aerei militari kenioti avevano bombardato le basi degli jihadisti somali nei villaggi di Anole e Kuday, nella regione meridionale di Lower Juba, un attacco mirato che ha provocato almeno 80 miliziani. Il presidente kenyano Uhuru Kenyatta ha ribadito che per le responsabilità nelle violenze un filo diretto porta anche alle varie reti politiche locali,spesso reticenti nei loro legami con le reti di altre bande criminali.L'accusa principale è rivolta verso l’opposizione guidata da Raila Odinga, suo avversario alle presidenziali del 2013.
Le accuse durissime hanno provocato forti tensioni con i partiti di opposizione, in partiolare il Forum democratico unito (UDF), di cui Issa Timany e’ uno dei membri. Il leader dell’UDF, l’ex vice primo ministro Musalia Mudavadi, ha mosse dure prole per ciò che riguarda l’arresto del governatore di Lamu dichiarando di trovarsi dinanzi ad una criminalizzazione politica mirata.
Israele.RIschio di un nuovo conflitto.
di Ilenia Marini
Giorni di grande tensione tra Israele,Hamas e Palestina.
Sulla tristemente nota Striscia di Gaza tornano a soffiare funesti venti di battaglia. Molti quotidiani nazionali riportano la notizia che l’esercito israeliano ha dato ordine a un imprecisato numero di brigate corazzate di prepararsi alla possibilità di dispiegamento lungo il confine interno di Gaza.
La fatidica e rischiosa decisione è stata presa da Benny Gantz, capo di Stato Maggiore, dopo una tesissima notte nella quale l’aviazione ha colpito 12 obiettivi di Hamas e della Jihad islamica dentro la Striscia in risposta al lancio di razzi contro le città del Negev che ha investito Sderot, causando la distruzione di due fabbriche in un imponente incendio visibile a molti km di distanza. I pompieri israeliani hanno infatti dovuto lavorare per ore contro le altissime fiamme senza riuscire a impedire la completa perdita dei due stabilimenti.
L’esercito ha inoltre predisposto un notevole aumento delle batterie anti-razzi “Iron-Dome” a protezione delle comunità urbane del Sud. Dall’inizio dell’operazione militare “Brother’s Keeper” nata per liberare i tre ragazzi ebrei rapiti in Cisgiordania due settimane fa, sono ben 40 i razzi lanciati da Gaza verso Israele e l’esercito ha da ciò capito che le cellule di Hamas nella Striscia abbiano scelto di aprire un secondo fronte contro lo Stato Ebraico.Un momento delicatissimo dove l'orlo di un nuovo conflitto israelo-palestinese sembra davvero vicino.
Sulla tristemente nota Striscia di Gaza tornano a soffiare funesti venti di battaglia. Molti quotidiani nazionali riportano la notizia che l’esercito israeliano ha dato ordine a un imprecisato numero di brigate corazzate di prepararsi alla possibilità di dispiegamento lungo il confine interno di Gaza.
La fatidica e rischiosa decisione è stata presa da Benny Gantz, capo di Stato Maggiore, dopo una tesissima notte nella quale l’aviazione ha colpito 12 obiettivi di Hamas e della Jihad islamica dentro la Striscia in risposta al lancio di razzi contro le città del Negev che ha investito Sderot, causando la distruzione di due fabbriche in un imponente incendio visibile a molti km di distanza. I pompieri israeliani hanno infatti dovuto lavorare per ore contro le altissime fiamme senza riuscire a impedire la completa perdita dei due stabilimenti.
L’esercito ha inoltre predisposto un notevole aumento delle batterie anti-razzi “Iron-Dome” a protezione delle comunità urbane del Sud. Dall’inizio dell’operazione militare “Brother’s Keeper” nata per liberare i tre ragazzi ebrei rapiti in Cisgiordania due settimane fa, sono ben 40 i razzi lanciati da Gaza verso Israele e l’esercito ha da ciò capito che le cellule di Hamas nella Striscia abbiano scelto di aprire un secondo fronte contro lo Stato Ebraico.Un momento delicatissimo dove l'orlo di un nuovo conflitto israelo-palestinese sembra davvero vicino.
Vertice segreto Egitto-Arabia Saudita.
di Ilenia Marini
Al Sisi e re Abdullah si incontrano per scelte importanti.
La crisi di questi mesi tra Siria ed Iraq preoccupa molto i paesi medio-orientali ed infatti in questi giorni l'Egitto e il re saudita Abdullah hanno dato vita ad un vertice diplomatico sull'attuale situazione.Atterrato al Cairo ad aspettare il re saudita c'era il nuovo presidente egiziano Al-Sisi, che subito si è diretto nella sala delle conferenze del Governo e li ad aspettare i due leader c'erano i ministri della Difesa e delle Finanze egiziani e sauditi. Secondo i ben informati la riunione ha toccati molti punti comprese le intenzioni dell'Arabia Saudita di sostenere l'economia egiziana con un nuovo programma di aiuti e finanziamenti allo scopo di permettere all'Egitto di risollevarsi dopo tre anni di crisi economica e sociale.La visita del re saudita era inoltre simbolica poichè erano ben tre anni che mancava,dal lontano 2011.
Lo Stato di Riad e le altre monarchie del Golfo nel giro di pochi giorni hanno inviato importanti finanziamenti economici all'Egitto,dopo l'elezione di Al-Sisi,un aiuto concreto per l'Egitto ma anche un invito allo stesso Stato egiziano di mantenere posizioni allineate a livello diplomatico nella zona del golfo Persico.Nella riunione poi si sarebbero toccati i temi importanti della crisi in Siria e Iraq, che vede oramai prossima all'esplosione lo scontro arabo-sunnita e il proliferare delle milizie terroristiche nel territorio ormai privo di una vera guida politica.Già il nuovo Iran sciita di Hasan Rohani aveva promesso di coadiuvare l'Iraq nella repressione al terrore,adesso Egitto ed Arabia si dicono pronti a fare la loro parte anche in Siria.
Riad in un primo momento aveva deciso di dare sostegno ai ribelli siriani che si oppongono, finora senza successo, al regime di Bashar Assad, ed è in forte atrito con il governo iracheno di Al-Maliki, che viene accusato di appoggiare la guerriglia jihadista nel Nord del Paese. In una recente conferenza il re saudita aveva spinto i leader degli altri paesi medio-orientali a prendere le distanze dallo “strano caos” innescato dalle primavere arabe, sottolineando che l'Arabia in questo periodo necessita di un legame sempre più forte con i paesi del Golfo.L’intento dei sauditi è di creare una sorta di Alleanza Mediorientale in primis con l'Egitto di Al-Sisi per consentire poi ai Paesi arabi sunniti di decidere finalmente di opporsi ai due nemici principali di questi anni: i Fratelli Musulmani sul fronte interno e l’Iran dal punto di vista diplomatico.
La crisi di questi mesi tra Siria ed Iraq preoccupa molto i paesi medio-orientali ed infatti in questi giorni l'Egitto e il re saudita Abdullah hanno dato vita ad un vertice diplomatico sull'attuale situazione.Atterrato al Cairo ad aspettare il re saudita c'era il nuovo presidente egiziano Al-Sisi, che subito si è diretto nella sala delle conferenze del Governo e li ad aspettare i due leader c'erano i ministri della Difesa e delle Finanze egiziani e sauditi. Secondo i ben informati la riunione ha toccati molti punti comprese le intenzioni dell'Arabia Saudita di sostenere l'economia egiziana con un nuovo programma di aiuti e finanziamenti allo scopo di permettere all'Egitto di risollevarsi dopo tre anni di crisi economica e sociale.La visita del re saudita era inoltre simbolica poichè erano ben tre anni che mancava,dal lontano 2011.
Lo Stato di Riad e le altre monarchie del Golfo nel giro di pochi giorni hanno inviato importanti finanziamenti economici all'Egitto,dopo l'elezione di Al-Sisi,un aiuto concreto per l'Egitto ma anche un invito allo stesso Stato egiziano di mantenere posizioni allineate a livello diplomatico nella zona del golfo Persico.Nella riunione poi si sarebbero toccati i temi importanti della crisi in Siria e Iraq, che vede oramai prossima all'esplosione lo scontro arabo-sunnita e il proliferare delle milizie terroristiche nel territorio ormai privo di una vera guida politica.Già il nuovo Iran sciita di Hasan Rohani aveva promesso di coadiuvare l'Iraq nella repressione al terrore,adesso Egitto ed Arabia si dicono pronti a fare la loro parte anche in Siria.
Riad in un primo momento aveva deciso di dare sostegno ai ribelli siriani che si oppongono, finora senza successo, al regime di Bashar Assad, ed è in forte atrito con il governo iracheno di Al-Maliki, che viene accusato di appoggiare la guerriglia jihadista nel Nord del Paese. In una recente conferenza il re saudita aveva spinto i leader degli altri paesi medio-orientali a prendere le distanze dallo “strano caos” innescato dalle primavere arabe, sottolineando che l'Arabia in questo periodo necessita di un legame sempre più forte con i paesi del Golfo.L’intento dei sauditi è di creare una sorta di Alleanza Mediorientale in primis con l'Egitto di Al-Sisi per consentire poi ai Paesi arabi sunniti di decidere finalmente di opporsi ai due nemici principali di questi anni: i Fratelli Musulmani sul fronte interno e l’Iran dal punto di vista diplomatico.
Croazia.Un paese che non cresce.
di Ilenia Marini
Una nazione che fatica a diventare paese moderno.
La Croazia è da un anno una delle peggiori economie al mondo, soprattutto per ciò che attiene al concetto d crescita, secondo la Intelligence Unit dell’Economist.Non è sola,ci sono anche Ucraina, Libia, Venezuela e Repubblica Centrafricana. La Croazia, dopo circa un anno dal proprio ingresso nell’Unione Europea, non ha ancora posto in essere misure per risolvere i propri problemi strutturali e a frenare la crisi economica, che sembra inarrestabile. L’economia è molto ferma, la disoccupazione cresce e le masse spesso vengono manipolate da partiti politici estremisti e xenofobi.Alcuni gruppi addirittura si avvicinano al neo-fascismo e la nazione è scossa da un vero vento di intolleranza, verso chiunque pensi, preghi, scriva o parli in modo differente.Anche il presidente croato, Ivo Josipović,chiede assistenza e aiuto per la piega negativa che la sua nazione sta prendendo.Tornando alla crisi europea, per Zagabria, i danni sono pesantissimi: quest’anno, probabilmente, la Croazia riuscirà a porre un lievissimo freno al declino (si parla di crescita zero). Ma per ben cinque anni il paese è stato in recessione (la più lunga da quando la repubblica si è resa indipendente), vedendoeroso il proprio PIL del 13%.Tra i policymaker croati si accenna ad un fortissimo rischio di stagnazione prolungata.
Sul fronte del debito pubblico, che nel 2013 rappresentava il 59,6% del pil, ora è del 64,7%. Bruxelles ha ordinato a Zagabria di ridurre drasticamente la propria spesa pubblica, anche in base alla procedura iniziata a gennaio contro la Croazia a causa del proprio deficit eccessivo (quello programmato è del 4,6% del pil, Bruxelles vorrebbe riportarlo entro il 3% e indica come obiettivo il 2,7% entro il 2016). La Croazia ha sta tentando con fatica di impostare un ventaglio straordinario di misure di austerità, approvato nell’aprile scorso, che però impongono un aumento dell’accisa sui carburanti e sui costi di telefonia, oltre che pesanti tagli ai sussidi agricoli e alle piccole e medie imprese. Misure che forse permetterano di ridurre il disavanzo di circa lo 0,4%, secondo il ministro dell'economia. Da anni Zagabria ha provato ad avere una politica economica più austera sul tema della spesa pubblica e delle riformare della pubblica amministrazione che, dai tempi della Jugoslavia, è ritenuta troppo grande se comparata con l'attuale ed effettiva dimensione della popolazione. L’esempio più eclatante di questo processo è forse la riforma del settore della sanità, che per abbattere le somme di spesa ha previsto una riduzione del numero degli ospedali e dei posti letto, obbligando 21 istituti (sui 31 totali esistenti nel paese) a razionalizzare le spese per poter sopravvivere.
L'effetto paradossale di queste misure è che hanno ulteriormente indebolito il potenziale di crescita del paese. Ad affermarlo sono due delle più importanti agenzie di rating internazionale, Standard & Poor’s e Moody’s, che negli ultimi giorni hanno deciso di rivedere l’affidabilità dei titoli croati. S&P ha tagliato il rating sui titoli croati da BB+ a BB; mentre Moody’s ha mantenuto inalterato il suo giudizio - Ba1 -, cambiando però l’outlook da stabile a negativo.I partiti nazionalisti e le destre, intanto, guadagnano molti voti anche con battaglie simboliche come quella contro l’introduzione del cirillico nelle città.Insomma a Zagabria sembrano prevedersi tempi durissimi.
La Croazia è da un anno una delle peggiori economie al mondo, soprattutto per ciò che attiene al concetto d crescita, secondo la Intelligence Unit dell’Economist.Non è sola,ci sono anche Ucraina, Libia, Venezuela e Repubblica Centrafricana. La Croazia, dopo circa un anno dal proprio ingresso nell’Unione Europea, non ha ancora posto in essere misure per risolvere i propri problemi strutturali e a frenare la crisi economica, che sembra inarrestabile. L’economia è molto ferma, la disoccupazione cresce e le masse spesso vengono manipolate da partiti politici estremisti e xenofobi.Alcuni gruppi addirittura si avvicinano al neo-fascismo e la nazione è scossa da un vero vento di intolleranza, verso chiunque pensi, preghi, scriva o parli in modo differente.Anche il presidente croato, Ivo Josipović,chiede assistenza e aiuto per la piega negativa che la sua nazione sta prendendo.Tornando alla crisi europea, per Zagabria, i danni sono pesantissimi: quest’anno, probabilmente, la Croazia riuscirà a porre un lievissimo freno al declino (si parla di crescita zero). Ma per ben cinque anni il paese è stato in recessione (la più lunga da quando la repubblica si è resa indipendente), vedendoeroso il proprio PIL del 13%.Tra i policymaker croati si accenna ad un fortissimo rischio di stagnazione prolungata.
Sul fronte del debito pubblico, che nel 2013 rappresentava il 59,6% del pil, ora è del 64,7%. Bruxelles ha ordinato a Zagabria di ridurre drasticamente la propria spesa pubblica, anche in base alla procedura iniziata a gennaio contro la Croazia a causa del proprio deficit eccessivo (quello programmato è del 4,6% del pil, Bruxelles vorrebbe riportarlo entro il 3% e indica come obiettivo il 2,7% entro il 2016). La Croazia ha sta tentando con fatica di impostare un ventaglio straordinario di misure di austerità, approvato nell’aprile scorso, che però impongono un aumento dell’accisa sui carburanti e sui costi di telefonia, oltre che pesanti tagli ai sussidi agricoli e alle piccole e medie imprese. Misure che forse permetterano di ridurre il disavanzo di circa lo 0,4%, secondo il ministro dell'economia. Da anni Zagabria ha provato ad avere una politica economica più austera sul tema della spesa pubblica e delle riformare della pubblica amministrazione che, dai tempi della Jugoslavia, è ritenuta troppo grande se comparata con l'attuale ed effettiva dimensione della popolazione. L’esempio più eclatante di questo processo è forse la riforma del settore della sanità, che per abbattere le somme di spesa ha previsto una riduzione del numero degli ospedali e dei posti letto, obbligando 21 istituti (sui 31 totali esistenti nel paese) a razionalizzare le spese per poter sopravvivere.
L'effetto paradossale di queste misure è che hanno ulteriormente indebolito il potenziale di crescita del paese. Ad affermarlo sono due delle più importanti agenzie di rating internazionale, Standard & Poor’s e Moody’s, che negli ultimi giorni hanno deciso di rivedere l’affidabilità dei titoli croati. S&P ha tagliato il rating sui titoli croati da BB+ a BB; mentre Moody’s ha mantenuto inalterato il suo giudizio - Ba1 -, cambiando però l’outlook da stabile a negativo.I partiti nazionalisti e le destre, intanto, guadagnano molti voti anche con battaglie simboliche come quella contro l’introduzione del cirillico nelle città.Insomma a Zagabria sembrano prevedersi tempi durissimi.
Iraq.Lotta al terrorismo insieme all’Iran.
di Ilenia Marini
Iran ed Usa pronte ad interventire per la pace irachena.
L'attualità irachena è di grande instabilità e da alcune settimane l’Iran ammette apertamente la possibilità di collaborare con gli Stati Uniti per cercare di risolvere la crisi. La conferma diretta è giunta dallo stesso presidente Hassan Rohani. Se gli Stati Uniti decidessero di intervenire contro i gruppi terroristi, l'Iran non esclude di scendere in campo e dare vita ad una collaborazione,ma per ora non c'è stata alcuna notizia sul tema,solo voci da parte di Washington ma nessun’azione. Intanto l’Iran ha inviato in Iraq il generale Qassem Suleimani, eminenza grigia delle Guardie rivoluzionarie, allo scopo di incontrare gli organi iracheni.Questo scrivono i giornali americani che parlano del generale Suleimani come una figura che si muove dietro le quinte,un militare molto potente, l’uomo che ha organizzato e dirige il sostegno militare di Teheran al regime di Bashar al Assad in Siria.
Secondo la critica americana lo stesso generale sarebbe il cervello dietro l’addestramento delle truppe sciite irachene che combatterono contro gli americani. Dopo almeno venti giorni di battaglie in strada da parte dei miliziani qaedisti, il governo iracheno ha deciso di porre in essere una vera controffensiva. Il comando delle forze armate irachene a Samarra, 110 chilometri a nord di Baghdad, ha comunicato di essere riuscito a far suo il distretto di Ishaqi, nella provincia di Salahuddin, quartiere del quale si era perso il controllo nei giorni scorsi gli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante.Il comandante militare delle operazioni a Samarra, Sabah al Fatlawi, secondo ciò che afferma l'agenzia irachena Nina, ha detto che l'esercito regolare è appoggiato anche dalle forze tribali dell’area.
Proprio partendo dalla città di Da Samarra il governo di Baghdad vorrebbe riorganizzare la controffensiva contro i jihadisti, a cominciare dalla riconquista di Tikrit, una trentina di chilometri a nord, capoluogo della provincia di Salahuddin e ovviamente famosa città natale del defunto ex presidente Saddam Hussein. Ieri intanto il primo ministro Nuri al Maliki, insieme al ministro degli interni, si è recato personalmente a Samarra per iniziare a negoziare con le autorità e i comandanti militari locali la strategia per respingere le truppe dell'Isis.Il primo ministro Nuri al Maliki ha sottolineato che l'Iraq non demorderà mai fino a che la vera unità nazionale non sarà realtà.
L'attualità irachena è di grande instabilità e da alcune settimane l’Iran ammette apertamente la possibilità di collaborare con gli Stati Uniti per cercare di risolvere la crisi. La conferma diretta è giunta dallo stesso presidente Hassan Rohani. Se gli Stati Uniti decidessero di intervenire contro i gruppi terroristi, l'Iran non esclude di scendere in campo e dare vita ad una collaborazione,ma per ora non c'è stata alcuna notizia sul tema,solo voci da parte di Washington ma nessun’azione. Intanto l’Iran ha inviato in Iraq il generale Qassem Suleimani, eminenza grigia delle Guardie rivoluzionarie, allo scopo di incontrare gli organi iracheni.Questo scrivono i giornali americani che parlano del generale Suleimani come una figura che si muove dietro le quinte,un militare molto potente, l’uomo che ha organizzato e dirige il sostegno militare di Teheran al regime di Bashar al Assad in Siria.
Secondo la critica americana lo stesso generale sarebbe il cervello dietro l’addestramento delle truppe sciite irachene che combatterono contro gli americani. Dopo almeno venti giorni di battaglie in strada da parte dei miliziani qaedisti, il governo iracheno ha deciso di porre in essere una vera controffensiva. Il comando delle forze armate irachene a Samarra, 110 chilometri a nord di Baghdad, ha comunicato di essere riuscito a far suo il distretto di Ishaqi, nella provincia di Salahuddin, quartiere del quale si era perso il controllo nei giorni scorsi gli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante.Il comandante militare delle operazioni a Samarra, Sabah al Fatlawi, secondo ciò che afferma l'agenzia irachena Nina, ha detto che l'esercito regolare è appoggiato anche dalle forze tribali dell’area.
Proprio partendo dalla città di Da Samarra il governo di Baghdad vorrebbe riorganizzare la controffensiva contro i jihadisti, a cominciare dalla riconquista di Tikrit, una trentina di chilometri a nord, capoluogo della provincia di Salahuddin e ovviamente famosa città natale del defunto ex presidente Saddam Hussein. Ieri intanto il primo ministro Nuri al Maliki, insieme al ministro degli interni, si è recato personalmente a Samarra per iniziare a negoziare con le autorità e i comandanti militari locali la strategia per respingere le truppe dell'Isis.Il primo ministro Nuri al Maliki ha sottolineato che l'Iraq non demorderà mai fino a che la vera unità nazionale non sarà realtà.
Colombia.E' duello per il nuovo Presidente.
di Ilenia Marini
Si decide il nuovo Presidente dello Stato colombiano.
Oggi 15 giugno il ballottaggio elettorale ci svelerà chi sarà il nuovo Presidente della Colombia. A sfidarsi saranno il presidente uscente Juan Manuel Santos e l’ex ministro dell'Economia colombiana, Óscar Iván Zuluaga,come già si prevedeva da tempo.Per i sondaggisti colombiani si tratta di un momento di grande incertezza in Colombia. Al primo turno non c’è stato né un enorme vantaggio di Santos come invece si ipotizzava alla vigilia,nè il testa a testa che alcuni mass media avevano descritto.Al contrario il vantaggio di Zuluaga è stato di soli 3 punti percentale,29% contro il 26% di Santos. Ma c’è stata anche un’altra sorpresa: l’ex sindaco di Bogotá, Enrique Peñalosa, che da molti era cnsiderato il vero sfidante di Santos ha miseramente fallito la prova elettorale racimolando solo l'8% delle preferenze. A superarlo sono state ben due donne,la conservatrice Marta Lucía Ramírez (15%) e la candidata della sinistra Clara López (14%).
Entrambe le candidate hanno conquistato voti grazie alle performance televisive.Facendo un'analisi ampia sugli esiti è possibile che il negoziato di pace con le Farc sia destinato ad arenarsi in caso di vittoria di Zuluaga: il candidato uribista ha infatti dichiarato che, da presidente, non tratterà con le Farc ma semplicemente darà un ultimatum di 8 giorni per cessare ogni azione criminale sul territorio nazionale.Clara López,la candidata socialista invece aveva criticato la visione capitalistica sia di Santos che di Zuluaga definiti due facce della stessa moneta ma sottilineando che al ballottaggio il suo partito Polo democratico alternativo deciderà solo con un dibattito democratico se sostenere o meno Santos. Alla fine anche se a malincuore Santos avrà l'appoggio della sinistra,impaurita che con Zuluaga possa ritornare il vento della destra fascista in Colombia.
Anche l'altra candidata,Lucìa Ramirez,ha dichiatato che supporterà Santos, turandosi il naso. La Colombia è in una situazione economica e sociale molto caotica,la vittoria di Santos potrebbe porre fine al conflitto con la guerriglia delle Farc e sarebbe già un passo importane per il paese.La Ramirez tra il 2002 e il 2003 era alla Difesa: proprio lo stesso dicastero che, tra il 2006 e il 2009, Santos ricopriva e dal quale ha preso il volo per la carica presidenziale anche grazie ai clamorosi colpi inflitti alla guerriglia.Zuluaga intanto per racimolare sostegno al ballottaggio limita i suoi modi conservatori e afferma che la sua presidenza sarà incentrata sulla legalità come valore,mirando all’ordine,al rispetto delle istituzioni e ad un piano economico rivoluzionario per rimettere in moto l'economia di un paese da anni messo in ginocchio dalla crisi economica.Vedremo chi vincerà.
Oggi 15 giugno il ballottaggio elettorale ci svelerà chi sarà il nuovo Presidente della Colombia. A sfidarsi saranno il presidente uscente Juan Manuel Santos e l’ex ministro dell'Economia colombiana, Óscar Iván Zuluaga,come già si prevedeva da tempo.Per i sondaggisti colombiani si tratta di un momento di grande incertezza in Colombia. Al primo turno non c’è stato né un enorme vantaggio di Santos come invece si ipotizzava alla vigilia,nè il testa a testa che alcuni mass media avevano descritto.Al contrario il vantaggio di Zuluaga è stato di soli 3 punti percentale,29% contro il 26% di Santos. Ma c’è stata anche un’altra sorpresa: l’ex sindaco di Bogotá, Enrique Peñalosa, che da molti era cnsiderato il vero sfidante di Santos ha miseramente fallito la prova elettorale racimolando solo l'8% delle preferenze. A superarlo sono state ben due donne,la conservatrice Marta Lucía Ramírez (15%) e la candidata della sinistra Clara López (14%).
Entrambe le candidate hanno conquistato voti grazie alle performance televisive.Facendo un'analisi ampia sugli esiti è possibile che il negoziato di pace con le Farc sia destinato ad arenarsi in caso di vittoria di Zuluaga: il candidato uribista ha infatti dichiarato che, da presidente, non tratterà con le Farc ma semplicemente darà un ultimatum di 8 giorni per cessare ogni azione criminale sul territorio nazionale.Clara López,la candidata socialista invece aveva criticato la visione capitalistica sia di Santos che di Zuluaga definiti due facce della stessa moneta ma sottilineando che al ballottaggio il suo partito Polo democratico alternativo deciderà solo con un dibattito democratico se sostenere o meno Santos. Alla fine anche se a malincuore Santos avrà l'appoggio della sinistra,impaurita che con Zuluaga possa ritornare il vento della destra fascista in Colombia.
Anche l'altra candidata,Lucìa Ramirez,ha dichiatato che supporterà Santos, turandosi il naso. La Colombia è in una situazione economica e sociale molto caotica,la vittoria di Santos potrebbe porre fine al conflitto con la guerriglia delle Farc e sarebbe già un passo importane per il paese.La Ramirez tra il 2002 e il 2003 era alla Difesa: proprio lo stesso dicastero che, tra il 2006 e il 2009, Santos ricopriva e dal quale ha preso il volo per la carica presidenziale anche grazie ai clamorosi colpi inflitti alla guerriglia.Zuluaga intanto per racimolare sostegno al ballottaggio limita i suoi modi conservatori e afferma che la sua presidenza sarà incentrata sulla legalità come valore,mirando all’ordine,al rispetto delle istituzioni e ad un piano economico rivoluzionario per rimettere in moto l'economia di un paese da anni messo in ginocchio dalla crisi economica.Vedremo chi vincerà.
Thailandia.Il colpo di Stato ora è realtà.
di Ilenia Marini
Scenari davvero preoccupanti nel sud-est asiatico.
La crisi in Thailandia si trascina da mesi e tre giorni orsono ha avuto un esito prevedibile ma sempre e comunque pericoloso:il colpo di Stato militare avvenuto dopo settimane di stallo politico e di proteste contro il governo dell’ex Presidente Shinawatra, leader del partito Pheu Thai (Ptp).Il potere è stato affidato quindi ad una Giunta Popolare per la pace nazionale e il mantenimento dell’ordine (noto con l’acronimo inglese Ncpo),una sorta di consiglio pilotato dal generale Prayuth Chan-ocha, che in maniera perentoria ha deciso di sciogliere le camere e sospendere la costituzione.La carta costituzionale dello Stato thailandese era stata reintrodotta nel 2006 quando con un atto militare era stato deposto Thaksin Shinawatra, fratello di Yingluck.Il golpe è ormai tradizione della Thailandia che è una monarchia costituzionale (1932), siamo al 12° e quest'ultimo ha anche ricevuto il placet del monarca in persona,il re Bhumibol Adulyadej.
La giunta militare comunque si è posta l'obiettivo di formare un parlamento ad interim, dei comitati di riforma e creare di sana pianta una nuova carta costituzionale. Non è stata ancora stabilita una data per le prossime elezioni.Comunque sia in queste settimane l’Ncpo ha limitato le libertà di oltre 150 politici e attivisti, ai quali è stato vietato di lasciare il paese. Tra i politici ovviamente presente Yingluck Shinawatra, rilasciata dal carcere dopo circa due giorni di arresto.I militari hanno da subito imposto sul territorio nazionale la legge marziale, hanno censurato i media thailandesi e bloccato alcuni canali televisivi stranieri tra cui Cnn, Bbc, Bloomberg e Human Rights Watch.Nel frattempo, l'opinione pubblica scendeva in strada per protestare a Bangkok. Alle manifestazioni hanno partecipato sia “le camicie rosse” - che sostengono il Ptp – sia cittadini scontenti per il colpo di Stato. Il golpe comunque ha sollevato l'attenzione della comunità internazionale.
Ieri infatti il segretario di Stato Usa John Kerry ha chiesto alla giunta la restaurazione di un governo civile. Inoltre, ha sottolineato che non esistono legittime giustificazioni per questo colpo di Stato e che ciò che sta avvenendo in Thailandia avrà delle implicazioni negative sulle relazioni con gli Usa, soprattutto per quelle militari. Washington in attesa di decisioni in merito ha scelto di sospendere gli aiuti del valore di 3.5 milioni di dollari dedicati a questo settore e cancellato le esercitazioni belliche condotte con Bangkok. La Thailandia è di fatti un importante alleato militare al di fuori della Nato ed è una pedina importante per le strategie di Washington nel Sud Est asiatico.La Cina invece ha scelto di tenere sull'argomento una posizione ancora neutrale.La portavoce del ministro degli Esteri Hong Lei ha evidenziato che il governo di Pechino desidera che la stabilità politica torni a regnare e che la diplomazia internazionale riesca a far conciliare gli interessi delle parti incausa ristabilendo l'ordine nella nazione asiatica.
La crisi in Thailandia si trascina da mesi e tre giorni orsono ha avuto un esito prevedibile ma sempre e comunque pericoloso:il colpo di Stato militare avvenuto dopo settimane di stallo politico e di proteste contro il governo dell’ex Presidente Shinawatra, leader del partito Pheu Thai (Ptp).Il potere è stato affidato quindi ad una Giunta Popolare per la pace nazionale e il mantenimento dell’ordine (noto con l’acronimo inglese Ncpo),una sorta di consiglio pilotato dal generale Prayuth Chan-ocha, che in maniera perentoria ha deciso di sciogliere le camere e sospendere la costituzione.La carta costituzionale dello Stato thailandese era stata reintrodotta nel 2006 quando con un atto militare era stato deposto Thaksin Shinawatra, fratello di Yingluck.Il golpe è ormai tradizione della Thailandia che è una monarchia costituzionale (1932), siamo al 12° e quest'ultimo ha anche ricevuto il placet del monarca in persona,il re Bhumibol Adulyadej.
La giunta militare comunque si è posta l'obiettivo di formare un parlamento ad interim, dei comitati di riforma e creare di sana pianta una nuova carta costituzionale. Non è stata ancora stabilita una data per le prossime elezioni.Comunque sia in queste settimane l’Ncpo ha limitato le libertà di oltre 150 politici e attivisti, ai quali è stato vietato di lasciare il paese. Tra i politici ovviamente presente Yingluck Shinawatra, rilasciata dal carcere dopo circa due giorni di arresto.I militari hanno da subito imposto sul territorio nazionale la legge marziale, hanno censurato i media thailandesi e bloccato alcuni canali televisivi stranieri tra cui Cnn, Bbc, Bloomberg e Human Rights Watch.Nel frattempo, l'opinione pubblica scendeva in strada per protestare a Bangkok. Alle manifestazioni hanno partecipato sia “le camicie rosse” - che sostengono il Ptp – sia cittadini scontenti per il colpo di Stato. Il golpe comunque ha sollevato l'attenzione della comunità internazionale.
Ieri infatti il segretario di Stato Usa John Kerry ha chiesto alla giunta la restaurazione di un governo civile. Inoltre, ha sottolineato che non esistono legittime giustificazioni per questo colpo di Stato e che ciò che sta avvenendo in Thailandia avrà delle implicazioni negative sulle relazioni con gli Usa, soprattutto per quelle militari. Washington in attesa di decisioni in merito ha scelto di sospendere gli aiuti del valore di 3.5 milioni di dollari dedicati a questo settore e cancellato le esercitazioni belliche condotte con Bangkok. La Thailandia è di fatti un importante alleato militare al di fuori della Nato ed è una pedina importante per le strategie di Washington nel Sud Est asiatico.La Cina invece ha scelto di tenere sull'argomento una posizione ancora neutrale.La portavoce del ministro degli Esteri Hong Lei ha evidenziato che il governo di Pechino desidera che la stabilità politica torni a regnare e che la diplomazia internazionale riesca a far conciliare gli interessi delle parti incausa ristabilendo l'ordine nella nazione asiatica.
Libia.Altissima tensione dopo il voto.
di Ilenia Marini
Attentato contro l'abitazione del neo-premier a Tripoli.
Nella nazione libica la situazione non accenna a rasserenarsi nonostante le recentissime elezioni democratiche.La settimana scorsa c'è stato un attentato contro la residenza del nuovo premier libico Mitig;l'allarme resta alto tanto che gli Usa hanno invitato gli americani presenti sul territorio ad abbandonare lo Stato e in più hanno dispiegato al largo del Mediterraneo antistante Tripoli una nave militare pronta per un’eventuale evacuazione.Sulla lunghissima via Bataan, sono presenti inoltre numerosi elicotteri, che l'esercito potrebbe adoperare per velocizzare l'evacuazione del personale diplomatico dall’ambasciata degli Stati Uniti.Gli Stati Uniti hanno esplicitamente chiesto a tutti i loro cittadini di lasciare celermente la Libia, a causa della situazione ritenuta dall'intelligence imprevedibile ed instabile nel paese. Chi arriva in Libia deve essere consapevole del fatto che potrebbe essere rapito, attaccato o peggio ancora ucciso per vendetta religiosa;questo è il messaggio che l'ambasciata lascia trasparire.A causa di problemi legati alla sicurezza, è stato fortemente ridotto il personale dell’ambasciata americana a Tripoli, che quindi non potrà offrire agli americani presenti in Libia il normale servizio consolare.
Nella mente degli Usa è ancora presente il forte trauma dell’attacco dell’13 settembre 2012 contro il consolato americano di Bengasi, nel quale perirono ben cinque americani compreso l’ambasciatore Christopher Stevens.Tornando all'attualità,l'episodio grave che ha fatto riesplodere la tensione è stato l'ordigno lanciato contro il premier Mitig, nel quartiere residenziale a est di Tripoli;la famiglia e lo stesso premier si trovavano in casa al momento dell’attacco, ma per fortuna non ci son ostate conseguenze. Le prime testimonianze affermano che le guardie del corpo del premier hanno aperto il fuoco contro il commando, uccidendo anche uno di loro e ferendone due che poco dopo sono stati bloccati ed arrestati.Gli altri quattro sono riusciti a fuggire. Ahmed Mitig è stato eletto domenica scorsa dal Congresso nazionale libico in un clima di tensioni alimentate da una lotta di potere fra i politici e milizie armate. Imprenditore e amico dei gruppi islamici, Mitig è il quinto premier eletto in Libia dalla caduta del regime di Gheddafi, nel 2011, e il più giovane capo di un governo fatto di 18 ministri che si sono posti l'obiettivo di far rinascere il paese.
Mitig ha conquistato il potere in questo peridodo di transizione in Libia nel quale il Paese è abbandonato alle milizie armate. Nonostante le elezioni democratiche gli estremisti-autonomisti continuano a bloccare da più di un anno i siti petroliferi nell’Est della Libia e hanno comunicato di non accettare il risultato elettorale respingendo il governo di Ahmed Mitig e invocando il ritorno al potere di Abdallah al-Theni premier uscente.Ibrahim Jodhrane, capo dei ribelli e presidente autoproclamato dell’Ufficio politico della Cirenaica ha sottolineato che a suo avviso il precedente governo sia stato decapitato senza motivo nè legittimità normativa.Questa nuova situazione tesa potrebbe ledere il patto di collaborazione firmato lo scorso aprile dal governo ad interim di Abdullah Al-Theni, con il quale i ribelli della Cirenaica accettavano di liberare almeno quattro siti petroliferi della regione,permettendo all'economia nazioale di rimettersi in sesto.Ora le cose potrebbero cambiare.
Nella nazione libica la situazione non accenna a rasserenarsi nonostante le recentissime elezioni democratiche.La settimana scorsa c'è stato un attentato contro la residenza del nuovo premier libico Mitig;l'allarme resta alto tanto che gli Usa hanno invitato gli americani presenti sul territorio ad abbandonare lo Stato e in più hanno dispiegato al largo del Mediterraneo antistante Tripoli una nave militare pronta per un’eventuale evacuazione.Sulla lunghissima via Bataan, sono presenti inoltre numerosi elicotteri, che l'esercito potrebbe adoperare per velocizzare l'evacuazione del personale diplomatico dall’ambasciata degli Stati Uniti.Gli Stati Uniti hanno esplicitamente chiesto a tutti i loro cittadini di lasciare celermente la Libia, a causa della situazione ritenuta dall'intelligence imprevedibile ed instabile nel paese. Chi arriva in Libia deve essere consapevole del fatto che potrebbe essere rapito, attaccato o peggio ancora ucciso per vendetta religiosa;questo è il messaggio che l'ambasciata lascia trasparire.A causa di problemi legati alla sicurezza, è stato fortemente ridotto il personale dell’ambasciata americana a Tripoli, che quindi non potrà offrire agli americani presenti in Libia il normale servizio consolare.
Nella mente degli Usa è ancora presente il forte trauma dell’attacco dell’13 settembre 2012 contro il consolato americano di Bengasi, nel quale perirono ben cinque americani compreso l’ambasciatore Christopher Stevens.Tornando all'attualità,l'episodio grave che ha fatto riesplodere la tensione è stato l'ordigno lanciato contro il premier Mitig, nel quartiere residenziale a est di Tripoli;la famiglia e lo stesso premier si trovavano in casa al momento dell’attacco, ma per fortuna non ci son ostate conseguenze. Le prime testimonianze affermano che le guardie del corpo del premier hanno aperto il fuoco contro il commando, uccidendo anche uno di loro e ferendone due che poco dopo sono stati bloccati ed arrestati.Gli altri quattro sono riusciti a fuggire. Ahmed Mitig è stato eletto domenica scorsa dal Congresso nazionale libico in un clima di tensioni alimentate da una lotta di potere fra i politici e milizie armate. Imprenditore e amico dei gruppi islamici, Mitig è il quinto premier eletto in Libia dalla caduta del regime di Gheddafi, nel 2011, e il più giovane capo di un governo fatto di 18 ministri che si sono posti l'obiettivo di far rinascere il paese.
Mitig ha conquistato il potere in questo peridodo di transizione in Libia nel quale il Paese è abbandonato alle milizie armate. Nonostante le elezioni democratiche gli estremisti-autonomisti continuano a bloccare da più di un anno i siti petroliferi nell’Est della Libia e hanno comunicato di non accettare il risultato elettorale respingendo il governo di Ahmed Mitig e invocando il ritorno al potere di Abdallah al-Theni premier uscente.Ibrahim Jodhrane, capo dei ribelli e presidente autoproclamato dell’Ufficio politico della Cirenaica ha sottolineato che a suo avviso il precedente governo sia stato decapitato senza motivo nè legittimità normativa.Questa nuova situazione tesa potrebbe ledere il patto di collaborazione firmato lo scorso aprile dal governo ad interim di Abdullah Al-Theni, con il quale i ribelli della Cirenaica accettavano di liberare almeno quattro siti petroliferi della regione,permettendo all'economia nazioale di rimettersi in sesto.Ora le cose potrebbero cambiare.
Ucraina.Ancora bombardamenti a Donetsk.
di Ilenia Marini
Filorussi ed esercito ucraino si scontrano ancora.
Ieri nella notte il suolo ucraino è stato ancora flagellato dalle bombe.Sono ricominciati i bombardamenti dell’artiglieria ucraina sulla cittadina di Sloviansk, una delle basi più potenti della resistenza filorussa nella regione di Donetsk.Anche nei pressi dello stesso aeroporto di Donetsk si sono udite esplosioni ed intraviste fiamme molto alte.I giornali e le tv russe ipotizzano molte vittime civili.Un bilancio che aumenta visto che nell'ultima settimana circa 200 sono state le vittime dei bombardamenti ucraini.Tra le vittime di ieri anche l’ex campione di kick-boxing, Nikolay Lenov.L’ultimo bombardamento è stato molto violento e avrebbe martoriato gli abitanti della zona,lo conferma anche l’agenzia di informazione russa Ria Novosti.Secondo molti si tratterebbe di una sorta di rappresaglia per l'abbattimanto di un elicottero ucraino, compiuto dai ribelli filorussi.Il bombardamento è durato circa tre ore, dopo di che la situazione sembra essersi rasserenata,ma un silenzio di morte è comunque sceso per le starde cittadine.
Il numero alto di vittime è stato anche causato dal fatto che stranamente il bombardamento è avventuto in piena mattina e non di notte.Venerdì un colpo di artiglieria è piovuto sull’ospedale pediatrico della città. Secondo Itar-Tass sono rimasti feriti sette bambini. I ribelli al contrario affermano che non ci siano stati bambini vittime degli attacchi poichè alcune ore prima erano tutti stati prontamente evacuati in un rifugio antiaereo, rimanendo quindi tutti illesi.Gli Stati Uniti non si espongono ancora chiaramente e cercano di ridimensionare la situazione: l’Ucraina sta esercitando in modo moderato la sua legittima operazione militare nell’est e mentre Mosca inizia a muovere accuse di violazione dei diritti umani o addirittura di crimini contro l’umanità, come l’uccisione indiscriminata di civili o gli spari contro ambulanze e medici,gli Usa minimizzano parlando di episodi sporadici ed incidentali,queste le parole di Jen Psaki, la portavoce del dipartimento di Stato americano che rispondendo alle domande di diversi giornalisti nel corso di una conferenza stampa,non ha nascosto una certa preoccupazione per il futuro in terra ucraina.
La Russia da un momento all'altro potrebbe tornare a dire la sua sulla questione e il responsabile dei diritti dell’Infanzia, Pavel Astakhov, si dice pronta ad accogliere i bambini in corso di evacuazione dall’est dell’Ucraina. L'idea è quella di coinvolgere gli stati confinanti dell'Ucraina affinche predispongano piani emergenziali d’evacuazione,favorendo il transito al confine e dando status legale alle famiglie dei bambini vittime.Queste le parole chiare della Astakhov,sottolinenando che solo nella cittadina di Sloviansk ci sarebbero circa 22mila minori coinvolti nei bombardamenti di quesi giorni.
Ieri nella notte il suolo ucraino è stato ancora flagellato dalle bombe.Sono ricominciati i bombardamenti dell’artiglieria ucraina sulla cittadina di Sloviansk, una delle basi più potenti della resistenza filorussa nella regione di Donetsk.Anche nei pressi dello stesso aeroporto di Donetsk si sono udite esplosioni ed intraviste fiamme molto alte.I giornali e le tv russe ipotizzano molte vittime civili.Un bilancio che aumenta visto che nell'ultima settimana circa 200 sono state le vittime dei bombardamenti ucraini.Tra le vittime di ieri anche l’ex campione di kick-boxing, Nikolay Lenov.L’ultimo bombardamento è stato molto violento e avrebbe martoriato gli abitanti della zona,lo conferma anche l’agenzia di informazione russa Ria Novosti.Secondo molti si tratterebbe di una sorta di rappresaglia per l'abbattimanto di un elicottero ucraino, compiuto dai ribelli filorussi.Il bombardamento è durato circa tre ore, dopo di che la situazione sembra essersi rasserenata,ma un silenzio di morte è comunque sceso per le starde cittadine.
Il numero alto di vittime è stato anche causato dal fatto che stranamente il bombardamento è avventuto in piena mattina e non di notte.Venerdì un colpo di artiglieria è piovuto sull’ospedale pediatrico della città. Secondo Itar-Tass sono rimasti feriti sette bambini. I ribelli al contrario affermano che non ci siano stati bambini vittime degli attacchi poichè alcune ore prima erano tutti stati prontamente evacuati in un rifugio antiaereo, rimanendo quindi tutti illesi.Gli Stati Uniti non si espongono ancora chiaramente e cercano di ridimensionare la situazione: l’Ucraina sta esercitando in modo moderato la sua legittima operazione militare nell’est e mentre Mosca inizia a muovere accuse di violazione dei diritti umani o addirittura di crimini contro l’umanità, come l’uccisione indiscriminata di civili o gli spari contro ambulanze e medici,gli Usa minimizzano parlando di episodi sporadici ed incidentali,queste le parole di Jen Psaki, la portavoce del dipartimento di Stato americano che rispondendo alle domande di diversi giornalisti nel corso di una conferenza stampa,non ha nascosto una certa preoccupazione per il futuro in terra ucraina.
La Russia da un momento all'altro potrebbe tornare a dire la sua sulla questione e il responsabile dei diritti dell’Infanzia, Pavel Astakhov, si dice pronta ad accogliere i bambini in corso di evacuazione dall’est dell’Ucraina. L'idea è quella di coinvolgere gli stati confinanti dell'Ucraina affinche predispongano piani emergenziali d’evacuazione,favorendo il transito al confine e dando status legale alle famiglie dei bambini vittime.Queste le parole chiare della Astakhov,sottolinenando che solo nella cittadina di Sloviansk ci sarebbero circa 22mila minori coinvolti nei bombardamenti di quesi giorni.
Lo Zar Putin alza ancora la voce.
di Ilenia Marini
Il Presidente russo non abbandona i propositi di espansione.
Gli intenti geopolitici di Vladimir Putin si definiscono in modo netto e chiaro.Il suo nuovo scopo sembra essere contrario a quello i Obama.Non ha alcuna intenzione di finire relegato nella periferia delle potenze regionali, come un Brasile qualsiasi. Gradirebbe un bel trattamento paritario da Stati Uniti e Cina, con cui desidererebbe rielaborare le nuove regole della vita internazionale. La sua visione del mondo autoritaria, tradizionalista, anzi reazionaria, ne avrebbe fatto a suo tempo un superiore emulo di Alessandro I, lo zar della Santa Alleanza.L’obiettivo è recuperare le terre considerate russe, imperiali o comunque incapaci di dotarsi di una propria statualità, per inquadrarle insieme a Kazakistan, Bielorussia e altri spezzoni ex sovietici nell’Unione Eurasiatica, ossia in un nuovo impero di Mosca.
Con la lingua russa quale esperanto imperiale e idioma degli affari. Tale sfera di super-influenza non sarebbe fine a se stessa, ma condizione per affermare il diritto della Russia al rango di potenza globale.Il presidente della Russia è l’opposto del suo omologo americano anche nel carattere. È un emotivo. Tende dunque alla sincerità anche quando funzione e formazione glielo vieterebbero. Ascoltarlo mentre proclama al Cremlino l’annessione della Crimea, scagliandosi contro gli occidentali che l’hanno umiliato e offeso è un momento ricco di pathos.Il ribellarsi all’espansione della Nato all’Est, come pure con lo spiegamento di infrastrutture militari sorte lungo la frontiera.Dunque Putin la linea rossa ce l’ha.
È per lui inaccettabile che l’Ucraina, e con essa magari Georgia, Bielorussia e altri soggetti ex sovietici seguano le orme di Estonia, Lettonia e Lituania, passando nella formazione atlantica.Molte quindi sono le aree di frizione tra Russia e Nato, le teste di ponte russe contro la Nato e l'Ue (Transnistria, Abkhazia e Ossezia del Sud), i porti strategici russi nel Mediterraneo (oltre a Sebastopoli in Crimea, Latakia e Tartus in Siria).Una situazione in perenne agitazione.
Gli intenti geopolitici di Vladimir Putin si definiscono in modo netto e chiaro.Il suo nuovo scopo sembra essere contrario a quello i Obama.Non ha alcuna intenzione di finire relegato nella periferia delle potenze regionali, come un Brasile qualsiasi. Gradirebbe un bel trattamento paritario da Stati Uniti e Cina, con cui desidererebbe rielaborare le nuove regole della vita internazionale. La sua visione del mondo autoritaria, tradizionalista, anzi reazionaria, ne avrebbe fatto a suo tempo un superiore emulo di Alessandro I, lo zar della Santa Alleanza.L’obiettivo è recuperare le terre considerate russe, imperiali o comunque incapaci di dotarsi di una propria statualità, per inquadrarle insieme a Kazakistan, Bielorussia e altri spezzoni ex sovietici nell’Unione Eurasiatica, ossia in un nuovo impero di Mosca.
Con la lingua russa quale esperanto imperiale e idioma degli affari. Tale sfera di super-influenza non sarebbe fine a se stessa, ma condizione per affermare il diritto della Russia al rango di potenza globale.Il presidente della Russia è l’opposto del suo omologo americano anche nel carattere. È un emotivo. Tende dunque alla sincerità anche quando funzione e formazione glielo vieterebbero. Ascoltarlo mentre proclama al Cremlino l’annessione della Crimea, scagliandosi contro gli occidentali che l’hanno umiliato e offeso è un momento ricco di pathos.Il ribellarsi all’espansione della Nato all’Est, come pure con lo spiegamento di infrastrutture militari sorte lungo la frontiera.Dunque Putin la linea rossa ce l’ha.
È per lui inaccettabile che l’Ucraina, e con essa magari Georgia, Bielorussia e altri soggetti ex sovietici seguano le orme di Estonia, Lettonia e Lituania, passando nella formazione atlantica.Molte quindi sono le aree di frizione tra Russia e Nato, le teste di ponte russe contro la Nato e l'Ue (Transnistria, Abkhazia e Ossezia del Sud), i porti strategici russi nel Mediterraneo (oltre a Sebastopoli in Crimea, Latakia e Tartus in Siria).Una situazione in perenne agitazione.
Cuba.Finalmente apre ai capitali esteri.
di Ilenia Marini
Importante apertura di Raul Castro in campo economico.
Ben un lustro fa Raul Castro,fratello del leader maximo,aveva dato il via ad una serie di riforme in campo economico,adesso il suo piano di modernizzazione continua a passi da gigante.La settimana scorsa il Consiglio Nazionale Cubano ha votato una legge importante: autorizzando liberamente gli investimenti stranieri che, secondo le parole del regime stesso, permetterà l'arrivo di tanti capitali internazionali nel povero mercato locale. Il primo scopo dichiarato della riforma è di proteggere chi opterà per l'investimento in terra cubana,dando solide garanzie normative e finanziarie. Il secondo scopo sarà agevolare i rapporti commerciali soprattutto verso paesi emergenti come Brasile ed India. Il terzo obiettivo, il più importante in prospettiva, è quello di ricorrere ai capitali stranieri per rimettere in moto l'economia locale,oramai stagnante da decenni.Cuba ha bisogno di capitali per acquistare nuove tecnologie ma soprattutto per garantire un livello sufficiente di produzione di generi alimentari che oggi è costretta ad importare dopo anni di "collettivizzazione" nelle campagne e di fallimentari "piani quinquennali" di sovietica memoria.Nel dettaglio la nuova legge offre, insieme alle garanzie giuridiche sugli investimenti (spesso sottomessi alle bizzose volontà dell'ex leader maximo), notevoli benifici fiscali e sconti sulle tasse di eventuali profitti, oltre a eliminare faticosi ostacoli burocratici all'importazione ed esportazione di macchinari per l'industria.
Una novità molto attesa che dovrebbe essere confermata nel testo finale è anche il via libera agli investimenti diretti dei cubani che risiedono all'estero, che fino ad oggi erano rigorosamente proibiti. Norma che è una scommessa sul futuro. La maggior parte dei cubani in esilio che hanno lasciato l'isola nei 55 anni di regime castrista vivono a Miami, in Spagna e in Messico. Per l'embargo unilaterale americano che vige dal 1961 la vasta comunità di esuli di Miami (fra 800mila e un milione di anime) non potrà investire, almeno in forma diretta, nell'isola ma è da lì che in un futuro, forse non lontanissimo, potranno arrivare capitali sostanziosi.L'unica cosa che non cambia rispetto alla legge sugli investimenti varata vent'anni da Fidel Castro è la relazione di lavoro. Le aziende straniere che arriveranno sull'isola non potranno assumere dipendenti direttamente ma solo attraverso la preposta agenzia statale che avrà il potere di filtrare le assunzioni. Oggi la legge sulle imprese in joint venture varata nel 1995 ha dimostrato tutta la sua inutilità: da oltre 400 nel 2002, le aziende miste si sono ridotte della metà negli ultimi dieci anni. E la sua riforma è diventata indispensabile.
Da poco più di cinque mesi a Cuba c'è già un'area economica speciale, un progetto pilota di apertura al mercato. E' il porto del Mariel, dove il Brasile ha investito per i lavori di ampliamento quasi mille milioni di dollari (750 milioni di euro). Mentre nuovi progetti arriveranno grazie all'eliminazione delle sanzioni anti-regime dell'Unione europea.La nuova legge sugli investimenti stranieri a Cuba apre all'ingresso di capitali in tutti i settori, tranne nella Sanità, nell'Istruzione e nelle Forze armate. Nessun segnale invece su riforme politiche come chiarito più volte anche dal vicepresidente cubano Marino Murrillo: "A Cuba non ci saranno riforme politiche. Noi stiamo solo parlando di una attualizzazione del modello economico che renda sostenibile il nostro socialismo".
Ben un lustro fa Raul Castro,fratello del leader maximo,aveva dato il via ad una serie di riforme in campo economico,adesso il suo piano di modernizzazione continua a passi da gigante.La settimana scorsa il Consiglio Nazionale Cubano ha votato una legge importante: autorizzando liberamente gli investimenti stranieri che, secondo le parole del regime stesso, permetterà l'arrivo di tanti capitali internazionali nel povero mercato locale. Il primo scopo dichiarato della riforma è di proteggere chi opterà per l'investimento in terra cubana,dando solide garanzie normative e finanziarie. Il secondo scopo sarà agevolare i rapporti commerciali soprattutto verso paesi emergenti come Brasile ed India. Il terzo obiettivo, il più importante in prospettiva, è quello di ricorrere ai capitali stranieri per rimettere in moto l'economia locale,oramai stagnante da decenni.Cuba ha bisogno di capitali per acquistare nuove tecnologie ma soprattutto per garantire un livello sufficiente di produzione di generi alimentari che oggi è costretta ad importare dopo anni di "collettivizzazione" nelle campagne e di fallimentari "piani quinquennali" di sovietica memoria.Nel dettaglio la nuova legge offre, insieme alle garanzie giuridiche sugli investimenti (spesso sottomessi alle bizzose volontà dell'ex leader maximo), notevoli benifici fiscali e sconti sulle tasse di eventuali profitti, oltre a eliminare faticosi ostacoli burocratici all'importazione ed esportazione di macchinari per l'industria.
Una novità molto attesa che dovrebbe essere confermata nel testo finale è anche il via libera agli investimenti diretti dei cubani che risiedono all'estero, che fino ad oggi erano rigorosamente proibiti. Norma che è una scommessa sul futuro. La maggior parte dei cubani in esilio che hanno lasciato l'isola nei 55 anni di regime castrista vivono a Miami, in Spagna e in Messico. Per l'embargo unilaterale americano che vige dal 1961 la vasta comunità di esuli di Miami (fra 800mila e un milione di anime) non potrà investire, almeno in forma diretta, nell'isola ma è da lì che in un futuro, forse non lontanissimo, potranno arrivare capitali sostanziosi.L'unica cosa che non cambia rispetto alla legge sugli investimenti varata vent'anni da Fidel Castro è la relazione di lavoro. Le aziende straniere che arriveranno sull'isola non potranno assumere dipendenti direttamente ma solo attraverso la preposta agenzia statale che avrà il potere di filtrare le assunzioni. Oggi la legge sulle imprese in joint venture varata nel 1995 ha dimostrato tutta la sua inutilità: da oltre 400 nel 2002, le aziende miste si sono ridotte della metà negli ultimi dieci anni. E la sua riforma è diventata indispensabile.
Da poco più di cinque mesi a Cuba c'è già un'area economica speciale, un progetto pilota di apertura al mercato. E' il porto del Mariel, dove il Brasile ha investito per i lavori di ampliamento quasi mille milioni di dollari (750 milioni di euro). Mentre nuovi progetti arriveranno grazie all'eliminazione delle sanzioni anti-regime dell'Unione europea.La nuova legge sugli investimenti stranieri a Cuba apre all'ingresso di capitali in tutti i settori, tranne nella Sanità, nell'Istruzione e nelle Forze armate. Nessun segnale invece su riforme politiche come chiarito più volte anche dal vicepresidente cubano Marino Murrillo: "A Cuba non ci saranno riforme politiche. Noi stiamo solo parlando di una attualizzazione del modello economico che renda sostenibile il nostro socialismo".
Nigeria.Tra fanatismo ed integralismo.
di Ilenia Marini
Un paese sconvolto dove cambiano gli equilibri religiosi.
Tra il Camerun, ad est, Ciad e Niger a nord c'è un pezzo di Nigeria che da anni è davvero flagellato dall'integralismo di matrice islamica.Difficile attraversare quel territorio agevolmente: i contractors occidentali sono andati via da molto tempo,troppo rischioso, neppure le tv e i giornalisti si recano spesso in quelle zone,nemmeno i nigeriani del sud si sp per finalità commerciali.Al di là si estende un lembo di terra dai panorami sconfinati di savana aperta che si rarefà via via in deserto man mano che si sale a nord, poche città grandi, simili più a paesoni di casette basse dal tetto di lamiera ondulata, strade polverose battute da un sole implacabile: il resto è campagna, punteggiata di villaggi di fango, ombreggiati da rade acacie, catene montuose, impervie colline di pietra compatta grigio scura, mandrie di buoi gibbosi dalle lunghe corna diritte accompagnate dai nomadi Fulani, i folletti delle pianure, che vivono in simbiosi con gli animali nel loro eterno peregrinare.Questo posto è oggi una delle zone ad alto rischio dell’Africa, per certi versi la peggiore.
Qui non è guerra, non ci sono linee, bande o fazioni identificabili, non puoi dire «ecco, qui sono al riparo, al sicuro»; qui è terrorismo della peggiore specie, strisciante, continuo, violenza primitiva, che usa il coltello più delle armi sofisticate, si muove al buio, quando la paura allunga le grinfie, nei vicoli dei quartieri di città come nei villaggi isolati delle campagne.Siamo nel cuore delle zone infestate dall’odio fanatico di Boko Haram, la setta integralista che ha steso su tutto un velo pesante, palpabile, di terrore soffocante, difficile da raccontare.Boko Haram. Suona quasi bene, pronunciato con l’acca aperta e aspirata della lingua Hausa, sa di deserto, di vento tra i cespugli spinosi, evoca carovane in marcia, lunghe teorie di viaggiatori, le corse dei cavalli tra le dune, qualcosa di misterioso ed evanescente. E invece è la morte.Questa terra, evangelizzata dai missionari irlandesi cent’anni fa, per secoli punto di scambio tra il Sahara e il Golfo di Guinea, dove la pacifica convivenza tra religioni diverse era un fatto normale, è il tragico palcoscenico di una violenza feroce che mira a dividere e imporre un odio che non c’era. I musulmani devono abbracciare il credo del fanatismo, altrimenti diventano bersaglio della setta che non accetta moderazione; e i cristiani se ne devono andare, o convertirsi anche se vivono qui da generazioni, in pace con la stragrande maggioranza dei musulmani, da buoni vicini oppure come famiglie allargate con parenti di fede diversa. Tutto questo è ciò che è nel mirino degli integralisti.È un fatto di povertà e mancanza di cultura: che cosa vuole Boko Haram? Vuole dire che la cultura è peccato, perché la cultura rende liberi, e loro vogliono che i giovani crescano nell’ignoranza, così sono manovrabili. I terroristi però usano le armi fabbricate in Occidente: qualcuno insegna loro come maneggiare gli esplosivi, non è forse anche questo cultura moderna?
Bisogna raccontare il terrore che la gente deve affrontare qui, in Italia è difficile immaginare cosa significa vivere da queste parti, le persone non hanno gli strumenti mentali per poter comprendere». Insieme a lui ci sono William, Kevin, e Gideon, parroci giovani, costretti a convivere con questo terrore quotidiano come comporre i morti ogni volta che c’è un attentato, un omicidio, occuparsi delle vedove e degli orfani. Kevin l’ultimo omicidio lo ha visto poco più di due settimane fa: hanno sgozzato un ragazzino di quindici anni, poi hanno freddato la madre ancora inginocchiata sul corpo del figlio. Agiscono sempre di notte i terroristi. Mostra le foto. «Ci sentiamo scoraggiati. L’anno scorso qui hanno ammazzato trenta studenti dell’Università: andavano di casa in casa, alle tre del mattino, chiedevano “come ti chiami ?” e ammazzavano tutti quelli che avevano un nome inglese, non tradizionale. Gli hanno sparato e squarciato la gola. Quando è arrivato l’esercito era già tutto finito».Quello che fa più male da queste parti è il rischio della rassegnazione, l’interesse dei media che si allenta, quasi che vivere così possa essere normale: «Vedi, noi da vivi non facciamo notizia - dice un testimone che vuole restare anonimo - chi mai vorrebbe leggere la mia storia? Ma da morti facciamo vendere i giornali, la gente vede i nostri corpi in tv e aspetta qualche secondo prima di cambiare canale. Ma ormai se moriamo solo in due o tre interessiamo sempre meno. Per fare audience dobbiamo morire in dieci, o venti. Di stranieri, di solito, ne basta uno solo. Ti prego, parlate di noi
Tra il Camerun, ad est, Ciad e Niger a nord c'è un pezzo di Nigeria che da anni è davvero flagellato dall'integralismo di matrice islamica.Difficile attraversare quel territorio agevolmente: i contractors occidentali sono andati via da molto tempo,troppo rischioso, neppure le tv e i giornalisti si recano spesso in quelle zone,nemmeno i nigeriani del sud si sp per finalità commerciali.Al di là si estende un lembo di terra dai panorami sconfinati di savana aperta che si rarefà via via in deserto man mano che si sale a nord, poche città grandi, simili più a paesoni di casette basse dal tetto di lamiera ondulata, strade polverose battute da un sole implacabile: il resto è campagna, punteggiata di villaggi di fango, ombreggiati da rade acacie, catene montuose, impervie colline di pietra compatta grigio scura, mandrie di buoi gibbosi dalle lunghe corna diritte accompagnate dai nomadi Fulani, i folletti delle pianure, che vivono in simbiosi con gli animali nel loro eterno peregrinare.Questo posto è oggi una delle zone ad alto rischio dell’Africa, per certi versi la peggiore.
Qui non è guerra, non ci sono linee, bande o fazioni identificabili, non puoi dire «ecco, qui sono al riparo, al sicuro»; qui è terrorismo della peggiore specie, strisciante, continuo, violenza primitiva, che usa il coltello più delle armi sofisticate, si muove al buio, quando la paura allunga le grinfie, nei vicoli dei quartieri di città come nei villaggi isolati delle campagne.Siamo nel cuore delle zone infestate dall’odio fanatico di Boko Haram, la setta integralista che ha steso su tutto un velo pesante, palpabile, di terrore soffocante, difficile da raccontare.Boko Haram. Suona quasi bene, pronunciato con l’acca aperta e aspirata della lingua Hausa, sa di deserto, di vento tra i cespugli spinosi, evoca carovane in marcia, lunghe teorie di viaggiatori, le corse dei cavalli tra le dune, qualcosa di misterioso ed evanescente. E invece è la morte.Questa terra, evangelizzata dai missionari irlandesi cent’anni fa, per secoli punto di scambio tra il Sahara e il Golfo di Guinea, dove la pacifica convivenza tra religioni diverse era un fatto normale, è il tragico palcoscenico di una violenza feroce che mira a dividere e imporre un odio che non c’era. I musulmani devono abbracciare il credo del fanatismo, altrimenti diventano bersaglio della setta che non accetta moderazione; e i cristiani se ne devono andare, o convertirsi anche se vivono qui da generazioni, in pace con la stragrande maggioranza dei musulmani, da buoni vicini oppure come famiglie allargate con parenti di fede diversa. Tutto questo è ciò che è nel mirino degli integralisti.È un fatto di povertà e mancanza di cultura: che cosa vuole Boko Haram? Vuole dire che la cultura è peccato, perché la cultura rende liberi, e loro vogliono che i giovani crescano nell’ignoranza, così sono manovrabili. I terroristi però usano le armi fabbricate in Occidente: qualcuno insegna loro come maneggiare gli esplosivi, non è forse anche questo cultura moderna?
Bisogna raccontare il terrore che la gente deve affrontare qui, in Italia è difficile immaginare cosa significa vivere da queste parti, le persone non hanno gli strumenti mentali per poter comprendere». Insieme a lui ci sono William, Kevin, e Gideon, parroci giovani, costretti a convivere con questo terrore quotidiano come comporre i morti ogni volta che c’è un attentato, un omicidio, occuparsi delle vedove e degli orfani. Kevin l’ultimo omicidio lo ha visto poco più di due settimane fa: hanno sgozzato un ragazzino di quindici anni, poi hanno freddato la madre ancora inginocchiata sul corpo del figlio. Agiscono sempre di notte i terroristi. Mostra le foto. «Ci sentiamo scoraggiati. L’anno scorso qui hanno ammazzato trenta studenti dell’Università: andavano di casa in casa, alle tre del mattino, chiedevano “come ti chiami ?” e ammazzavano tutti quelli che avevano un nome inglese, non tradizionale. Gli hanno sparato e squarciato la gola. Quando è arrivato l’esercito era già tutto finito».Quello che fa più male da queste parti è il rischio della rassegnazione, l’interesse dei media che si allenta, quasi che vivere così possa essere normale: «Vedi, noi da vivi non facciamo notizia - dice un testimone che vuole restare anonimo - chi mai vorrebbe leggere la mia storia? Ma da morti facciamo vendere i giornali, la gente vede i nostri corpi in tv e aspetta qualche secondo prima di cambiare canale. Ma ormai se moriamo solo in due o tre interessiamo sempre meno. Per fare audience dobbiamo morire in dieci, o venti. Di stranieri, di solito, ne basta uno solo. Ti prego, parlate di noi
Kenya.Torna l'ondata terrorismo.
di Ilenia Marini
Lo Stato africano flagellato dal terrorismo islamico.
E' arrivata alla fine la temuta rivendicazione da parte degli Shebab,che di fatto, hanno affermato di essere i protagonisti del recente massacro di Nairobi sostenendo inoltre di avere istruito sull'evento il commando di terroristi e invocando l'idea di spostare la battaglia santa in Kenya. Parole che fanno pensare ad altre azioni imminenti condotte dalla fazione che si ispira al qaedismo. Il paese africano, del resto, è da anni nel mirino del terrorismo. Nell’agosto del 1998 fu teatro, insieme alla Tanzania, di un devastante attacco da parte di Al Qaeda che colpì l’ambasciata Usa. Un attentato realizzato grazie ad una rete di simpatizzanti locali che, nel corso del tempo, si è modificata.
Oggi la violenza politica è sopratutto legata alla crisi nella vicina Somalia, dove le forze del Kenya sono intervenute. Infatti gli estremisti somali hanno usato come pretesto per la strage proprio le incursioni militari kenyote.All’interno del territorio agiscono tre tipi di formazioni:1) Gruppi direttamente collegati agli Shebab somali; 2) Cellule di estremisti locali;3) Piccoli nuclei stranieri vicini all’ideologia qaedista (anche se non c’è un link operativo chiaro o sicuro, spesso è solo ideologico).
Le formazioni terroristiche si sono rese protagoniste di azioni minori ma hanno costantemente cercato il colpo «spettacolare». E gli stessi Shebab nei loro messaggi hanno indicato come obiettivo i centri commerciali o i luoghi frequentati dagli occidentali.Diversi piani d’attacco sono stati sventati dalla polizia, che gode dell’appoggio delle intelligence Usa e britannica, ma la minaccia non è mai scemata. Anzi, informazioni trapelate nei mesi scorsi segnalavano il passaggio e l’arrivo di elementi jihadisti provenienti dallo Yemen, altro punto di riferimento per il qaedismo.
E' arrivata alla fine la temuta rivendicazione da parte degli Shebab,che di fatto, hanno affermato di essere i protagonisti del recente massacro di Nairobi sostenendo inoltre di avere istruito sull'evento il commando di terroristi e invocando l'idea di spostare la battaglia santa in Kenya. Parole che fanno pensare ad altre azioni imminenti condotte dalla fazione che si ispira al qaedismo. Il paese africano, del resto, è da anni nel mirino del terrorismo. Nell’agosto del 1998 fu teatro, insieme alla Tanzania, di un devastante attacco da parte di Al Qaeda che colpì l’ambasciata Usa. Un attentato realizzato grazie ad una rete di simpatizzanti locali che, nel corso del tempo, si è modificata.
Oggi la violenza politica è sopratutto legata alla crisi nella vicina Somalia, dove le forze del Kenya sono intervenute. Infatti gli estremisti somali hanno usato come pretesto per la strage proprio le incursioni militari kenyote.All’interno del territorio agiscono tre tipi di formazioni:1) Gruppi direttamente collegati agli Shebab somali; 2) Cellule di estremisti locali;3) Piccoli nuclei stranieri vicini all’ideologia qaedista (anche se non c’è un link operativo chiaro o sicuro, spesso è solo ideologico).
Le formazioni terroristiche si sono rese protagoniste di azioni minori ma hanno costantemente cercato il colpo «spettacolare». E gli stessi Shebab nei loro messaggi hanno indicato come obiettivo i centri commerciali o i luoghi frequentati dagli occidentali.Diversi piani d’attacco sono stati sventati dalla polizia, che gode dell’appoggio delle intelligence Usa e britannica, ma la minaccia non è mai scemata. Anzi, informazioni trapelate nei mesi scorsi segnalavano il passaggio e l’arrivo di elementi jihadisti provenienti dallo Yemen, altro punto di riferimento per il qaedismo.
Iraq.Elezioni fra violenze e tensioni.
di Ilenia Marini
Iraq al voto ma il caos sociale è incessante.
In queste ore in Iraq sono in corso le elezioni per scegliere il nuovo presidente dello Stato,i seggi hanno aperto regolarmente alle 7 e chiuderanno alle 18. Nelle liste elettorali sono presenti ben 9.000 candidati suddivisi in circa 300 liste e che mirano a conquistare i 328 seggi di cui è composta l'assemblea Nazionale Irachena.L’Iraq è una repubblica parlamentare a sistema proporzionale puro. Quindi una volta eletti spetterà ai parlamentari nominare il proprio premier, il presidente ed anche il portavoce del parlamento: tre incarichi fondamentali per garantire il buon funzionamento del governo. Ma la questione non è così semplice come potrebbe sembrare.Il Paese infatti è sempre più diviso. Il terrorismo, le violenze e i massacri in piazza sono aumentati negli ultimi mesi, nella parte del nord dello Stato i curdi, anche se politicamente indipendenti,non riescono a dare vita ad un loro stabile governo regionale,e alle elezioni arrivano suddivisi in ben tre partiti.
La stirpe sunnita da quando l'esercito americano si è ritirato dal paese è stata oggetto di numerosi attacchi ed aggressioni con l'accusa di aver collaborato con lo straniero invasore.Il gruppo sciita rappresentato dal capo del Governo Nuri al Maliki è al potere da otto anni e anche in queste elezioni è candidato nella speranza di arrivare a 12 anni di potere. Ma soprattutto il suo ultimo governo è stato un vero fallimento sia politico che economico.Inoltre il suo atteggiamento di dialogo con i sunniti e i curdi ha provocato forti malumori nella parte sciita che egli rappresenta e quindi il suo consenso subirà per forza un ridimensionamento.Anche militarmente la sua amministrazione è stata inefficace basti pensare che molte zone sunnite, che vanno dalle periferie occidentali di Bagdad sino alla grande regione di Al Anbar,vicino alla Siria, sono veri territori ingovernabili,senza autorità nè ordine. Il governo ha spesso fatto spedizioni contro i gruppi estremisti sunniti ma ha ottenuto solo reazioni e rappresaglie sotto forma di attentati dinamitardi in città.
Proprio gli estremisti della regione di Al Anbar la settimana scorsa hanno danneggiato il corso del fiume Eufrate tra Falluja e Abu Ghraib, provocando una grande inondazione delle terre e minacciando la siccità nel sud. Lo scoppio di autobombe ed ordigni è frequentissimo in città,con centinaia di vittime innocenti sul campo.Adesso il voto sarà un tentativo di calmare e normalizzare il paese,e al Maliki lo vivrà come una sorta di referendum popolare sul suo operato di questi anni.Anche nel partito sciita a dire il vero ci sono molti pronti a prendere il suo posto. Bagdad in queste ore è una città blindata,decine di posti di blocco della polizia e molte pattuglie di militari a presidiare le zone strategiche della capitale. Il traffico è completamente paralizzato. La gente è per le strade impaurita per qualche atto terroristico imminente,i negozi e gli edifici pubblici sono chiusi,eppure sono semplicemente in corso delle elezioni democratiche.Nulla è normale ed ovvio in zone come l'Iraq.
In queste ore in Iraq sono in corso le elezioni per scegliere il nuovo presidente dello Stato,i seggi hanno aperto regolarmente alle 7 e chiuderanno alle 18. Nelle liste elettorali sono presenti ben 9.000 candidati suddivisi in circa 300 liste e che mirano a conquistare i 328 seggi di cui è composta l'assemblea Nazionale Irachena.L’Iraq è una repubblica parlamentare a sistema proporzionale puro. Quindi una volta eletti spetterà ai parlamentari nominare il proprio premier, il presidente ed anche il portavoce del parlamento: tre incarichi fondamentali per garantire il buon funzionamento del governo. Ma la questione non è così semplice come potrebbe sembrare.Il Paese infatti è sempre più diviso. Il terrorismo, le violenze e i massacri in piazza sono aumentati negli ultimi mesi, nella parte del nord dello Stato i curdi, anche se politicamente indipendenti,non riescono a dare vita ad un loro stabile governo regionale,e alle elezioni arrivano suddivisi in ben tre partiti.
La stirpe sunnita da quando l'esercito americano si è ritirato dal paese è stata oggetto di numerosi attacchi ed aggressioni con l'accusa di aver collaborato con lo straniero invasore.Il gruppo sciita rappresentato dal capo del Governo Nuri al Maliki è al potere da otto anni e anche in queste elezioni è candidato nella speranza di arrivare a 12 anni di potere. Ma soprattutto il suo ultimo governo è stato un vero fallimento sia politico che economico.Inoltre il suo atteggiamento di dialogo con i sunniti e i curdi ha provocato forti malumori nella parte sciita che egli rappresenta e quindi il suo consenso subirà per forza un ridimensionamento.Anche militarmente la sua amministrazione è stata inefficace basti pensare che molte zone sunnite, che vanno dalle periferie occidentali di Bagdad sino alla grande regione di Al Anbar,vicino alla Siria, sono veri territori ingovernabili,senza autorità nè ordine. Il governo ha spesso fatto spedizioni contro i gruppi estremisti sunniti ma ha ottenuto solo reazioni e rappresaglie sotto forma di attentati dinamitardi in città.
Proprio gli estremisti della regione di Al Anbar la settimana scorsa hanno danneggiato il corso del fiume Eufrate tra Falluja e Abu Ghraib, provocando una grande inondazione delle terre e minacciando la siccità nel sud. Lo scoppio di autobombe ed ordigni è frequentissimo in città,con centinaia di vittime innocenti sul campo.Adesso il voto sarà un tentativo di calmare e normalizzare il paese,e al Maliki lo vivrà come una sorta di referendum popolare sul suo operato di questi anni.Anche nel partito sciita a dire il vero ci sono molti pronti a prendere il suo posto. Bagdad in queste ore è una città blindata,decine di posti di blocco della polizia e molte pattuglie di militari a presidiare le zone strategiche della capitale. Il traffico è completamente paralizzato. La gente è per le strade impaurita per qualche atto terroristico imminente,i negozi e gli edifici pubblici sono chiusi,eppure sono semplicemente in corso delle elezioni democratiche.Nulla è normale ed ovvio in zone come l'Iraq.
Israele ferma i colloqui con la Palestina.
di Ilenia Marini
Lo Stato israeliano si ritira dal confronto con la Palestina.
Ieri Israele ha comunicato pubblicamente la volontà di stoppare ogni forma di colloquio di pace e di collaborazione con i Palestinesi in seguito all’alleanza che il governo palestinese avrebbe sancito col gruppo terroristico di Hamas con il benestare dell’Olp. Questa scelta è arrivata in seguito ad una riunione del ministero per la sicurezza del governo israeliano, convocata allo specifico scopo di dibattere sull’accordo stipulato tra Hamas e Olp. La riunione di vertice si è avuta ieri ed era presieduta dal leader israeliano Benjamin Netanyahu. Il gabinetto di sicurezza è uno specifico organo che il governo israeliano convoca in caso di crisi con i palestinesi. La seduta di ieri è durata ben sei ore. La radio di Stato ha comunicato che i ministri hanno scelto all'unanimità di sospendere le trattative con i palestinesi e di emettere dure sanzioni economiche verso la Palestina.
Tel Aviv teme moltissimo il patto tra l’Olp e Hamas,sopratutto teme che con la scusa di coadiuvare la formazione di un governo di unità nazionale Hamas aiuti i palestinesi sul piano militare e terroristico impedendo il processo di pace. Questo si capisce implicitamente dal discorso del premier israeliano Banjamin Netanyahu in una intervista alla Nbc. Hamas era e resta una vera organizzazione terroristica e quindi mai lo Stato di Israele può sedere e trattare insieme a persone criminali e pericolose che offendono lo spirito democratico e liberale di Israele.Non è ammissibile negoziare con gruppi che fanno della distruzione di Israele un loro progetto politico. Il presidente sionista sembra davvero irremovibile. sul punto. Anzi Israele sarà ovviamente pronta a reagire con azioni anche unilaterali contro lo Stato palestinese.
Nel frattempo da Gaza,dove ha sede il governo palestinese,non arrivano commenti ancora.Solo il capo dell’ esecutivo di Hamas, Ismail Haniyeh ha evidenziato la contentezza del rinnovato patto di collaborazione tra Hamas e i fratelli palestinesi.Si tratta secondo le sue parole di una vera riconciliazione nazionale, ha precisato. Nei colloqui fra Hamas e la delegazione della Palestina si è deciso la nascita tra un mese di un governo palestinese di unità nazionale. Entro sei mesi si avranno poi regolari elezioni nei Territori. Questi accordi a dire il vero erano stati sanciti anche cinque anni fa ma poi il vento terroristico prese il sopravvento portando un grosso fallimento sull'argomento.Adesso la Comunità Internazionale spera si tratti della volta buona.
Ieri Israele ha comunicato pubblicamente la volontà di stoppare ogni forma di colloquio di pace e di collaborazione con i Palestinesi in seguito all’alleanza che il governo palestinese avrebbe sancito col gruppo terroristico di Hamas con il benestare dell’Olp. Questa scelta è arrivata in seguito ad una riunione del ministero per la sicurezza del governo israeliano, convocata allo specifico scopo di dibattere sull’accordo stipulato tra Hamas e Olp. La riunione di vertice si è avuta ieri ed era presieduta dal leader israeliano Benjamin Netanyahu. Il gabinetto di sicurezza è uno specifico organo che il governo israeliano convoca in caso di crisi con i palestinesi. La seduta di ieri è durata ben sei ore. La radio di Stato ha comunicato che i ministri hanno scelto all'unanimità di sospendere le trattative con i palestinesi e di emettere dure sanzioni economiche verso la Palestina.
Tel Aviv teme moltissimo il patto tra l’Olp e Hamas,sopratutto teme che con la scusa di coadiuvare la formazione di un governo di unità nazionale Hamas aiuti i palestinesi sul piano militare e terroristico impedendo il processo di pace. Questo si capisce implicitamente dal discorso del premier israeliano Banjamin Netanyahu in una intervista alla Nbc. Hamas era e resta una vera organizzazione terroristica e quindi mai lo Stato di Israele può sedere e trattare insieme a persone criminali e pericolose che offendono lo spirito democratico e liberale di Israele.Non è ammissibile negoziare con gruppi che fanno della distruzione di Israele un loro progetto politico. Il presidente sionista sembra davvero irremovibile. sul punto. Anzi Israele sarà ovviamente pronta a reagire con azioni anche unilaterali contro lo Stato palestinese.
Nel frattempo da Gaza,dove ha sede il governo palestinese,non arrivano commenti ancora.Solo il capo dell’ esecutivo di Hamas, Ismail Haniyeh ha evidenziato la contentezza del rinnovato patto di collaborazione tra Hamas e i fratelli palestinesi.Si tratta secondo le sue parole di una vera riconciliazione nazionale, ha precisato. Nei colloqui fra Hamas e la delegazione della Palestina si è deciso la nascita tra un mese di un governo palestinese di unità nazionale. Entro sei mesi si avranno poi regolari elezioni nei Territori. Questi accordi a dire il vero erano stati sanciti anche cinque anni fa ma poi il vento terroristico prese il sopravvento portando un grosso fallimento sull'argomento.Adesso la Comunità Internazionale spera si tratti della volta buona.
Sud Sudan.Gravissimo attentato 50 morti.
di Ilenia Marini
Scorre ancora sangue innocente in Sudan.
Due giorni in fa in Sud Sudan vi è stato un grave attentato alla base Onu del luogo con almeno 50 morti e oltre 100 feriti un bilancio davvero pesante. Le cifre giungono dalle stesse Nazioni Unite all’indomani dell’aggressione contro il campo che era stato creato per dare ospitalità e protezione ai tantissimi profughi civili del territorio.Alla fine sono stati cinquanta,tra bambini, donne e uomini, i corpi estratti dai ruderi del campo all’interno della base. Mentre invece all'esterno del perimetro sono stati poi rinvenuti i cadaveri degli aggressori.Queste sono state le parole del rappresentante dell’Onu nel Paese africano, Toby Lanzer.Il totale è di 50 vittime innocenti anche se il numero potrebbe anche salire poichè vi sono più di 100 feriti alcuni in condizioni critiche.
Secondo alcune testimonianze dei volontari di Emergency che si trovavano all'interno del campo al momento dell'attentato,gli aggressori sono arrivati a piedi e armati di mitra hanno cominciato a sparare sulla gente,colpendo all'impazzata uomini,donne e bambini sorpresi alcuni anche nel sonno.Una scena orribile dove la fuga era l'unico mezzo di salvezza.Dopo un quarto d'ora a centinaia di metri di distanza ancora si udivano gli spari nella base.Emergency è presente nel campo che ospita circa 5.000 persone, che da mesi, vivono qui per sfuggire agli scontri che stanno insanguinando il Sud Sudan dalla caduta del presidente.Oltre ad Emergency è presente l'organizzazione Intersos che porta avanti attività di assistenza, supporto e protezione dei gruppi più a rischio, donne e bambini, attività educative e distribuzioni di beni di prima necessità.
I volontari del campo sono adesso al sicuro,le prime indagini sul posto affermano che l'atto sia stato compiuto da attivisti filo-governativi, che a un certo punto sono riusciti a superare il controllo iniziale e fattosi largo tra la folla di disperati hanno cominciato a sparare sulla gente all'impazzata. Il primo commento delle forze di polizia locale minimizzava l'accaduto parlando di sole dieci vittime,in realtà poi l'Onu ha chiarito come detto che i caduti sono cinquanta con molti altri feriti. La città di Juma il mese scorso è stata flagellata da sanguinosi scontri nelle strade tra gli insorti e i soldati fedeli al presidente Salva Kiir; si intuiva che la tensione era al punto massimo e che i filo-governativi avrebbero per rappresaglia compiuto qualche gesto eclatante e pericoloso.L'attacco al campo profughi ne è stata la prova.
Due giorni in fa in Sud Sudan vi è stato un grave attentato alla base Onu del luogo con almeno 50 morti e oltre 100 feriti un bilancio davvero pesante. Le cifre giungono dalle stesse Nazioni Unite all’indomani dell’aggressione contro il campo che era stato creato per dare ospitalità e protezione ai tantissimi profughi civili del territorio.Alla fine sono stati cinquanta,tra bambini, donne e uomini, i corpi estratti dai ruderi del campo all’interno della base. Mentre invece all'esterno del perimetro sono stati poi rinvenuti i cadaveri degli aggressori.Queste sono state le parole del rappresentante dell’Onu nel Paese africano, Toby Lanzer.Il totale è di 50 vittime innocenti anche se il numero potrebbe anche salire poichè vi sono più di 100 feriti alcuni in condizioni critiche.
Secondo alcune testimonianze dei volontari di Emergency che si trovavano all'interno del campo al momento dell'attentato,gli aggressori sono arrivati a piedi e armati di mitra hanno cominciato a sparare sulla gente,colpendo all'impazzata uomini,donne e bambini sorpresi alcuni anche nel sonno.Una scena orribile dove la fuga era l'unico mezzo di salvezza.Dopo un quarto d'ora a centinaia di metri di distanza ancora si udivano gli spari nella base.Emergency è presente nel campo che ospita circa 5.000 persone, che da mesi, vivono qui per sfuggire agli scontri che stanno insanguinando il Sud Sudan dalla caduta del presidente.Oltre ad Emergency è presente l'organizzazione Intersos che porta avanti attività di assistenza, supporto e protezione dei gruppi più a rischio, donne e bambini, attività educative e distribuzioni di beni di prima necessità.
I volontari del campo sono adesso al sicuro,le prime indagini sul posto affermano che l'atto sia stato compiuto da attivisti filo-governativi, che a un certo punto sono riusciti a superare il controllo iniziale e fattosi largo tra la folla di disperati hanno cominciato a sparare sulla gente all'impazzata. Il primo commento delle forze di polizia locale minimizzava l'accaduto parlando di sole dieci vittime,in realtà poi l'Onu ha chiarito come detto che i caduti sono cinquanta con molti altri feriti. La città di Juma il mese scorso è stata flagellata da sanguinosi scontri nelle strade tra gli insorti e i soldati fedeli al presidente Salva Kiir; si intuiva che la tensione era al punto massimo e che i filo-governativi avrebbero per rappresaglia compiuto qualche gesto eclatante e pericoloso.L'attacco al campo profughi ne è stata la prova.
Yemen.Al Qaeda si riorganizza di nuovo.
di Ilenia Marini
L'organizzazione terroristica riprende a diffondersi.
Nello Yemen,uno stato arabo a forte vocazione integralista,secondo i rapporti dell'intelligence americana Al Qaeda starebbe iniziando un nuovo intenso reclutamento allo scopo di riorganizzarsi sul territorio e ricreare cellule terroristiche pronte a colpire in modo efficace e drammatico. C'è anche un video esplicito che ritrae Nasir al Wuhayshi, il nuovo carismatico capo di Al Qaeda nella Penisola arabica, uno dei dirigenti più importanti della realtà estremista,intento a celebrare i nuovi reclutati. I militanti sfilano con mitra in mano, ascoltano il discorso mentre il leader lancia le solite minacce all’indirizzo dell’America e dei paesi occidentali che danno supporto agli Usa.Il filmato, che sarebbe piuttosto recente, ha suscitato subito grande preoccupazione in America per varie motivazioni.Innanzitutto perchè i qaedisti hanno potuto liberamente riunirsi in una piazza dello Yemen e in gran numero,senza nessun intervento della polizia locale;questo significa che in quel paese l'organizzazione si sente forte e protetta.
Lascia perplessi poi l'utilizzo dei tanto celebrati droni,gli aerei intelligenti senza pilota che anche se capaci di restare per ore in volo,non possono sorvegliare l'intero territorio yemenita a patto di non usarne molti con immane dispendio di soldi pubblici, inoltre il loro volo su stati sovrani esteri deve essere sempre autorizzato con procedure lunghe e lente.Detto ciò la stessa Cia ha comunque affermato di aver intensificato le operazioni dei droni proprio sullo Yemen.L'opinione pubblica ha molto criticato i capi dell'esercito per essersi fatti sfuggire un'occasione così ghiotta come il raduno di al Wuhayshi,una vera occasione mancata perchè con un blitz si sarebbero potuti bloccare alcuni dei massimi dirigenti e membri della pericolosa organizzazione terroristica.Non conosciamo i motivi e le problematiche anche di coordinamento dei vari gruppi di intelligence nella penisola arabica,sottolineando che in quella zona operano agenti in incognito anche inglese e arabi.Davvero strano che a nessuno non sia giunta alcuna soffiata su quell'evento.
Comunque sia in Arabia negli ultimi mesi la situazione è molto delicata anche a livello interno.Di recente il capo dei servizi segreti arabi,il famoso principe Bandar è stato sostituito dal suo vice Youssef al Idrissi. Un cambio peraltro atteso. Bandar ha gravi problemi di salute e in più negli ultimi due anni,numerosi errori strategici gli avrebbero fatto perdere la fiducia degli Usa come quella della casa reale. Nel 2013 infatti proprio Bandar aveva avuto l'incarico di seguire il «dossier Siria», e non sarebbe stato capace nè di influenzare i ribelli nè di aprire un dialogo diretto con Assad.Tanto che già da dicembre il piano Siria è stato affidato ad un'altra personalità,il principe Nayef,ministro degli Interni.Politicamente quindi c'è grande confusione e questo ovviamente inficia le strategie di spionaggio e di analisi militare sul territorio,approfittando di queste faglie Al Qaeda sembra aver iniziato di nuovo a ramificarsi in Medio Oriente,dopo lo shock terribile dell'uccisione del suo leader di sempre Osama Bin Laden.
Nello Yemen,uno stato arabo a forte vocazione integralista,secondo i rapporti dell'intelligence americana Al Qaeda starebbe iniziando un nuovo intenso reclutamento allo scopo di riorganizzarsi sul territorio e ricreare cellule terroristiche pronte a colpire in modo efficace e drammatico. C'è anche un video esplicito che ritrae Nasir al Wuhayshi, il nuovo carismatico capo di Al Qaeda nella Penisola arabica, uno dei dirigenti più importanti della realtà estremista,intento a celebrare i nuovi reclutati. I militanti sfilano con mitra in mano, ascoltano il discorso mentre il leader lancia le solite minacce all’indirizzo dell’America e dei paesi occidentali che danno supporto agli Usa.Il filmato, che sarebbe piuttosto recente, ha suscitato subito grande preoccupazione in America per varie motivazioni.Innanzitutto perchè i qaedisti hanno potuto liberamente riunirsi in una piazza dello Yemen e in gran numero,senza nessun intervento della polizia locale;questo significa che in quel paese l'organizzazione si sente forte e protetta.
Lascia perplessi poi l'utilizzo dei tanto celebrati droni,gli aerei intelligenti senza pilota che anche se capaci di restare per ore in volo,non possono sorvegliare l'intero territorio yemenita a patto di non usarne molti con immane dispendio di soldi pubblici, inoltre il loro volo su stati sovrani esteri deve essere sempre autorizzato con procedure lunghe e lente.Detto ciò la stessa Cia ha comunque affermato di aver intensificato le operazioni dei droni proprio sullo Yemen.L'opinione pubblica ha molto criticato i capi dell'esercito per essersi fatti sfuggire un'occasione così ghiotta come il raduno di al Wuhayshi,una vera occasione mancata perchè con un blitz si sarebbero potuti bloccare alcuni dei massimi dirigenti e membri della pericolosa organizzazione terroristica.Non conosciamo i motivi e le problematiche anche di coordinamento dei vari gruppi di intelligence nella penisola arabica,sottolineando che in quella zona operano agenti in incognito anche inglese e arabi.Davvero strano che a nessuno non sia giunta alcuna soffiata su quell'evento.
Comunque sia in Arabia negli ultimi mesi la situazione è molto delicata anche a livello interno.Di recente il capo dei servizi segreti arabi,il famoso principe Bandar è stato sostituito dal suo vice Youssef al Idrissi. Un cambio peraltro atteso. Bandar ha gravi problemi di salute e in più negli ultimi due anni,numerosi errori strategici gli avrebbero fatto perdere la fiducia degli Usa come quella della casa reale. Nel 2013 infatti proprio Bandar aveva avuto l'incarico di seguire il «dossier Siria», e non sarebbe stato capace nè di influenzare i ribelli nè di aprire un dialogo diretto con Assad.Tanto che già da dicembre il piano Siria è stato affidato ad un'altra personalità,il principe Nayef,ministro degli Interni.Politicamente quindi c'è grande confusione e questo ovviamente inficia le strategie di spionaggio e di analisi militare sul territorio,approfittando di queste faglie Al Qaeda sembra aver iniziato di nuovo a ramificarsi in Medio Oriente,dopo lo shock terribile dell'uccisione del suo leader di sempre Osama Bin Laden.
Siria.Un altro attacco con armi chimiche.
di Ilenia Marini
Il regime di Assad continua con gli attacchi vietati.
La Guerra civile siriana continua senza sosta e le azioni belliche del regime guidato da Assad sono sempre più violente.Il Cns, il principale gruppo di opposizione siriana, sostenuto anche dalle potenze occidentali,parla di un nuovo bombardamento fatto con armi chimiche vietate dalla Nato. Almeno 8 sarebbero i morti accertati di ieri (tra cui un bambino di sei anni). Il bilancio più pesante si è avuto tre giorni fa nel quartiere di Harasta con 15 morti.Secondo i dati dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, Ondus, con sede a Londra sono due mesi che Assad bombarda con armi chimiche e si contano 45 morti civili, 59 ribelli siriani e 33 stranieri, più altri tra forze filo-regime, come Hezbollah, e filo-ribelli. La tv di Stato siriana, invece, è molto reticente sul tema e parla di un solo morto e 90 feriti nell’ultimo attacco. Molti testimoni parlano di utilizzo del gas cloro nei bombardamenti,così afferma il leader del Fronte al-Nusra, gruppo legato ad al-Qaeda che combatte a fianco dei ribelli. Alcuni dirigenti del Ministero dell'Interno siriano affermano che tali bombardamenti siano stati preparati proprio contro il gruppo al-Nusra accusato di essere un gruppo terroristico intento a preparare attentati dinamitardi a Damasco.
Ieri molti reporter stranieri hanno intravisto nei pressi della zona di Kafr Zita molti jet siriani in assetto da guerra lanciare in lontananza ordigni che hanno prodotto fumo denso e forti odori e hanno causato,secondo testimonianze indirette,casi di soffocamento e avvelenamento.Inoltre è apparso di recente sul web un video pubblicato da attivisti dell’opposizione in cui in una stanza dell'Ospedale cittadino di Kfar Zeita,erano collocati uomini e bambini, alcuni dei quali respirano grazie a maschere ad ossigeno. Nel filmato si intravedono ben sei bambini su un letto. Alcuni sembrano in grosse difficoltà respiratorie,altri piangono. Il video sembrerebbe veritiero e secondo Associated Press farebbe riferimento all'ultimo attacco con armi chimiche subito dalla popolazione siriana. Bombardare con bombe al gas cloro è una consuetudine dell'aviazione di Assad,ad agosto ad esempio vi fu un attacco chimico pesantissimo che produsse nei pressi di Damasco 102 decessi.In quel caso gli Stati Uniti accusarono il governo siriano direttamente e per poco si sfiorò un attacco aereo Onu contro la Siria; Damasco ha sempre negato di utilizzare gas chimico,accusando paradossalmente i ribelli di adoperare ordigni non convenzionali e pericolosissimi.
Notizie strane arrivano dal reporter americano Seymour Hersh che il mese scorso ha svelato di aver scoperto come anche alcune fazioni di jihadisti alleatisi coi ribelli siriani fossero in possesso di gas prelevato in Turchia e pronto per essere adoperato nella guerra siriana.Barack Obama era anch'egli a conoscenza di notizie simili ad Agosto e forse fu grazie a queste notizie più o meno fondate che gli Usa evitarono un attacco armato contro Assad.Il governo siriano ha affermato di seguire a pieno il programma di disarmo chimico firmato con gli organi Onu e di stare effettuando il trasferimento fuori dal Paese dei propri arsenali chimici da distruggere.Quindi le date previste,con il limite massimo del 30 giugno per l’uscita dalla Siria di tutti gli agenti chimici,potrebbero essere rispettate. L' Opac rivela che in questi mesi dalla Siria sono stati distrutti circa il 30% dei prodotti chimici di livello 1,i più pericolosi per la salute e il 75% del livello 2.Nei gas del livello 1 ci sarebbe infatti il tristemente famoso gas "mostarda" ancora in forza all'aviazione di Assad,il gas probabilmente adoperato nei recenti bombardamenti nella periferia di Damasco.
La Guerra civile siriana continua senza sosta e le azioni belliche del regime guidato da Assad sono sempre più violente.Il Cns, il principale gruppo di opposizione siriana, sostenuto anche dalle potenze occidentali,parla di un nuovo bombardamento fatto con armi chimiche vietate dalla Nato. Almeno 8 sarebbero i morti accertati di ieri (tra cui un bambino di sei anni). Il bilancio più pesante si è avuto tre giorni fa nel quartiere di Harasta con 15 morti.Secondo i dati dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, Ondus, con sede a Londra sono due mesi che Assad bombarda con armi chimiche e si contano 45 morti civili, 59 ribelli siriani e 33 stranieri, più altri tra forze filo-regime, come Hezbollah, e filo-ribelli. La tv di Stato siriana, invece, è molto reticente sul tema e parla di un solo morto e 90 feriti nell’ultimo attacco. Molti testimoni parlano di utilizzo del gas cloro nei bombardamenti,così afferma il leader del Fronte al-Nusra, gruppo legato ad al-Qaeda che combatte a fianco dei ribelli. Alcuni dirigenti del Ministero dell'Interno siriano affermano che tali bombardamenti siano stati preparati proprio contro il gruppo al-Nusra accusato di essere un gruppo terroristico intento a preparare attentati dinamitardi a Damasco.
Ieri molti reporter stranieri hanno intravisto nei pressi della zona di Kafr Zita molti jet siriani in assetto da guerra lanciare in lontananza ordigni che hanno prodotto fumo denso e forti odori e hanno causato,secondo testimonianze indirette,casi di soffocamento e avvelenamento.Inoltre è apparso di recente sul web un video pubblicato da attivisti dell’opposizione in cui in una stanza dell'Ospedale cittadino di Kfar Zeita,erano collocati uomini e bambini, alcuni dei quali respirano grazie a maschere ad ossigeno. Nel filmato si intravedono ben sei bambini su un letto. Alcuni sembrano in grosse difficoltà respiratorie,altri piangono. Il video sembrerebbe veritiero e secondo Associated Press farebbe riferimento all'ultimo attacco con armi chimiche subito dalla popolazione siriana. Bombardare con bombe al gas cloro è una consuetudine dell'aviazione di Assad,ad agosto ad esempio vi fu un attacco chimico pesantissimo che produsse nei pressi di Damasco 102 decessi.In quel caso gli Stati Uniti accusarono il governo siriano direttamente e per poco si sfiorò un attacco aereo Onu contro la Siria; Damasco ha sempre negato di utilizzare gas chimico,accusando paradossalmente i ribelli di adoperare ordigni non convenzionali e pericolosissimi.
Notizie strane arrivano dal reporter americano Seymour Hersh che il mese scorso ha svelato di aver scoperto come anche alcune fazioni di jihadisti alleatisi coi ribelli siriani fossero in possesso di gas prelevato in Turchia e pronto per essere adoperato nella guerra siriana.Barack Obama era anch'egli a conoscenza di notizie simili ad Agosto e forse fu grazie a queste notizie più o meno fondate che gli Usa evitarono un attacco armato contro Assad.Il governo siriano ha affermato di seguire a pieno il programma di disarmo chimico firmato con gli organi Onu e di stare effettuando il trasferimento fuori dal Paese dei propri arsenali chimici da distruggere.Quindi le date previste,con il limite massimo del 30 giugno per l’uscita dalla Siria di tutti gli agenti chimici,potrebbero essere rispettate. L' Opac rivela che in questi mesi dalla Siria sono stati distrutti circa il 30% dei prodotti chimici di livello 1,i più pericolosi per la salute e il 75% del livello 2.Nei gas del livello 1 ci sarebbe infatti il tristemente famoso gas "mostarda" ancora in forza all'aviazione di Assad,il gas probabilmente adoperato nei recenti bombardamenti nella periferia di Damasco.
India.La vera rinascita parte da Modi.
di Ilenia Marini
Il nuovo corso del popolo indiano parte da un leader nuovo.
Narendra Modi rappresenta la nuova alba dell'India.Un politico moderato ma con un passato turbolento;come molti suoi colleghi Modi ha militato per anni nel gruppo nazionalista indù “Rashtriya Swayamsevak Sangh” (Rss), di cui è stato il braccio politico per anni.Nell'ideologia nazionalista indù ha un ruolo basilare il concetto di '“Hindutva“, che non è collegabile solo ed esclusivamente alla sola sfera religiosa ma si allarga in modo ampio anche alla protezione del territorio, insomma la fedeltà alla patria indiana e alle tradizioni diventa fondamentale e superiore a tutto.Più volte, negli anni scorsi i membri dle gruppo Rss sono stati accusati di fomentare l'odio religioso e sociale. Un dato emblematico ci arriva dall'attentatore Swami Aseemanand che sconta in carcere l'accusa di aver compiuto nel biennio 2006-2008 almeno 3 attentati contro i musulmani, con un ben 82 morti e decine di feriti,questi ha esplicitamente citato l'Rss di avergli fornito il loro appoggio negli attacchi terroristici, a patto di non risultare però come rivendicatori degli atti violenti.
Tutto questo preambolo ci serve per capire quindi che l'origine politica di Modi non è certo pacifista e moderata ma tuttavia, le ambizioni di governo hanno spinto lo stesso Modi a piegarsi ad una retorica conciliante e diplomatica, cercando di bonificare dai sui programmi politici ogni tematica suscettibile di produrre e causare divisioni e controversie e edificandosi una immagine pubblica basata su successi economici ottenuti alla guida del Governo indiano.Adesso alla vigilia delle elezioni politiche, sembrerebbe aver avuto successo questo suo atteggiamento scaltro e anche l'Occidente ha deciso di non seguitare più nelle perplessità di carattere etico e di iniziare ad avere stretti rapporti con quello che potrebbe diventare il futuro leader dell'India. Emblematico di ciò è stato a Marzo il vertice bilaterale avutosi a Nuova Delhi tra Modi e l’ambasciatore americano Nancy Powell, vertice con cui è sparito l'ostracismo inflitto da una parte della comunità internazionale, e sancito la riabilitazione definitiva dell'immagine pubblica. Il leader del Gujarat è ora come ora considerato il più moderno tra i politici indiani, come dimostra anche la sua grande attenzione per i social media (è presente su Twitter con ben 3.5 milioni di follower) e per la sottile ed importante arte della comunicazione mediatica.
Lo testimonia il fatto che nel 2011 Modi ha scelto la seconda più grande agenzia di pubbliche relazioni degli Stati Uniti, la Apco Worldwide, per promuovere in tutto il mondo l'India come meta perfetta per turismo ed investimenti internazionali. Il successo del leader del Gujarat alle prossime elezioni, dunque, oltre che scontato potrebbe anche aprire circostanze complesse da decifrare. Molti affermano che una politica economica meno demagogica potrebbe permettere all'India di tornare su livelli di crescita elevatissimi di qualche anno fa,garantendo ai mercati internazionali grandi opportunità di affari e di investimento. Un diverso metodo di politica estera impostato su maggiore pragmatismo potrebbe permettere una più intensa integrazione e collaborazione , dando benefici a tutta l'area. In ogni caso, sarebbero comunque presenti evidenti fattori di rischio, l'anima nazionalista di Modi potrebbe svegliarsi d'improvviso e in quel caso frenarla sarebbe complicatissimo.
Narendra Modi rappresenta la nuova alba dell'India.Un politico moderato ma con un passato turbolento;come molti suoi colleghi Modi ha militato per anni nel gruppo nazionalista indù “Rashtriya Swayamsevak Sangh” (Rss), di cui è stato il braccio politico per anni.Nell'ideologia nazionalista indù ha un ruolo basilare il concetto di '“Hindutva“, che non è collegabile solo ed esclusivamente alla sola sfera religiosa ma si allarga in modo ampio anche alla protezione del territorio, insomma la fedeltà alla patria indiana e alle tradizioni diventa fondamentale e superiore a tutto.Più volte, negli anni scorsi i membri dle gruppo Rss sono stati accusati di fomentare l'odio religioso e sociale. Un dato emblematico ci arriva dall'attentatore Swami Aseemanand che sconta in carcere l'accusa di aver compiuto nel biennio 2006-2008 almeno 3 attentati contro i musulmani, con un ben 82 morti e decine di feriti,questi ha esplicitamente citato l'Rss di avergli fornito il loro appoggio negli attacchi terroristici, a patto di non risultare però come rivendicatori degli atti violenti.
Tutto questo preambolo ci serve per capire quindi che l'origine politica di Modi non è certo pacifista e moderata ma tuttavia, le ambizioni di governo hanno spinto lo stesso Modi a piegarsi ad una retorica conciliante e diplomatica, cercando di bonificare dai sui programmi politici ogni tematica suscettibile di produrre e causare divisioni e controversie e edificandosi una immagine pubblica basata su successi economici ottenuti alla guida del Governo indiano.Adesso alla vigilia delle elezioni politiche, sembrerebbe aver avuto successo questo suo atteggiamento scaltro e anche l'Occidente ha deciso di non seguitare più nelle perplessità di carattere etico e di iniziare ad avere stretti rapporti con quello che potrebbe diventare il futuro leader dell'India. Emblematico di ciò è stato a Marzo il vertice bilaterale avutosi a Nuova Delhi tra Modi e l’ambasciatore americano Nancy Powell, vertice con cui è sparito l'ostracismo inflitto da una parte della comunità internazionale, e sancito la riabilitazione definitiva dell'immagine pubblica. Il leader del Gujarat è ora come ora considerato il più moderno tra i politici indiani, come dimostra anche la sua grande attenzione per i social media (è presente su Twitter con ben 3.5 milioni di follower) e per la sottile ed importante arte della comunicazione mediatica.
Lo testimonia il fatto che nel 2011 Modi ha scelto la seconda più grande agenzia di pubbliche relazioni degli Stati Uniti, la Apco Worldwide, per promuovere in tutto il mondo l'India come meta perfetta per turismo ed investimenti internazionali. Il successo del leader del Gujarat alle prossime elezioni, dunque, oltre che scontato potrebbe anche aprire circostanze complesse da decifrare. Molti affermano che una politica economica meno demagogica potrebbe permettere all'India di tornare su livelli di crescita elevatissimi di qualche anno fa,garantendo ai mercati internazionali grandi opportunità di affari e di investimento. Un diverso metodo di politica estera impostato su maggiore pragmatismo potrebbe permettere una più intensa integrazione e collaborazione , dando benefici a tutta l'area. In ogni caso, sarebbero comunque presenti evidenti fattori di rischio, l'anima nazionalista di Modi potrebbe svegliarsi d'improvviso e in quel caso frenarla sarebbe complicatissimo.
Ungheria.La Destra del Presidente rivince.
di Ilenia Marini
Dalle urne ungheresi nessuna sorpresa.Il partito presidenziale trionfa.
Nuova vittoria elettorale per Viktor Orban. Il premier uscente ungherese, capo indiscusso del partito di centrodestra Fidesz, ha trionfato avendo la meglio sulla debole opposizione di sinistra composta da socialisti, liberali e verdi, e ha ottenuto il 49% dei consensi confermandosi come presidente della repubblica ungherese.La forte maggioranza parlamentare, ben 134 seggi su 199 gli permetterà di governare in modo ancor pià blindato rispetto ai cinque anni precedenti.Il centrosinistra con il solo 25% non ha potuto nulla. Il partito dell’estrema destra Jobbik, spesso accusato di antisemitismo e xenofobia, aumenta ancora i suoi consensi e in pochi anni passa dal 12 al 20%,un aumento conquistato grazie a slogan populisti e nazionalistici.Budapest quindi conferma di voler essere governata dalla destra conservatrice nonostante alcuni timori manifestati a riguardo dalla comunità internazionale. Per Viktor Orban è il secondo mandato consecutivo, il terzo della sua vita politica.
Il neo eletto ha affermato che il suo governo porterà avanti le riforme senza paure nè limitazioni e certamente sarà così. Dopo il clamoroso trionfo del 2010 quando il suo partito ottenne il 53% dei consensi contro il 19% dei socialisti,il leader di Fidesz iniziò una ampia gamma di riforma alcune però molto controverse.Ad esempio fece approvare unilateralmente una nuova carta costituzionale; emanò un decreto sui media che limitò molto la liberta di stampa imbavagliando l'opposizione; riformò la Banca centrale magiara, togliendole l'indipendenza e dando all'esecutivo il compito di decidere i vertici.Insomma tutte riforma a matrice presidenziale e autoritaria. Orban ha cinquantuno anni ancora da compiere, uomo decisionista dai modi spicci e burberi,la sua carriera politica come Presidente partì nel lontanissimo 1998. Durante gli ultimi quattro anni si è conquistato la fiducia del suo popolo anche grazie a sovvenzioni date ai disoccupati e alle comunità ungheresi residenti in Romania, Ucraina e Slovacchia, concedendo loro il diritto di voto in patria. Sempre avverso alle opposizioni tanto che anni fa affermò che manifestare contro il governo equivaleva a tradire il Paese.
Da molti è chiamato «il Berlusconi magiaro» perchè è amante del calcio e possiede una squadra di calcio anche se di modesto spessore come il Felcsùt, la squadra del villaggio dove è cresciuto e per la quale ha realizzato un futuristico stadio da 10.000 posti in mezzo al nulla. Molte sue leggi,soprattutto negli ultimi due anni sono state molto criticate dall’Unione Europea, che lo scorso anno minacciò sanzioni finanziarie.Il leader di Fidesz non si è mai lasciato spaventare anzi ha spesso fatto la voce grossa sottolineando che come presidente egli ha la legittimazione popolare a fare ciò che ritiene più giusto per il suo popolo affermando di credere poco nell’Unione Europea e molto nell’Ungheria. Il suo ultimo mandato è stato importante per l'economia ungherese.Grazie alle sue riforme infatti Orban ha fatto uscire il paese dalla crisi economica,i salari sono aumentati e la disoccupazione è stata sensibilmente ridotta.Un dato palese è che nel giro di due anni il tasso di disoccupazioni è sceso dall’11% all’8%. Ecco il motivo del trionfo elettorale di Orban e per il mandato nuovo appena conquista promette nuovi e strabilianti miracoli.Ci riuscirà?
Nuova vittoria elettorale per Viktor Orban. Il premier uscente ungherese, capo indiscusso del partito di centrodestra Fidesz, ha trionfato avendo la meglio sulla debole opposizione di sinistra composta da socialisti, liberali e verdi, e ha ottenuto il 49% dei consensi confermandosi come presidente della repubblica ungherese.La forte maggioranza parlamentare, ben 134 seggi su 199 gli permetterà di governare in modo ancor pià blindato rispetto ai cinque anni precedenti.Il centrosinistra con il solo 25% non ha potuto nulla. Il partito dell’estrema destra Jobbik, spesso accusato di antisemitismo e xenofobia, aumenta ancora i suoi consensi e in pochi anni passa dal 12 al 20%,un aumento conquistato grazie a slogan populisti e nazionalistici.Budapest quindi conferma di voler essere governata dalla destra conservatrice nonostante alcuni timori manifestati a riguardo dalla comunità internazionale. Per Viktor Orban è il secondo mandato consecutivo, il terzo della sua vita politica.
Il neo eletto ha affermato che il suo governo porterà avanti le riforme senza paure nè limitazioni e certamente sarà così. Dopo il clamoroso trionfo del 2010 quando il suo partito ottenne il 53% dei consensi contro il 19% dei socialisti,il leader di Fidesz iniziò una ampia gamma di riforma alcune però molto controverse.Ad esempio fece approvare unilateralmente una nuova carta costituzionale; emanò un decreto sui media che limitò molto la liberta di stampa imbavagliando l'opposizione; riformò la Banca centrale magiara, togliendole l'indipendenza e dando all'esecutivo il compito di decidere i vertici.Insomma tutte riforma a matrice presidenziale e autoritaria. Orban ha cinquantuno anni ancora da compiere, uomo decisionista dai modi spicci e burberi,la sua carriera politica come Presidente partì nel lontanissimo 1998. Durante gli ultimi quattro anni si è conquistato la fiducia del suo popolo anche grazie a sovvenzioni date ai disoccupati e alle comunità ungheresi residenti in Romania, Ucraina e Slovacchia, concedendo loro il diritto di voto in patria. Sempre avverso alle opposizioni tanto che anni fa affermò che manifestare contro il governo equivaleva a tradire il Paese.
Da molti è chiamato «il Berlusconi magiaro» perchè è amante del calcio e possiede una squadra di calcio anche se di modesto spessore come il Felcsùt, la squadra del villaggio dove è cresciuto e per la quale ha realizzato un futuristico stadio da 10.000 posti in mezzo al nulla. Molte sue leggi,soprattutto negli ultimi due anni sono state molto criticate dall’Unione Europea, che lo scorso anno minacciò sanzioni finanziarie.Il leader di Fidesz non si è mai lasciato spaventare anzi ha spesso fatto la voce grossa sottolineando che come presidente egli ha la legittimazione popolare a fare ciò che ritiene più giusto per il suo popolo affermando di credere poco nell’Unione Europea e molto nell’Ungheria. Il suo ultimo mandato è stato importante per l'economia ungherese.Grazie alle sue riforme infatti Orban ha fatto uscire il paese dalla crisi economica,i salari sono aumentati e la disoccupazione è stata sensibilmente ridotta.Un dato palese è che nel giro di due anni il tasso di disoccupazioni è sceso dall’11% all’8%. Ecco il motivo del trionfo elettorale di Orban e per il mandato nuovo appena conquista promette nuovi e strabilianti miracoli.Ci riuscirà?
Turchia.Erdoğan trionfa alle amministrative.
di Ilenia Marini
Il leader turco conferma la sua incontrastata leadership.
La settimana scorsa in Turchia il partito del presidente Erdogan ha trionfato alle elezioni amministrative,Giustizia e Sviluppo (Akp) ha vinto in maniera netta, raggiungendo la soglia del 46% di voti,davvero un'enormità. Il successo dell’Akp è la vittoria del suo capo, Tayyip Erdoğan.Nonostante le inchieste per corruzione,nonostante i provvedimenti di censura di Twitter e YouTube che hanno limitato la libertà espressiva dei turchi, le elezioni hanno confermato il suo potere totale nel paese. La votazione è stata anche caratterizzata da accuse di brogli e anche da svariati episodi di violenza, tra cui addirittura l’uccisione del candidato sindaco per il partito della Felicità (Sp) nella periferia est di Siirt.Venendo al dato elettorale il partito Akp ha ottenuto il 46% dei voti, ovvero circa 8 punti in più rispetto alle ultime amministartive del 2010. Istanbul e Ankara sono rimaste città governate dal partito di Erdoğan. Ma anche il partito Popolare Repubblicano (fondato da Mustafa Kemal Atatürk), principale partito di opposizone governativa ha racimolato un buon 28% dei voti,aumentando la sua recente affermazione alle urne.
Il 15% degli elettori turchi ha optato per il partito del Movimento Nazionalista (Mhp). Il partito della Pace e della Democrazia (Bdp) di chiara formazione curda ha avuto solo il 4% delle preferenze ma è riuscito a fare sue alcune province nell’Ovest del paese, dove si concentra la minoranza etnica.Il partito Popolare Repubblicano non è apparso convinto del risultato avutosi ad Ankara, dove è stato battuto dall’Akp con uno scarto dello 0.9% e ha chiesto un immediato riconteggio dei voti.Una notizia importantissima si è avuta.Per la prima volta nella storia della Turchia, tre donne,appartenenti ai partiti Akp, Chp e Bdp,sono state scelte per ricoprire la carica di sindaco,non in città importanti ma è comunque un dato storico figlio della modernità.Tornando al trionfo di Erdogan,le accuse gravi di corruzione non hanno scalfito il potere di quello che gli avversari politici oramai definiscono il "sultano di Istanbul".
Nei mesi scorsi l'arresto dei figli di ben tre ministri e uomini d’affari amici di Erdoğan ha obbligato il presidente al rimpasto di governo. A febbraio poi su una nota rivista nazionale sono state inoltre pubblicate due intercettazioni nelle quali il premier e suo figlio Bilal risulterebbero coinvolti nello scandalo. La veridicità di quelle intercettazioni non è stata garantita dal ministero e nel frattempo Erdoğan ha tentato di oscurare Twitter e YouTube per frenare la diffusione della notizia a suo carico.Adesso la vittoria alle elezioni è sicuramente un segnale importante per Erdoğan in vista delle elezioni presidenziali di agosto,il presidente ha capito che gran parte del popolo è ancora con lui nonostante gli scandali.Per la vittoria sarà necessario superare quota 50%, un risultato che l'Akp può agevolmente raggiungere,ma il consenso nei prossimi mesi dovrà essere riconfermato e ampliato ,la questione è capire se le tecniche di paternalismo sociale sono la strada più utile per tale obiettivo o se anche Erdogan dovrà aprirsi a politiche maggiormente democratiche.
La settimana scorsa in Turchia il partito del presidente Erdogan ha trionfato alle elezioni amministrative,Giustizia e Sviluppo (Akp) ha vinto in maniera netta, raggiungendo la soglia del 46% di voti,davvero un'enormità. Il successo dell’Akp è la vittoria del suo capo, Tayyip Erdoğan.Nonostante le inchieste per corruzione,nonostante i provvedimenti di censura di Twitter e YouTube che hanno limitato la libertà espressiva dei turchi, le elezioni hanno confermato il suo potere totale nel paese. La votazione è stata anche caratterizzata da accuse di brogli e anche da svariati episodi di violenza, tra cui addirittura l’uccisione del candidato sindaco per il partito della Felicità (Sp) nella periferia est di Siirt.Venendo al dato elettorale il partito Akp ha ottenuto il 46% dei voti, ovvero circa 8 punti in più rispetto alle ultime amministartive del 2010. Istanbul e Ankara sono rimaste città governate dal partito di Erdoğan. Ma anche il partito Popolare Repubblicano (fondato da Mustafa Kemal Atatürk), principale partito di opposizone governativa ha racimolato un buon 28% dei voti,aumentando la sua recente affermazione alle urne.
Il 15% degli elettori turchi ha optato per il partito del Movimento Nazionalista (Mhp). Il partito della Pace e della Democrazia (Bdp) di chiara formazione curda ha avuto solo il 4% delle preferenze ma è riuscito a fare sue alcune province nell’Ovest del paese, dove si concentra la minoranza etnica.Il partito Popolare Repubblicano non è apparso convinto del risultato avutosi ad Ankara, dove è stato battuto dall’Akp con uno scarto dello 0.9% e ha chiesto un immediato riconteggio dei voti.Una notizia importantissima si è avuta.Per la prima volta nella storia della Turchia, tre donne,appartenenti ai partiti Akp, Chp e Bdp,sono state scelte per ricoprire la carica di sindaco,non in città importanti ma è comunque un dato storico figlio della modernità.Tornando al trionfo di Erdogan,le accuse gravi di corruzione non hanno scalfito il potere di quello che gli avversari politici oramai definiscono il "sultano di Istanbul".
Nei mesi scorsi l'arresto dei figli di ben tre ministri e uomini d’affari amici di Erdoğan ha obbligato il presidente al rimpasto di governo. A febbraio poi su una nota rivista nazionale sono state inoltre pubblicate due intercettazioni nelle quali il premier e suo figlio Bilal risulterebbero coinvolti nello scandalo. La veridicità di quelle intercettazioni non è stata garantita dal ministero e nel frattempo Erdoğan ha tentato di oscurare Twitter e YouTube per frenare la diffusione della notizia a suo carico.Adesso la vittoria alle elezioni è sicuramente un segnale importante per Erdoğan in vista delle elezioni presidenziali di agosto,il presidente ha capito che gran parte del popolo è ancora con lui nonostante gli scandali.Per la vittoria sarà necessario superare quota 50%, un risultato che l'Akp può agevolmente raggiungere,ma il consenso nei prossimi mesi dovrà essere riconfermato e ampliato ,la questione è capire se le tecniche di paternalismo sociale sono la strada più utile per tale obiettivo o se anche Erdogan dovrà aprirsi a politiche maggiormente democratiche.
Ancora sangue per le strade del Venezuela.
di Ilenia Marini
Il paese sudamericano versa ancora nel caos.
Nella capitale Caracas la situazione in queste ore torna ad essere pericolosa.Le proteste accese e violente contro il nuovo presidente Nicolas Maduro continuano senza sosta; migliaia di persone sono scese in piazza anche ieri per protestare contro la censura del governo, la mancanza di interventi contro la crisi economica e la totale assenza di un piano anti-criminalità. Queste proteste oramai sono episodi che sistematicamente si ripetono da Febbraio ad oggi; all'inizio partirono per altre motivazioni come l'altissima inflazione, la scarsità di beni essenziali e l'elevato tasso di corruzione politica nel paese,poi sono divenuti un modo per esporre tutti i reali problemi di una nazione in un momento di vera instabilità sociale.I capi della protesta evidenziano che il loro scendere nelle piazze è collegato alla mancanza di democrazia che fa quindi della rivolta in strada l'unico metodo per rendere noto problemi ed esigenze di un popolo.
Altri manifestanti invece aldilà dei diritti civili rispettati o meno protestano essenzialmente per il tasso di povertà che da alcuni anni ha investito il paese,una povertà che spesso non permette nemmeno l'acquisto di beni fondamentali alla vita.I manifestanti però non chiedono comprensione e stima cercano dal governo risposte chiare e concrete e non ricevendole fino ad oggi spesso la protesta si tramuta in atti violenti con l'uso di molotov,come successo nell'ultima settimana.Il bilancio degli ultimi scontri a Caracas infatti è stato piuttosto duro,ben due morti : un venezuelano morto fulminato poichè caduto su cavi di alta tensione durante una manifestazione ed un italo-argentino che secondo il ministero degli Esteri italiano e i media locali sarebbe stato ucciso da un colpo di pistola vagante mentre si sollevava su una barricata. Maduro, il presidente socialista che ha preso il posto di Hugo Chavez, non accetta un dialogo vero con i manifestanti e giudica le proteste come fasciste e fomentate dagli USA per far cadere il proprio esecutivo.In effetti risultano delle stranezze.
Durante varie proteste del movimento studentesco venezuelano molti dei fermati a volto coperto una volta arrestati si sono rivelati essere persone mature sui 40 anni che nulla aveva a che fare con il mondo studentesco.Il dubbio quindi è che a volte si tratti di manifestazioni tutt’altro che spontanee ma organizzate in modo preciso.Il Ministero degli Interni locali infatti afferma che da almeno un anno vi siano gruppi paramilitari infiltrati al confine tra Colombia e Venezuela,in piena foresta.Venendo all'immediato ora che la fase più acuta delle proteste sta per passare il primo compito di Maduro sarà quello di riallacciare i rapporti col suo popolo e rileggittimare il suo governo.Poi saranno necessarie riforme economiche per ridare ossigeno ai salari bassi e combattere un’inflazione galoppante. Già in passato il Venezuela ha dimostrato di saper lottare e combattere la crisi aeconomica e soprattutto difendere la propria indipendenza sempre troppo spesso minacciata da atti di puro imperialismo del governo americano.La fase del Chavismo è terminata,il Venezuela deve svegliarsi dal sogno socialista e iniziare a fare il bene del proprio popolo,altrimenti le proteste in strada saranno sempre più sanguinose e violenti.
Nella capitale Caracas la situazione in queste ore torna ad essere pericolosa.Le proteste accese e violente contro il nuovo presidente Nicolas Maduro continuano senza sosta; migliaia di persone sono scese in piazza anche ieri per protestare contro la censura del governo, la mancanza di interventi contro la crisi economica e la totale assenza di un piano anti-criminalità. Queste proteste oramai sono episodi che sistematicamente si ripetono da Febbraio ad oggi; all'inizio partirono per altre motivazioni come l'altissima inflazione, la scarsità di beni essenziali e l'elevato tasso di corruzione politica nel paese,poi sono divenuti un modo per esporre tutti i reali problemi di una nazione in un momento di vera instabilità sociale.I capi della protesta evidenziano che il loro scendere nelle piazze è collegato alla mancanza di democrazia che fa quindi della rivolta in strada l'unico metodo per rendere noto problemi ed esigenze di un popolo.
Altri manifestanti invece aldilà dei diritti civili rispettati o meno protestano essenzialmente per il tasso di povertà che da alcuni anni ha investito il paese,una povertà che spesso non permette nemmeno l'acquisto di beni fondamentali alla vita.I manifestanti però non chiedono comprensione e stima cercano dal governo risposte chiare e concrete e non ricevendole fino ad oggi spesso la protesta si tramuta in atti violenti con l'uso di molotov,come successo nell'ultima settimana.Il bilancio degli ultimi scontri a Caracas infatti è stato piuttosto duro,ben due morti : un venezuelano morto fulminato poichè caduto su cavi di alta tensione durante una manifestazione ed un italo-argentino che secondo il ministero degli Esteri italiano e i media locali sarebbe stato ucciso da un colpo di pistola vagante mentre si sollevava su una barricata. Maduro, il presidente socialista che ha preso il posto di Hugo Chavez, non accetta un dialogo vero con i manifestanti e giudica le proteste come fasciste e fomentate dagli USA per far cadere il proprio esecutivo.In effetti risultano delle stranezze.
Durante varie proteste del movimento studentesco venezuelano molti dei fermati a volto coperto una volta arrestati si sono rivelati essere persone mature sui 40 anni che nulla aveva a che fare con il mondo studentesco.Il dubbio quindi è che a volte si tratti di manifestazioni tutt’altro che spontanee ma organizzate in modo preciso.Il Ministero degli Interni locali infatti afferma che da almeno un anno vi siano gruppi paramilitari infiltrati al confine tra Colombia e Venezuela,in piena foresta.Venendo all'immediato ora che la fase più acuta delle proteste sta per passare il primo compito di Maduro sarà quello di riallacciare i rapporti col suo popolo e rileggittimare il suo governo.Poi saranno necessarie riforme economiche per ridare ossigeno ai salari bassi e combattere un’inflazione galoppante. Già in passato il Venezuela ha dimostrato di saper lottare e combattere la crisi aeconomica e soprattutto difendere la propria indipendenza sempre troppo spesso minacciata da atti di puro imperialismo del governo americano.La fase del Chavismo è terminata,il Venezuela deve svegliarsi dal sogno socialista e iniziare a fare il bene del proprio popolo,altrimenti le proteste in strada saranno sempre più sanguinose e violenti.
Egitto.Al-Sisi si candida alle presidenziali.
di Ilenia Marini
Il leader militare egiziano si offre come Presidente.
Il comandante in capo dell’esercito egiziano,il generale Abdel Al-Sisi ha dichiarato in questi giorni di aver deciso di abbandonare l'incarico di ministro della Difesa e di scendere politicamente in campo e candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. Nel suo discorso programmatico il generale ha sottolineato che grazie a lui l'esercito ha ritrovato ordine e disciplina e che militarmente il paese non è in guerra con nessuno ma che la lotta al terrorismo resterà un obiettivo continuo.Al-Sisi ha anche auspicato un risvolto veloce contro il Presidente deposto Morsi avendo fiducia sull'uguaglianza della giustizia e sui tempi rapidi per chiudere l'ennesima triste storia dell'Egitto moderno dopo il dramma del regime di Mubarak.Queste sue parole sono state pronunciate nel corso della riunione del Consiglio supremo delle forze armate che egli presiede.Al-Sisi ha dichiarato che quello era il suo ultimo discorso da generale dell'esercito e di aver scelto di lasciare la carica di ministro della Difesa. Il generale Sobhi dovrebbe prendere i posto di al-Sisi come capo dell'apparato militare e ministro della Difesa.
La legge egiziana infatti prevede che per concorrere alle elezioni presidenziali il candidato di turno non deve essere un membro delle forze armate e Al-Sisi essendo divenuto in questi mesi un soggetto con un notevole consenso presso il popolo ha deciso di ottimizzare questa sua virtù abbandonando i suoi incarichi.Fino a poco tempo fa si sapeva molto poco della sua figura.Si vociferava che fosse un islamista convinto, forse appartenente in segreto al gruppo estremista dei Fratelli Musulmani e messo al vertice dell’esercito per premiare il partito rivoluzionario. E anche gli stessi Fratelli Musulmani avevano cominciato a fidarsi di lui come figura istituzionale.Dopo il crollo di Mubarak e del suo regime proprio Morsi e Al-Sisi avevano mantenuto l'ordine e trattato politicamente con la Fratellanza nel periodo di governo per evitare escalation in chiave islamista.Nei primi mesi di presidenza Morsi Al Sisi diede grande sostegno al governo rimarcando che l'esercito non avrebbe dovuto più insinuarsi nella vita politica del paese ma rispettare i propri confini di competenza.Col passare del tempo il precedente governo ha mostrato tutte le sue incapacità decisionali e il generale spinto anche da molte fazioni interne all'esercito e dalla ricca borghesia industriale del paese ha avviato personalmente le trattative con i capi del movimento popolare che stava per far scoppiare i tumulti di protesta contro Morsi.
Al-Sisi per sedare gli animi della folla in piazza chiese esplicitamente al Presidente in carica di dimittersi per il bene della Nazione nel celebre discorso televisivo del 3 luglio scorso.Da quel momento dopo l'arresto di Morsi e la nascita dell'esecutivo provvisorio Al-Sisi si è affermato come nuova figura potente dell'Egitto ben oltre il suo ruolo di generale dell'esercito.In pochi mesi ha conquistato il popolo che vede in lui una guida forte,un leader capace di dare stabilità ad un paese in bilico perenne.Stando ad oggi l'unico sfidante serio per Al-Sisi alle presidenziali è Hamdeen Sabahi, uomo politico di lungo corso, precedente avversario alle elezioni del deposto Morsi nel 2012. Quello che sorprende di Al-Sisi è che nelle piazze egiziane tutti,vecchi,giovani e donne lo inneggiano e lo incitano anche se sanno pochissimo della sua carriera e del suo programma futuro di governo.Il miraggio è quello di aver finalmente trovato un simbolo nuovo in grado di cancellare la vergogna di Mubarak e il penoso fallimento della presidenza di Morsi.Che sia però solo un miraggio?Il tempo ci svelerà ogni dilemma.
Il comandante in capo dell’esercito egiziano,il generale Abdel Al-Sisi ha dichiarato in questi giorni di aver deciso di abbandonare l'incarico di ministro della Difesa e di scendere politicamente in campo e candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. Nel suo discorso programmatico il generale ha sottolineato che grazie a lui l'esercito ha ritrovato ordine e disciplina e che militarmente il paese non è in guerra con nessuno ma che la lotta al terrorismo resterà un obiettivo continuo.Al-Sisi ha anche auspicato un risvolto veloce contro il Presidente deposto Morsi avendo fiducia sull'uguaglianza della giustizia e sui tempi rapidi per chiudere l'ennesima triste storia dell'Egitto moderno dopo il dramma del regime di Mubarak.Queste sue parole sono state pronunciate nel corso della riunione del Consiglio supremo delle forze armate che egli presiede.Al-Sisi ha dichiarato che quello era il suo ultimo discorso da generale dell'esercito e di aver scelto di lasciare la carica di ministro della Difesa. Il generale Sobhi dovrebbe prendere i posto di al-Sisi come capo dell'apparato militare e ministro della Difesa.
La legge egiziana infatti prevede che per concorrere alle elezioni presidenziali il candidato di turno non deve essere un membro delle forze armate e Al-Sisi essendo divenuto in questi mesi un soggetto con un notevole consenso presso il popolo ha deciso di ottimizzare questa sua virtù abbandonando i suoi incarichi.Fino a poco tempo fa si sapeva molto poco della sua figura.Si vociferava che fosse un islamista convinto, forse appartenente in segreto al gruppo estremista dei Fratelli Musulmani e messo al vertice dell’esercito per premiare il partito rivoluzionario. E anche gli stessi Fratelli Musulmani avevano cominciato a fidarsi di lui come figura istituzionale.Dopo il crollo di Mubarak e del suo regime proprio Morsi e Al-Sisi avevano mantenuto l'ordine e trattato politicamente con la Fratellanza nel periodo di governo per evitare escalation in chiave islamista.Nei primi mesi di presidenza Morsi Al Sisi diede grande sostegno al governo rimarcando che l'esercito non avrebbe dovuto più insinuarsi nella vita politica del paese ma rispettare i propri confini di competenza.Col passare del tempo il precedente governo ha mostrato tutte le sue incapacità decisionali e il generale spinto anche da molte fazioni interne all'esercito e dalla ricca borghesia industriale del paese ha avviato personalmente le trattative con i capi del movimento popolare che stava per far scoppiare i tumulti di protesta contro Morsi.
Al-Sisi per sedare gli animi della folla in piazza chiese esplicitamente al Presidente in carica di dimittersi per il bene della Nazione nel celebre discorso televisivo del 3 luglio scorso.Da quel momento dopo l'arresto di Morsi e la nascita dell'esecutivo provvisorio Al-Sisi si è affermato come nuova figura potente dell'Egitto ben oltre il suo ruolo di generale dell'esercito.In pochi mesi ha conquistato il popolo che vede in lui una guida forte,un leader capace di dare stabilità ad un paese in bilico perenne.Stando ad oggi l'unico sfidante serio per Al-Sisi alle presidenziali è Hamdeen Sabahi, uomo politico di lungo corso, precedente avversario alle elezioni del deposto Morsi nel 2012. Quello che sorprende di Al-Sisi è che nelle piazze egiziane tutti,vecchi,giovani e donne lo inneggiano e lo incitano anche se sanno pochissimo della sua carriera e del suo programma futuro di governo.Il miraggio è quello di aver finalmente trovato un simbolo nuovo in grado di cancellare la vergogna di Mubarak e il penoso fallimento della presidenza di Morsi.Che sia però solo un miraggio?Il tempo ci svelerà ogni dilemma.
Russia messa fuori dal G8.
di Ilenia Marini
Primi provvedimenti diplomatici contro la politica estera russa.
Barack Obama ha deciso che la prima risposta diplomatica da dare all'atteggiamento aggressivo di Putin sulla Crimea è l'estromissione della Russia dal G8,una vera ritorsione per punire l’invasione della Crimea. La scelta è arrivata dopo un'accesa riunione avutasi in Olanda,all'Aia,dove i leader hanno condannato l'illegale tentativo della Russia di annettere la Crimea, non riconoscendo alcuna legittimità neppure al referendum avutosi la settimana scorsa.Inoltre,sempre dalla nota si legge che i paesi del G8 sono pronti ad emettere altre sanzioni anche economiche verso la Russia se Putin persevererà nel suo comportamento.L'esclusione di Mosca dal gruppo dei Grandi è quindi adesso realtà.
Ma il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, presente anch'egli all'Aia solo per le discussioni in materia di nucleare ha molto criticato la scelta dei grandi paesi mondiali ma ha anche affermato che la Russia non si strapperà certo i capelli per questa esclusione. Il Cremlino ha infatti dichiarato che il G8 è una sorta di club informale, quindi nessuno può essere espulso per definizione.Ma di certo non sarà una tragedia non partecipare ad una riunione che spesso non garantiva interventi concreti in campo internazionale.Ieri intanto il presidente americano Barack Obama, giunto con il suo Air Force One ad Amsterdam, aveva evidenziato che sul tema Crimea sia l'Ue che Stati Uniti saranno congiunti nel dare una risposta chiara e forte alla Russia. In primis una serie di valutazioni anche economiche che sicuramente peseranno molto sulla finanza generale russa.
Ma Mosca sembra non dare importanza a queste valutazioni e la forza militare continua ad ammassarsi sul confine ucraino quasi a voler minacciare anche le altre repubbliche post-sovietiche, in particolare la Moldavia. Questa pericolosa circostanza è stata resa nota dal generale Breedlove, capo delle forze Nato in Europa il quale comunicando l'enorme numero di soldati russi sul fronte ucraino ha sottolineato come Mosca sembra agire più come un nemico della Nato che come un alleato.Il Cremlino continua a negare che le truppe abbiano intento bellicoso mentre il ministro della difesa ucraino invece è convinto che stando così le cose il timore di guerra tra Russia ed Ucraina è molto elevato,il vero problema è che Putin non sembra in alcun modo aver voglia di dialogare sull'argomento
Barack Obama ha deciso che la prima risposta diplomatica da dare all'atteggiamento aggressivo di Putin sulla Crimea è l'estromissione della Russia dal G8,una vera ritorsione per punire l’invasione della Crimea. La scelta è arrivata dopo un'accesa riunione avutasi in Olanda,all'Aia,dove i leader hanno condannato l'illegale tentativo della Russia di annettere la Crimea, non riconoscendo alcuna legittimità neppure al referendum avutosi la settimana scorsa.Inoltre,sempre dalla nota si legge che i paesi del G8 sono pronti ad emettere altre sanzioni anche economiche verso la Russia se Putin persevererà nel suo comportamento.L'esclusione di Mosca dal gruppo dei Grandi è quindi adesso realtà.
Ma il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, presente anch'egli all'Aia solo per le discussioni in materia di nucleare ha molto criticato la scelta dei grandi paesi mondiali ma ha anche affermato che la Russia non si strapperà certo i capelli per questa esclusione. Il Cremlino ha infatti dichiarato che il G8 è una sorta di club informale, quindi nessuno può essere espulso per definizione.Ma di certo non sarà una tragedia non partecipare ad una riunione che spesso non garantiva interventi concreti in campo internazionale.Ieri intanto il presidente americano Barack Obama, giunto con il suo Air Force One ad Amsterdam, aveva evidenziato che sul tema Crimea sia l'Ue che Stati Uniti saranno congiunti nel dare una risposta chiara e forte alla Russia. In primis una serie di valutazioni anche economiche che sicuramente peseranno molto sulla finanza generale russa.
Ma Mosca sembra non dare importanza a queste valutazioni e la forza militare continua ad ammassarsi sul confine ucraino quasi a voler minacciare anche le altre repubbliche post-sovietiche, in particolare la Moldavia. Questa pericolosa circostanza è stata resa nota dal generale Breedlove, capo delle forze Nato in Europa il quale comunicando l'enorme numero di soldati russi sul fronte ucraino ha sottolineato come Mosca sembra agire più come un nemico della Nato che come un alleato.Il Cremlino continua a negare che le truppe abbiano intento bellicoso mentre il ministro della difesa ucraino invece è convinto che stando così le cose il timore di guerra tra Russia ed Ucraina è molto elevato,il vero problema è che Putin non sembra in alcun modo aver voglia di dialogare sull'argomento
Nuovo assalto a Kabul.10 morti.
di Ilenia Marini
Altro attacco terroristico nel cuore di Kabul.
Ieri sera ennesimo atto violento nella capitale afghana.Presso il Serena hotel, considerato uno degli alberghi più lussuosi e sicuri di Kabul,un commando di terroristi armati di mitra ha aperto il fuoco sugli ospiti della hall,composti da stranieri, imprenditori e uomini politici locali. Il bilancio è come sempre in questi casi drammatico,10 morti: cinque sono afghani, di cui due bambini feriti mortalmente alla testa, quattro erano invece stranieri, due donne e due uomini canadesi e un imprenditore indiano. Il ministro degli Interni afghano, Sediq Sediqqi, ha affermato nell'immediatezza dell'evento che gli assalitori erano giovani di età compresa fra i 18 e i 20 anni.Dei cinque afghani rimasti uccisi quattro erano la famiglia di un noto reporter locale dell' agenzia France Press, moglie e due figli e lo stesso Sardar Ahmad, 40 anni, sono rimasti uccisi.
I quattro corpi delle vittime sono stati riconosciuti da un fotografo della stessa agenzia chiamato nella camera mortuaria a scattare le prime foto.Per fortuna uno dei figli del reporter,di soli 5 anni è sopravvissuto ma risulta ricoverato in terapia intensiva e gravemente ferito al torace.Uno dei vertici del servizio segreto afghano dichiara che i giovani terroristi sono entrati nell'albergo e dalle gambe hanno estratto mitra e pistole e inziato a sparare all'impazzata sulla gente.Il movente del gesto sarebbero le imminenti elezioni presidenziali, che si terranno il 5 aprile, cui molte cellule di talebani si oppongono e invitano a boicottare.Il luogo non era casuale,lì infatti da anni soggiornano numerosi osservatori e personale diplomatico. Il Serena è considerato uno dei posti più sicuri dove alloggiare a Kabul poichè nella zona dell'albergo si accede solo dopo aver superato un posto di blocco con tanto di metal detector. Durante l'assalto gli altri clienti e membri dello staff del hotel si sono rifugiati nei piani sotterranei.
La Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) in Afghanistan condanna con vigore il drammatico e brutale evento capitato all’hotel Serena di Kabul. Il generale Joseph F. Dunford, comandante di Isaf, ha non solo deprecato l'assalto compiuto dai terroristi ma ha ovviamente comunicato la vicinanza alle vittime, denunciando che si tratta di un gesto inqualificabile compiuto da persone che disprezzano la stessa vita umana.Il generale sottolinea che le indagini sul come gli assalitori siano riusciti a superare il check in saranno scrupolosissime e se qualcuno ha aiutato i terroristi verrà assicurato alla giustizia velocemente.I talebani nelle ultime settimane avevano annunciato un evento sanguinoso per opporsi alle democratiche elezioni di aprile.Era nell'aria un episodio del genere ma si ipotizzava più un attacco dinamitardo che di questo tipo.Una cosa è certa,la terra afghana rimane terreno fertile per tragedia e instabilità.
Ieri sera ennesimo atto violento nella capitale afghana.Presso il Serena hotel, considerato uno degli alberghi più lussuosi e sicuri di Kabul,un commando di terroristi armati di mitra ha aperto il fuoco sugli ospiti della hall,composti da stranieri, imprenditori e uomini politici locali. Il bilancio è come sempre in questi casi drammatico,10 morti: cinque sono afghani, di cui due bambini feriti mortalmente alla testa, quattro erano invece stranieri, due donne e due uomini canadesi e un imprenditore indiano. Il ministro degli Interni afghano, Sediq Sediqqi, ha affermato nell'immediatezza dell'evento che gli assalitori erano giovani di età compresa fra i 18 e i 20 anni.Dei cinque afghani rimasti uccisi quattro erano la famiglia di un noto reporter locale dell' agenzia France Press, moglie e due figli e lo stesso Sardar Ahmad, 40 anni, sono rimasti uccisi.
I quattro corpi delle vittime sono stati riconosciuti da un fotografo della stessa agenzia chiamato nella camera mortuaria a scattare le prime foto.Per fortuna uno dei figli del reporter,di soli 5 anni è sopravvissuto ma risulta ricoverato in terapia intensiva e gravemente ferito al torace.Uno dei vertici del servizio segreto afghano dichiara che i giovani terroristi sono entrati nell'albergo e dalle gambe hanno estratto mitra e pistole e inziato a sparare all'impazzata sulla gente.Il movente del gesto sarebbero le imminenti elezioni presidenziali, che si terranno il 5 aprile, cui molte cellule di talebani si oppongono e invitano a boicottare.Il luogo non era casuale,lì infatti da anni soggiornano numerosi osservatori e personale diplomatico. Il Serena è considerato uno dei posti più sicuri dove alloggiare a Kabul poichè nella zona dell'albergo si accede solo dopo aver superato un posto di blocco con tanto di metal detector. Durante l'assalto gli altri clienti e membri dello staff del hotel si sono rifugiati nei piani sotterranei.
La Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) in Afghanistan condanna con vigore il drammatico e brutale evento capitato all’hotel Serena di Kabul. Il generale Joseph F. Dunford, comandante di Isaf, ha non solo deprecato l'assalto compiuto dai terroristi ma ha ovviamente comunicato la vicinanza alle vittime, denunciando che si tratta di un gesto inqualificabile compiuto da persone che disprezzano la stessa vita umana.Il generale sottolinea che le indagini sul come gli assalitori siano riusciti a superare il check in saranno scrupolosissime e se qualcuno ha aiutato i terroristi verrà assicurato alla giustizia velocemente.I talebani nelle ultime settimane avevano annunciato un evento sanguinoso per opporsi alle democratiche elezioni di aprile.Era nell'aria un episodio del genere ma si ipotizzava più un attacco dinamitardo che di questo tipo.Una cosa è certa,la terra afghana rimane terreno fertile per tragedia e instabilità.
Iraq.Sunniti e sciiti pronti allo scontro.
di Ilenia Marini
Strani movimenti di truppe fra i due gruppi etnici.
Mancano circa due mesi dalle prossime elezioni nazionali in Iraq ma la situazione non sembra affatto essere serena.Episodi e violenze quotidiane spingono la nazione iraquena verso un nuovo e duro scontro fra le varie fazioni che presenziano sul territorio.Il recente dossier ONU sulla situazione in Iraq ha testimoniato che il 2013 è stato l'anno più sanguinoso e drammatico dal 2008.Ma anche il 2014 iniziato da poco promette di seguire questa falsa riga e riperetere il terribile biennio 2005-06 quando violenza ed attentati provocarono ben 55 mila vittime. Guardando al 2014 infatti già a gennaio ci sono stati 950 attentati con 1500 vittime: la cifra preoccupa perchè è esattamente il doppio dello stesso mese dell'anno precedente.Il perchè di questo aggravarsi degli eventi è collegato alla rivoluzione che sta riguardando le varie cellule di al Qaeda in varie regioni iraquene.Soprattutto nella zona occidentale di al Anbar, dove da inizio gennaio i militanti dello Stato islamico di Iraq e Siria (Isis) si sono impossessati dei maggiori centri provinciali, tra i quali le grandi città di Fallujah e Ramadi, facendo leva sul malcontento della comunità locale sunnita contro il governo sciita di Nouri al Maliki.Anbar una delle provincie più grandi della zona con un territorio che va dall'occidente della periferia di Baghdad fino ai confini con Siria, Giordania e Arabia Saudita.
Anbar è un vero meltingpot di caste sociali ma ha un forte orientamento sunnita, nonchè sede della confederazione tribale Dulaimi che in passato ha dato forte sostegno al regime di Saddam Hussein in cambio di una certa autonomia nella gestione delle rotte commerciali della zona. La costituzione etnico-religiosa della provincia è il motivo per cui durante la recente invasione statunitense, la regione fu teatro di violentissimi scontri tra esercito USA e militanti Dulami poi convogliati nelle cellule jihadiste di al Qaeda.Inoltre proprio nella provincia di Anbar nel 2012 ci sono stati tanti focolai di rivolta ad opera di alcuni politici sunniti originari della zona contro il governo centrale sciita.
Per fortuna c'è anche una componente pacifica nella regione che raggruppa alcune tribù sunnite, tali tribù rivendicano maggiore rappresentanza politica per le proprie comunità che negli ultimi anni sono stati emarginati dalla coalizione creata dal governo Maliki. Nelle ultime settimane, sul fronte sciita, membri della jihad Asaib Ahl al Haq, una brigata che si ipotizza goda del sostegno dell'Iran, hanno cominciato a mobilitare le proprie forze contro i gruppi sunniti anche come rappresaglia alla serie di attentati contro le città sciite del paese accaduti nel 2013. Secondo fonti fidate della CIA specifiche milizie sciite, come la celebre Badr e la Kataib Hezbollah, avrebbero iniziato esercitazioni militari con armi pesanti.Questi episodi corrono il rischio di polarizzare ed accentuare le divisioni sociale in Iraq in un momento molto delicato di vera transizione politica, con il timore che la tensione fra sunniti e sciiti torni ad esplodere anche per le già insanguinate strade di Baghdad.
Mancano circa due mesi dalle prossime elezioni nazionali in Iraq ma la situazione non sembra affatto essere serena.Episodi e violenze quotidiane spingono la nazione iraquena verso un nuovo e duro scontro fra le varie fazioni che presenziano sul territorio.Il recente dossier ONU sulla situazione in Iraq ha testimoniato che il 2013 è stato l'anno più sanguinoso e drammatico dal 2008.Ma anche il 2014 iniziato da poco promette di seguire questa falsa riga e riperetere il terribile biennio 2005-06 quando violenza ed attentati provocarono ben 55 mila vittime. Guardando al 2014 infatti già a gennaio ci sono stati 950 attentati con 1500 vittime: la cifra preoccupa perchè è esattamente il doppio dello stesso mese dell'anno precedente.Il perchè di questo aggravarsi degli eventi è collegato alla rivoluzione che sta riguardando le varie cellule di al Qaeda in varie regioni iraquene.Soprattutto nella zona occidentale di al Anbar, dove da inizio gennaio i militanti dello Stato islamico di Iraq e Siria (Isis) si sono impossessati dei maggiori centri provinciali, tra i quali le grandi città di Fallujah e Ramadi, facendo leva sul malcontento della comunità locale sunnita contro il governo sciita di Nouri al Maliki.Anbar una delle provincie più grandi della zona con un territorio che va dall'occidente della periferia di Baghdad fino ai confini con Siria, Giordania e Arabia Saudita.
Anbar è un vero meltingpot di caste sociali ma ha un forte orientamento sunnita, nonchè sede della confederazione tribale Dulaimi che in passato ha dato forte sostegno al regime di Saddam Hussein in cambio di una certa autonomia nella gestione delle rotte commerciali della zona. La costituzione etnico-religiosa della provincia è il motivo per cui durante la recente invasione statunitense, la regione fu teatro di violentissimi scontri tra esercito USA e militanti Dulami poi convogliati nelle cellule jihadiste di al Qaeda.Inoltre proprio nella provincia di Anbar nel 2012 ci sono stati tanti focolai di rivolta ad opera di alcuni politici sunniti originari della zona contro il governo centrale sciita.
Per fortuna c'è anche una componente pacifica nella regione che raggruppa alcune tribù sunnite, tali tribù rivendicano maggiore rappresentanza politica per le proprie comunità che negli ultimi anni sono stati emarginati dalla coalizione creata dal governo Maliki. Nelle ultime settimane, sul fronte sciita, membri della jihad Asaib Ahl al Haq, una brigata che si ipotizza goda del sostegno dell'Iran, hanno cominciato a mobilitare le proprie forze contro i gruppi sunniti anche come rappresaglia alla serie di attentati contro le città sciite del paese accaduti nel 2013. Secondo fonti fidate della CIA specifiche milizie sciite, come la celebre Badr e la Kataib Hezbollah, avrebbero iniziato esercitazioni militari con armi pesanti.Questi episodi corrono il rischio di polarizzare ed accentuare le divisioni sociale in Iraq in un momento molto delicato di vera transizione politica, con il timore che la tensione fra sunniti e sciiti torni ad esplodere anche per le già insanguinate strade di Baghdad.
La Crimea ha deciso.E' Russia.
di Ilenia Marini
Referendum avvenuto.La Crimea vuole tornare russa.
I cittadini di Crimea hanno scelto,nelle urne del referendum di ieri,anche se lo scrutinio è solo del 80% delle schede, il «sì» all’annessione alla Russia ha stavinto,il 95% degli elettori ha deciso di staccarsi dalla Ucraina. Davvero notevole l’affluenza: circa l'82% dei cittadini residenti.Il premier della Crimea, Serghei Aksyonov ha affermato che si tratta di una data storica e adesso partiranno le formali procedura per chiedere l'esplicita annessione alla Federazione Russa. Il ministro dell'economia della regione di Crimea ha addirittura affermato che dal mese prossimo la moneta nazionale tornerà ad essere il Rublo e non più la Grivnia ucraina.E lo Zar Putin come l'ha presa?Secondo i ben informati Putin avrebbe subito chiamato al telefono il presidente Usa Barack Obama ribadendo le intenzioni pacifiche della Russia ma sottolineando che in base al principio di autodeterminazione dei popoli,un principio basilare del diritto internazionale che già in molte occasioni ha trovato applicazione,basti ricordare il Kosovo,il referendum in Crimea è pienamente legittimo e conforme. Obama ha accettato la posizione russa e anche se non l'ha condivisa ha proposto di agire insieme per risolvere diplomaticamente la questione e per dare stabilità alla regione.
Putin ha gradito il passo in avanti degli USA anche se le sue critiche alle autorità ucraine sono state ribadite,accuse riguardanti l'incapacità di gestire la crisi in Crimea. La Comunità Internazionale però sembra molto più rigida.La Merkel,Hollande e lo stesso Renzi hanno definito illegale il voto della Crimea e affermato che con ogni probabilità una missione dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) partirà a breve per verificare l'eventuale violazione dei diritti della popolazione ucraina e in tal caso la possibilità di imporre ulteriori costi (sanzioni) alla Russia per aver violato la sovranità dell’Ucraina. La Casa Bianca come detto ha fatto buon viso a cattivo gioco ma Obama avrebbe formalmente richiesto alla Russia di accettare l'invio di osservatori internazionali nelle aree di confine per verificare il comportamento delle truppe russe e scongiurare così possibili invasioni della zona meridionale dell'Ucraina.
Tornando ai risultati del referendum, in tre lingue (russo, ucraino e tataro) era stata posta la domanda alla popolazione: Sostieni la riunificazione della Crimea con la Russia?Al voto sono andati circa 1,6 milioni di persone, in 120 collegi elettorali.Straordinaria l’affluenza e a Sebastopoli, la città più popolosa della Crimea, dopo solo tre ore dall'pertura dei seggi il 50% degli aventi diritto aveva già votato. La popolazione di Crimea ha festeggiato in piazza il risultato applaudendo al ritorno nella Casa Russia,ma in queste ore la pericolosa tensione militare tra Ucraina e Russia è rimasta altissima. Il ministro della Difesa ucraino, Tenyukh, ha accusato la Russia di aver aumentato di altre 20mila soldati la già massiccia presenza russa lungo il confine; insomma il Cremlino avrebbe violato il limite di 12.000 soldati che il trattato Mosca-Kiev prevedeva nella base militare di Sebastopoli, sul Mar Nero. Per il governo ucraino siamo dinanzi ad un atto di violenza che viola palesemente gli accordi ed è la dimostrazione di come Putin intenda in modo subdolo inviare l'esercito russo sul territorio ucraino, Tenyukh ha sottolineato la gravità del gesto e ribadito che l'esercito ucraino è pronto a dirigersi a Sud per rafforzare i suoi confini con la Russia.La situazione resta molto precaria.
I cittadini di Crimea hanno scelto,nelle urne del referendum di ieri,anche se lo scrutinio è solo del 80% delle schede, il «sì» all’annessione alla Russia ha stavinto,il 95% degli elettori ha deciso di staccarsi dalla Ucraina. Davvero notevole l’affluenza: circa l'82% dei cittadini residenti.Il premier della Crimea, Serghei Aksyonov ha affermato che si tratta di una data storica e adesso partiranno le formali procedura per chiedere l'esplicita annessione alla Federazione Russa. Il ministro dell'economia della regione di Crimea ha addirittura affermato che dal mese prossimo la moneta nazionale tornerà ad essere il Rublo e non più la Grivnia ucraina.E lo Zar Putin come l'ha presa?Secondo i ben informati Putin avrebbe subito chiamato al telefono il presidente Usa Barack Obama ribadendo le intenzioni pacifiche della Russia ma sottolineando che in base al principio di autodeterminazione dei popoli,un principio basilare del diritto internazionale che già in molte occasioni ha trovato applicazione,basti ricordare il Kosovo,il referendum in Crimea è pienamente legittimo e conforme. Obama ha accettato la posizione russa e anche se non l'ha condivisa ha proposto di agire insieme per risolvere diplomaticamente la questione e per dare stabilità alla regione.
Putin ha gradito il passo in avanti degli USA anche se le sue critiche alle autorità ucraine sono state ribadite,accuse riguardanti l'incapacità di gestire la crisi in Crimea. La Comunità Internazionale però sembra molto più rigida.La Merkel,Hollande e lo stesso Renzi hanno definito illegale il voto della Crimea e affermato che con ogni probabilità una missione dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) partirà a breve per verificare l'eventuale violazione dei diritti della popolazione ucraina e in tal caso la possibilità di imporre ulteriori costi (sanzioni) alla Russia per aver violato la sovranità dell’Ucraina. La Casa Bianca come detto ha fatto buon viso a cattivo gioco ma Obama avrebbe formalmente richiesto alla Russia di accettare l'invio di osservatori internazionali nelle aree di confine per verificare il comportamento delle truppe russe e scongiurare così possibili invasioni della zona meridionale dell'Ucraina.
Tornando ai risultati del referendum, in tre lingue (russo, ucraino e tataro) era stata posta la domanda alla popolazione: Sostieni la riunificazione della Crimea con la Russia?Al voto sono andati circa 1,6 milioni di persone, in 120 collegi elettorali.Straordinaria l’affluenza e a Sebastopoli, la città più popolosa della Crimea, dopo solo tre ore dall'pertura dei seggi il 50% degli aventi diritto aveva già votato. La popolazione di Crimea ha festeggiato in piazza il risultato applaudendo al ritorno nella Casa Russia,ma in queste ore la pericolosa tensione militare tra Ucraina e Russia è rimasta altissima. Il ministro della Difesa ucraino, Tenyukh, ha accusato la Russia di aver aumentato di altre 20mila soldati la già massiccia presenza russa lungo il confine; insomma il Cremlino avrebbe violato il limite di 12.000 soldati che il trattato Mosca-Kiev prevedeva nella base militare di Sebastopoli, sul Mar Nero. Per il governo ucraino siamo dinanzi ad un atto di violenza che viola palesemente gli accordi ed è la dimostrazione di come Putin intenda in modo subdolo inviare l'esercito russo sul territorio ucraino, Tenyukh ha sottolineato la gravità del gesto e ribadito che l'esercito ucraino è pronto a dirigersi a Sud per rafforzare i suoi confini con la Russia.La situazione resta molto precaria.
Obama e il delicato equilibrio in Crimea.
di Ilenia Marini
Gli USA cercano vie diplomatiche per frenare la Russia.
Barack Obama è stato tra i presidenti Usa forse quello che meno di tutti si è concentrato sulle politiche estere, incentrando la sua azione governativa essenzialmente su tematiche interne come la rivoluzionaria riforma della sanità pubblica (Obamacare), l'eliminazione delle gravi diseguaglianze sociali delle classi più deboli, la riforma della scuola, il drastico piano di ripresa industriale e la nuova strategia per le risorse energetiche. Sulla base di ciò infatti l'amministrazione Obama in questi anni si è poco interessata degli aspetti di politica estera e ha reso gli Usa molto più neutrali su moltissime vicende accadute negli ultimi mesi nel mondo.Il ruolo degli Usa come paladini della libertà,un ruolo che soprattutto W.Bush amava, è quasi sparito o almeno si è fortemente appannato. Detto ciò se da un lato è vero che Obama verrà sicuramente ricordato come il presidente che ha riportato a casa le truppe dall'Iraq e dall'Afghanistan, è anche vero che sempre Obama nella sua presidenza ha dovuto far fronte a molte e gravi crisi internazionali: la primavera araba che ha sconvolto paesi come Egitto e Tunisia, la rivolta in Libia che ha rovesciato Gheddafi, la guerra civile in Siria, l’Iran e ora la vicenda ucraina.Ogni presidente è chiamato, nel corso del mandato, ad affrontare episodi storici importanti.
Per Obama in questi giorni è la volta dell’Ucraina. Si tratta di una prova complessa che va affrontata con sapienza diplomatica e che ha già esposto il presidente a molte critiche soprattutto da parte del partito Repubblicano che accusa il governo Obama di aver trascurato la pericolosità della strategia militare russa e di aver colpevolmente valutato in ritardo le problematiche connesse al dossier Russia.Chi difende l'operato di Obama sottolinea che non sono evidenti i motivi per cui gli Usa debbano urgentemente intervenire nella vicenda di Crimea. I capricci territoriali dello zar Putin non dovrebbero preoccupare una nazione che finalmente dopo tre anni intensi e ricchi di difficoltà economiche sta uscendo dalla crisi finanziaria del 2008.Anzi non tanto gli Usa ma l'Unione Europea dovrebbe essere maggiormente interessata nella crisi ucraina in particolare non solo per la vicinza geografica ma anche per l'eccesso di dipendenza energetica e petrolifera che potrebbe venirsi a creare nei confronti della Russia di Putin.Obama,evidenziano i suoi sostenitori,ha portato a termine una serie di richieste fatte dal popolo americano,ha chiuso due guerre,ha colpito mortalmente al Qaeda uccidendo il suo leader Bin Laden e da alcuni mesi è riuscito a rimettere in moto l’economia nazionale. Sull’Ucraina il presidente e il segretario di Stato americano quindi fanno bene a temporeggiare e a preferire l'approccio diplomatico in attesa di capire la strategia dei paesi europei,qualora vi fosse una vera strategia.
Obama e Putin insieme sembrano fare buon viso a cattivo gioco,in una sfida a scacchi che in parte ricorda quella fra Kennedy e Krusciov degli anni sessanta.Entrambi sanno che la questione Crimea necessita di una svolta chiara ma ognuno attende le mosse dell' altro.Ora il problema principale sembra proprio capire quale sia la strada diplomatica più utile;da una parte c'è Mosca che sostiene l’incostituzionalità della caccia del presidente ucraino Yanukovich e dall'altra ci sono gli Usa che appoggiano il nuovo premier Yatseniuk voluto dal popolo ucraino.Ciò che lascia molti interdetti è che nonostante la vicenda in Ucraina sia scoppiata nel cuore pulsante dell'Europa,le istituzioni comunitarie non hanno preso posizione ma anzi ancora oggi sembrano attendere la prima mossa dalla Casa Bianca.Ancora una volta Bruxelles pare lenta e timorosa nelle decisioni ed in politica estera questo si rivela spesso un errore grave.Volente o nolente quindi il mondo sembra attendere la mossa di Obama per poi regolarsi di conseguenza.Nessuna novità.
Barack Obama è stato tra i presidenti Usa forse quello che meno di tutti si è concentrato sulle politiche estere, incentrando la sua azione governativa essenzialmente su tematiche interne come la rivoluzionaria riforma della sanità pubblica (Obamacare), l'eliminazione delle gravi diseguaglianze sociali delle classi più deboli, la riforma della scuola, il drastico piano di ripresa industriale e la nuova strategia per le risorse energetiche. Sulla base di ciò infatti l'amministrazione Obama in questi anni si è poco interessata degli aspetti di politica estera e ha reso gli Usa molto più neutrali su moltissime vicende accadute negli ultimi mesi nel mondo.Il ruolo degli Usa come paladini della libertà,un ruolo che soprattutto W.Bush amava, è quasi sparito o almeno si è fortemente appannato. Detto ciò se da un lato è vero che Obama verrà sicuramente ricordato come il presidente che ha riportato a casa le truppe dall'Iraq e dall'Afghanistan, è anche vero che sempre Obama nella sua presidenza ha dovuto far fronte a molte e gravi crisi internazionali: la primavera araba che ha sconvolto paesi come Egitto e Tunisia, la rivolta in Libia che ha rovesciato Gheddafi, la guerra civile in Siria, l’Iran e ora la vicenda ucraina.Ogni presidente è chiamato, nel corso del mandato, ad affrontare episodi storici importanti.
Per Obama in questi giorni è la volta dell’Ucraina. Si tratta di una prova complessa che va affrontata con sapienza diplomatica e che ha già esposto il presidente a molte critiche soprattutto da parte del partito Repubblicano che accusa il governo Obama di aver trascurato la pericolosità della strategia militare russa e di aver colpevolmente valutato in ritardo le problematiche connesse al dossier Russia.Chi difende l'operato di Obama sottolinea che non sono evidenti i motivi per cui gli Usa debbano urgentemente intervenire nella vicenda di Crimea. I capricci territoriali dello zar Putin non dovrebbero preoccupare una nazione che finalmente dopo tre anni intensi e ricchi di difficoltà economiche sta uscendo dalla crisi finanziaria del 2008.Anzi non tanto gli Usa ma l'Unione Europea dovrebbe essere maggiormente interessata nella crisi ucraina in particolare non solo per la vicinza geografica ma anche per l'eccesso di dipendenza energetica e petrolifera che potrebbe venirsi a creare nei confronti della Russia di Putin.Obama,evidenziano i suoi sostenitori,ha portato a termine una serie di richieste fatte dal popolo americano,ha chiuso due guerre,ha colpito mortalmente al Qaeda uccidendo il suo leader Bin Laden e da alcuni mesi è riuscito a rimettere in moto l’economia nazionale. Sull’Ucraina il presidente e il segretario di Stato americano quindi fanno bene a temporeggiare e a preferire l'approccio diplomatico in attesa di capire la strategia dei paesi europei,qualora vi fosse una vera strategia.
Obama e Putin insieme sembrano fare buon viso a cattivo gioco,in una sfida a scacchi che in parte ricorda quella fra Kennedy e Krusciov degli anni sessanta.Entrambi sanno che la questione Crimea necessita di una svolta chiara ma ognuno attende le mosse dell' altro.Ora il problema principale sembra proprio capire quale sia la strada diplomatica più utile;da una parte c'è Mosca che sostiene l’incostituzionalità della caccia del presidente ucraino Yanukovich e dall'altra ci sono gli Usa che appoggiano il nuovo premier Yatseniuk voluto dal popolo ucraino.Ciò che lascia molti interdetti è che nonostante la vicenda in Ucraina sia scoppiata nel cuore pulsante dell'Europa,le istituzioni comunitarie non hanno preso posizione ma anzi ancora oggi sembrano attendere la prima mossa dalla Casa Bianca.Ancora una volta Bruxelles pare lenta e timorosa nelle decisioni ed in politica estera questo si rivela spesso un errore grave.Volente o nolente quindi il mondo sembra attendere la mossa di Obama per poi regolarsi di conseguenza.Nessuna novità.
Sud-Sudan.Guerra civile ad un passo.
di Ilenia Marini
Lotte tra etnie e violenze.La grande instabilità africana.
Nel 2011 tutti credevamo che il Sud Sudan (nero e cristiano) grazie alle prime elezioni democratiche con cui si scindeva dal Sudan (arabo e islamico) avesse risolto i suoi problemi e chiuso il drammatico libro della guerra civile durato ben 50 anni,diventando così il Paese più giovane del mondo.Il Sud Sudan ha una popolazione di 10 milioni di abitanti,senza sbocchi sul mare, con pochissime infrastrutture e con il più alto tasso di mortalità infantile.La popolazione è per il 70% analfabeta ed è divisa in due grossi gruppi etnici i Dinka e i Nuer.L'economia nazionale è poco sviluppata,unica risorsa è il petrolio estratto nelle aree di Muglad, Melut ed Abu Jabra che viene trasportato dagli oleodotti verso le raffinerie del Sudan.Questi due anni di vita del giovane stato africano sono stati molto difficoltosi.
Prima ha subito molte rappresaglie ad opera del Sudan per il controllo di alcune regioni petrolifere al confine; poi è stato flagellato da vari conflitti interni di matrice politica,conflitti anche violentissimi tra i sostenitori del presidente Salva Kiir e il suo (ex) vice Riek Machar. Salva Kiir, nel 2011 è stato eletto primo presidente del nuovo Stato. Uomo di etnia Dinka, ha avuto un grande ruolo nella guerra civile per l'indipendenza,era il leader militare dell'Esercito sudanese di liberazione popolare. Il suo avversario Riek Machar è invece di etnia Nuer: è stato vicepresidente del Paese poi è stato espulso dal partito di Kiir, con l'accusa di tramare alle spalle per rovesciare il governo.Dopo la sua cacciata Machar ha iniziato una campagna diffamatoria verso Kiir accusandolo di metodi dittatoriali, e sfidandolo apertamente per le prossime elezioni. La lotta per il potere e la tensione etnica è aumentata negli ultimi mesi tanto che a gennaio le truppe fedeli al presidente Kiir si sono scontrate in battaglia con i ribelli sostenitori di Machar e della sua stessa etnia. In giorni di scontri sono morte 500 persone e 800 rimasti feriti. Dopo tre giorni il presidente Kiir aveva però dichiarato di aver ristabilito l'ordine e il controllo della zona,affermando di aver evitato un vero colpo di stato da parte di Machar.
Dopo una settimana gli scontri sono ripresi e dalle radio locali Machar aizza il popolo e invita l'esercito a sollevarsi contro Kiir e a rovesciarlo dalla sua carica alla guida del Paese.Per le strade sembra di rivedere i drammi della guerra in Ruanda.Le etnie Dinka e Nuer si scontrano in continuazione con grande spargimento di sangue.La settimana scorsa la base Onu di Akobo è stata letteralmente assaltata dai ribelli: nella lotta sono morti tre caschi blu indiani e circa venti civili e la paura che nei piccoli villaggi siano già cominciate le pulizie etniche è tangibile. Migliaia scappano, si dice che circa 15.000 persone si siano già messe in marcia verso il campo rifugiati delle Nazioni Unite,proprio secondo l'Onu i profughi supererebbero già le 960.000 persone e Ted Chaiban, direttore Unicef del Programma di Emergenza, ha spiegato che 500.000 bambini con le loro famiglie sono stati sfollati a causa degli scontri e almeno tre milioni di persone hanno bisogno di assistenza sanitaria e alimentare.
Nel 2011 tutti credevamo che il Sud Sudan (nero e cristiano) grazie alle prime elezioni democratiche con cui si scindeva dal Sudan (arabo e islamico) avesse risolto i suoi problemi e chiuso il drammatico libro della guerra civile durato ben 50 anni,diventando così il Paese più giovane del mondo.Il Sud Sudan ha una popolazione di 10 milioni di abitanti,senza sbocchi sul mare, con pochissime infrastrutture e con il più alto tasso di mortalità infantile.La popolazione è per il 70% analfabeta ed è divisa in due grossi gruppi etnici i Dinka e i Nuer.L'economia nazionale è poco sviluppata,unica risorsa è il petrolio estratto nelle aree di Muglad, Melut ed Abu Jabra che viene trasportato dagli oleodotti verso le raffinerie del Sudan.Questi due anni di vita del giovane stato africano sono stati molto difficoltosi.
Prima ha subito molte rappresaglie ad opera del Sudan per il controllo di alcune regioni petrolifere al confine; poi è stato flagellato da vari conflitti interni di matrice politica,conflitti anche violentissimi tra i sostenitori del presidente Salva Kiir e il suo (ex) vice Riek Machar. Salva Kiir, nel 2011 è stato eletto primo presidente del nuovo Stato. Uomo di etnia Dinka, ha avuto un grande ruolo nella guerra civile per l'indipendenza,era il leader militare dell'Esercito sudanese di liberazione popolare. Il suo avversario Riek Machar è invece di etnia Nuer: è stato vicepresidente del Paese poi è stato espulso dal partito di Kiir, con l'accusa di tramare alle spalle per rovesciare il governo.Dopo la sua cacciata Machar ha iniziato una campagna diffamatoria verso Kiir accusandolo di metodi dittatoriali, e sfidandolo apertamente per le prossime elezioni. La lotta per il potere e la tensione etnica è aumentata negli ultimi mesi tanto che a gennaio le truppe fedeli al presidente Kiir si sono scontrate in battaglia con i ribelli sostenitori di Machar e della sua stessa etnia. In giorni di scontri sono morte 500 persone e 800 rimasti feriti. Dopo tre giorni il presidente Kiir aveva però dichiarato di aver ristabilito l'ordine e il controllo della zona,affermando di aver evitato un vero colpo di stato da parte di Machar.
Dopo una settimana gli scontri sono ripresi e dalle radio locali Machar aizza il popolo e invita l'esercito a sollevarsi contro Kiir e a rovesciarlo dalla sua carica alla guida del Paese.Per le strade sembra di rivedere i drammi della guerra in Ruanda.Le etnie Dinka e Nuer si scontrano in continuazione con grande spargimento di sangue.La settimana scorsa la base Onu di Akobo è stata letteralmente assaltata dai ribelli: nella lotta sono morti tre caschi blu indiani e circa venti civili e la paura che nei piccoli villaggi siano già cominciate le pulizie etniche è tangibile. Migliaia scappano, si dice che circa 15.000 persone si siano già messe in marcia verso il campo rifugiati delle Nazioni Unite,proprio secondo l'Onu i profughi supererebbero già le 960.000 persone e Ted Chaiban, direttore Unicef del Programma di Emergenza, ha spiegato che 500.000 bambini con le loro famiglie sono stati sfollati a causa degli scontri e almeno tre milioni di persone hanno bisogno di assistenza sanitaria e alimentare.
Tensione in Crimea.Russi lungo il confine.
di Ilenia Marini
Venti di guerra con Putin pronto all'invasione.
Giorni tesi e difficili in Ucraina. Dopo la caduta del governo di Yanukovich e dopo le sanguinose proteste in piazza adesso l’attenzione si sposta nella vicina regione autonoma della Crimea.Qui sembra che si stia per raggiungere un punto di non ritorno che vede la guerra come unico scopo finale. La Russia avrebbe inviato in questi giorni verso il confine ucraino seimila militari supplementari: questa è l’accusa che ribadisce il ministro della Difesa di Kiev, Tenyukhe, rendendo noto che in tutta risposta l’Ucraina ha messo in stato di allerta le Forze Armate nazionali nella zona della penisola di Crimea, dove già ieri molti testimoni affermavano la presenza di ben mille soldati di Mosca. Il nuovo capo del governo ucraino Arseny Yatseniuk ha definito semplicemente inaccettabili queste circostanze sottolineando che i blindati russi nel centro delle città dell’Ucraina sono una vera minaccia implicita alla pace,invitando subito Mosca a porre termine ad ogni operazione militare. La situazione però è davvero paradossale. Mentre Kiev chiede a Putin di allontanarsi dal suo confine, il neo premier della Crimea ha invece invocato l’aiuto del presidente russo per imporre pace e calma nella regione,delegittimando l’attuale governo nazionale.
Mosca ha subito colto al balzo l’occasione evidenziando di essere pronta a rispondere alla richiesta di aiuto dei dirigenti della Crimea.Facendo chiarezza è importante affermare che la Crimea è già un repubblica autonoma, ma all’interno dello Stato ucraino. La penisola bagnata dal Mar Nero era una regione russa ma nel 1954 Nikita Kruschev la donò a Kiev, quando l’Ucraina era una delle repubbliche sovietiche. Ecco spiegato il rapporto diretto tra la Crimea e la Russia. Nel frattempo Barack Obama lancia un monito verso il Cremlino: nessun tipo di intervento militare è ammissibile,ma le accuse del presidente ucraino sono esplicite additando Putin di voler appositamente provocare scontri e tensioni per riprendersi militarmente la Crimea.I satelliti americani in queste ore segnalano movimenti di truppe sul confine ucraino,mezzi via mare e terra cominciano a posizionarsi e non è una buona notizia. Truppe russe controllano da ieri i due importanti aeroporti della penisola: quello della capitale Simferopoli e quello della città di Belbek, a pochi chilometri da Sebastopoli, dove è insediata da anni una numerosa flotta russa sul Mar Nero. Sulle divise di queste truppe non c’è la bandiera russa,non si capisce se sono mercenari o milizie filorusse o truppe regolari di Mosca. La stessa flotta del Mar Nero però ha affermato di non essere coinvolta in alcun operazione.
Ieri il governo di Kiev gridava apertamente alla «invasione» russa.Le istituzioni Americane ed europee avrebbero già in mente di non partecipare al vertice G8 che a giugno sarà ospitato a Sochi in Russia qualora non dovesse diminuire la tensione in Crimea. Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha avuto una lunga telefonata con il suo collega russo Lavrov e ha comunicato la reale preoccupazione degli Usa riguardo alla situazione in Ucraina. Ribadendo che l’ intervento armato sarebbe uno sbaglio enorme e grave. Anche l’ambasciatore Usa all’Onu, Samantha Power, ha chiesto esplicitamente a Mosca di ben misurare le proprie azioni e le relative conseguenze,soprattutto permettere agli ucraini di decidere il proprio futuro liberamente. L’ONU comunque la settimana prossima potrebbe inviare una specifica delegazione per mediare e scongiurare l’aggravarsi della crisi in Ucraina e Crimea.
Giorni tesi e difficili in Ucraina. Dopo la caduta del governo di Yanukovich e dopo le sanguinose proteste in piazza adesso l’attenzione si sposta nella vicina regione autonoma della Crimea.Qui sembra che si stia per raggiungere un punto di non ritorno che vede la guerra come unico scopo finale. La Russia avrebbe inviato in questi giorni verso il confine ucraino seimila militari supplementari: questa è l’accusa che ribadisce il ministro della Difesa di Kiev, Tenyukhe, rendendo noto che in tutta risposta l’Ucraina ha messo in stato di allerta le Forze Armate nazionali nella zona della penisola di Crimea, dove già ieri molti testimoni affermavano la presenza di ben mille soldati di Mosca. Il nuovo capo del governo ucraino Arseny Yatseniuk ha definito semplicemente inaccettabili queste circostanze sottolineando che i blindati russi nel centro delle città dell’Ucraina sono una vera minaccia implicita alla pace,invitando subito Mosca a porre termine ad ogni operazione militare. La situazione però è davvero paradossale. Mentre Kiev chiede a Putin di allontanarsi dal suo confine, il neo premier della Crimea ha invece invocato l’aiuto del presidente russo per imporre pace e calma nella regione,delegittimando l’attuale governo nazionale.
Mosca ha subito colto al balzo l’occasione evidenziando di essere pronta a rispondere alla richiesta di aiuto dei dirigenti della Crimea.Facendo chiarezza è importante affermare che la Crimea è già un repubblica autonoma, ma all’interno dello Stato ucraino. La penisola bagnata dal Mar Nero era una regione russa ma nel 1954 Nikita Kruschev la donò a Kiev, quando l’Ucraina era una delle repubbliche sovietiche. Ecco spiegato il rapporto diretto tra la Crimea e la Russia. Nel frattempo Barack Obama lancia un monito verso il Cremlino: nessun tipo di intervento militare è ammissibile,ma le accuse del presidente ucraino sono esplicite additando Putin di voler appositamente provocare scontri e tensioni per riprendersi militarmente la Crimea.I satelliti americani in queste ore segnalano movimenti di truppe sul confine ucraino,mezzi via mare e terra cominciano a posizionarsi e non è una buona notizia. Truppe russe controllano da ieri i due importanti aeroporti della penisola: quello della capitale Simferopoli e quello della città di Belbek, a pochi chilometri da Sebastopoli, dove è insediata da anni una numerosa flotta russa sul Mar Nero. Sulle divise di queste truppe non c’è la bandiera russa,non si capisce se sono mercenari o milizie filorusse o truppe regolari di Mosca. La stessa flotta del Mar Nero però ha affermato di non essere coinvolta in alcun operazione.
Ieri il governo di Kiev gridava apertamente alla «invasione» russa.Le istituzioni Americane ed europee avrebbero già in mente di non partecipare al vertice G8 che a giugno sarà ospitato a Sochi in Russia qualora non dovesse diminuire la tensione in Crimea. Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha avuto una lunga telefonata con il suo collega russo Lavrov e ha comunicato la reale preoccupazione degli Usa riguardo alla situazione in Ucraina. Ribadendo che l’ intervento armato sarebbe uno sbaglio enorme e grave. Anche l’ambasciatore Usa all’Onu, Samantha Power, ha chiesto esplicitamente a Mosca di ben misurare le proprie azioni e le relative conseguenze,soprattutto permettere agli ucraini di decidere il proprio futuro liberamente. L’ONU comunque la settimana prossima potrebbe inviare una specifica delegazione per mediare e scongiurare l’aggravarsi della crisi in Ucraina e Crimea.
O.N.U. contro la Corea del Nord.
di Ilenia Marini
Le Nazioni Unite pronte a sanzionare il regime coreano.
Dopo mesi di analisi e ricerche la commissione d’inchiesta Onu sulla violazione dei diritti umani a Pyongyang ha diffuso a Ginevra il proprio rapporto finale e la Corea del Nord è esplicitamente accusata di aver violato a più riprese i diritti umani della propria popolazione. Nel rapporto si parla apertamente di forti «violazioni sistematiche, diffuse e gravi dei diritti umani»,ancora oggi sono diffuse e attuali in Corea del Nord e che in varie situazioni fanno parlare direttamente di crimini contro l’umanità. Si tratta di un rapporto ufficiale di circa 300 pagine nato da circa sei mesi di indagini diplomatiche e testimonianze dirette e ben racconta l’inferno dei campi di prigionia e le persone scomparse anche all’estero, senza dimenticare il sistema di controllo ed indottrinamento delle menti fatto dal regime e il rigido monopolio del cibo imposto alla popolazione. Pyongyang non ha concesso l’accesso al Paese alla commissione di inchiesta, nata da una risoluzione approvata il 21 marzo 2013 dal Consiglio Onu dei diritti umani. E' una commissione formata da tre importanti esperti, la commissione ha compiuto l'inchiesta e tramite interviste di vittime e testimoni all’estero in condizioni di totale riservatezza per non causare pericoli per i soggetti,è giunta al proprio parere.
L'atteggiamento dei paesi orientali è sempre molto rigido sul tema dei diritti umani.Anche la Cina ha negato l’accesso alla Commissione mesi orsono facendo ipotizzare anche qui il timore di violazioni notevoli ai danni dei cittadini.Tornando alla Corea la Commissione evidenzia che per decenni centinaia di migliaia di prigionieri politici sono morti nei campi di prigionia della Corea del Nord,senza lasciare testimonianze. Le persone nei campi vengono eliminate con azioni impostate sulla fame, lavori forzati, esecuzioni, tortura, stupri, aborti forzati e infanticidio. Sono vere atrocità che i detenuti di questi campi di prigionia politica, detti «kwanliso» sopportano da anni e che non hanno nulla in meno agli orrori commessi nei campi nazisti del XX secolo. Il regime di Pyongyang ha sempre negato l’esistenza di questi campi, ma molte sono le testimonianze di carcerieri e detenuti salvatisi dalle torture. Inoltre,si legge nel rapporto ONU, alcune chiare immagini satellitari provano la loro esistenza e la loro operatività ancora oggi. Solo il numero di detenuti sembra essere per fortuna diminuito anche a causa dei decessi e delle scarcerazioni. Una stima approssimativa ci parla di 90 mila persone attualmente detenute in quattro grandi campi di prigionia politica.
La Commissione Onu attraverso il proprio rapporto sulla Corea del Nord raccomanda al Consiglio di sicurezza di rinviare il regime coreano alla Corte penale internazionale o di istituire un Tribunale speciale ad hoc per chiarire giuridicamente le responsabilità. La Corea del Nord ha rifiutato e respinto sia le accuse sia la legittimità del lavoro della Commissione ritendolo frutto di illazioni e testimonianze false. Pyongyang sostiene che il rapporto sia basato su informazioni non attendibili e soprattutto create apposta da governi nemici come Stati Uniti, Europa e Giappone. La risposta degli Usa è stata rapida e ha sottolineato che grazie al rapporto delle Nazioni Unite finalmente si capisce in maniera chiara e inequivocabile la verità brutale delle violazioni dei diritti umani compiute in Corea del Nord. La segretaria del Dipartimento di Stato Marie Harf ha ribadito che gli Usa spingono affinche il regime coreano intervenga per risolvere il problema e porre fine alle atrocità di questi anni.
Dopo mesi di analisi e ricerche la commissione d’inchiesta Onu sulla violazione dei diritti umani a Pyongyang ha diffuso a Ginevra il proprio rapporto finale e la Corea del Nord è esplicitamente accusata di aver violato a più riprese i diritti umani della propria popolazione. Nel rapporto si parla apertamente di forti «violazioni sistematiche, diffuse e gravi dei diritti umani»,ancora oggi sono diffuse e attuali in Corea del Nord e che in varie situazioni fanno parlare direttamente di crimini contro l’umanità. Si tratta di un rapporto ufficiale di circa 300 pagine nato da circa sei mesi di indagini diplomatiche e testimonianze dirette e ben racconta l’inferno dei campi di prigionia e le persone scomparse anche all’estero, senza dimenticare il sistema di controllo ed indottrinamento delle menti fatto dal regime e il rigido monopolio del cibo imposto alla popolazione. Pyongyang non ha concesso l’accesso al Paese alla commissione di inchiesta, nata da una risoluzione approvata il 21 marzo 2013 dal Consiglio Onu dei diritti umani. E' una commissione formata da tre importanti esperti, la commissione ha compiuto l'inchiesta e tramite interviste di vittime e testimoni all’estero in condizioni di totale riservatezza per non causare pericoli per i soggetti,è giunta al proprio parere.
L'atteggiamento dei paesi orientali è sempre molto rigido sul tema dei diritti umani.Anche la Cina ha negato l’accesso alla Commissione mesi orsono facendo ipotizzare anche qui il timore di violazioni notevoli ai danni dei cittadini.Tornando alla Corea la Commissione evidenzia che per decenni centinaia di migliaia di prigionieri politici sono morti nei campi di prigionia della Corea del Nord,senza lasciare testimonianze. Le persone nei campi vengono eliminate con azioni impostate sulla fame, lavori forzati, esecuzioni, tortura, stupri, aborti forzati e infanticidio. Sono vere atrocità che i detenuti di questi campi di prigionia politica, detti «kwanliso» sopportano da anni e che non hanno nulla in meno agli orrori commessi nei campi nazisti del XX secolo. Il regime di Pyongyang ha sempre negato l’esistenza di questi campi, ma molte sono le testimonianze di carcerieri e detenuti salvatisi dalle torture. Inoltre,si legge nel rapporto ONU, alcune chiare immagini satellitari provano la loro esistenza e la loro operatività ancora oggi. Solo il numero di detenuti sembra essere per fortuna diminuito anche a causa dei decessi e delle scarcerazioni. Una stima approssimativa ci parla di 90 mila persone attualmente detenute in quattro grandi campi di prigionia politica.
La Commissione Onu attraverso il proprio rapporto sulla Corea del Nord raccomanda al Consiglio di sicurezza di rinviare il regime coreano alla Corte penale internazionale o di istituire un Tribunale speciale ad hoc per chiarire giuridicamente le responsabilità. La Corea del Nord ha rifiutato e respinto sia le accuse sia la legittimità del lavoro della Commissione ritendolo frutto di illazioni e testimonianze false. Pyongyang sostiene che il rapporto sia basato su informazioni non attendibili e soprattutto create apposta da governi nemici come Stati Uniti, Europa e Giappone. La risposta degli Usa è stata rapida e ha sottolineato che grazie al rapporto delle Nazioni Unite finalmente si capisce in maniera chiara e inequivocabile la verità brutale delle violazioni dei diritti umani compiute in Corea del Nord. La segretaria del Dipartimento di Stato Marie Harf ha ribadito che gli Usa spingono affinche il regime coreano intervenga per risolvere il problema e porre fine alle atrocità di questi anni.
Venezuela.Rivolta e sangue per le strade.
di Ilenia Marini
Giorni di proteste e scontri nel paese sud-americano.
La tensione sociale continua ad essere molto alta in Venezuela in questi ultimi giorni. Le forze di polizia e i gruppi di manifestanti sono arrivati già varie volte allo scontro in piazza in varie città del paese e addirittura ieri un manifestante sostenitore del presidente in carica Nicolas Maduro è stato ucciso. E’ la vittima numero sei degli ultimi cinque giorni. Per non parlare del numero di feriti sempre in crescita costante dall’inizio delle agitazioni fino ad oggi. Da quando Maduro è stato scelto come presidente del paese queste sono le proteste più gravi da parte della popolazione, ma l’attenzione dei media è aumentata negli ultimi giorni quando sono stati assassinati tre manifestanti del movimento Libertad e Iusticia. La paura di tutti è che la tensione e la violenza continuino a crescere senza sosta soprattutto da quando i partiti estremisti e di opposizione a Maduro hanno annunciato di volere cavalcare le rivolte studentesche con il rischio di dare ad esse connotazioni politiche e quindi approfittando della situazione muovere un duro attacco al partito stesso di Maduro.
Il presidente,succeduto a Hugo Chavez alla guida del Venezuela, accusa i manifestanti di lasciarsi facilmente manipolare,anche dagli stessi USA, che a suo parere sarebbero contrari alla sua politica socialista e avrebbero boicottato anche il suo recente accordo con il leader dell’opposizione Capriles Radonski. Ma Obama ha a più riprese sottolineato che gli USA non hanno alcun interesse a mettere becco nelle questioni venezuelane. Venendo ai motivi delle proteste di questi giorni,i gruppi di manifestazione evidenziano accuse forti verso Maduro e lo invitano a dimettersi poiché responsabile insieme allo Stato Maggiore del suo esercito di crimini violenti,uniti a fallimenti politici come l’alta inflazione, la penuria di beni di prima necessità come latte e caffè, e la dura repressione degli oppositori. In effetti la situazione economica del paese è molto critica: il dato inflazione sarebbe al 55%, una vera enormità. Anche il livello di criminalità è cresciuto di molto,nel solo 2013 gli omicidi sono stati 23.700, quasi un morto ogni 30 minuti. Anche le libertà civili,compresa quella di stampa è stata spesso in pericolo.
Mercoledi è stato poi un giorno di durissimi scontri soprattutto nella zona delle Ande presso Tachira e Merida, e anche la stessa capitale, Caracas, ha subito veri momenti di violenza estrema per le strade, con tanti feriti e contusi. Una parte dei manifestanti accusa l’esercito di reazioni violentissime, due ventenni infatti hanno rivelato al quotidiano nazionale El Pais di essere stati malmenati e tenuti tre giorni in carcere senza motivazione,per poi giungere dinanzi al giudice. Discorso diverso è quello che riguarda il capo della rivolta, Leopoldo Lopez, che trascorsi sei giorni di latitanza è stato arrestato e ora rischia 10 anni di carcere per terrorismo e omicidio. Membri del partito socialista di Madura affermano che Lopez sia stato corrotto dall’opposizione politica e incentivato a dare il via ad una rivolta di “matrice fascista” contro il presidente. Quale sia la verità è duro saperlo. Una cosa è certa,le strade venezuelane si riempiono di odio e sangue in questi ultimi giorni invernali.
La tensione sociale continua ad essere molto alta in Venezuela in questi ultimi giorni. Le forze di polizia e i gruppi di manifestanti sono arrivati già varie volte allo scontro in piazza in varie città del paese e addirittura ieri un manifestante sostenitore del presidente in carica Nicolas Maduro è stato ucciso. E’ la vittima numero sei degli ultimi cinque giorni. Per non parlare del numero di feriti sempre in crescita costante dall’inizio delle agitazioni fino ad oggi. Da quando Maduro è stato scelto come presidente del paese queste sono le proteste più gravi da parte della popolazione, ma l’attenzione dei media è aumentata negli ultimi giorni quando sono stati assassinati tre manifestanti del movimento Libertad e Iusticia. La paura di tutti è che la tensione e la violenza continuino a crescere senza sosta soprattutto da quando i partiti estremisti e di opposizione a Maduro hanno annunciato di volere cavalcare le rivolte studentesche con il rischio di dare ad esse connotazioni politiche e quindi approfittando della situazione muovere un duro attacco al partito stesso di Maduro.
Il presidente,succeduto a Hugo Chavez alla guida del Venezuela, accusa i manifestanti di lasciarsi facilmente manipolare,anche dagli stessi USA, che a suo parere sarebbero contrari alla sua politica socialista e avrebbero boicottato anche il suo recente accordo con il leader dell’opposizione Capriles Radonski. Ma Obama ha a più riprese sottolineato che gli USA non hanno alcun interesse a mettere becco nelle questioni venezuelane. Venendo ai motivi delle proteste di questi giorni,i gruppi di manifestazione evidenziano accuse forti verso Maduro e lo invitano a dimettersi poiché responsabile insieme allo Stato Maggiore del suo esercito di crimini violenti,uniti a fallimenti politici come l’alta inflazione, la penuria di beni di prima necessità come latte e caffè, e la dura repressione degli oppositori. In effetti la situazione economica del paese è molto critica: il dato inflazione sarebbe al 55%, una vera enormità. Anche il livello di criminalità è cresciuto di molto,nel solo 2013 gli omicidi sono stati 23.700, quasi un morto ogni 30 minuti. Anche le libertà civili,compresa quella di stampa è stata spesso in pericolo.
Mercoledi è stato poi un giorno di durissimi scontri soprattutto nella zona delle Ande presso Tachira e Merida, e anche la stessa capitale, Caracas, ha subito veri momenti di violenza estrema per le strade, con tanti feriti e contusi. Una parte dei manifestanti accusa l’esercito di reazioni violentissime, due ventenni infatti hanno rivelato al quotidiano nazionale El Pais di essere stati malmenati e tenuti tre giorni in carcere senza motivazione,per poi giungere dinanzi al giudice. Discorso diverso è quello che riguarda il capo della rivolta, Leopoldo Lopez, che trascorsi sei giorni di latitanza è stato arrestato e ora rischia 10 anni di carcere per terrorismo e omicidio. Membri del partito socialista di Madura affermano che Lopez sia stato corrotto dall’opposizione politica e incentivato a dare il via ad una rivolta di “matrice fascista” contro il presidente. Quale sia la verità è duro saperlo. Una cosa è certa,le strade venezuelane si riempiono di odio e sangue in questi ultimi giorni invernali.
Bomba in Egitto.Cinque morti accertati.
di Ilenia Marini
Ennesimo attentato kamikaze.Si attendono rivendicazioni.
Ieri una strage si è avuta nella penisola del Sinai in Egitto al confine con lo Stato di Israele in particolare nella zona della valle di Taba vicino al Mar Rosso. Qui una forte esplosione ha causato cinque morti nello specifico quattro turisti sudcoreani e un egiziano che guidava l’autobus. Alcune fonti del ministero degli interni egiziano svelano che proprio nel mezzo son ostati ritrovati resti di un corpo umano e ciò farebbe pensare ad un kamikaze. La notizia è stata ribadita anche dalla polizia cittadina sempre nella giornata di ieri e anche i militari israeliani confermano il tutto anche se il loro transito in Sinai è impedito lungo il confine. Secondo alcune fonti l’autobus con i turisti era di ritorno da un monastero ed era diretto in Israele.
Sull’autobus erano presenti ben 35 turisti di questi come detto quattro sono deceduti,29 i feriti di cui 14 in gravissime condizioni. Gli inquirenti hanno iniziato le loro ricostruzioni dell’accaduto ma i mezzi di informazioni rivelano dettagli contrastanti tanto da rendere impossibile un’ipotesi certa sul fatto. Alcuni testimoni affermano che il mezzo da Israele era diretto verso il Sinai altri invece il contrario e che verso la frontiera di Taba esplosione si sia manifestata nella sua evidenza. Dalle parole del portavoce della polizia del Cairo si percepisce che il gesto sarebbe stato opera di un attentatore suicida fattosi esplodere sul mezzo. Altra ipotesi,meno confermata,sarebbe quella di un missile lanciato verso l’autobus o addirittura una vera bomba collocata sulla strada ed azionata con un comando a distanza.
Sul luogo dell’attentato sono numerosi i mezzi di tecnici della sicurezza e dell’esercito. Anche l’Unità di crisi della Farnesina si è fin da subito attivata per analizzare la vicenda e capire se vi siano connazionali coinvolti nell’esplosione del bus turistico. Fino ad oggi non vi sono notizie in tal senso e non vi sarebbero italiani presenti sul bus anche se ulteriori ed approfonditi controlli sarebbero ancora in corso,stando ad un recente comunicato della Farnesina.Solo alla fine delle verifiche si potrà effettivamente avere certezza sull’assenza di italiani coinvolti.
Ieri una strage si è avuta nella penisola del Sinai in Egitto al confine con lo Stato di Israele in particolare nella zona della valle di Taba vicino al Mar Rosso. Qui una forte esplosione ha causato cinque morti nello specifico quattro turisti sudcoreani e un egiziano che guidava l’autobus. Alcune fonti del ministero degli interni egiziano svelano che proprio nel mezzo son ostati ritrovati resti di un corpo umano e ciò farebbe pensare ad un kamikaze. La notizia è stata ribadita anche dalla polizia cittadina sempre nella giornata di ieri e anche i militari israeliani confermano il tutto anche se il loro transito in Sinai è impedito lungo il confine. Secondo alcune fonti l’autobus con i turisti era di ritorno da un monastero ed era diretto in Israele.
Sull’autobus erano presenti ben 35 turisti di questi come detto quattro sono deceduti,29 i feriti di cui 14 in gravissime condizioni. Gli inquirenti hanno iniziato le loro ricostruzioni dell’accaduto ma i mezzi di informazioni rivelano dettagli contrastanti tanto da rendere impossibile un’ipotesi certa sul fatto. Alcuni testimoni affermano che il mezzo da Israele era diretto verso il Sinai altri invece il contrario e che verso la frontiera di Taba esplosione si sia manifestata nella sua evidenza. Dalle parole del portavoce della polizia del Cairo si percepisce che il gesto sarebbe stato opera di un attentatore suicida fattosi esplodere sul mezzo. Altra ipotesi,meno confermata,sarebbe quella di un missile lanciato verso l’autobus o addirittura una vera bomba collocata sulla strada ed azionata con un comando a distanza.
Sul luogo dell’attentato sono numerosi i mezzi di tecnici della sicurezza e dell’esercito. Anche l’Unità di crisi della Farnesina si è fin da subito attivata per analizzare la vicenda e capire se vi siano connazionali coinvolti nell’esplosione del bus turistico. Fino ad oggi non vi sono notizie in tal senso e non vi sarebbero italiani presenti sul bus anche se ulteriori ed approfonditi controlli sarebbero ancora in corso,stando ad un recente comunicato della Farnesina.Solo alla fine delle verifiche si potrà effettivamente avere certezza sull’assenza di italiani coinvolti.
Bosnia.Tensione e violenze in varie città.
di Ilenia Marini
Giorni di caos in terra bosniaca.Come mai?
In questi giorni c’è grande tensione nelle terre dell’ex Jugoslavia,in particolare in Bosnia-Erzegovina dove si contano almeno 220 feriti e circa venti arresti in seguito alle violente manifestazioni tenutesi in alcune città bosniache come Tuzla, Sarajevo e Zenica, nei pressi dei palazzi in cui hanno sede le istituzioni politiche. Fonti affidabili evidenziano che in pochi giorni sono circa trenta le città in cui le proteste sono divampate contro i politici nazionali e locali accusati di non fare nulla per combattere la crescente crisi economica e di essere letteralmente malati di corruzione ai massimi livelli. I manifestanti più violenti non accettano confronti con una controparte corrotta e ieri hanno dato alle fiamme la sede del Governo regionale di Sarajevo. I sindacati estremisti sono i capi-popolo della protesta soprattutto perché proprio gli operai sarebbero la classe sociale più vessata dalla cavalcante crisi industriale che ha portato al fallimento numerose aziende recentemente privatizzate con procedure non sempre trasparenti e molto dubbie.
A Tuzla la folla ha assalito il palazzo governativo locale, entrati negli uffici i manifestanti hanno defenestrato documenti,scrivanie e computer e danneggiato alcune strutture interne. A Sarajevo invece, come detto, è stato hanno appiccato il fuoco al palazzo della presidenza regionale in pieno centro. I vigili del fuoco hanno passato ore davvero tremende per intervenire velocemente e spegnere le fiamme, mentre la polizia ha attaccato i manifestanti,ferendone molti e arrestando i più violenti. Per ciò che attiene ai motivi delle proteste è indubbio che in Bosnia ogni qualvolta vi siano situazioni di crisi e tensione come in questo caso,si fa sempre viva una matrice di natura etnica. Ma si tratta senza’altro di un ragionamento sbagliato. Le rivolte infatti hanno preso piede in città in larga misura a maggioranza musulmana. L’unica eccezione è stata la città di Mostar, dove i croati sono in lieve maggioranza. Ma comunque le proteste sono circoscritte nei territori della Federacija Bosne i Hercegovine, ovvero l’istituzione croato-musulmana del paese.
Nella zona serba dello Stato invece non si è verificato nulla di grave. Quello che lascia pensare e riflettere invece è la modalità con cui la protesta si sia rapidamente diffusa nelle varie e città e anche le tecniche di assalto contemporaneo ai palazzi del potere. E’ sembrato rivivere una specie di riedizione di natura bosniaca della medesima modalità di assalto usata mesi fa dai manifestanti in Ucraina, con relative occupazioni degli edifici governativi a Kiev e in periferia. Il dubbio che serpeggia è che forse dietro alle proteste possa esserci una regia unica. Se fosse così è davvero difficile scoprire chi o cosa si nasconda dietro. Una motivazione elettorale verso le prossime elezioni di ottobre? Oppure la chiara volontà di portare alla caduta i partiti politici tradizionali nella zona?Se così fosse il popolo bosniaco verrebbe ancora una volta raggirato ed usato per scopi altrui,sostituendo una corrotta classe politica con una nuova classe di politici senza scrupoli e pronti a tutto pur di riprendersi il potere perduto dopo la guerra civile.
In questi giorni c’è grande tensione nelle terre dell’ex Jugoslavia,in particolare in Bosnia-Erzegovina dove si contano almeno 220 feriti e circa venti arresti in seguito alle violente manifestazioni tenutesi in alcune città bosniache come Tuzla, Sarajevo e Zenica, nei pressi dei palazzi in cui hanno sede le istituzioni politiche. Fonti affidabili evidenziano che in pochi giorni sono circa trenta le città in cui le proteste sono divampate contro i politici nazionali e locali accusati di non fare nulla per combattere la crescente crisi economica e di essere letteralmente malati di corruzione ai massimi livelli. I manifestanti più violenti non accettano confronti con una controparte corrotta e ieri hanno dato alle fiamme la sede del Governo regionale di Sarajevo. I sindacati estremisti sono i capi-popolo della protesta soprattutto perché proprio gli operai sarebbero la classe sociale più vessata dalla cavalcante crisi industriale che ha portato al fallimento numerose aziende recentemente privatizzate con procedure non sempre trasparenti e molto dubbie.
A Tuzla la folla ha assalito il palazzo governativo locale, entrati negli uffici i manifestanti hanno defenestrato documenti,scrivanie e computer e danneggiato alcune strutture interne. A Sarajevo invece, come detto, è stato hanno appiccato il fuoco al palazzo della presidenza regionale in pieno centro. I vigili del fuoco hanno passato ore davvero tremende per intervenire velocemente e spegnere le fiamme, mentre la polizia ha attaccato i manifestanti,ferendone molti e arrestando i più violenti. Per ciò che attiene ai motivi delle proteste è indubbio che in Bosnia ogni qualvolta vi siano situazioni di crisi e tensione come in questo caso,si fa sempre viva una matrice di natura etnica. Ma si tratta senza’altro di un ragionamento sbagliato. Le rivolte infatti hanno preso piede in città in larga misura a maggioranza musulmana. L’unica eccezione è stata la città di Mostar, dove i croati sono in lieve maggioranza. Ma comunque le proteste sono circoscritte nei territori della Federacija Bosne i Hercegovine, ovvero l’istituzione croato-musulmana del paese.
Nella zona serba dello Stato invece non si è verificato nulla di grave. Quello che lascia pensare e riflettere invece è la modalità con cui la protesta si sia rapidamente diffusa nelle varie e città e anche le tecniche di assalto contemporaneo ai palazzi del potere. E’ sembrato rivivere una specie di riedizione di natura bosniaca della medesima modalità di assalto usata mesi fa dai manifestanti in Ucraina, con relative occupazioni degli edifici governativi a Kiev e in periferia. Il dubbio che serpeggia è che forse dietro alle proteste possa esserci una regia unica. Se fosse così è davvero difficile scoprire chi o cosa si nasconda dietro. Una motivazione elettorale verso le prossime elezioni di ottobre? Oppure la chiara volontà di portare alla caduta i partiti politici tradizionali nella zona?Se così fosse il popolo bosniaco verrebbe ancora una volta raggirato ed usato per scopi altrui,sostituendo una corrotta classe politica con una nuova classe di politici senza scrupoli e pronti a tutto pur di riprendersi il potere perduto dopo la guerra civile.
Esercito egiziano contro gli islamisti.
di Ilenia Marini
Duro atto di repressione contro cellule terroristiche.
In Egitto,precisamente nelle penisiola del Sinai,lungo il confine con lo Stato d'Israele,ieri l'esercito egiziano ha compiuto un violento rastrellamento nei villaggi lungo la valle e ben 32 terroristi islamici,almeno così si ipotizza,sono stati trucidati senza pietà. Un vero blitz militare che ha coinvolto i villaggi di Rafah e Cheikh Zowayyed e che all'inizio era finalizzato solo all'arresto di sospettati di terrorismo ma che si è poi trasformato in una vera carneficina.Dodici abitazioni inoltre sono state rase al suolo sospettate di aver dato rifugio agli islamisti. Solo 13 sono state le persone arrestate con il sospetto di essere membri di sezioni periferiche di Al Qaeda. Adesso la situazione è davvero molto tesa in Egitto e si sospettano ritorsioni e rappresaglie dei terroristi nelle zone turistiche ed affollate del paese. Il caos era scoppiato già il mese scorso quando l'esercito regolare egiziano nella settimana di scontri in piazza con i Fratelli Musulmani, aveva reagito a colpi di fucile uccidendo circa 26 manifestanti anche se i dati non sono certi ancora.Nelle proteste erano presenti membri di al-Sisi, una violenta organizzazione terroristica, queste sono state le parole di spiegazione giunte dal ministero degli interni del Cairo.
Proprio nella capitale egiziano domani ci sarà una nuova udienza del processo contro l'ex presidente Morsi e si temono altri scontri in piazza tra esercito e sostenitori dell'imputato,tra cui proprio il gruppo dei Fratelli Musulmani.Intanto, ieri, il ministro degli Esteri egiziano Fahmy ha incontrato il suo analogo italiano Emma Bonino, alla Farnesina. Un incontro nel quale il politico egiziano ha rassicurato l'Italia e l'Unione Europea sulla situazione interna e ha sottolineato come anche i diritti delle opposizioni sono e saranno sempre garantiti dal nuovo Parlamento egiziano. Quindi si è affrontato anche il tema di un nuovo accordo di collaborazione ed aiuti dell'Italia stessa al nuovo Egitto liberato dal giogo del vecchio dittatore Mubarak anche se si tratta per ora solo di ipotesi.
Grande affinità c'è stata inoltre su argomenti scottanti e complessi come la crisi siriana e la situazione generale del Nord Africa. L'Egitto si è detto pronto ad appoggiare l'azione diplomatica del Segretario di Stato americano John Kerry sul conflitto israelo- palestinese. Infine la settimana prossima è stato confermato l'invito dello Stato Egiziano per partecipare al dibattito di intermediazione nella Conferenza sulla Libia che si terrà a Roma tra il 16-19 marzo.L'Egitto sta molto a cuore all'Italia tanto che il mese scorso si è tenuto il Business Council italo- egiziano, con tanti appuntamenti economici e commerciali tra gli imprenditori dei diversi settori dei due Paesi. Sempre attuale è la possibilità concreta di futuri investimenti italiani nel Paese delle Piramidi, a patto che le tensioni sociali e politiche di questi mesi diminuiscano e permettano al paese di fuoriuscire da un periodo buio e triste.
In Egitto,precisamente nelle penisiola del Sinai,lungo il confine con lo Stato d'Israele,ieri l'esercito egiziano ha compiuto un violento rastrellamento nei villaggi lungo la valle e ben 32 terroristi islamici,almeno così si ipotizza,sono stati trucidati senza pietà. Un vero blitz militare che ha coinvolto i villaggi di Rafah e Cheikh Zowayyed e che all'inizio era finalizzato solo all'arresto di sospettati di terrorismo ma che si è poi trasformato in una vera carneficina.Dodici abitazioni inoltre sono state rase al suolo sospettate di aver dato rifugio agli islamisti. Solo 13 sono state le persone arrestate con il sospetto di essere membri di sezioni periferiche di Al Qaeda. Adesso la situazione è davvero molto tesa in Egitto e si sospettano ritorsioni e rappresaglie dei terroristi nelle zone turistiche ed affollate del paese. Il caos era scoppiato già il mese scorso quando l'esercito regolare egiziano nella settimana di scontri in piazza con i Fratelli Musulmani, aveva reagito a colpi di fucile uccidendo circa 26 manifestanti anche se i dati non sono certi ancora.Nelle proteste erano presenti membri di al-Sisi, una violenta organizzazione terroristica, queste sono state le parole di spiegazione giunte dal ministero degli interni del Cairo.
Proprio nella capitale egiziano domani ci sarà una nuova udienza del processo contro l'ex presidente Morsi e si temono altri scontri in piazza tra esercito e sostenitori dell'imputato,tra cui proprio il gruppo dei Fratelli Musulmani.Intanto, ieri, il ministro degli Esteri egiziano Fahmy ha incontrato il suo analogo italiano Emma Bonino, alla Farnesina. Un incontro nel quale il politico egiziano ha rassicurato l'Italia e l'Unione Europea sulla situazione interna e ha sottolineato come anche i diritti delle opposizioni sono e saranno sempre garantiti dal nuovo Parlamento egiziano. Quindi si è affrontato anche il tema di un nuovo accordo di collaborazione ed aiuti dell'Italia stessa al nuovo Egitto liberato dal giogo del vecchio dittatore Mubarak anche se si tratta per ora solo di ipotesi.
Grande affinità c'è stata inoltre su argomenti scottanti e complessi come la crisi siriana e la situazione generale del Nord Africa. L'Egitto si è detto pronto ad appoggiare l'azione diplomatica del Segretario di Stato americano John Kerry sul conflitto israelo- palestinese. Infine la settimana prossima è stato confermato l'invito dello Stato Egiziano per partecipare al dibattito di intermediazione nella Conferenza sulla Libia che si terrà a Roma tra il 16-19 marzo.L'Egitto sta molto a cuore all'Italia tanto che il mese scorso si è tenuto il Business Council italo- egiziano, con tanti appuntamenti economici e commerciali tra gli imprenditori dei diversi settori dei due Paesi. Sempre attuale è la possibilità concreta di futuri investimenti italiani nel Paese delle Piramidi, a patto che le tensioni sociali e politiche di questi mesi diminuiscano e permettano al paese di fuoriuscire da un periodo buio e triste.
Continua la violenta politica di Kim Jong.
di Ilenia Marini
Il nuovo dittatore nordcoreano non garantisce stabilità.
Tempi duri e cupi in Corea del Nord.Davvero complicatissimo sembra riuscire a leggere nella testa del nuovo dittatore Kim Jong Un,succeduto al padre nel 2012.Di recente è giunta la notizia che il presidente coreano avrebbe addirittura condannato a morte lo zio Jang, l’uomo che gli aveva insegnato tutto da giovane ma che sembrava stesse iniziando ad aumentare e molto il proprio carisma politico tra il popolo.Kim Jong era riuscito a sopraffare le resitenze dei suoi generali e ad imporsi come successore del padre. Lo zio Jang Song era un uomo politico molto considerato soprattutto in Cina dove era il principale referente del regime di Pyongyang. Il dittatore coreano ha condannato a morte con specifica sentenza il proprio zio accusandolo di corruzione e in particolare di aver svenduto le risorse minerarie del Paese.Destinatario di questi favori sarebbe proprio il governo cinese unico utilizzatore delle riserve di carbone, ferro e quarzo.
Sempre nell'atto di condanna si legge che Jang Song aveva creato in seno al governo coreano una vera base di potere occulto da contrapporre al regime del nipote in casi particolari. L'anno scorso infatti era accaduta una situazione anomala che faceva pensare come Jang Song fosse in realtà una forte personalità in Corea.Infatti mentre il nipote minacciava di compiere test nucleari a scopo bellico e schierava missili puntati verso la Cina, a Pechino,il presidente cinese Xi Jinping ipotizzava una rimozione di Kim Jong dal suo posto di potere per affidarlo proprio alla zio. Ma tutto si bloccò quando la presunta crisi si risolse per fortuna con un nulla di fatto. Sembra quasi che il nipote si sia legato questo episodio e oggi abbia deciso di far pagare allo zio l'atto di tradimento al regime con gli interessi.Nel frattempo mentre questa lotta dinastica si scatena il paese coreano vive una durissima crisi economica.Il dittatore non si concentra per risorverla ma inaugura piste sciistiche e parchi di divevertimento in zone semi deserte del paese, desidera attirare turisti ma mette in atto politiche molto restrittive verso gli stranieri alla frontiera.
Afferma di voler progettare zone economiche speciali ma poi chiude per 6 mesi la zona gestita dai sudcoreani che dà lavoro a 52mila operai del Nord. Rifiuta contatti con la Comunità Internazionale e con la stessa Casa Bianca, solo l'ambasciatore inglese è riuscito ad incontrarlo una sola volta in due anni dandogli appuntamento sull'aereo presidenziale. Purtroppo le notizia dalla Corea del Nord non sono sempre precisissime a causa delle forti limitazioni ai mass media e ad internet imposte dal dittatore. Di sicuro si sa che questo trentenne controlla con la sua mente poco chiara un vero arsenale nucleare e spesso compare la sua voce alla radio comunicando messaggi imperialistici e aggressivi verso i paesi confinanti.Dopo la morte di Kim Jong Il si era convinti che la situazione in nord Corea potesse migliorare e stabilizzarsi.Errore,il figlio Kim Jong Un sembra avere un approccio ancor più allucinato e autoritario del padre alla politica.
Tempi duri e cupi in Corea del Nord.Davvero complicatissimo sembra riuscire a leggere nella testa del nuovo dittatore Kim Jong Un,succeduto al padre nel 2012.Di recente è giunta la notizia che il presidente coreano avrebbe addirittura condannato a morte lo zio Jang, l’uomo che gli aveva insegnato tutto da giovane ma che sembrava stesse iniziando ad aumentare e molto il proprio carisma politico tra il popolo.Kim Jong era riuscito a sopraffare le resitenze dei suoi generali e ad imporsi come successore del padre. Lo zio Jang Song era un uomo politico molto considerato soprattutto in Cina dove era il principale referente del regime di Pyongyang. Il dittatore coreano ha condannato a morte con specifica sentenza il proprio zio accusandolo di corruzione e in particolare di aver svenduto le risorse minerarie del Paese.Destinatario di questi favori sarebbe proprio il governo cinese unico utilizzatore delle riserve di carbone, ferro e quarzo.
Sempre nell'atto di condanna si legge che Jang Song aveva creato in seno al governo coreano una vera base di potere occulto da contrapporre al regime del nipote in casi particolari. L'anno scorso infatti era accaduta una situazione anomala che faceva pensare come Jang Song fosse in realtà una forte personalità in Corea.Infatti mentre il nipote minacciava di compiere test nucleari a scopo bellico e schierava missili puntati verso la Cina, a Pechino,il presidente cinese Xi Jinping ipotizzava una rimozione di Kim Jong dal suo posto di potere per affidarlo proprio alla zio. Ma tutto si bloccò quando la presunta crisi si risolse per fortuna con un nulla di fatto. Sembra quasi che il nipote si sia legato questo episodio e oggi abbia deciso di far pagare allo zio l'atto di tradimento al regime con gli interessi.Nel frattempo mentre questa lotta dinastica si scatena il paese coreano vive una durissima crisi economica.Il dittatore non si concentra per risorverla ma inaugura piste sciistiche e parchi di divevertimento in zone semi deserte del paese, desidera attirare turisti ma mette in atto politiche molto restrittive verso gli stranieri alla frontiera.
Afferma di voler progettare zone economiche speciali ma poi chiude per 6 mesi la zona gestita dai sudcoreani che dà lavoro a 52mila operai del Nord. Rifiuta contatti con la Comunità Internazionale e con la stessa Casa Bianca, solo l'ambasciatore inglese è riuscito ad incontrarlo una sola volta in due anni dandogli appuntamento sull'aereo presidenziale. Purtroppo le notizia dalla Corea del Nord non sono sempre precisissime a causa delle forti limitazioni ai mass media e ad internet imposte dal dittatore. Di sicuro si sa che questo trentenne controlla con la sua mente poco chiara un vero arsenale nucleare e spesso compare la sua voce alla radio comunicando messaggi imperialistici e aggressivi verso i paesi confinanti.Dopo la morte di Kim Jong Il si era convinti che la situazione in nord Corea potesse migliorare e stabilizzarsi.Errore,il figlio Kim Jong Un sembra avere un approccio ancor più allucinato e autoritario del padre alla politica.
Tunisia.Approvata la Costituzione "laica".
di Ilenia Marini
Un passo decisivo nel processo di modernizzazione arabo.
Ecco uno dei frutti concreti della Primavera Araba tanto vituperata degli ultimi anni.In Tunisia è stata approvata la prima Costituzione realmente democratica del paese.Ieri,in serata, l'Assemblea nazionale costituente (Anc) dopo ben tre anni dalla caduta del regime autoritario di Ben Ali ha votato a maggioranza il nuovo testo costituzionale chiudendo quella fase di transizione iniziata con la famosa Rivoluzione dei Gelsomini. In Tunisia da alcuni mesi si è instaurato un esecutivo tecnico sorto dall'accordo tra gli islamisti di Ennahda, in maggioranza all’assemblea, e le opposizioni.Il nuovo governo dovrà anche stabilire la data per le nuove elezioni sia del Parlamento che presidenziali. Torniamo alla Carta Costituzionale.E' un documento ricco di novità giuridiche per un paese arabo.
Nata soprattutto per impedire che la nazione entrasse in un tunnel di caos dominato dai venti islamici.Innanzitutto la Carta garantirà la parità uomo-donna. L’articolo 20 infatti dichiara l’eguaglianza di diritti e doveri dei due sessi, mentre l’articolo 45 ordina che il governo difenda non solo i diritti delle donne, ma garantisca le pari opportunità in ogni settore della vita,pubblica in primis. Nella nuova Costituzione comunque si è deciso di onorare la natura musulmana della nazione stabilendo che l’Islam sarà la religione di Stato ma viene espressamente vietata la sharia - la legge islamica - come mezzo di disciplina giuridica sul territorio tunisino.
Detto ciò è fondamentale sottolineare che comunque all'art. 56 viene prevista la libertà di fede e di coscienza e viene non più ammessa l'accusa di apostasia. Il presidente tunisino Marzouki ha elogiato la nuova Carta Costituzionale definendola apertamente una vittoria contro la dittatura, aggiungendo però che la strada democratica del paese è ancora lunga e tortuosa.Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha mostrato grande felicità per il passo della Tunisia parlando di grande momento storico per la nazione araba, un vero esempio che dovrebbe divenire un modello da seguire per gli altri popoli arabi che desiderano un percorso riformista. Il testo costituzionale non è stato però esente da critiche.Alcuni seguaci del Partito integralista islamico IHL, da sempre inneggianti alla nascita di un vero califfato islamico, hanno protestato e manifestato in piazza, definendo la nuova Carta, un documento troppo laico che non rispetta per nulla i principi coranici.Era impossibile pretendere assenza di critiche in una zona così difficile e complessa come il mondo arabo ma è innegabile che ci troviamo dinanzi ad un episodio importantissimo.La vera rivoluzione contro l'orrore integralista è iniziata oggi.
Ecco uno dei frutti concreti della Primavera Araba tanto vituperata degli ultimi anni.In Tunisia è stata approvata la prima Costituzione realmente democratica del paese.Ieri,in serata, l'Assemblea nazionale costituente (Anc) dopo ben tre anni dalla caduta del regime autoritario di Ben Ali ha votato a maggioranza il nuovo testo costituzionale chiudendo quella fase di transizione iniziata con la famosa Rivoluzione dei Gelsomini. In Tunisia da alcuni mesi si è instaurato un esecutivo tecnico sorto dall'accordo tra gli islamisti di Ennahda, in maggioranza all’assemblea, e le opposizioni.Il nuovo governo dovrà anche stabilire la data per le nuove elezioni sia del Parlamento che presidenziali. Torniamo alla Carta Costituzionale.E' un documento ricco di novità giuridiche per un paese arabo.
Nata soprattutto per impedire che la nazione entrasse in un tunnel di caos dominato dai venti islamici.Innanzitutto la Carta garantirà la parità uomo-donna. L’articolo 20 infatti dichiara l’eguaglianza di diritti e doveri dei due sessi, mentre l’articolo 45 ordina che il governo difenda non solo i diritti delle donne, ma garantisca le pari opportunità in ogni settore della vita,pubblica in primis. Nella nuova Costituzione comunque si è deciso di onorare la natura musulmana della nazione stabilendo che l’Islam sarà la religione di Stato ma viene espressamente vietata la sharia - la legge islamica - come mezzo di disciplina giuridica sul territorio tunisino.
Detto ciò è fondamentale sottolineare che comunque all'art. 56 viene prevista la libertà di fede e di coscienza e viene non più ammessa l'accusa di apostasia. Il presidente tunisino Marzouki ha elogiato la nuova Carta Costituzionale definendola apertamente una vittoria contro la dittatura, aggiungendo però che la strada democratica del paese è ancora lunga e tortuosa.Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha mostrato grande felicità per il passo della Tunisia parlando di grande momento storico per la nazione araba, un vero esempio che dovrebbe divenire un modello da seguire per gli altri popoli arabi che desiderano un percorso riformista. Il testo costituzionale non è stato però esente da critiche.Alcuni seguaci del Partito integralista islamico IHL, da sempre inneggianti alla nascita di un vero califfato islamico, hanno protestato e manifestato in piazza, definendo la nuova Carta, un documento troppo laico che non rispetta per nulla i principi coranici.Era impossibile pretendere assenza di critiche in una zona così difficile e complessa come il mondo arabo ma è innegabile che ci troviamo dinanzi ad un episodio importantissimo.La vera rivoluzione contro l'orrore integralista è iniziata oggi.
Ancora proteste in Ucraina.Tre morti.
di Ilenia Marini
Prime vittime negli scontri in piazza a Kiev
Dopo ben tre mesi di proteste in piazza, tese e sentite, ieri a Kiev ci sono stati i primi morti. Nonostante il presidente ucraino Ianukovich avesse deciso di tornare sui suoi passi e di non stoppare le procedure di entrata della nazione ex-sovietica nell’Unione Europea,in piazza le manifestazioni non sono mai diminuite e sempre dure negli scontri. L’apice ieri appunto quando due manifestanti trentenni sono rimasti uccisi da colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia per sedare gli scontri in atto da ben due giorni nel quartiere Grushevski, vicino ai palazzi del potere e allo stadio della Dinamo Kiev. Dopo poche ore c’è stato anche un terzo morto quando un giovanissimo manifestante è caduto da una balaustra all’ingresso dello stadio dopo uno spaventoso volo di 20 metri di altezza. Il contatto con la polizia è avvenuto quando le forze dell’ordine su indicazione del ministero sono in loco intervenute per eliminare i sit-in organizzati. Allora i giovani hanno iniziato un fitto lancio di pietre e molotov dinanzi agli agenti che rispondevano invece con lacrimogeni e proiettili di gomma.
La cosa terribile però è che alcuni agenti erano posizionati alla maniera di cecchini e hanno esploso ben 5 colpi tre dei quali andati a segno causando la morte dei due manifestanti. Secondo testimoni sarebbero agenti della «Berkut», la polizia speciale anti-sommossa, che però ha affermato di non essere stata chiamata ad intervenire.La settimana prima di questi violenti scontri era stato il premier Azarov, a minacciare affermando che se le piazze non fossero state liberate dai protestanti solo la forza nell’ambito della legge sarebbe stata la misura da utilizzare. Cosa che appunto è accaduta. La folla è sembrata ancora più inasprirsi dopo queste parole ed infatti la tensione con la polizia era palese già da giorni con autobus dati alle fiamme e pietre verso gli agenti. Fino ad oggi gli ospedali contano ben 2.000 dimostranti medicati e 120 i poliziotti feriti di cui uno gravemente ustionato. Nonostante le proteste continue il governo non accetta dialoghi né con i capi dei movimenti né con le opposizioni in una situazione di stallo che ormai dura da tre mesi.
Lutsenko è il principale capo dei partiti di opposizione, di recente è stato accusato dai suoi di aver avuto riunioni segrete con il presidente Viktor Ianukovich allo scopo di ammorbidire le proteste in cambio di favori e ruoli di potere. In realtà il politico si difende ammettendo di essersi incontrato col presidente ma solo per esporre come mediatore le rivendicazioni dei movimenti in piazza a Kiev. Stessa cosa per l’altro leader dell’opposizione Vitali Klitschko anch’egli recatosi nel Palazzo del Governo per essere ricevuto da Yanukovich ma respinto senza mezzi termini .Adesso con tre morti legate alle proteste le cose cambiano e l’Ucraina è sotto osservazione della Comunità Internazionale.
Dopo ben tre mesi di proteste in piazza, tese e sentite, ieri a Kiev ci sono stati i primi morti. Nonostante il presidente ucraino Ianukovich avesse deciso di tornare sui suoi passi e di non stoppare le procedure di entrata della nazione ex-sovietica nell’Unione Europea,in piazza le manifestazioni non sono mai diminuite e sempre dure negli scontri. L’apice ieri appunto quando due manifestanti trentenni sono rimasti uccisi da colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia per sedare gli scontri in atto da ben due giorni nel quartiere Grushevski, vicino ai palazzi del potere e allo stadio della Dinamo Kiev. Dopo poche ore c’è stato anche un terzo morto quando un giovanissimo manifestante è caduto da una balaustra all’ingresso dello stadio dopo uno spaventoso volo di 20 metri di altezza. Il contatto con la polizia è avvenuto quando le forze dell’ordine su indicazione del ministero sono in loco intervenute per eliminare i sit-in organizzati. Allora i giovani hanno iniziato un fitto lancio di pietre e molotov dinanzi agli agenti che rispondevano invece con lacrimogeni e proiettili di gomma.
La cosa terribile però è che alcuni agenti erano posizionati alla maniera di cecchini e hanno esploso ben 5 colpi tre dei quali andati a segno causando la morte dei due manifestanti. Secondo testimoni sarebbero agenti della «Berkut», la polizia speciale anti-sommossa, che però ha affermato di non essere stata chiamata ad intervenire.La settimana prima di questi violenti scontri era stato il premier Azarov, a minacciare affermando che se le piazze non fossero state liberate dai protestanti solo la forza nell’ambito della legge sarebbe stata la misura da utilizzare. Cosa che appunto è accaduta. La folla è sembrata ancora più inasprirsi dopo queste parole ed infatti la tensione con la polizia era palese già da giorni con autobus dati alle fiamme e pietre verso gli agenti. Fino ad oggi gli ospedali contano ben 2.000 dimostranti medicati e 120 i poliziotti feriti di cui uno gravemente ustionato. Nonostante le proteste continue il governo non accetta dialoghi né con i capi dei movimenti né con le opposizioni in una situazione di stallo che ormai dura da tre mesi.
Lutsenko è il principale capo dei partiti di opposizione, di recente è stato accusato dai suoi di aver avuto riunioni segrete con il presidente Viktor Ianukovich allo scopo di ammorbidire le proteste in cambio di favori e ruoli di potere. In realtà il politico si difende ammettendo di essersi incontrato col presidente ma solo per esporre come mediatore le rivendicazioni dei movimenti in piazza a Kiev. Stessa cosa per l’altro leader dell’opposizione Vitali Klitschko anch’egli recatosi nel Palazzo del Governo per essere ricevuto da Yanukovich ma respinto senza mezzi termini .Adesso con tre morti legate alle proteste le cose cambiano e l’Ucraina è sotto osservazione della Comunità Internazionale.
Nuovo raid di Israele nella Striscia di Gaza.
di Ilenia Marini
L'esercito israeliano attacca Gaza in cerca di jihadisti.
Il delicatissimo e fragile equilibrio creato tra Israele e Palestina sembra divenire sempre più debole. Nei giorni scorsi infatti dalla striscia di Gaza nella zona a sud di Israele era stato lanciato un razzo verso lo Stato ebraico causando un morto e tre feriti. Come reazione quindi ieri l’esercito nazionale di Tel Aviv ha risposto effettuando ben due raid armati sulla Striscia. L’aviazione israeliana su ordine del capo di stato maggiore nel corso della notte di ieri ha compiuto due attacchi verso obiettivi sensibili che formalmente sono stati definiti dalla stampa di parte di natura “terroristica”. La zona colpita è rappresentata da due quartieri dove da anni si concentrano attività terroristiche nel nord e nella zona centrale della Striscia di Gaza. Il ministro della difesa israeliano ha dichiarato che questi due raid specifici erano una risposta all’attività di lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso il sud d’Israele.
Da Gaza i Palestinesi affermano che i raid hanno causato due morti e 20 feriti tutti civili e sono state riprese immagini delle conseguenze con palazzi sventrati e laghi di sangue sulle strade martoriate dalle bombe israeliane. Il Governo di Israele nega che vi siano numerosi civili uccisi e che anzi i raid hanno avuto successo essendo riusciti ad eliminare un terrorista noto coinvolto in attacchi recenti contro Israele.Tale terrorista era un elemento attivo della Jihad e preparava altri attacchi kamikaze contro il popolo ebraico. Nell’ultimo mese questo è il terzo episodio di violenza tra Palestina ed Israele e ormai è opinione comune che l’escalation di violenza possa ricominciare nell’area. I giornali locali non nascondono la paura dello scoppio di nuove battaglie e che ormai sia sull’orlo della rottura il patto di cessate il fuoco stipulato un anno e mezzo fa tra Israele e Hamas per raggiungere il quale anche l’Egitto aveva avuto un ruolo di mediazione diplomatica.
Tornando al terrorista ucciso alcune fonti affermano si tratta di Ahmed Saad, un vero «esponente di spicco» della Jihad islamica palestinese, specializzato nel lancio di razzi. Il Mossad israeliano sottolinea che la vittima sarebbe coinvolta anche nel recente attacco sferrato il 16 gennaio da Gaza contro la città israeliana di Ashqelon. In quell’occasione nell’arco di un’ora i terroristi lanciarono ben sei razzi, per fortuna il sistema di difesa israeliano funzionò bene e 5 razzi furono intercettati senza causare danni a persone e cose. Ora il rischio sembra cominciare di nuovo e la tensione nei rapporti di vicinato torna grandemente a salire.
Il delicatissimo e fragile equilibrio creato tra Israele e Palestina sembra divenire sempre più debole. Nei giorni scorsi infatti dalla striscia di Gaza nella zona a sud di Israele era stato lanciato un razzo verso lo Stato ebraico causando un morto e tre feriti. Come reazione quindi ieri l’esercito nazionale di Tel Aviv ha risposto effettuando ben due raid armati sulla Striscia. L’aviazione israeliana su ordine del capo di stato maggiore nel corso della notte di ieri ha compiuto due attacchi verso obiettivi sensibili che formalmente sono stati definiti dalla stampa di parte di natura “terroristica”. La zona colpita è rappresentata da due quartieri dove da anni si concentrano attività terroristiche nel nord e nella zona centrale della Striscia di Gaza. Il ministro della difesa israeliano ha dichiarato che questi due raid specifici erano una risposta all’attività di lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso il sud d’Israele.
Da Gaza i Palestinesi affermano che i raid hanno causato due morti e 20 feriti tutti civili e sono state riprese immagini delle conseguenze con palazzi sventrati e laghi di sangue sulle strade martoriate dalle bombe israeliane. Il Governo di Israele nega che vi siano numerosi civili uccisi e che anzi i raid hanno avuto successo essendo riusciti ad eliminare un terrorista noto coinvolto in attacchi recenti contro Israele.Tale terrorista era un elemento attivo della Jihad e preparava altri attacchi kamikaze contro il popolo ebraico. Nell’ultimo mese questo è il terzo episodio di violenza tra Palestina ed Israele e ormai è opinione comune che l’escalation di violenza possa ricominciare nell’area. I giornali locali non nascondono la paura dello scoppio di nuove battaglie e che ormai sia sull’orlo della rottura il patto di cessate il fuoco stipulato un anno e mezzo fa tra Israele e Hamas per raggiungere il quale anche l’Egitto aveva avuto un ruolo di mediazione diplomatica.
Tornando al terrorista ucciso alcune fonti affermano si tratta di Ahmed Saad, un vero «esponente di spicco» della Jihad islamica palestinese, specializzato nel lancio di razzi. Il Mossad israeliano sottolinea che la vittima sarebbe coinvolta anche nel recente attacco sferrato il 16 gennaio da Gaza contro la città israeliana di Ashqelon. In quell’occasione nell’arco di un’ora i terroristi lanciarono ben sei razzi, per fortuna il sistema di difesa israeliano funzionò bene e 5 razzi furono intercettati senza causare danni a persone e cose. Ora il rischio sembra cominciare di nuovo e la tensione nei rapporti di vicinato torna grandemente a salire.
Scandalo Hollande: Gayet è l' amante.
di Chiara Ciccone
Il Presidente francese nella bufera per un flirt.
Carolina Kostner conquista la medaglia di bronzo ai mondiali di Budapest, la sua seconda in carriera.L'azzurra ha ottenuto 191, 39 punti superata dalle piccole pattinatrici russe Julia Lipnistkaia di 15 anni che ha vinto l'oro e Adelina Sotnikova argento.
Nell'esibizione Carolina è stata quasi perfetta apparte una caduta nell'eseguire il salto triplo ma ha ottenuto il miglio punteggio per la componente artistica. L'altleta azzurra deve esssere comunque soddisfatta per aver tenuto testa alle due agguerritissime atlete russe.
Per lei questo bronzo è la nona medaglia continentale si aggiunge a cinque ori, due argenti ed un altro bronzo. Per l'Italia è la seconda medaglia agli Europei 2014 di Budapest, dopo l'oro di Anna Cappellini e Luca Lanotte nella danza.
In Francia la notizia di queste settimane è la scoperta della liaison d’amore tra il presidente francese François Hollande e l’attrice Julie Gayet. Un’amante a tutti gli effetti visto che il leader francese è legato da ben 8 anni alla giornalista Valèrie Trierweiler e che veniva regolarmente tradita dal compagno. La notizia di questi giorni è che secondo molte riviste la storia clandestina durava da ben due anni. Due anni di segreti e clandestinità dove i due in albergo consumavano il loro amore. Non solo, la rivista Closer ha le prove che vari sono stati i week-end di passione che la coppia clandestina avrebbe trascorso nel sud della Francia alle spalle dell’ignara Valèrie.
La scoperta della tresca ha costretto Valérie Trierweiler ad un ricovero ospedaliero di tre giorni ma per fortuna adesso sta meglio e fa progressi nell’ospedale di Parigi nel quale è ricoverata, il Pitié Salpêtrière. La first lady francese sarebbe stata ricoverata per una forte crisi nervosa almeno così arrivano notizie dagli uffici presidenziali,una crisi dovuta ovviamente alle conseguenze della scoperta del flirt tra il compagno e l’attrice. Il giornale Le Point afferma che la crisi sarebbe dovuta all’assunzione di troppe pillole calmanti che avrebbero consigliato un ricovero, anche se fonti vicine all’Eliseo smentiscono che si sia trattato di un tentato suicidio,Patrice Biancone, portavoce della premiere dame, in un’intervista ha evidenziato la veridicità della notizia ma che non vi sono né vi saranno complicazioni di alcun genere. Insomma le condizioni della first lady sarebbero notevolmente migliorate.
La scoperta del flirt presidenziale è stata compiuta settimane fa dalla rivista Closer che ieri la concubina Julie Gayet, amante di Hollande appunto, avrebbe citato in tribunale per una somma di 54mila euro per violazione della propria privacy. Non ci sono ancora rivelazioni precise a riguardo da parte di Hollande ma il torbido sembrerebbe farla da padrone nelle stanze apparentemente serie ed austere del Palazzo dell’Eliseo.
Carolina Kostner conquista la medaglia di bronzo ai mondiali di Budapest, la sua seconda in carriera.L'azzurra ha ottenuto 191, 39 punti superata dalle piccole pattinatrici russe Julia Lipnistkaia di 15 anni che ha vinto l'oro e Adelina Sotnikova argento.
Nell'esibizione Carolina è stata quasi perfetta apparte una caduta nell'eseguire il salto triplo ma ha ottenuto il miglio punteggio per la componente artistica. L'altleta azzurra deve esssere comunque soddisfatta per aver tenuto testa alle due agguerritissime atlete russe.
Per lei questo bronzo è la nona medaglia continentale si aggiunge a cinque ori, due argenti ed un altro bronzo. Per l'Italia è la seconda medaglia agli Europei 2014 di Budapest, dopo l'oro di Anna Cappellini e Luca Lanotte nella danza.
In Francia la notizia di queste settimane è la scoperta della liaison d’amore tra il presidente francese François Hollande e l’attrice Julie Gayet. Un’amante a tutti gli effetti visto che il leader francese è legato da ben 8 anni alla giornalista Valèrie Trierweiler e che veniva regolarmente tradita dal compagno. La notizia di questi giorni è che secondo molte riviste la storia clandestina durava da ben due anni. Due anni di segreti e clandestinità dove i due in albergo consumavano il loro amore. Non solo, la rivista Closer ha le prove che vari sono stati i week-end di passione che la coppia clandestina avrebbe trascorso nel sud della Francia alle spalle dell’ignara Valèrie.
La scoperta della tresca ha costretto Valérie Trierweiler ad un ricovero ospedaliero di tre giorni ma per fortuna adesso sta meglio e fa progressi nell’ospedale di Parigi nel quale è ricoverata, il Pitié Salpêtrière. La first lady francese sarebbe stata ricoverata per una forte crisi nervosa almeno così arrivano notizie dagli uffici presidenziali,una crisi dovuta ovviamente alle conseguenze della scoperta del flirt tra il compagno e l’attrice. Il giornale Le Point afferma che la crisi sarebbe dovuta all’assunzione di troppe pillole calmanti che avrebbero consigliato un ricovero, anche se fonti vicine all’Eliseo smentiscono che si sia trattato di un tentato suicidio,Patrice Biancone, portavoce della premiere dame, in un’intervista ha evidenziato la veridicità della notizia ma che non vi sono né vi saranno complicazioni di alcun genere. Insomma le condizioni della first lady sarebbero notevolmente migliorate.
La scoperta del flirt presidenziale è stata compiuta settimane fa dalla rivista Closer che ieri la concubina Julie Gayet, amante di Hollande appunto, avrebbe citato in tribunale per una somma di 54mila euro per violazione della propria privacy. Non ci sono ancora rivelazioni precise a riguardo da parte di Hollande ma il torbido sembrerebbe farla da padrone nelle stanze apparentemente serie ed austere del Palazzo dell’Eliseo.
Torna vivo il vento della Primavera Araba.
di Ilenia Marini
Passano gli anni ma la voglia di libertà resta immutata.
Tre anni fa quando si parlava di primavera araba gioia e grande speranza erano i sentimenti che accomunavano tutti,uomini e donne del mondo arabo. Adesso invece le cose sembrano essere in parte cambiate e nei paesi interessati è la paura e il caos sociale a farla adesso da padrona.Il seme della violenza si è diffuso e adesso domina ogni corteo che in passato risultava pacifico. Un tempo molto breve in cui le manifestazioni in piazze di prima fatte di giovani e donne che inneggiavano alla modernità e alla caduta dei regimi e che suscitavano allegria e forza rivoluzionaria si sono ora tramutate in manifestazioni violente fatte di odio e rancore verso questo o quello avversario politico o peggio ancora etnico. Il vero timore di oggi è che il fanatismo islamico sia in esponenziale aumento in gran parte dei paesi musulmani e che quindi la follia terroristica possa ritrovare quel sostegno popolare pericolosissimo.
I recenti massacri in Siria, la destabilizzazione egiziana, il caos in Yemen, lo sfascio della Libia, ora questa è la realtà che ha soppiantato gli ideali della Primavera araba. Subito dopo le cadute fragorose dei regimi di Tunisia,Libia ed Egitto gli esperti avevano sottolineato il rischio di instabilità politica e sociale connessi alla galoppante crisi economica ed industriale di quei territori.Ed in effetti ciò è accaduto. Sia in Tunisia che in Libia infatti i governi democratici eletti sono stati incapaci di alcuna riforma vera e le classi povere sono rimaste più povere di prima senza alcuna aspirazione. I neolaureati disoccupati restano tali,le donne continuano ad essere vessate e a non emanciparsi.sono zone dove le rivolte popolari per “pane e lavoro” sono di casa. Il livello generale di disoccupazione tocca punti elevatissimi e l’aria che c’è nelle vie delle grandi città è un’ aria pesante di vera sfiducia sociale. Emigrare resta sempre e comunque l’unica strada percorribile per le generazioni future. I gesti drammatici e le violenze sono sempre molti.
Nel settembre 2013 ad esempio a Tunisi è stato assassinato Chokri Belaid, simbolo e politico del Movimento Democratico Patriottico,fautore di uno paese laico e non estremista. In Libia ed Egitto le cellule qaediste proliferano velocemente e di recente anche l’instabile Algeria è divenuta base di numerosi campi di addestramento. La tensione sociale si alimenta anche per l’annoso scontro tra sunniti e sciiti nella regione,un duello atavico in campo politico e rappresentativo con annessti attentati terroristici che mietono vittime civili. Qualche segno di reazione c’è.In Egitto il governo democratico ha deciso di dichiarare fuorilegge il Ansar al-Sharia, uno dei gruppi salafiti più pericolosi che per mesi ha compiuti assassini a matrice politica. Il 2014 è un anno importante poiché in Libia e Tunisia si ipotizza la promulgazione delle nuove costituzioni democratiche,necessarie per garantire la rinascita moderna dei suddetti stati. Molte sono le proposte di legge in chiave liberale sul banco dei parlamenti neo-eletti per ridare speranza e vento di civiltà in una regione caotica e complessa.
Tre anni fa quando si parlava di primavera araba gioia e grande speranza erano i sentimenti che accomunavano tutti,uomini e donne del mondo arabo. Adesso invece le cose sembrano essere in parte cambiate e nei paesi interessati è la paura e il caos sociale a farla adesso da padrona.Il seme della violenza si è diffuso e adesso domina ogni corteo che in passato risultava pacifico. Un tempo molto breve in cui le manifestazioni in piazze di prima fatte di giovani e donne che inneggiavano alla modernità e alla caduta dei regimi e che suscitavano allegria e forza rivoluzionaria si sono ora tramutate in manifestazioni violente fatte di odio e rancore verso questo o quello avversario politico o peggio ancora etnico. Il vero timore di oggi è che il fanatismo islamico sia in esponenziale aumento in gran parte dei paesi musulmani e che quindi la follia terroristica possa ritrovare quel sostegno popolare pericolosissimo.
I recenti massacri in Siria, la destabilizzazione egiziana, il caos in Yemen, lo sfascio della Libia, ora questa è la realtà che ha soppiantato gli ideali della Primavera araba. Subito dopo le cadute fragorose dei regimi di Tunisia,Libia ed Egitto gli esperti avevano sottolineato il rischio di instabilità politica e sociale connessi alla galoppante crisi economica ed industriale di quei territori.Ed in effetti ciò è accaduto. Sia in Tunisia che in Libia infatti i governi democratici eletti sono stati incapaci di alcuna riforma vera e le classi povere sono rimaste più povere di prima senza alcuna aspirazione. I neolaureati disoccupati restano tali,le donne continuano ad essere vessate e a non emanciparsi.sono zone dove le rivolte popolari per “pane e lavoro” sono di casa. Il livello generale di disoccupazione tocca punti elevatissimi e l’aria che c’è nelle vie delle grandi città è un’ aria pesante di vera sfiducia sociale. Emigrare resta sempre e comunque l’unica strada percorribile per le generazioni future. I gesti drammatici e le violenze sono sempre molti.
Nel settembre 2013 ad esempio a Tunisi è stato assassinato Chokri Belaid, simbolo e politico del Movimento Democratico Patriottico,fautore di uno paese laico e non estremista. In Libia ed Egitto le cellule qaediste proliferano velocemente e di recente anche l’instabile Algeria è divenuta base di numerosi campi di addestramento. La tensione sociale si alimenta anche per l’annoso scontro tra sunniti e sciiti nella regione,un duello atavico in campo politico e rappresentativo con annessti attentati terroristici che mietono vittime civili. Qualche segno di reazione c’è.In Egitto il governo democratico ha deciso di dichiarare fuorilegge il Ansar al-Sharia, uno dei gruppi salafiti più pericolosi che per mesi ha compiuti assassini a matrice politica. Il 2014 è un anno importante poiché in Libia e Tunisia si ipotizza la promulgazione delle nuove costituzioni democratiche,necessarie per garantire la rinascita moderna dei suddetti stati. Molte sono le proposte di legge in chiave liberale sul banco dei parlamenti neo-eletti per ridare speranza e vento di civiltà in una regione caotica e complessa.
Attentato a Kabul.Otto vittime accertate.
di Ilenia Marini
Ennesimo atto terroristico dei talebani contro base alleata.
Ieri c'è stata un'ennesima strage a Kabul.Una base militare americana ma utilizzata anche da truppe del nuovo esercito afghano è stata oggetto di un attentato kamikaze; il fatto criminoso è accaduto nel quartiere di Ghanikhel nella provincia orientale di Nagarhar.Ad oggi secondo fonti mediche il bilancio risulterebbe di 8 morti,quattro soldati afghani,un soldato americano della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) e i tre attentatori.La notizia è ufficiale e sarebbe stata comunicata dallo stesso quartier generale Isaf.Anche il vice ministro di Kabul Ahmad Zia Abdulzai ha confermato le caratteristiche dell'attentato precisando che si sarebbe trattato di un’autobomba fatta esplodere nei pressi del cancello di entrata alla base militare e poco prima c'era stato anche un rapido scontro a fuoco tra i terroristi e i militari del corpo afghano.Il vice-ministro ha voluto precisare che tutti gli attentatori sono stati uccisi.
Poche ore dopo una nota dell'amministrazione dell'Isaf ha reso pubblica la notizia che anche un militare straniero era caduto nell'episodio terroristico.Non è mancata la voce di rivendicazione dei talebani.Il portavoce, Zabihullah Mujahid, ha inviato ai media una lettera spiegando la tipologia di attentato e sottolineando a suo avviso che i danni inferti ai nemici invasori siano stati maggiori rispetto a ciò che il governo afghano avrebbe comunicato.Comunque sia quello accaduto è il primo attentato del 2014 in Afghanistan e uno dei pochi inflitti ad una base militare Isaf,può essere che la nuova strategia talebana stia lentamente cambiando,muovendosi non solo verso i nemici americani e dell'esercito afghano ma anche verso le truppe di sostegno internazionale.La politica terrotistica talebana è molto mutata nell'ultimo periodo anche a livello di dinamiche.Per meglio sfuggire ai controlli spesso vengono infatti utilizzati bambini tra i 7 e i 12 anni per la preparazione e la collocazione degli ordigni presso i punti chiave del territorio.
Da settembre ad oggi infatti il governo di Kabul sottolinea che sarebbero circa trenta i minori fermati e poi rilasciati,accusati di avere un ruolo attivo di ausilio a favore dei talebani.A Novembre non bisogna dimenticare poi che la polizia di Kandahar aveva arrestato per la seconda volta due bambini di una decina d’anni pronti ad immolarsi contro un convoglio di truppe straniere. La politica terroristica talebana sta davvero mutando verso l'orrore,verso l'immoralita,senza rispetto neppure della vita di innocenti bambini.A nulla valgono le smentite dei portavoci delle cellule terroristiche.La realtà è questa,ben diversa è terribile.
Ieri c'è stata un'ennesima strage a Kabul.Una base militare americana ma utilizzata anche da truppe del nuovo esercito afghano è stata oggetto di un attentato kamikaze; il fatto criminoso è accaduto nel quartiere di Ghanikhel nella provincia orientale di Nagarhar.Ad oggi secondo fonti mediche il bilancio risulterebbe di 8 morti,quattro soldati afghani,un soldato americano della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) e i tre attentatori.La notizia è ufficiale e sarebbe stata comunicata dallo stesso quartier generale Isaf.Anche il vice ministro di Kabul Ahmad Zia Abdulzai ha confermato le caratteristiche dell'attentato precisando che si sarebbe trattato di un’autobomba fatta esplodere nei pressi del cancello di entrata alla base militare e poco prima c'era stato anche un rapido scontro a fuoco tra i terroristi e i militari del corpo afghano.Il vice-ministro ha voluto precisare che tutti gli attentatori sono stati uccisi.
Poche ore dopo una nota dell'amministrazione dell'Isaf ha reso pubblica la notizia che anche un militare straniero era caduto nell'episodio terroristico.Non è mancata la voce di rivendicazione dei talebani.Il portavoce, Zabihullah Mujahid, ha inviato ai media una lettera spiegando la tipologia di attentato e sottolineando a suo avviso che i danni inferti ai nemici invasori siano stati maggiori rispetto a ciò che il governo afghano avrebbe comunicato.Comunque sia quello accaduto è il primo attentato del 2014 in Afghanistan e uno dei pochi inflitti ad una base militare Isaf,può essere che la nuova strategia talebana stia lentamente cambiando,muovendosi non solo verso i nemici americani e dell'esercito afghano ma anche verso le truppe di sostegno internazionale.La politica terrotistica talebana è molto mutata nell'ultimo periodo anche a livello di dinamiche.Per meglio sfuggire ai controlli spesso vengono infatti utilizzati bambini tra i 7 e i 12 anni per la preparazione e la collocazione degli ordigni presso i punti chiave del territorio.
Da settembre ad oggi infatti il governo di Kabul sottolinea che sarebbero circa trenta i minori fermati e poi rilasciati,accusati di avere un ruolo attivo di ausilio a favore dei talebani.A Novembre non bisogna dimenticare poi che la polizia di Kandahar aveva arrestato per la seconda volta due bambini di una decina d’anni pronti ad immolarsi contro un convoglio di truppe straniere. La politica terroristica talebana sta davvero mutando verso l'orrore,verso l'immoralita,senza rispetto neppure della vita di innocenti bambini.A nulla valgono le smentite dei portavoci delle cellule terroristiche.La realtà è questa,ben diversa è terribile.
Un 2013 di forti cambiamenti nel mondo.
di Ilenia Marini
Dodici mesi intensi e rivoluzionari in molti paesi.
Il 2013 che termina è stato un anno intenso ricco di grandi e piccole rivoluzioni,di cambiamenti forti in varie parti del mondo.Il primo vero cambiamento è stato senza dubbio la decisione di Joseph Ratzinger di rinunciare al pontificato. Un gesto rarissimo che nell’epoca moderna non aveva precedenti. Una decisione dovuta non solo a problemi di salute del pontefice ma anche ai duri contrasti interni alla Santa Seda.Il suo successore è stato il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio, diventato papa col nome di Francesco.Il suo da subito è stato un pontificato incentrato sull’elogio della moderazione e della povertà,un papa vicino ai deboli,più moderno e meno accademico. Il primo papa sudamericano. Un’altra rivoluzione si è avuta nei rapporti tra Iran e Stati Uniti d'America che per trent’anni sono stati nemici ideologici.Nel 2013 Teheran ha chiuso la negativa parentesi di Ahmadinejad eleggendo Hassan Rohani, un politico moderato, sostenitore di Khomeini e poi dell'attuale Guida suprema Khamenei, alla presidenza della Repubblica.
Con lui l’Iran si apre alla modernità e abbandona il piglio aggressivo verso l’esterno. Barack Obama se ne è compiaciuto essendo fin da subito stato molto aperto verso l’Iran.Alla fine si sono gettate le basi per l’accordo attuale sul nucleare.Il 2013 è stato l’anno dell’aggravarsi della crisi siriana. La guerra è oramai al terzo anno e né il regime di Assad né i ribelli sono vicini ad una vera vittoria sul territorio. La rivolta contro il regime di Damasco è stata forte ma disorganizzata,la linea politica dei ribelli è confusa e poco chiara e molte sono le divisioni interne con la crescente presenza di jihadisti vicini alla ala terroristica al Qaeda. La Siria è oggi un vero scacchiere dove giocano molte componenti tipiche dell’universo mediorientale come Iran, Hezbollah e la stessa Russia vicina ad Assad mentre Turchia, Arabia Saudita e Qatar sono pronte a sostenere i ribelli. In Sud-America anche ci sono stati cambiamenti notevoli. In Venezuela è venuto a mancare il leader di sempre,Hugo Chavez, vinto dal cancro, è morto e ha materialmente e politicamente chiuso un'era.
Per più di dieci anni il presidente venezuelano è stato un protagonista notevole della politica mondiale, un vero simbolo dell'America Latina che per la prima volta compiva una svolta in chiave socialista,attento ai bisogni delle classi più umili e capace di creare una strategia politica estera finalmente non succube del volere degli Usa.Piccola rivoluzione poi anche in Uruguay,che nel 2013 è divenuto il primo paese al mondo a legalizzare la produzione, la vendita e il consumo di marijuana. La scelta politica del governo di Montevideo non rivoluzionerà certamente il mercato della droga poiché l'Uruguay è un territorio troppo piccolo, troppo periferico rispetto allo schema latinoamericano per alterare gli equilibri del narcotraffico,ma è un segno importante. Il mondo anche sul tema delle droghe sta iniziando a cambiare.
Il 2013 che termina è stato un anno intenso ricco di grandi e piccole rivoluzioni,di cambiamenti forti in varie parti del mondo.Il primo vero cambiamento è stato senza dubbio la decisione di Joseph Ratzinger di rinunciare al pontificato. Un gesto rarissimo che nell’epoca moderna non aveva precedenti. Una decisione dovuta non solo a problemi di salute del pontefice ma anche ai duri contrasti interni alla Santa Seda.Il suo successore è stato il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio, diventato papa col nome di Francesco.Il suo da subito è stato un pontificato incentrato sull’elogio della moderazione e della povertà,un papa vicino ai deboli,più moderno e meno accademico. Il primo papa sudamericano. Un’altra rivoluzione si è avuta nei rapporti tra Iran e Stati Uniti d'America che per trent’anni sono stati nemici ideologici.Nel 2013 Teheran ha chiuso la negativa parentesi di Ahmadinejad eleggendo Hassan Rohani, un politico moderato, sostenitore di Khomeini e poi dell'attuale Guida suprema Khamenei, alla presidenza della Repubblica.
Con lui l’Iran si apre alla modernità e abbandona il piglio aggressivo verso l’esterno. Barack Obama se ne è compiaciuto essendo fin da subito stato molto aperto verso l’Iran.Alla fine si sono gettate le basi per l’accordo attuale sul nucleare.Il 2013 è stato l’anno dell’aggravarsi della crisi siriana. La guerra è oramai al terzo anno e né il regime di Assad né i ribelli sono vicini ad una vera vittoria sul territorio. La rivolta contro il regime di Damasco è stata forte ma disorganizzata,la linea politica dei ribelli è confusa e poco chiara e molte sono le divisioni interne con la crescente presenza di jihadisti vicini alla ala terroristica al Qaeda. La Siria è oggi un vero scacchiere dove giocano molte componenti tipiche dell’universo mediorientale come Iran, Hezbollah e la stessa Russia vicina ad Assad mentre Turchia, Arabia Saudita e Qatar sono pronte a sostenere i ribelli. In Sud-America anche ci sono stati cambiamenti notevoli. In Venezuela è venuto a mancare il leader di sempre,Hugo Chavez, vinto dal cancro, è morto e ha materialmente e politicamente chiuso un'era.
Per più di dieci anni il presidente venezuelano è stato un protagonista notevole della politica mondiale, un vero simbolo dell'America Latina che per la prima volta compiva una svolta in chiave socialista,attento ai bisogni delle classi più umili e capace di creare una strategia politica estera finalmente non succube del volere degli Usa.Piccola rivoluzione poi anche in Uruguay,che nel 2013 è divenuto il primo paese al mondo a legalizzare la produzione, la vendita e il consumo di marijuana. La scelta politica del governo di Montevideo non rivoluzionerà certamente il mercato della droga poiché l'Uruguay è un territorio troppo piccolo, troppo periferico rispetto allo schema latinoamericano per alterare gli equilibri del narcotraffico,ma è un segno importante. Il mondo anche sul tema delle droghe sta iniziando a cambiare.
Finalmente tutta la verità sull' Area 51.
di Ilenia Marini
Un luogo misterioso ora svelato al mondo.
Il mese scorso il National Security Archive di Washington ha reso disponibile a tutti un documento CIA nel quale il governo statunitense parlava per la prima volta in modo chiaro e diretto dell’Area 51, la celebre e segretissima zona nel deserto del Nevada divenuta nota ovunque poiché secondo i fanatici degli extraterrestri sarebbe la base in cui da anni sono conservati e studiati i corpi di alcuni extraterrestri precipitati sulla Terra e le loro astronavi. Ma muovendoci con molto pragmatismo in realtà la verità sarebbe altro. L’Area 51 sarebbe in realtà una zona missilistica segreta in cui dal dopo guerra in poi sarebbero stati testati numerosi aerei segreti e di tecnologia avanzata alcuni mai resi pubblici ecco perché a volte scambiati per Ufo. Il documento CIA reso pubblico è un atto del 1983 scritto da alcuni analisti e racconterebbe in modo dettagliato il progetto ECO,uno dei più importanti progetti di ricognizione aerea segreta nel periodo della guerra fredda. Il National Security Archive è un ente accademico americano molto antico e avrebbe ottenuto il materiale grazie alla nuova legge Obama sulla libertà di informazione,il Freedom of Information Act.
Secondo il documento CIA l’Area 51 nasce nel 1954 quando alcuni esperti dell’Agenzia di intelligence decisero che quella porzione del deserto del Nevada sarebbe stata perfetta per iniziare a sperimentare un nuovo e segreto tipo di aereo spia chiamato U-2,capace di volare fino a 18 mila metri dal suolo e quindi impossibile da captare tramite radar né da colpire tramite missili terra-aria.Fu proprio grazie agli U-2 che negli anni ’60 furono scoperti a Cuba i missili russi che stavano per far scoppiare la terza guerra mondiale. Il luogo dell’Area 51 fu scelto per la sua segretezza,si trattava di un posto isolato a circa 160 chilometri da Las Vegas, circondato dal deserto e comunque non lontano da un altro sito sempre nel Nevada in cui invece per decenni furono fatti esperimenti nucleari con danni incredibili all’ambiente circostante. Era insomma un posto perfetto secondo la CIA per testare aerei segreti e addestrarne i piloti. Il terreno fu acquistato dall’Agenzia per l’Energia Nucleare e nei documenti si volle dare ad esso un nome formale e burocratico allo scopo di non attirare attenzione dall’esterno e fu scelto quello di Area 51.
Gli addetti ai lavori invece chiamavano la zona in modo quasi cifrato con l’appellativo di Ranch,un nome rimasto sconosciuto fino alla pubblicazione di questo documento. L’importanza della pubblicazione del mese scorso è notevole,è infatti la prima volta che l’amministrazione americana,sempre rigidissima sui protocolli di difesa nazionale,da volontariamente libero accesso ad un proprio documento segreto nel quale in maniera ufficiale la CIA parla dell’Area 51.Jeffrey Richelson, professore e ricercatore presso il National Security Archive ha apertamente parlato di un episodio storico che forse segna la fine ufficiale della segreto e del mistero intorno alla Area 51,con buona pace di tutti gli appassionati di fantascienza e ufologia, rimasti forse leggermente delusi dalla verità.
Il mese scorso il National Security Archive di Washington ha reso disponibile a tutti un documento CIA nel quale il governo statunitense parlava per la prima volta in modo chiaro e diretto dell’Area 51, la celebre e segretissima zona nel deserto del Nevada divenuta nota ovunque poiché secondo i fanatici degli extraterrestri sarebbe la base in cui da anni sono conservati e studiati i corpi di alcuni extraterrestri precipitati sulla Terra e le loro astronavi. Ma muovendoci con molto pragmatismo in realtà la verità sarebbe altro. L’Area 51 sarebbe in realtà una zona missilistica segreta in cui dal dopo guerra in poi sarebbero stati testati numerosi aerei segreti e di tecnologia avanzata alcuni mai resi pubblici ecco perché a volte scambiati per Ufo. Il documento CIA reso pubblico è un atto del 1983 scritto da alcuni analisti e racconterebbe in modo dettagliato il progetto ECO,uno dei più importanti progetti di ricognizione aerea segreta nel periodo della guerra fredda. Il National Security Archive è un ente accademico americano molto antico e avrebbe ottenuto il materiale grazie alla nuova legge Obama sulla libertà di informazione,il Freedom of Information Act.
Secondo il documento CIA l’Area 51 nasce nel 1954 quando alcuni esperti dell’Agenzia di intelligence decisero che quella porzione del deserto del Nevada sarebbe stata perfetta per iniziare a sperimentare un nuovo e segreto tipo di aereo spia chiamato U-2,capace di volare fino a 18 mila metri dal suolo e quindi impossibile da captare tramite radar né da colpire tramite missili terra-aria.Fu proprio grazie agli U-2 che negli anni ’60 furono scoperti a Cuba i missili russi che stavano per far scoppiare la terza guerra mondiale. Il luogo dell’Area 51 fu scelto per la sua segretezza,si trattava di un posto isolato a circa 160 chilometri da Las Vegas, circondato dal deserto e comunque non lontano da un altro sito sempre nel Nevada in cui invece per decenni furono fatti esperimenti nucleari con danni incredibili all’ambiente circostante. Era insomma un posto perfetto secondo la CIA per testare aerei segreti e addestrarne i piloti. Il terreno fu acquistato dall’Agenzia per l’Energia Nucleare e nei documenti si volle dare ad esso un nome formale e burocratico allo scopo di non attirare attenzione dall’esterno e fu scelto quello di Area 51.
Gli addetti ai lavori invece chiamavano la zona in modo quasi cifrato con l’appellativo di Ranch,un nome rimasto sconosciuto fino alla pubblicazione di questo documento. L’importanza della pubblicazione del mese scorso è notevole,è infatti la prima volta che l’amministrazione americana,sempre rigidissima sui protocolli di difesa nazionale,da volontariamente libero accesso ad un proprio documento segreto nel quale in maniera ufficiale la CIA parla dell’Area 51.Jeffrey Richelson, professore e ricercatore presso il National Security Archive ha apertamente parlato di un episodio storico che forse segna la fine ufficiale della segreto e del mistero intorno alla Area 51,con buona pace di tutti gli appassionati di fantascienza e ufologia, rimasti forse leggermente delusi dalla verità.
Siria.I ribelli jihadisti fuori controllo.
di Ilenia Marini
La guerra siriana in un momento di stallo.
Stati Uniti e Regno Unito in questi giorni hanno intrapreso una nuova strada per ciò che attiene alla crisi siriana che ormai da due anni flagella il territorio di Damasco.La scelta congiunta è quella di non fornire più armi non letali ai rivoltosi del Nord del Paese, soprattutto dopo che la milizia jihadista del Fronte Islamico è entrata in possesso la settimana scorsa di una base dell'Esercito libero siriano situata lungo il confine turco meridionale.Dalla Casa Bianca arrivano conferme dopo le indiscrezioni provenienti dagli stessi ribelli siriani.Stop quindi ai rifornimenti e all'assistenza nel Nord della Siria.Ovviamente anche per rispetto del volere della Croce Rossa continueranno ad essere elargiti invece aiuti umanitari e sanitari alla popolazione afflitta.Il motivo di questa decisione sarebbe da ricercare negli scontri che i rivoltosi jihadisti hanno avuto in questi mesi con la coalizione ufficiale dei ribelli aderenti all'Els,scontri non solo politici ma anche armati in varie zone del territorio siriano.
La stessa Turchia per timore di trovarsi coinvolta in una sorta di guerra civile tra ribelli aveva il mese scorso optato per la chiusura del valico Sud che collega Siria e Anatolia.I miliziani jihadisti però continuano nel loro approccio aggressivo alla rivolta anti Assad e hanno a più riprese sottolineato di non sottostare più alle indicazioni troppo morbide che giungerebbero dal Fronte Islamico,indebolendo in questo modo la rappresentatività della coalizione che aveva trovato solido sostegno in vari paesi della zona araba e anche occidentali.L'ambasciata inglese in Turchia ha riferito di recente che la situazione in terra siriana è davvero molto tesa e fluida senza grande chiarezza in chi siano i membri delle milizie jihadiste anti regime.La mancanza di chiarezza e di ordine ha obbligato Londra a stoppare anch'essa le forniture di armi a tali ribelli,in attesa di cambiamenti strategici.
Intanto i rivoltosi del Nord continuano nelle loro offensive anti-Assad che hanno poco di militare e molto di terroristico e che prevedono oltre all'utilizzo di armi pesanti,l'impiego di veicoli riempiti di esplosivo per causare danni multipli alle truppe avversarie con effetti devastanti.I mezzi adoperati spesso prevedono piastre per mettere al riparo il ribelle dai tiri del nemico. E in svariate situazioni anche l'utilizzo di armi e cingolati sottratte al nemico in battaglia.Una tattica più da briganti che da truppe militari.Gli esperti della CIA parlano in Siria di un periodo di «stallo dinamico», in cui si verificano piccole vittorie locali dei due schieramenti ma nessuna vera svolta militare capace di decidere l'esito della rivolta che oramai dura da due anni senza soste.Una rivolta che sta assumendo le caratteristiche della guerriglia terroristica,cosa che non può certo piacere alle super potenze occidentali.
Stati Uniti e Regno Unito in questi giorni hanno intrapreso una nuova strada per ciò che attiene alla crisi siriana che ormai da due anni flagella il territorio di Damasco.La scelta congiunta è quella di non fornire più armi non letali ai rivoltosi del Nord del Paese, soprattutto dopo che la milizia jihadista del Fronte Islamico è entrata in possesso la settimana scorsa di una base dell'Esercito libero siriano situata lungo il confine turco meridionale.Dalla Casa Bianca arrivano conferme dopo le indiscrezioni provenienti dagli stessi ribelli siriani.Stop quindi ai rifornimenti e all'assistenza nel Nord della Siria.Ovviamente anche per rispetto del volere della Croce Rossa continueranno ad essere elargiti invece aiuti umanitari e sanitari alla popolazione afflitta.Il motivo di questa decisione sarebbe da ricercare negli scontri che i rivoltosi jihadisti hanno avuto in questi mesi con la coalizione ufficiale dei ribelli aderenti all'Els,scontri non solo politici ma anche armati in varie zone del territorio siriano.
La stessa Turchia per timore di trovarsi coinvolta in una sorta di guerra civile tra ribelli aveva il mese scorso optato per la chiusura del valico Sud che collega Siria e Anatolia.I miliziani jihadisti però continuano nel loro approccio aggressivo alla rivolta anti Assad e hanno a più riprese sottolineato di non sottostare più alle indicazioni troppo morbide che giungerebbero dal Fronte Islamico,indebolendo in questo modo la rappresentatività della coalizione che aveva trovato solido sostegno in vari paesi della zona araba e anche occidentali.L'ambasciata inglese in Turchia ha riferito di recente che la situazione in terra siriana è davvero molto tesa e fluida senza grande chiarezza in chi siano i membri delle milizie jihadiste anti regime.La mancanza di chiarezza e di ordine ha obbligato Londra a stoppare anch'essa le forniture di armi a tali ribelli,in attesa di cambiamenti strategici.
Intanto i rivoltosi del Nord continuano nelle loro offensive anti-Assad che hanno poco di militare e molto di terroristico e che prevedono oltre all'utilizzo di armi pesanti,l'impiego di veicoli riempiti di esplosivo per causare danni multipli alle truppe avversarie con effetti devastanti.I mezzi adoperati spesso prevedono piastre per mettere al riparo il ribelle dai tiri del nemico. E in svariate situazioni anche l'utilizzo di armi e cingolati sottratte al nemico in battaglia.Una tattica più da briganti che da truppe militari.Gli esperti della CIA parlano in Siria di un periodo di «stallo dinamico», in cui si verificano piccole vittorie locali dei due schieramenti ma nessuna vera svolta militare capace di decidere l'esito della rivolta che oramai dura da due anni senza soste.Una rivolta che sta assumendo le caratteristiche della guerriglia terroristica,cosa che non può certo piacere alle super potenze occidentali.
Putin pensa alla grazia per Khodorkovsky.
di Ilenia Marini
Insolito gesto di clemenza del Presidente russo.
Il grande capo della madre Russia,Vladimir Putin,ieri ha spiazzato molti e ha evidenziato la sua ferma volontà di riconoscere la grazia all'oligarca Mikhail Khodorkovsky,da molti anni in carcere e che solo pochi mesi fa avrebbe tramite i suoi legali deciso di presentare la domanda necessaria per il gesto di clemenza del presidente.La benevolenza di Putin sorprende e non poco soprattutto perchè riguarda l'ex uomo più ricco di Russia Le parole del leader del Cremlino hanno lasciato di stucco gli stessi avvocati dell’ex uomo più ricco di Russia, Khodorkovsky appunto che da due lustri è rinchiuso in cercere per condanne inerenti tradimento e pericolo per lo Stato ma che secondo molti,fu oggetto di un processo mediatico e pilotato allo scopo di isolare l'unica personalità che nei primi anni del potere di Putin poteva minacciare la sua totale leadership sul paese.Comunque sia il Presidente Russo a margine di una conferenza convocato su temi economici ha rivelato di aver ricevuto epslicità richiesta di graziare Khordorkovsky per «motivi umanitari».
Il capo del Cremlino ha sottolineato che il detenuto in questione ha già scontato quasi dieci anni di carcere e quindi la sua domanda avrebbe tutti gli elementi per poter essere soddisfatta. Quello che un pò spiazza dell'intera vicenda è che Khodorkovsky per tutti i dieci anni di carcere ha sempre sostenuto la sua innocenza accusando i giudici di essere manovrati da Mosca nello scopo di silenziare una voce dissidente al regime russo.Ora invece,seconda anche il segretario del Cremlino,implicitamente firmando la domanda di grazia il detenuto ammette la sua colpevolezza e quindi la giusta pene subita.I motivi secondo molti sarebbero legati alle gravi condizioni di salute in cui verserebbe la madre di Khodorkovsky,tali da aver spinto l'ex oligarca a fare un passo indietro e a dichiararsi colpevole pur di uscire dalle galere russe.La vicenda dell'ex oligarca russo è solo uno dei tanti episodi misteriosi capitati durante le varie presidenze Putin in questi anni.Un uomo messo alla gogna e trascinato in carcere per accuse prive di prove evidenti,ma basate su teorie e presunte cospirazioni contro la nazione.
Un uomo la cui fortuna economica è stata smembrata da tasse e sanzioni fino a condurlo al fallimento di molte sue società petrolifere e il mistero si è sempre infittito poichè tutte le peripezie sono partite dal giorno in cui Khodorkovsky decise di scendere in politica e candidarsi come successore di Putin.Un uomo dal consenso e dalle ricchezze molto vaste minacciava troppo la figura e la personalità del Presidente Russo e da quel momento il suo dramma carcerario ha preso il via.Forse la coscienza di Putin ha urlato e gli ha imposto di graziare il nemico acerrimo.Staremo a vedere cosa accadrà in questi giorni a Mosca.
Il grande capo della madre Russia,Vladimir Putin,ieri ha spiazzato molti e ha evidenziato la sua ferma volontà di riconoscere la grazia all'oligarca Mikhail Khodorkovsky,da molti anni in carcere e che solo pochi mesi fa avrebbe tramite i suoi legali deciso di presentare la domanda necessaria per il gesto di clemenza del presidente.La benevolenza di Putin sorprende e non poco soprattutto perchè riguarda l'ex uomo più ricco di Russia Le parole del leader del Cremlino hanno lasciato di stucco gli stessi avvocati dell’ex uomo più ricco di Russia, Khodorkovsky appunto che da due lustri è rinchiuso in cercere per condanne inerenti tradimento e pericolo per lo Stato ma che secondo molti,fu oggetto di un processo mediatico e pilotato allo scopo di isolare l'unica personalità che nei primi anni del potere di Putin poteva minacciare la sua totale leadership sul paese.Comunque sia il Presidente Russo a margine di una conferenza convocato su temi economici ha rivelato di aver ricevuto epslicità richiesta di graziare Khordorkovsky per «motivi umanitari».
Il capo del Cremlino ha sottolineato che il detenuto in questione ha già scontato quasi dieci anni di carcere e quindi la sua domanda avrebbe tutti gli elementi per poter essere soddisfatta. Quello che un pò spiazza dell'intera vicenda è che Khodorkovsky per tutti i dieci anni di carcere ha sempre sostenuto la sua innocenza accusando i giudici di essere manovrati da Mosca nello scopo di silenziare una voce dissidente al regime russo.Ora invece,seconda anche il segretario del Cremlino,implicitamente firmando la domanda di grazia il detenuto ammette la sua colpevolezza e quindi la giusta pene subita.I motivi secondo molti sarebbero legati alle gravi condizioni di salute in cui verserebbe la madre di Khodorkovsky,tali da aver spinto l'ex oligarca a fare un passo indietro e a dichiararsi colpevole pur di uscire dalle galere russe.La vicenda dell'ex oligarca russo è solo uno dei tanti episodi misteriosi capitati durante le varie presidenze Putin in questi anni.Un uomo messo alla gogna e trascinato in carcere per accuse prive di prove evidenti,ma basate su teorie e presunte cospirazioni contro la nazione.
Un uomo la cui fortuna economica è stata smembrata da tasse e sanzioni fino a condurlo al fallimento di molte sue società petrolifere e il mistero si è sempre infittito poichè tutte le peripezie sono partite dal giorno in cui Khodorkovsky decise di scendere in politica e candidarsi come successore di Putin.Un uomo dal consenso e dalle ricchezze molto vaste minacciava troppo la figura e la personalità del Presidente Russo e da quel momento il suo dramma carcerario ha preso il via.Forse la coscienza di Putin ha urlato e gli ha imposto di graziare il nemico acerrimo.Staremo a vedere cosa accadrà in questi giorni a Mosca.
Catalogna.Referendum per l'Indipendenza.
di Ilenia Marini
Episodio storico.La Catalogna chiede al popolo se vuole l'indipendenza.
La regione spagnola della Catalogna,con capoluogo Barcellona per intenderci,ha ottenuto l'approvazione per il suo referendum sull'indipendenza.Un quesito diretto e chiaro: " Volete che la Catalogna sia uno stato indipendente" questa sarà la domanda rivolta ai cittadini residenti nella zona suddetta.Parole storiche,parole rivoluzionarie.Questa è davvero la prima volta che l'unione territoriale della Spagna è seriamente minacciata dai venti indipendetisti sempre esistiti sul territorio ma mai divenuti realtà concreta. Ovviamente il dibattito a riguardo è complesso e lunghissimo e già adesso molti sono i pareri controversi sul tema.Comunque sia la celebre autorità della Generalitat , il governo autonomo con sede a Barcellona, ha deciso e il 9 novembre del 2014 avrà luogo il referendum per l'indipendenza.Questa è la meta politica raggiunta in questi giorni dai partiti catalani, dal centrista Convergencia i Uniò e da Erc, la sinistra radicale, lanciando un vero guanto di sfida alle istituzioni centrali di Madrid,un episodio storico ed importante,senza ombra di dubbio.Il governo della Capitale non ha avuto un atteggiamento positivo sulla questione,anzi.
Secondo i ben informati il Ministro degli Interni di Madrid avrebbe confessato che il 9 novembre non avverrà alcuna consultazione popolare poichè sarebbe illegittima e soprattutto anti-costituzionale.Anche il ministro di giustizia del Partito al potere appoggia questa opinione.La rabbia del governo centrale è molta tanto da arrivare anche a minacciare la Catalogna di ritirare gli enormi spazi di autonomia politica ed economica di cui già goderebbe.Il Presidente del Consiglio spagnolo rifiuta l'idea di una Spagna non unita ed è contrario a questo referendum indipendentista.Una vera battaglia politica quindi si appresta a scoppiare nei prossimi mesi tra Madrid e Catalogna,una guerra istituzionale ma che ugualmente farebbe molto male ad un paese già afflitto da una pesantissima crisi economica.Comunque il rischio di scontri sociali in piazza è elevato; è vero che i catalani hanno sempre manifestato pacificamente le loro rimostranze politiche ma il passaggio a scene di violenza potrebbe essere breve,come l'esperienza dei Paesi Baschi dimostra di recente.
Adesso col referendum tutto cambia.Mai nella storia iberica nessuno aveva osato tanto,nemmeno gli stessi baschi negli anni addietro.La questione diventa delicatissima anche perchè il volere del popolo non può mai essere ignorato da nessun tipo di governo ed istituzione.Questa è la vera paura di Madrid.Anche a livello internazionale il timore inizia a salire.Unione Europea e la Nato hanno dichiarato che monitorano la situazione e che un eventuale nuovo Stato di Catalunya difficilmente potrebbe entrare a far parte delle loro organizzazioni. Cosa accadrà fino al giorno del referendum?
La regione spagnola della Catalogna,con capoluogo Barcellona per intenderci,ha ottenuto l'approvazione per il suo referendum sull'indipendenza.Un quesito diretto e chiaro: " Volete che la Catalogna sia uno stato indipendente" questa sarà la domanda rivolta ai cittadini residenti nella zona suddetta.Parole storiche,parole rivoluzionarie.Questa è davvero la prima volta che l'unione territoriale della Spagna è seriamente minacciata dai venti indipendetisti sempre esistiti sul territorio ma mai divenuti realtà concreta. Ovviamente il dibattito a riguardo è complesso e lunghissimo e già adesso molti sono i pareri controversi sul tema.Comunque sia la celebre autorità della Generalitat , il governo autonomo con sede a Barcellona, ha deciso e il 9 novembre del 2014 avrà luogo il referendum per l'indipendenza.Questa è la meta politica raggiunta in questi giorni dai partiti catalani, dal centrista Convergencia i Uniò e da Erc, la sinistra radicale, lanciando un vero guanto di sfida alle istituzioni centrali di Madrid,un episodio storico ed importante,senza ombra di dubbio.Il governo della Capitale non ha avuto un atteggiamento positivo sulla questione,anzi.
Secondo i ben informati il Ministro degli Interni di Madrid avrebbe confessato che il 9 novembre non avverrà alcuna consultazione popolare poichè sarebbe illegittima e soprattutto anti-costituzionale.Anche il ministro di giustizia del Partito al potere appoggia questa opinione.La rabbia del governo centrale è molta tanto da arrivare anche a minacciare la Catalogna di ritirare gli enormi spazi di autonomia politica ed economica di cui già goderebbe.Il Presidente del Consiglio spagnolo rifiuta l'idea di una Spagna non unita ed è contrario a questo referendum indipendentista.Una vera battaglia politica quindi si appresta a scoppiare nei prossimi mesi tra Madrid e Catalogna,una guerra istituzionale ma che ugualmente farebbe molto male ad un paese già afflitto da una pesantissima crisi economica.Comunque il rischio di scontri sociali in piazza è elevato; è vero che i catalani hanno sempre manifestato pacificamente le loro rimostranze politiche ma il passaggio a scene di violenza potrebbe essere breve,come l'esperienza dei Paesi Baschi dimostra di recente.
Adesso col referendum tutto cambia.Mai nella storia iberica nessuno aveva osato tanto,nemmeno gli stessi baschi negli anni addietro.La questione diventa delicatissima anche perchè il volere del popolo non può mai essere ignorato da nessun tipo di governo ed istituzione.Questa è la vera paura di Madrid.Anche a livello internazionale il timore inizia a salire.Unione Europea e la Nato hanno dichiarato che monitorano la situazione e che un eventuale nuovo Stato di Catalunya difficilmente potrebbe entrare a far parte delle loro organizzazioni. Cosa accadrà fino al giorno del referendum?
In Centro-Africa è scontro sociale.395 morti.
di Ilenia Marini
Disordini sociali stanno sconvolgendo il piccolo stato africano.
Nella Repubblica Centrafricana ex colonia della Francia,la situazione umanitaria comincia a farsi davvero drammatica.Ieri la Croce Rossa ha comunicato nuovi e preoccupanti dati sottolineando che in due giorni di scontri armati e violenze per le strade cittadine è già arrivato a 395 il numero di vittime nella città principale dello Stato, Bangui.Solo venerdi erano 300 i decessi ma ieri ben 95 persone sono state trovate uccise per le strade.La Francia ha deciso di intervenire in prima persona e si vocifera che in settimana invierà vari battaglioni militari per circa 1.500 soldati complessivi,circa 350 in più rispetto alla prima decisione presa dal governo di Parigi.
E' questa una scelta che lo stesso François Hollande ha comunicato in un'affollatissima conferenza stampa all'Eliseo,dinanzi a reporter di tutto il mondo.E' la decisione che la riunione fatta tre giorni orsono sulla crisi centro-africana ha trovato non senza accesi dibattiti.Lo stesso presidente francese ha ammesso che le truppe inviate alloggeranno il tempo utile per mettere in sicurezza l'ex colonia africana e resteranno anche dopo per dare stabilità militare allo Stato.Il Ministero della Difesa francese ha predisposto un programma con la finalità di permettere alla democrazia di tornare nella Repubblica Centrafricana,non senza l'uso della forza armata qualora necessario.
La missione prenderà il nome di operazione Sangaris, ha dichiarato il ministro francese.Secondo lo Stato maggiore il numero di soldati da inviare è necessario per la vastità del territorio e per la conflittualità che si ipotizza in terra africana; nello specifico voleranno in Africa ben sei compagnie oltre a cinque elicotteri di assalto e due di ricognizione.I soldati saranno anche motorizzati con mezzi anfibi e blindati per poter meglio vigilare nelle zone trafficate del paese,soprattutto le vie principali della capitale Bangui.Due infatti sono le strade principali che permettono la comunicazione fra RCA e Ciad settentrionale a questa si aggiunge la superstada che invece collega la nazione al Camerun.La Francia inoltre ha sottolineato che aldilà del suo diretto intervento è auspicabile anche una presenza dell' Unione europea e possibilmente una forma di finanziamento per aiutare il paese a rinascere dopo la fase militare.
Nella Repubblica Centrafricana ex colonia della Francia,la situazione umanitaria comincia a farsi davvero drammatica.Ieri la Croce Rossa ha comunicato nuovi e preoccupanti dati sottolineando che in due giorni di scontri armati e violenze per le strade cittadine è già arrivato a 395 il numero di vittime nella città principale dello Stato, Bangui.Solo venerdi erano 300 i decessi ma ieri ben 95 persone sono state trovate uccise per le strade.La Francia ha deciso di intervenire in prima persona e si vocifera che in settimana invierà vari battaglioni militari per circa 1.500 soldati complessivi,circa 350 in più rispetto alla prima decisione presa dal governo di Parigi.
E' questa una scelta che lo stesso François Hollande ha comunicato in un'affollatissima conferenza stampa all'Eliseo,dinanzi a reporter di tutto il mondo.E' la decisione che la riunione fatta tre giorni orsono sulla crisi centro-africana ha trovato non senza accesi dibattiti.Lo stesso presidente francese ha ammesso che le truppe inviate alloggeranno il tempo utile per mettere in sicurezza l'ex colonia africana e resteranno anche dopo per dare stabilità militare allo Stato.Il Ministero della Difesa francese ha predisposto un programma con la finalità di permettere alla democrazia di tornare nella Repubblica Centrafricana,non senza l'uso della forza armata qualora necessario.
La missione prenderà il nome di operazione Sangaris, ha dichiarato il ministro francese.Secondo lo Stato maggiore il numero di soldati da inviare è necessario per la vastità del territorio e per la conflittualità che si ipotizza in terra africana; nello specifico voleranno in Africa ben sei compagnie oltre a cinque elicotteri di assalto e due di ricognizione.I soldati saranno anche motorizzati con mezzi anfibi e blindati per poter meglio vigilare nelle zone trafficate del paese,soprattutto le vie principali della capitale Bangui.Due infatti sono le strade principali che permettono la comunicazione fra RCA e Ciad settentrionale a questa si aggiunge la superstada che invece collega la nazione al Camerun.La Francia inoltre ha sottolineato che aldilà del suo diretto intervento è auspicabile anche una presenza dell' Unione europea e possibilmente una forma di finanziamento per aiutare il paese a rinascere dopo la fase militare.
Morto Nelson Mandela.Africa in lutto.
di Ilenia Marini
L'eroe della nazione africana è deceduto,ma la sua vita resta un esempio.
Può un mito,un simbolo dell'umanità morire?La risposta è certamente no ed è questo che accadrà al ricordo di Nelson Mandela.Il leader sudafricano si è spento ieri a 95 anni dopo una lunga e dura malattia; da oggi il suo nome entra nella storia.La triste notizia è stata svelata al mondo ieri dall'attuale presidente sudafricano Zuma,che vestito a lutto ha dichiarato che il padre della nazione,l'eroe anti-aparthaid era morto.La sua scomparsa sorpende il mondo intero che gli sarà sempre grato per aver definitivamente abbattuto il triste concetto di segregazione razziale,la sua nazione lo ricorderà come il suo salvatore,colui che permise al Sud-Africa di divenire una nazione moderna.Funerali di Stato e lutto nazionale saranno il dono che il governo Zuma dedicherà oggi al suo leader di sempre.Della vita politica di Mandela si sa tutto ormai,libri e film ne hanno tributato omaggi e onori.La cosa che spesso non si sottolinea abbastanza è che Mandela non solo lottò contro le discriminazioni razziali ma soprattutto non alimentò nè vendetta nè odio verso i bianchi.
La protesta pacifica ed il tentativo di conciliare le parti, questi furono gli strumenti della sua battaglia e questo è il suo grande lascito sulla scia del grande Martin Luther King.Episodi storici come la creazione dei ghetti,il massacro a Soweto nel 1976, o le dure proteste all'African National Congress,sono i simboli della sua lotta all'aparthaid,ciò che di più forte resta nella memoria di chi lo ammirò. Dicevamo che una malattia dolorosa,cioè la tubercolosi che lo colpì fin dai primi anni nella sua lunghissima prigionia presso il carcere di Robben Island,lo ha stroncato dopo quattro anni di peggioramenti continui e sofferenze.Alla dichiarazione del suo decesso migliaia di sostenitori e sudafricani si sono raccolti in preghiera dinanzi alla sua residenza,molte le lacrime ma molti anche i ringraziamenti per le gesta da eroe nazionale fatte da Mandela in difesa del popolo sudafricano e del continente nero nella sua totalità. i leader mondiali hanno da subito voluto esprimere cordoglio.Il primo è stato lo statunitense Barack Obama,che molto provato,ha proferito parole di elogio per un uomo grande,ricco di coraggio,che da solo ha sostenuto il peso di un dolore nazionale.
L'inglese Cameron ha evidenziato il contributo alla modernità e ai diritti civili di Mandela,un vero leader ricco di qualità.Sulla stessa lunghezza anche le parole del segretario dell’Onu Ban Ki-moon e del presidente francese Francois Hollande che di Mandela hanno rimarcato il suo spirito di battaglia affamato di giustizia e di libertà.Il mondo da oggi è più povero,meno sicuro.Uno dei guardiani principali dei diritti,delle uguaglianze e delle libertà umane non c'è più.Non serve piangerlo o semplicemente ricordarlo,le sue gesta e le sue battaglie vanno portate avanti,vanno perseguite con forza e va impedito,nel mondo,che una tragedia nazionale come l'aparthaid possa mai più ripetersi.Questo è il miglior modo per rendere immortale la vita coraggiosa di un leader di tutti,il leader di un continente intero.In questa maniera resterà per sempre l'insegnamento di Nelson Mandela.
Può un mito,un simbolo dell'umanità morire?La risposta è certamente no ed è questo che accadrà al ricordo di Nelson Mandela.Il leader sudafricano si è spento ieri a 95 anni dopo una lunga e dura malattia; da oggi il suo nome entra nella storia.La triste notizia è stata svelata al mondo ieri dall'attuale presidente sudafricano Zuma,che vestito a lutto ha dichiarato che il padre della nazione,l'eroe anti-aparthaid era morto.La sua scomparsa sorpende il mondo intero che gli sarà sempre grato per aver definitivamente abbattuto il triste concetto di segregazione razziale,la sua nazione lo ricorderà come il suo salvatore,colui che permise al Sud-Africa di divenire una nazione moderna.Funerali di Stato e lutto nazionale saranno il dono che il governo Zuma dedicherà oggi al suo leader di sempre.Della vita politica di Mandela si sa tutto ormai,libri e film ne hanno tributato omaggi e onori.La cosa che spesso non si sottolinea abbastanza è che Mandela non solo lottò contro le discriminazioni razziali ma soprattutto non alimentò nè vendetta nè odio verso i bianchi.
La protesta pacifica ed il tentativo di conciliare le parti, questi furono gli strumenti della sua battaglia e questo è il suo grande lascito sulla scia del grande Martin Luther King.Episodi storici come la creazione dei ghetti,il massacro a Soweto nel 1976, o le dure proteste all'African National Congress,sono i simboli della sua lotta all'aparthaid,ciò che di più forte resta nella memoria di chi lo ammirò. Dicevamo che una malattia dolorosa,cioè la tubercolosi che lo colpì fin dai primi anni nella sua lunghissima prigionia presso il carcere di Robben Island,lo ha stroncato dopo quattro anni di peggioramenti continui e sofferenze.Alla dichiarazione del suo decesso migliaia di sostenitori e sudafricani si sono raccolti in preghiera dinanzi alla sua residenza,molte le lacrime ma molti anche i ringraziamenti per le gesta da eroe nazionale fatte da Mandela in difesa del popolo sudafricano e del continente nero nella sua totalità. i leader mondiali hanno da subito voluto esprimere cordoglio.Il primo è stato lo statunitense Barack Obama,che molto provato,ha proferito parole di elogio per un uomo grande,ricco di coraggio,che da solo ha sostenuto il peso di un dolore nazionale.
L'inglese Cameron ha evidenziato il contributo alla modernità e ai diritti civili di Mandela,un vero leader ricco di qualità.Sulla stessa lunghezza anche le parole del segretario dell’Onu Ban Ki-moon e del presidente francese Francois Hollande che di Mandela hanno rimarcato il suo spirito di battaglia affamato di giustizia e di libertà.Il mondo da oggi è più povero,meno sicuro.Uno dei guardiani principali dei diritti,delle uguaglianze e delle libertà umane non c'è più.Non serve piangerlo o semplicemente ricordarlo,le sue gesta e le sue battaglie vanno portate avanti,vanno perseguite con forza e va impedito,nel mondo,che una tragedia nazionale come l'aparthaid possa mai più ripetersi.Questo è il miglior modo per rendere immortale la vita coraggiosa di un leader di tutti,il leader di un continente intero.In questa maniera resterà per sempre l'insegnamento di Nelson Mandela.
Kiev.E' assedio al Palazzo del Governo.
di Ilenia Marini
Migliaia scesi in piazza per protestare contro Yanukovich
La capitale ucraina Kiev,in queste ore è oggetto di un vero assedio.Continuano le vigorose proteste nei quartieri istituzionali del paese contro le decisioni del governo guidato da Viktor Yanukovich che mirano ad abrogare le norme di avvicinamento del paese ex-sovieto all'Unione Europea.La popolazione ucraina vuole diventare comunitaria e questo è il motivo delle proteste.La politica del premier Yanukovich sembra essere di altro avviso e invece di attivare il processo per rendere europea l'Ucraina,da almeno due mesi si è assistiti ad un lento ma inesorabile affiancamento del paese agli interessi russi di Mosca.La Germania sembra aver preso molto a cuore la questione e le parole del ministro Guido Westerwelle sottolineano la vicinanza al popolo ucraino.La cosa peggiore però è che si iniziano a verificare episodi di intolleranza come gli atti violenti dei poliziotti verso i pacifici manifestanti.
Le proteste non sembrano essere state inutili poichè per domani il presidente della Commissione Ue José Barroso ha convocato la delegazione ucraina per avere informazioni sulla vicenda e per riprendere il dialogo su alcuni aspetti dell’accordo di associazione.In attesa di ciò i cittadini continuano nelle proteste,tutte le strade nel cuore della capitale sono bloccate e circa 500 dimostranti,rumorosi ma non violenti hanno letteralmente assediato i palazzi del potere ucraino,in particolare il Palazzo del Governo, la sede della Presidenza della Repubblica e l'edificio in cui c'è la Banca Centrale. I manifestanti hanno impedito ai dipendenti statali di recarsi a lavoro.Per impedire scontri violenti sono state allertate le forze anti-sommossa.In totale si vocifera che siano ben 9.000 i cittadini che si sono accampati nella Piazza dell’Indipendenza,antistante i palazzi assediati.
Un vero mare di manifestanti.Ieri però c'è stata tensione quando sono intervenuti i reparti speciali dell'esercito causando un numero di circa 300 feriti,molti dei quali donne e giovani.Come detto però il presidente ucraino sembra essere in parte tornato sui suoi passi accettando l'incontro con Barroso nei prossimi giorni,un gesto che reale o meno comunque ha fatto diminuire la tensione con la folla in piazza.Si attendono risvolti,il popolo ucraino vuole fortemente entrare nell'Unione Europea e allontanarsi il più possibile dal dominio della Russia di Putin.La speranza è che ciò avvenga senza spargimenti di sangue nè conflitti sociali pericolosissimi per l'intera zona.
La capitale ucraina Kiev,in queste ore è oggetto di un vero assedio.Continuano le vigorose proteste nei quartieri istituzionali del paese contro le decisioni del governo guidato da Viktor Yanukovich che mirano ad abrogare le norme di avvicinamento del paese ex-sovieto all'Unione Europea.La popolazione ucraina vuole diventare comunitaria e questo è il motivo delle proteste.La politica del premier Yanukovich sembra essere di altro avviso e invece di attivare il processo per rendere europea l'Ucraina,da almeno due mesi si è assistiti ad un lento ma inesorabile affiancamento del paese agli interessi russi di Mosca.La Germania sembra aver preso molto a cuore la questione e le parole del ministro Guido Westerwelle sottolineano la vicinanza al popolo ucraino.La cosa peggiore però è che si iniziano a verificare episodi di intolleranza come gli atti violenti dei poliziotti verso i pacifici manifestanti.
Le proteste non sembrano essere state inutili poichè per domani il presidente della Commissione Ue José Barroso ha convocato la delegazione ucraina per avere informazioni sulla vicenda e per riprendere il dialogo su alcuni aspetti dell’accordo di associazione.In attesa di ciò i cittadini continuano nelle proteste,tutte le strade nel cuore della capitale sono bloccate e circa 500 dimostranti,rumorosi ma non violenti hanno letteralmente assediato i palazzi del potere ucraino,in particolare il Palazzo del Governo, la sede della Presidenza della Repubblica e l'edificio in cui c'è la Banca Centrale. I manifestanti hanno impedito ai dipendenti statali di recarsi a lavoro.Per impedire scontri violenti sono state allertate le forze anti-sommossa.In totale si vocifera che siano ben 9.000 i cittadini che si sono accampati nella Piazza dell’Indipendenza,antistante i palazzi assediati.
Un vero mare di manifestanti.Ieri però c'è stata tensione quando sono intervenuti i reparti speciali dell'esercito causando un numero di circa 300 feriti,molti dei quali donne e giovani.Come detto però il presidente ucraino sembra essere in parte tornato sui suoi passi accettando l'incontro con Barroso nei prossimi giorni,un gesto che reale o meno comunque ha fatto diminuire la tensione con la folla in piazza.Si attendono risvolti,il popolo ucraino vuole fortemente entrare nell'Unione Europea e allontanarsi il più possibile dal dominio della Russia di Putin.La speranza è che ciò avvenga senza spargimenti di sangue nè conflitti sociali pericolosissimi per l'intera zona.
In Africa c'è il furto della terra coltivabile.
di Ilenia Marini
Intere parti di territorio africano vendute agli stranieri.
Negli ultimi anni,soprattutto dopo lo scoppio della crisi economica del 2008 si assiste ad un nuovo e particolare fenomeno.Grandi stati,ricchi ma poveri di risorse naturali stanno acquisendo a suon di dollari e capitali,intere fette di territori agricoli dei paesi poveri africani.Un vero furto della terra perchè per la terra non vi è prezzo,essa è vita.Governi locali corrotti e compiacenti hanno permesso ciò,regalando immense distese del loro territorio nazionale alle super potenze mondiali o a ricchissimi miliardari privati.Lo scopo di queste operazioni è garantire cibo alle popolazioni ricche,a discapito di quelle africane.Nel solo 2012 la Banca Mondiale afferma che sono stati investiti in acquisto di terre arabili ben 9 miliardi di dollari,in un solo anno.I paesi africani che cedono le proprie terre ricevono non solo capitali ingenti ma anche una maggiore visibilità a livello mondiale ed una maggiore stabilità governativa dalla Comunità Internazionale,insomma tu mi dai la terra ed io ti faccio,forse,sviluppare,questo è il concetto diretto.Un ricatto subdolo e assurdo.
Si è così creato un vero mercato della terra fertile,dove a farla da padrone non sono più solo investitori privati del cosiddetto Nord del mondo ma anche i paesi del Golfo Arabo e gli stati emergenti come Cina, Brasile o Sud Africa, enormemente arricchitisi nell'ultimo lustro.In maniera alquanto ambigua la Banca Mondiale sembra incentivare questo mercato parlando di grandi prospettive di crescita occupazionale e sicurezza alimentare.In realtà però le associazioni di contadini locali, e organizzazioni internazionali no-profit come Oxfam, denunciano e accusano questi stati di vera usurpazione della terra.Questo fenomeno ha conseguenze gravi come lo sfollamento delle popolazioni rurali, la difficoltosa possibilità ad accedere a risorse primarie come cibo e acqua, oltre ovviamente ad enormi disuguaglianze sociali, economiche ed ambientali. Gli stati che comprano le fette di territorio africano spesso non si dimostrano capaci di tutelare le zone ed in particolare sono poco sensibili ai diritti terrieri delle comunità locali; i governi africani peccano di lungimiranza,non sono mai in grado di gestire i grandi investimenti,o di far rispettare accordi chiari e attuabili,incapaci di presentare proposte di investimento tecnicamente valide,se a ciò aggiungiamo l'insorgere continuo di conflitti etnici e militari ecco spiegato il tutto.Subiscono il furto della terra senza battere ciglio ed indignarsi.
Una recente ricerca del Forum delle Organizzazioni non governative mondiali ha infatti indicato che in Mozambico a seguito del progetto Wanbao, la popolazione ha perduto 537 dei 582 ettari di terra che prima coltiva;adesso ai locali restano solo 45 ettari per la propria sussistenza (solo 0,2 ettari a testa).In Mozambico molte organizzazioni hanno sottolineato che aldilà dei proclami,l'80 dei prodotti coltivati nel progetto Wanbao sia in realtà destinato alle esportazioni in Europa e Cina, mettendo letteralmente in ginocchio la popolazione.Le aziende straniere si difendono dichiarando che è solo l'inizio del progetto e che in futuro la metà dei beni prodotti sarà destinato allo stesso Mozambico.Il futuro è un'incognita ma la sensazione di arricchimento e sfruttamento alle spalle dei poveri paesi africani è davvero grande.
Negli ultimi anni,soprattutto dopo lo scoppio della crisi economica del 2008 si assiste ad un nuovo e particolare fenomeno.Grandi stati,ricchi ma poveri di risorse naturali stanno acquisendo a suon di dollari e capitali,intere fette di territori agricoli dei paesi poveri africani.Un vero furto della terra perchè per la terra non vi è prezzo,essa è vita.Governi locali corrotti e compiacenti hanno permesso ciò,regalando immense distese del loro territorio nazionale alle super potenze mondiali o a ricchissimi miliardari privati.Lo scopo di queste operazioni è garantire cibo alle popolazioni ricche,a discapito di quelle africane.Nel solo 2012 la Banca Mondiale afferma che sono stati investiti in acquisto di terre arabili ben 9 miliardi di dollari,in un solo anno.I paesi africani che cedono le proprie terre ricevono non solo capitali ingenti ma anche una maggiore visibilità a livello mondiale ed una maggiore stabilità governativa dalla Comunità Internazionale,insomma tu mi dai la terra ed io ti faccio,forse,sviluppare,questo è il concetto diretto.Un ricatto subdolo e assurdo.
Si è così creato un vero mercato della terra fertile,dove a farla da padrone non sono più solo investitori privati del cosiddetto Nord del mondo ma anche i paesi del Golfo Arabo e gli stati emergenti come Cina, Brasile o Sud Africa, enormemente arricchitisi nell'ultimo lustro.In maniera alquanto ambigua la Banca Mondiale sembra incentivare questo mercato parlando di grandi prospettive di crescita occupazionale e sicurezza alimentare.In realtà però le associazioni di contadini locali, e organizzazioni internazionali no-profit come Oxfam, denunciano e accusano questi stati di vera usurpazione della terra.Questo fenomeno ha conseguenze gravi come lo sfollamento delle popolazioni rurali, la difficoltosa possibilità ad accedere a risorse primarie come cibo e acqua, oltre ovviamente ad enormi disuguaglianze sociali, economiche ed ambientali. Gli stati che comprano le fette di territorio africano spesso non si dimostrano capaci di tutelare le zone ed in particolare sono poco sensibili ai diritti terrieri delle comunità locali; i governi africani peccano di lungimiranza,non sono mai in grado di gestire i grandi investimenti,o di far rispettare accordi chiari e attuabili,incapaci di presentare proposte di investimento tecnicamente valide,se a ciò aggiungiamo l'insorgere continuo di conflitti etnici e militari ecco spiegato il tutto.Subiscono il furto della terra senza battere ciglio ed indignarsi.
Una recente ricerca del Forum delle Organizzazioni non governative mondiali ha infatti indicato che in Mozambico a seguito del progetto Wanbao, la popolazione ha perduto 537 dei 582 ettari di terra che prima coltiva;adesso ai locali restano solo 45 ettari per la propria sussistenza (solo 0,2 ettari a testa).In Mozambico molte organizzazioni hanno sottolineato che aldilà dei proclami,l'80 dei prodotti coltivati nel progetto Wanbao sia in realtà destinato alle esportazioni in Europa e Cina, mettendo letteralmente in ginocchio la popolazione.Le aziende straniere si difendono dichiarando che è solo l'inizio del progetto e che in futuro la metà dei beni prodotti sarà destinato allo stesso Mozambico.Il futuro è un'incognita ma la sensazione di arricchimento e sfruttamento alle spalle dei poveri paesi africani è davvero grande.
Iran-Onu,C'è accordo adesso sul nucleare.
di Ilenia Marini
Le potenze occidentali e l'Iran vicine alla chiusura del negoziato.
Ieri a Ginevra è stato compiuto un passo importante dalle diplomazie internazionali.Le grandi super potenze avrebbero, insieme all'Iran,trovato una forma di intesa sullo scottante tema del nucleare.Il viceministro iraniano Abbas Araqchi, almeno secondo ciò che trapela da ambienti Onu,avrebbe mostrato tutta la buona volontà del regime iraniano sulla possibilità di stipulare un accordo sulla questione dei missili nucleari e una voce simile è giunta anche dal ufficio stampa del segretario di Stato John Kerry anch'egli presente a Ginevra. Le televisioni e i media mediorientali avevano evidenziato che qualcosa di importante e quasi storico stava per accadere,il tutto si sarebbe sbloccato quando i delegati internazionali dell'Onu avrebbero riconosciuto il legittimo diritto di Teheran a conpiere procedure di arricchimento del proprio uranio.
Il negoziato Onu sul tema del nucleare iraniano era quindi giunto al momento decisivo e grande ottimismo era nell'aria tanto che alcune voci di accordo già filtravano dal ministero degli esteri cinese,lo stesso ministro Wang Yi era pronto a volare in Svizzera per depositare la firma del governo di Pechino.Poche ore dopo pure dalla Germania arrivavano sensazioni positive con il grande ottimismo mostrato dal ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle.Un vero vortice di impressioni positive quindi alimentate anche dal ministro degli Esteri iraniano Mohammad Kavad Zarif che,nell'atto di partire per la Svizzera,dichiarava le più ampie aperture sull'argomento. Gli Stati Uniti però,ben conoscendo come a livello diplomatico le vicende siano molto fluide e tendenti a cambiare in poche ore, si mostrano ancora con grande cautela.John Kerry infatti sottolinea che gli Usa intendono fare la loro parte per aiutare il raggiungimento di un accordo ed appianare le differenze di veduta ma la strada da fare è molta.
L'unione Europea è rappresentata all'Onu dall’alto commissario Catherine Ashton,la quale a sua volta si è detta disponibile a partire per Ginevra ma che a suo avviso il negoziato resta duro e complesso.Parere simile a quello del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov.Venendo agli aspetti tecnici,i diplomatici starebbero lavorando per un accordo di sei mesi grazie al quale Teheran si impegnerebbe a congelare la sua produzione di uranio arricchito al 20 per cento e ad interrompere eventuali nuove procedure di centrifuga per l'arricchimento dell’uranio al 3,5 per cento.Il massimo sarebbe riuscire anche a far accettare all'Iran un più penetrante sistema di ispezioni internazionali nei propri siti nucleari.Come controfferta il regime iraniano otterrebbe una forte diminuzione delle sanzioni in modo da avere a livello economico entrate ulteriori che si stimano di circa 15 miliardi di dollari.Nei prossimi giorni a Ginevra si deciderà in modo definitivo ma tutte le condizioni per un accordo storico sembrano essere state trovate.
Ieri a Ginevra è stato compiuto un passo importante dalle diplomazie internazionali.Le grandi super potenze avrebbero, insieme all'Iran,trovato una forma di intesa sullo scottante tema del nucleare.Il viceministro iraniano Abbas Araqchi, almeno secondo ciò che trapela da ambienti Onu,avrebbe mostrato tutta la buona volontà del regime iraniano sulla possibilità di stipulare un accordo sulla questione dei missili nucleari e una voce simile è giunta anche dal ufficio stampa del segretario di Stato John Kerry anch'egli presente a Ginevra. Le televisioni e i media mediorientali avevano evidenziato che qualcosa di importante e quasi storico stava per accadere,il tutto si sarebbe sbloccato quando i delegati internazionali dell'Onu avrebbero riconosciuto il legittimo diritto di Teheran a conpiere procedure di arricchimento del proprio uranio.
Il negoziato Onu sul tema del nucleare iraniano era quindi giunto al momento decisivo e grande ottimismo era nell'aria tanto che alcune voci di accordo già filtravano dal ministero degli esteri cinese,lo stesso ministro Wang Yi era pronto a volare in Svizzera per depositare la firma del governo di Pechino.Poche ore dopo pure dalla Germania arrivavano sensazioni positive con il grande ottimismo mostrato dal ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle.Un vero vortice di impressioni positive quindi alimentate anche dal ministro degli Esteri iraniano Mohammad Kavad Zarif che,nell'atto di partire per la Svizzera,dichiarava le più ampie aperture sull'argomento. Gli Stati Uniti però,ben conoscendo come a livello diplomatico le vicende siano molto fluide e tendenti a cambiare in poche ore, si mostrano ancora con grande cautela.John Kerry infatti sottolinea che gli Usa intendono fare la loro parte per aiutare il raggiungimento di un accordo ed appianare le differenze di veduta ma la strada da fare è molta.
L'unione Europea è rappresentata all'Onu dall’alto commissario Catherine Ashton,la quale a sua volta si è detta disponibile a partire per Ginevra ma che a suo avviso il negoziato resta duro e complesso.Parere simile a quello del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov.Venendo agli aspetti tecnici,i diplomatici starebbero lavorando per un accordo di sei mesi grazie al quale Teheran si impegnerebbe a congelare la sua produzione di uranio arricchito al 20 per cento e ad interrompere eventuali nuove procedure di centrifuga per l'arricchimento dell’uranio al 3,5 per cento.Il massimo sarebbe riuscire anche a far accettare all'Iran un più penetrante sistema di ispezioni internazionali nei propri siti nucleari.Come controfferta il regime iraniano otterrebbe una forte diminuzione delle sanzioni in modo da avere a livello economico entrate ulteriori che si stimano di circa 15 miliardi di dollari.Nei prossimi giorni a Ginevra si deciderà in modo definitivo ma tutte le condizioni per un accordo storico sembrano essere state trovate.
In Cina iniziano le riforme civili.Era ora.
di Ilenia Marini
Nel paese orientale finalmente si cominciano a rispettare i diritti civili.
La Cina sta cambiando.Per fortuna diremmo noi.L'isolamento cui era sottoposta non è più ferreo e il contatto col mondo occidentale sta spingendo i politici cinesi ad apportare particolari riforme e cambiamenti,necessari per ammodernizzare il paese da un punto di vista civile più che industriale.La notizia del momento è la parziale abrogazione della celebre legge sul figlio unico.Una norma imposta nel 1972 per frenare la spaventosa crescita demografica della popolazione,ma una legge che evidenziava già allora palesi storture costituzionali.Da quest'anno invece,solo per chi a sua volta è un genitore figlio unico,lo Stato ammetterà la possibilità di procreare un secondo figlio.La legge sul figlio unico è da sempre stata oggetto di aspre critiche nell'arco di 40 anni ha infatti causato circa 370 milioni di aborti imposti dallo Stato.Un vero scandalo per tutta l'umanità.Ma come detto qualcosa sembra cambiare,dopo un lunghissimo e sofferto dibattito tra conservatori e progressisti, il Terzo Plenum del Comitato centrale comunista, quello di cui finora si era parlato per la nuova apertura al mercato,ha preso la sua decisione.
Non solo parziale riforma della legge sul figlio unico ma anche abolizione dei tristemente celebri campi di rieducazione,ovvero i campi da lavoro forzato usati in Cina come pena supplettiva per molti reati.Era questo un sistema penale di concentramento che era stato istituito negli anni Cinquanta da Mao Zedong per punire i «contro-rivoluzionari». Ma nell'arco dei decenni ci sono passati milioni e milioni di piccoli criminali. Non si conosce il numero certo delle persone sottoposte a questa formza di punizione penale poichè spesso il loro utilizzo veniva lasciato all’arbitrio delle varie polizie locali, senza bisogno nemmeno di chiedere autorizzazioni alla magistratura nazionale. Molti sono finiti infatti nei campi di lavoro per piccoli furti, per prostituzione, per dissenso, o semplicemente perché protestavano per i propri diritti violati.La cosa incivile era che la detenzione in questi campi poteva anche arrivare a 4 anni senza che vi fosse un minimo di processo,ma solo per scopo cautelare.Il Comitato Centrale di Pechino ha deciso di abolire questo sistema di rieducazione per meglio proteggere i diritti umani delle persone,un atto che arriva però con ritardo gravissimo.Anche se si tratta di un primo passo importante,che fa capire come nella politica cinese comunque un sentiero di modernità e maggiore rispetto per la vita si stia facendo largo.Cosa che ben sintetizza ciò è anche la possibilità di ridurre e di molto la tipologia di reati penali cui applicare la tanto odiata pena di morte.
Oggi infatti la Cina punisce con la pena di morte ben 55 reati.Una sorta di macabro record.Dobbiamo credere o no a queste aperture del governo cinese?E' innegabile che il nuovo presidente Xi Jinping abbia finalmente deciso di rispondere alle innumerevoli e pressanti richieste giunte dalla società civile cinese e intenazionale, ma è ugualmente innegabile che il partito comunista non ha nessuna intenzione di mollare la presa sul potere ed instaurare una forma di democrazia nel paese.Comunque sia i prima passi sono stati compiuti,una nuova e moderna era per la Cina sembra essere iniziata.
La Cina sta cambiando.Per fortuna diremmo noi.L'isolamento cui era sottoposta non è più ferreo e il contatto col mondo occidentale sta spingendo i politici cinesi ad apportare particolari riforme e cambiamenti,necessari per ammodernizzare il paese da un punto di vista civile più che industriale.La notizia del momento è la parziale abrogazione della celebre legge sul figlio unico.Una norma imposta nel 1972 per frenare la spaventosa crescita demografica della popolazione,ma una legge che evidenziava già allora palesi storture costituzionali.Da quest'anno invece,solo per chi a sua volta è un genitore figlio unico,lo Stato ammetterà la possibilità di procreare un secondo figlio.La legge sul figlio unico è da sempre stata oggetto di aspre critiche nell'arco di 40 anni ha infatti causato circa 370 milioni di aborti imposti dallo Stato.Un vero scandalo per tutta l'umanità.Ma come detto qualcosa sembra cambiare,dopo un lunghissimo e sofferto dibattito tra conservatori e progressisti, il Terzo Plenum del Comitato centrale comunista, quello di cui finora si era parlato per la nuova apertura al mercato,ha preso la sua decisione.
Non solo parziale riforma della legge sul figlio unico ma anche abolizione dei tristemente celebri campi di rieducazione,ovvero i campi da lavoro forzato usati in Cina come pena supplettiva per molti reati.Era questo un sistema penale di concentramento che era stato istituito negli anni Cinquanta da Mao Zedong per punire i «contro-rivoluzionari». Ma nell'arco dei decenni ci sono passati milioni e milioni di piccoli criminali. Non si conosce il numero certo delle persone sottoposte a questa formza di punizione penale poichè spesso il loro utilizzo veniva lasciato all’arbitrio delle varie polizie locali, senza bisogno nemmeno di chiedere autorizzazioni alla magistratura nazionale. Molti sono finiti infatti nei campi di lavoro per piccoli furti, per prostituzione, per dissenso, o semplicemente perché protestavano per i propri diritti violati.La cosa incivile era che la detenzione in questi campi poteva anche arrivare a 4 anni senza che vi fosse un minimo di processo,ma solo per scopo cautelare.Il Comitato Centrale di Pechino ha deciso di abolire questo sistema di rieducazione per meglio proteggere i diritti umani delle persone,un atto che arriva però con ritardo gravissimo.Anche se si tratta di un primo passo importante,che fa capire come nella politica cinese comunque un sentiero di modernità e maggiore rispetto per la vita si stia facendo largo.Cosa che ben sintetizza ciò è anche la possibilità di ridurre e di molto la tipologia di reati penali cui applicare la tanto odiata pena di morte.
Oggi infatti la Cina punisce con la pena di morte ben 55 reati.Una sorta di macabro record.Dobbiamo credere o no a queste aperture del governo cinese?E' innegabile che il nuovo presidente Xi Jinping abbia finalmente deciso di rispondere alle innumerevoli e pressanti richieste giunte dalla società civile cinese e intenazionale, ma è ugualmente innegabile che il partito comunista non ha nessuna intenzione di mollare la presa sul potere ed instaurare una forma di democrazia nel paese.Comunque sia i prima passi sono stati compiuti,una nuova e moderna era per la Cina sembra essere iniziata.
Per il disastro Prestige non ci sono colpevoli.
di Ilenia Marini
Il disastro ambientale della petroliera resta impunito.
Nel novembre del 2002 la costa galiziana della Spagna fu colpita da un immane disastro ambientale,un incidente senza precedenti che ferì mortalmente la natura della costa spagnola.La petroliera Prestige di proprietà di un'azienda greca e battente bandiera liberiana,ebbe un'avaria allo scafo e versò in mare 70.000 tonnellate di greggio su oltre 2.000 spiagge che partendo da nord del Portogallo fino al sud della Francia,furono invase dalla marea nera. Gli uccelli con le piume impastate di petrolio e la sabbia divenuta nera,questa è l'immagine che ci resta negli occhi di quei giorni.La petroliera ebbe un danno grave e nel giro di poche ore colò a picco nell'Oceano Atlantico.Ci si accorse tutti che eravamo dinanzi al più grave disastro ambientale d’Europa.Dal 2003 iniziò il processo a carico degli armatori e del capitano della nave,ma ieri la sentenza sorprendente,non c'è nessun colpevole.Il processo è durato circa un anno ed era a carico di tre principali imputati - il capitano della nave, il primo macchinista e l’ex direttore generale della Marina mercantile spagnola - tutti sono stati assolti dall’accusa di reati ambientali.
Inoltre nessuno verserà un euro per ripagare i danni stimati in circa 4 milioni di euro. Un verdetto che ha lasciato tutti di sasso,non solo gli ambientalisti che molto si erano spesi per il processo,ma l'intera opinione pubblica.Il governo spagnolo ha però anticipato che intende impugnare la decisione dinanzi alla Corte Costituzionale iberica. Se andiamo ad analizzare il disastro nelle carte ci si accorge che l'incidente fu causato proprio da uno stato di cattiva manutenzione e conservazione della nave,che inoltre era stata caricata con ben 10 tonnellate oltre il proprio peso massimo.Il giudice Juan Luis Pia,del Tribunale di La Coruna leggendo la sentenza ha assolto il capitano Apostolos Mangouras, il capo macchinista Nikolaos Argyropoulos e l’ex direttore generale della Marina mercantile José Luis Lopez-Sors dall’accusa di crimini contro l’ambiente,poichè nessuno avrebbe potuto prevedere l'accaduto.Insomma è stata una semplice fatalità del caso.Solo Mangouras, che all'inizio aveva rifiutato di far rimorchiare la nave, è stato condannato a nove mesi di reclusione per «disobbedienza grave» ma non andrà in carcere per motivi d’età, ha 78 anni.
L'unica consolazione è che la compagnia assicuratrice della nave, la London Stream-Ship Owners Mutual Insurance, è stata riconosciuta responsabile dei danni civili e quindi una parte dei milioni necessari saranno da essa versati.Nel processo ci sono stati forti scambi di accusa fra le parti,il comandante e l’armatore greco della megapetroliera avevano accusato il governo spagnolo di aver accentuato gli effetti della catastrofe ordinando alla nave, ormai in difficoltà, di allontanarsi dalla costa. Jorge Lopez-Sors alto funzionario della capitaneria di porto si era difeso affermando che era meno rischioso lasciare che la nave affondasse al largo per minimizzare i danni ambientali.Cosa che comunque non accadde poichè dopo pochi giorni la grande chiazza di petrolio arrivò sulle coste coprendo tutto con un colore nero intenso e lasciando una ferita sulle coste atlantiche di cui ancora oggi si vedono i dolorosi segni.
Nel novembre del 2002 la costa galiziana della Spagna fu colpita da un immane disastro ambientale,un incidente senza precedenti che ferì mortalmente la natura della costa spagnola.La petroliera Prestige di proprietà di un'azienda greca e battente bandiera liberiana,ebbe un'avaria allo scafo e versò in mare 70.000 tonnellate di greggio su oltre 2.000 spiagge che partendo da nord del Portogallo fino al sud della Francia,furono invase dalla marea nera. Gli uccelli con le piume impastate di petrolio e la sabbia divenuta nera,questa è l'immagine che ci resta negli occhi di quei giorni.La petroliera ebbe un danno grave e nel giro di poche ore colò a picco nell'Oceano Atlantico.Ci si accorse tutti che eravamo dinanzi al più grave disastro ambientale d’Europa.Dal 2003 iniziò il processo a carico degli armatori e del capitano della nave,ma ieri la sentenza sorprendente,non c'è nessun colpevole.Il processo è durato circa un anno ed era a carico di tre principali imputati - il capitano della nave, il primo macchinista e l’ex direttore generale della Marina mercantile spagnola - tutti sono stati assolti dall’accusa di reati ambientali.
Inoltre nessuno verserà un euro per ripagare i danni stimati in circa 4 milioni di euro. Un verdetto che ha lasciato tutti di sasso,non solo gli ambientalisti che molto si erano spesi per il processo,ma l'intera opinione pubblica.Il governo spagnolo ha però anticipato che intende impugnare la decisione dinanzi alla Corte Costituzionale iberica. Se andiamo ad analizzare il disastro nelle carte ci si accorge che l'incidente fu causato proprio da uno stato di cattiva manutenzione e conservazione della nave,che inoltre era stata caricata con ben 10 tonnellate oltre il proprio peso massimo.Il giudice Juan Luis Pia,del Tribunale di La Coruna leggendo la sentenza ha assolto il capitano Apostolos Mangouras, il capo macchinista Nikolaos Argyropoulos e l’ex direttore generale della Marina mercantile José Luis Lopez-Sors dall’accusa di crimini contro l’ambiente,poichè nessuno avrebbe potuto prevedere l'accaduto.Insomma è stata una semplice fatalità del caso.Solo Mangouras, che all'inizio aveva rifiutato di far rimorchiare la nave, è stato condannato a nove mesi di reclusione per «disobbedienza grave» ma non andrà in carcere per motivi d’età, ha 78 anni.
L'unica consolazione è che la compagnia assicuratrice della nave, la London Stream-Ship Owners Mutual Insurance, è stata riconosciuta responsabile dei danni civili e quindi una parte dei milioni necessari saranno da essa versati.Nel processo ci sono stati forti scambi di accusa fra le parti,il comandante e l’armatore greco della megapetroliera avevano accusato il governo spagnolo di aver accentuato gli effetti della catastrofe ordinando alla nave, ormai in difficoltà, di allontanarsi dalla costa. Jorge Lopez-Sors alto funzionario della capitaneria di porto si era difeso affermando che era meno rischioso lasciare che la nave affondasse al largo per minimizzare i danni ambientali.Cosa che comunque non accadde poichè dopo pochi giorni la grande chiazza di petrolio arrivò sulle coste coprendo tutto con un colore nero intenso e lasciando una ferita sulle coste atlantiche di cui ancora oggi si vedono i dolorosi segni.
Filippine.Il tifone Haiyan fa strage di vittime.
di Ilenia Marini
La tempesta perfetta ha distrutto mezzo arcipelago.
Il terribile tifone Haiyan ha mietuto le sue vittime.Le Filippine sono state devastate e si stimano fino ad ora circa diecimila vittime,una vera tragedia dai confini sempre più terribili.Una vera ecatombe che era stata da almeno una settimana già preventivata.Anche la sola analisi dei danni subiti risulta ancora complicata poichè molte zone sono ancora isolate e le comunicazioni telefoniche interrotte. Secondo alcuni dati del Consiglio Internazionale per i Rischi e i Disastri (Ndrrmc), sono state colpite dal tifone circa 944.586 famiglie per un totale di quasi 4 milioni di persone.Il 30 % di queste persone afferma con certezza l’Unicef, sono bambini e ragazzi sotto i 18 anni di età.Una vera devastazione naturale.Nelle ore immediatamente successive alla catastrofe si sono verificati i soliti atti di sciacallaggio.Un popolare centro commerciale a Tacloban, una città di 200mila persone a circa 580 chilometri a sudest di Manila è stato preso d'assalto dalla popolazione.
Gli assalitori hanno rubato tutto quello che hanno trovato, inclusi televisori, frigoriferi, alimenti e alberi di Natale,ovvero oggetti non certo utili e necessari in una situaizone così drammatica.Alcuni negozi più piccoli si sono allertati e protetti da guardie armate di pistole e sono stati risparmiati.Assurdo poi,come la stessa Croce Rossa ha reso noto, che siano stati attaccati dalle persone anche i camion di cibo e altri rifornimenti di soccorso che l’agenzia stava inviando dal porto di Davao a Tacloban.Una piccola notizia felice c'è.Il tifone ha rallentato la sua forza e si starebbe spostando verso il Mar Meridionale cinese con una potenza distruttiva minore. Si suppone che domani il tifone Hayan toccherà terra in Vietnam e fortunatamente esaurirà quasi tutta la sua forza. Queste notizie giungono dal centro meteo della Bbc secondo il quale il tifone in almeno due giorni scenderà dalla distruttiva e violenta categoria 5,la più alta della scala Saffir-Simpson,alla categoria 1.
L'intera situazione filippina è tenuta sotto controllo anche dalle istituzioni italiane.La nostra Unità di crisi, che è in attività dai primi momenti, non è al corrente di eventuali italiani dispersi nel territotio del sud-est asiatico.Ciò viene ribadito anche dal ministro degli Esteri, Emma Bonino la quale sottolinea che non ci sarebbero connazionali coinvolti nel disastro naturale,anche se ulteriori verifiche verranno comunque fatte.I controlli però restano complicati perchè difficoltose sono le vie di comunicazione nel paese, telefoni ed internet risultano infatti fuori uso in molte aree e frequenti sono i black-out di energia elettrica.
Il terribile tifone Haiyan ha mietuto le sue vittime.Le Filippine sono state devastate e si stimano fino ad ora circa diecimila vittime,una vera tragedia dai confini sempre più terribili.Una vera ecatombe che era stata da almeno una settimana già preventivata.Anche la sola analisi dei danni subiti risulta ancora complicata poichè molte zone sono ancora isolate e le comunicazioni telefoniche interrotte. Secondo alcuni dati del Consiglio Internazionale per i Rischi e i Disastri (Ndrrmc), sono state colpite dal tifone circa 944.586 famiglie per un totale di quasi 4 milioni di persone.Il 30 % di queste persone afferma con certezza l’Unicef, sono bambini e ragazzi sotto i 18 anni di età.Una vera devastazione naturale.Nelle ore immediatamente successive alla catastrofe si sono verificati i soliti atti di sciacallaggio.Un popolare centro commerciale a Tacloban, una città di 200mila persone a circa 580 chilometri a sudest di Manila è stato preso d'assalto dalla popolazione.
Gli assalitori hanno rubato tutto quello che hanno trovato, inclusi televisori, frigoriferi, alimenti e alberi di Natale,ovvero oggetti non certo utili e necessari in una situaizone così drammatica.Alcuni negozi più piccoli si sono allertati e protetti da guardie armate di pistole e sono stati risparmiati.Assurdo poi,come la stessa Croce Rossa ha reso noto, che siano stati attaccati dalle persone anche i camion di cibo e altri rifornimenti di soccorso che l’agenzia stava inviando dal porto di Davao a Tacloban.Una piccola notizia felice c'è.Il tifone ha rallentato la sua forza e si starebbe spostando verso il Mar Meridionale cinese con una potenza distruttiva minore. Si suppone che domani il tifone Hayan toccherà terra in Vietnam e fortunatamente esaurirà quasi tutta la sua forza. Queste notizie giungono dal centro meteo della Bbc secondo il quale il tifone in almeno due giorni scenderà dalla distruttiva e violenta categoria 5,la più alta della scala Saffir-Simpson,alla categoria 1.
L'intera situazione filippina è tenuta sotto controllo anche dalle istituzioni italiane.La nostra Unità di crisi, che è in attività dai primi momenti, non è al corrente di eventuali italiani dispersi nel territotio del sud-est asiatico.Ciò viene ribadito anche dal ministro degli Esteri, Emma Bonino la quale sottolinea che non ci sarebbero connazionali coinvolti nel disastro naturale,anche se ulteriori verifiche verranno comunque fatte.I controlli però restano complicati perchè difficoltose sono le vie di comunicazione nel paese, telefoni ed internet risultano infatti fuori uso in molte aree e frequenti sono i black-out di energia elettrica.
Arafat forse morto per avvelenamento.
di Ilenia Marini
Il leader dell'OLP avvelenato col polonio 210.
Yasser Arafat è un nome che ha fatto la storia del popolo palestinese.Un popolo spesso umiliato e insanguinato dall'occupazione israeliana di terre che le appartenevano,non dal punto di vista istituzionale ma per diritto di occupazione territoriale.Un popolo alla autodeterminazione e alla cui causa Arafat ha dedicato tutta la sua vita,divenendo il leader di quella organizzazione,OLP,moto discussa negli '70-'80 ma decisiva poi negli anni '90 per garantire alla popolazione palestinese il diritto ad avere un proprio stato indipendente.Adesso la sua morte è stata oggetto di grandi polemiche ed indagini.Ieri il laboratorio scientifico a cui era stato commissionato il compito di effettuare analisi per accertare le cause di morte,non ha escluso un avvvelenamento da polonio 210 .
Un ulteriore atto di una storia che assume sempre più i confini ambigui del mistero. Yasser Arafat era deceduto nel 2004 in un ospedale francese a seguito di una misteriosa malattia che lo aveva colpito alcuni mesi prima.La vedova del leader palestinese Saheb Erekat,fin da subito aveva gridato all'omicidio per avvelenamento e nel 2005 aveva richiesto ad un laboratorio svizzero di analizzare capelli e denti del defunto per avere certezze.I risultati anche in quel caso avevano ritrovato tracce corpose di polonio 210 nell'organismo di Arafat e la vedova si era battuta in sede diplomatica per la costituzione di una commissione internazionale d’inchiesta sulla morte.Uno studio legale francese prende a cuore la vicenda e presenta una denuncia contro ignoti per scoprire la verità sulla morte del capo di Stato.Anche l’Autorità nazionale palestinese chiede all’Istituto di Radiofisica di Losanna di esaminare ulteriormente e in modo approdondito i resti di Yasser Arafat.
Per agevolare il tutto l'allora presidente palestinese Abu Mazen annuncia che l’Anp ha deciso di concerto con gli inquirenti francesi, gli esperti svizzeri e il governo russo di attivare le procedure per la riesumazione del corpo di Yasser Arafat. Avvenuta la riesumazione della salma del leader palestinese,dinanzi ad esperti francesi, svizzeri e russi viene effettuato tre mesi orsono il prelievo dei campioni,la tomba non viene poi subito richiusa dopa l'estrazione dei campioni necessari.Ieri la Commissione palestinese di inchiesta sulle circostanze della morte di Arafat ha ricevuto il dossier finale dal laboratorio svizzero di Losanna.La risposta è si,nel corpo di Arafat c'era polonio 210,in quantità tale da far ipotizzare un avvelenamento.
Yasser Arafat è un nome che ha fatto la storia del popolo palestinese.Un popolo spesso umiliato e insanguinato dall'occupazione israeliana di terre che le appartenevano,non dal punto di vista istituzionale ma per diritto di occupazione territoriale.Un popolo alla autodeterminazione e alla cui causa Arafat ha dedicato tutta la sua vita,divenendo il leader di quella organizzazione,OLP,moto discussa negli '70-'80 ma decisiva poi negli anni '90 per garantire alla popolazione palestinese il diritto ad avere un proprio stato indipendente.Adesso la sua morte è stata oggetto di grandi polemiche ed indagini.Ieri il laboratorio scientifico a cui era stato commissionato il compito di effettuare analisi per accertare le cause di morte,non ha escluso un avvvelenamento da polonio 210 .
Un ulteriore atto di una storia che assume sempre più i confini ambigui del mistero. Yasser Arafat era deceduto nel 2004 in un ospedale francese a seguito di una misteriosa malattia che lo aveva colpito alcuni mesi prima.La vedova del leader palestinese Saheb Erekat,fin da subito aveva gridato all'omicidio per avvelenamento e nel 2005 aveva richiesto ad un laboratorio svizzero di analizzare capelli e denti del defunto per avere certezze.I risultati anche in quel caso avevano ritrovato tracce corpose di polonio 210 nell'organismo di Arafat e la vedova si era battuta in sede diplomatica per la costituzione di una commissione internazionale d’inchiesta sulla morte.Uno studio legale francese prende a cuore la vicenda e presenta una denuncia contro ignoti per scoprire la verità sulla morte del capo di Stato.Anche l’Autorità nazionale palestinese chiede all’Istituto di Radiofisica di Losanna di esaminare ulteriormente e in modo approdondito i resti di Yasser Arafat.
Per agevolare il tutto l'allora presidente palestinese Abu Mazen annuncia che l’Anp ha deciso di concerto con gli inquirenti francesi, gli esperti svizzeri e il governo russo di attivare le procedure per la riesumazione del corpo di Yasser Arafat. Avvenuta la riesumazione della salma del leader palestinese,dinanzi ad esperti francesi, svizzeri e russi viene effettuato tre mesi orsono il prelievo dei campioni,la tomba non viene poi subito richiusa dopa l'estrazione dei campioni necessari.Ieri la Commissione palestinese di inchiesta sulle circostanze della morte di Arafat ha ricevuto il dossier finale dal laboratorio svizzero di Losanna.La risposta è si,nel corpo di Arafat c'era polonio 210,in quantità tale da far ipotizzare un avvelenamento.
La Kirchner giù.Vento nuovo in Argentina.
di Ilenia Marini
A sorpresa la "presidenta" perde consenso.
Ieri in Argentina si sono tenute le cosiddette elezioni legislative parziali e abbiamo assistito ad una dura sconfitta per la presidentessa Cristina Kirchner nelle cinque province più importanti del paese e nella stessa Buenos Aires.La tornata elettorale mirava a modificare la metà della Camera (127 seggi) e un terzo del Senato (24 seggi). La Kirchner aveva dato vita ad una coalizione presidenziale, denominata Fronte per la vittoria (Fpv) che ha però perso nelle province di Buenos Aires - il distretto più importante a livello demografico ed economico - Cordoba, Santa Fe, Mendoza e nella città di Buenos Aires.Nonostante tutto però è riuscita a conservare comunque la maggioranza relativa al Parlamento e si è confermata come prima forza politica nel Paese. Non potrà però contare sulla maggioranza dei due terzi, che sarebbero un elemento necessario per poter attuare quelle riforme della Costituzione per rendere possibile una sua terza candidatura per un terzo mandato presidenziale,in Argentina infatti ogni presidente non può ricandidarsi per il terzo mandato consecutivo.
La sorpresa di queste elezioni è stato nella provincia di Buenos Aires il Fronte Renovador (Fronte Rinnovatore) del peronista dissidente, sindaco della città di Tigre, Sergio Massa, questi ha avuto la meglio con il 42 per cento sul candidato del Fronte per la vittoria - e appoggiato da Kirchner - Martin Insaurralde, 29%, secondo dati ora definitivi. Nella capitale, tradizionalmente antiperonista, il partito di centrodestra Propuesta Republicana del sindaco Mauricio Macri, è riuscito di pochi punti a prevalere sul fronte di centrosinistra UNEN e sul Fronte per la Vittoria.Anche questo un risultato a sorpresa non ipotizzato dai sondaggisti.I giornalisti sia esteri che nazionali ha già cominciato a parlare di fine di un’epoca,di crolla del Kirchnerismo ovvero di quel particolare periodo politico di ispirazione peronista nato nel 2003 con l’elezione a presidente dell’Argentina di Néstor Kirchner, marito di Cristina (Néstor morì nell’ottobre del 2010, e la sua attività politica fu portata avanti da allora dalla moglie).
La «presidenta» è stata oggetto di durissime critiche nel corso delle sue due presidenze,soprattutto per le politiche adottate per affrontare la crisi economica, l’aumento della criminalità e la corruzione nel paese.Anche se ha il merito di aver affrontato la durissima crisi economica che sconvolse il paese a partire dal 2006 con coraggio e concretezza. Adesso però il nuovo sembra spingere e Massa, 41 anni, già ha parlato di cominciare a preparare la campagna elettorale per le presidenziali del 2015. Per la Presidentessa sembra davvero arrivata la fine della sua esperienza a capo dell’Argentina.
Ieri in Argentina si sono tenute le cosiddette elezioni legislative parziali e abbiamo assistito ad una dura sconfitta per la presidentessa Cristina Kirchner nelle cinque province più importanti del paese e nella stessa Buenos Aires.La tornata elettorale mirava a modificare la metà della Camera (127 seggi) e un terzo del Senato (24 seggi). La Kirchner aveva dato vita ad una coalizione presidenziale, denominata Fronte per la vittoria (Fpv) che ha però perso nelle province di Buenos Aires - il distretto più importante a livello demografico ed economico - Cordoba, Santa Fe, Mendoza e nella città di Buenos Aires.Nonostante tutto però è riuscita a conservare comunque la maggioranza relativa al Parlamento e si è confermata come prima forza politica nel Paese. Non potrà però contare sulla maggioranza dei due terzi, che sarebbero un elemento necessario per poter attuare quelle riforme della Costituzione per rendere possibile una sua terza candidatura per un terzo mandato presidenziale,in Argentina infatti ogni presidente non può ricandidarsi per il terzo mandato consecutivo.
La sorpresa di queste elezioni è stato nella provincia di Buenos Aires il Fronte Renovador (Fronte Rinnovatore) del peronista dissidente, sindaco della città di Tigre, Sergio Massa, questi ha avuto la meglio con il 42 per cento sul candidato del Fronte per la vittoria - e appoggiato da Kirchner - Martin Insaurralde, 29%, secondo dati ora definitivi. Nella capitale, tradizionalmente antiperonista, il partito di centrodestra Propuesta Republicana del sindaco Mauricio Macri, è riuscito di pochi punti a prevalere sul fronte di centrosinistra UNEN e sul Fronte per la Vittoria.Anche questo un risultato a sorpresa non ipotizzato dai sondaggisti.I giornalisti sia esteri che nazionali ha già cominciato a parlare di fine di un’epoca,di crolla del Kirchnerismo ovvero di quel particolare periodo politico di ispirazione peronista nato nel 2003 con l’elezione a presidente dell’Argentina di Néstor Kirchner, marito di Cristina (Néstor morì nell’ottobre del 2010, e la sua attività politica fu portata avanti da allora dalla moglie).
La «presidenta» è stata oggetto di durissime critiche nel corso delle sue due presidenze,soprattutto per le politiche adottate per affrontare la crisi economica, l’aumento della criminalità e la corruzione nel paese.Anche se ha il merito di aver affrontato la durissima crisi economica che sconvolse il paese a partire dal 2006 con coraggio e concretezza. Adesso però il nuovo sembra spingere e Massa, 41 anni, già ha parlato di cominciare a preparare la campagna elettorale per le presidenziali del 2015. Per la Presidentessa sembra davvero arrivata la fine della sua esperienza a capo dell’Argentina.
Torna il Data-gate.Anche l'Europa spiata.
di Ilenia Marini
Nuove rivelazioni e nuovi dati raccolti sullo scandalo americano.
Nonostante le scuse presidenziali e le rassicurazioni,lo scandalo Datagate non placa,anzi comincia ad allargarsi in modo enorme.La NSA avrebbe intercettato comunicazioni protette del presidente francese Hollande e del capo di governo messicano Calderon.Obama ha presentato le scuse ufficiali degli USA e comunicato che la stampa abbia ingigantito la questione e la reale portata del progetto dell'agenzia.Inoltre il presidente americano ha evidenziato che la sua presidenza rivedrà le modalità e gli obiettivi inerenti la raccolta di dati sensibili e strategici da parte della NSA.Il presidente francese Hollande secondo la stampa transalpina non avrebbe gradito l'invasione americana nella privacy sua e di altri politici francesi,una scortesia tra alleati l'ha definita,disapprovando i metodi arroganti dell'agenzia di intelligence statunitense;del resto Obama è ben cosciente che le scuse da utilizzare sono pochissime.
L'atteggiamento dell'agenzia di spionaggio è stato irriguardoso ed imbarazzante. Per ricucire questo stappo,il segretario di stato John Kerry avrebbe in programma proprio un bilaterale USA-Francia per chiarire definitivamente la questione datagate,ma la disponibilità francese ad oggi non c'è ancora stata.Anche in Messico l'irritazione è tanta.Calderon ha chiesto una vera apertura di indagine e si è definito "profondamente scioccato» dell'accaduto.Rimarcando che un paese alleato come gli Usa non ha alcun bisogno nè motivazione di spiare così tante comunicazioni private che non hanno alcuna giustificazione strategica o di difesa nazionale.
Il quotidiano francese Le Monde ha comunicato che nel solo anno 2012 la NSA avrebbe effettuato, nella sola Francia, 70,3 milioni di registrazioni di dati telefonici, citando i documenti della talpa Snowden. La scoperta di questi dati allarmanti ha imposto la convocazione d'urgenza dell’ambasciatore Usa, Charles Rivkin,al quale Hollande ha ricordato che questo tipo di pratiche tra partner sono completamente inaccettabili.Anche l'Europa istituzionale si muve sul tema e il mese prossimo il Consiglio Esteri dell’Ue proporrà «un regolamento sulla protezione dei dati personali” allo scopo di proteggere e meglio garantire la riservatezza non solo dei leader europei ma degli stessi cittadini del vecchio continente.Basterà questo provvedimento per proteggere la nostra privacy dal potente orecchio americano?
Nonostante le scuse presidenziali e le rassicurazioni,lo scandalo Datagate non placa,anzi comincia ad allargarsi in modo enorme.La NSA avrebbe intercettato comunicazioni protette del presidente francese Hollande e del capo di governo messicano Calderon.Obama ha presentato le scuse ufficiali degli USA e comunicato che la stampa abbia ingigantito la questione e la reale portata del progetto dell'agenzia.Inoltre il presidente americano ha evidenziato che la sua presidenza rivedrà le modalità e gli obiettivi inerenti la raccolta di dati sensibili e strategici da parte della NSA.Il presidente francese Hollande secondo la stampa transalpina non avrebbe gradito l'invasione americana nella privacy sua e di altri politici francesi,una scortesia tra alleati l'ha definita,disapprovando i metodi arroganti dell'agenzia di intelligence statunitense;del resto Obama è ben cosciente che le scuse da utilizzare sono pochissime.
L'atteggiamento dell'agenzia di spionaggio è stato irriguardoso ed imbarazzante. Per ricucire questo stappo,il segretario di stato John Kerry avrebbe in programma proprio un bilaterale USA-Francia per chiarire definitivamente la questione datagate,ma la disponibilità francese ad oggi non c'è ancora stata.Anche in Messico l'irritazione è tanta.Calderon ha chiesto una vera apertura di indagine e si è definito "profondamente scioccato» dell'accaduto.Rimarcando che un paese alleato come gli Usa non ha alcun bisogno nè motivazione di spiare così tante comunicazioni private che non hanno alcuna giustificazione strategica o di difesa nazionale.
Il quotidiano francese Le Monde ha comunicato che nel solo anno 2012 la NSA avrebbe effettuato, nella sola Francia, 70,3 milioni di registrazioni di dati telefonici, citando i documenti della talpa Snowden. La scoperta di questi dati allarmanti ha imposto la convocazione d'urgenza dell’ambasciatore Usa, Charles Rivkin,al quale Hollande ha ricordato che questo tipo di pratiche tra partner sono completamente inaccettabili.Anche l'Europa istituzionale si muve sul tema e il mese prossimo il Consiglio Esteri dell’Ue proporrà «un regolamento sulla protezione dei dati personali” allo scopo di proteggere e meglio garantire la riservatezza non solo dei leader europei ma degli stessi cittadini del vecchio continente.Basterà questo provvedimento per proteggere la nostra privacy dal potente orecchio americano?
Per gli USA sempre alto il rischio default.
di Ilenia Marini
Continuano i problemi per la presidenza Obama.
Queste settimane sono davvero dure ed intense per Barack Obama.Il conflitto con i deputati repubblicani è fortissimo e non accenna a diminuire soprattutto a causa della riforma sanitaria che non convince affatto il partito politico avverso ai Democratici.Il cosiddetto shutdown inscenato in questi giorni è un vero salasso per l'economia americana e la preoccupazione del Presidente è che possa diventare in breve una vera minaccia di caos economico. Queste preoccupazioni sono state rese note da Obama nella recente conferenza stampa tenuta dal salotto della Casa Bianca.Ma i problemi non sono terminati qui.Ieri infatti la Camera americana ha bloccato il rifinanziamento del bilancio statale in protesta contro le politiche sociali dell’amministrazione Obama e molti specifici servizi statali sono stati interrotti. Insieme allo shutdown poi si è registrato,sempre ieri un’innalzamento dei dati inerenti il debito del Paese.
Obama mercoledi attraverso un colloquio diretto con il repubblicano John Boehner gli avrebbe chiesto di appoggiare in aula un provvedimento che permetterà al governo di continuare a prendere in prestito denaro, innalzando dunque il tetto del debito. Nel corso del dibattito si è discusso della possibilità di porre immediatamente fine allo shutdown.Ma Obama non ha ancora ricevuto una specifica risposta nonostante egli sottolinei di essere disposto a qualsiasi forma di diaologo,anche con le frange estreme,se serve per neutralizzare ogni forma di minaccia per l'economia statunitense.Inoltre però una serie di critiche all'atteggiamento Repubblicano vengono comunque ribadite:in primis utilizzare la paura della recessione per fini politici e personali non è un comportamento etico,ha evidenziato Obama.Per poi passare al tanto discusso declassamento subito dagli USA dall’agenzia di rating Standard & Poors,il quale,secondo il Presidente,non è servito da monito ai Repubblicani per limitare il loro atteggiamento di scontro.Molto temuto comunque è il comportamento dei Tea Party che estremizzano ogni forma di dibattito politico.
Ma ad Obama preme soprattutto approvare il provvedimento sul debito altrimenti per la prima volta nella loro storia gli Usa non potrebbero garantire i loro debitori e rischiare seriamente il default finanziario.I mostri sacri della finanza hanno sottolineato che una situazione del genere sarebbe come una bomba per tutta l'economia occidentale,un rischio troppo grosso che non va corso in alcun modo. Innalzare il debito pubblico per poter essere solvibili non certo per creare nuovo deficit.Questo è il centro del provvedimento che necessita dell'approvazione del Congresso.Il rischio di default ha attirato l’attenzione dei grandi partner commerciali, su tutti la Cina. E a Pechino il presidente cinese ha affermato di essere preoccupato ma di nutrire grande fiducia nei politici americani e sul loro senso di responsabilità.Sarà davvero così?
Queste settimane sono davvero dure ed intense per Barack Obama.Il conflitto con i deputati repubblicani è fortissimo e non accenna a diminuire soprattutto a causa della riforma sanitaria che non convince affatto il partito politico avverso ai Democratici.Il cosiddetto shutdown inscenato in questi giorni è un vero salasso per l'economia americana e la preoccupazione del Presidente è che possa diventare in breve una vera minaccia di caos economico. Queste preoccupazioni sono state rese note da Obama nella recente conferenza stampa tenuta dal salotto della Casa Bianca.Ma i problemi non sono terminati qui.Ieri infatti la Camera americana ha bloccato il rifinanziamento del bilancio statale in protesta contro le politiche sociali dell’amministrazione Obama e molti specifici servizi statali sono stati interrotti. Insieme allo shutdown poi si è registrato,sempre ieri un’innalzamento dei dati inerenti il debito del Paese.
Obama mercoledi attraverso un colloquio diretto con il repubblicano John Boehner gli avrebbe chiesto di appoggiare in aula un provvedimento che permetterà al governo di continuare a prendere in prestito denaro, innalzando dunque il tetto del debito. Nel corso del dibattito si è discusso della possibilità di porre immediatamente fine allo shutdown.Ma Obama non ha ancora ricevuto una specifica risposta nonostante egli sottolinei di essere disposto a qualsiasi forma di diaologo,anche con le frange estreme,se serve per neutralizzare ogni forma di minaccia per l'economia statunitense.Inoltre però una serie di critiche all'atteggiamento Repubblicano vengono comunque ribadite:in primis utilizzare la paura della recessione per fini politici e personali non è un comportamento etico,ha evidenziato Obama.Per poi passare al tanto discusso declassamento subito dagli USA dall’agenzia di rating Standard & Poors,il quale,secondo il Presidente,non è servito da monito ai Repubblicani per limitare il loro atteggiamento di scontro.Molto temuto comunque è il comportamento dei Tea Party che estremizzano ogni forma di dibattito politico.
Ma ad Obama preme soprattutto approvare il provvedimento sul debito altrimenti per la prima volta nella loro storia gli Usa non potrebbero garantire i loro debitori e rischiare seriamente il default finanziario.I mostri sacri della finanza hanno sottolineato che una situazione del genere sarebbe come una bomba per tutta l'economia occidentale,un rischio troppo grosso che non va corso in alcun modo. Innalzare il debito pubblico per poter essere solvibili non certo per creare nuovo deficit.Questo è il centro del provvedimento che necessita dell'approvazione del Congresso.Il rischio di default ha attirato l’attenzione dei grandi partner commerciali, su tutti la Cina. E a Pechino il presidente cinese ha affermato di essere preoccupato ma di nutrire grande fiducia nei politici americani e sul loro senso di responsabilità.Sarà davvero così?
L'Onu decide.Basta armi chimiche in Siria.
di Ilenia Marini
Risoluzione approvata.Parte il disarmo di Assad.
L'arsenale chimico in possesso del regime di Assad sarà smantellato.Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha deciso di votare all'unanimità la risoluzione sulla distruzione delle armi chimiche in Siria, la votazione è avvenuta due giorni fa.I Quindici paesi aventi diritto di voto hanno emesso un voto davvero storico,il documento era stato preparato insieme sia dagli Stati Uniti che dalla Russia e il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha ritenuto opportuno affermare che altri esperti dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) giungeranno in Siria martedì per le prime operazioni. Il rispetto del contenuto della decisione votata da Opac e Consiglio di sicurezza Onu verrà controllato e verificato dopo i primi 30 giorni dall'adozione della risoluzione,allo scopo di garantirne l'esecuzione. Ovviamente è chiaro che il buon esito della missione degli esperti per la distruzione delle armi chimiche in Siria dipende dal fatto che le autorità di Damasco rispettino pienamente gli impegni e si occupino in prima persona della sicurezza del personale Opac e Onu, tutte le parti insomma devono cooperare attivamente.
Lo smantellamento delle armi chimiche siriane dovrebbe avvenire entro il 2014 secondo ciò che afferma il comitato esecutivo dell'Opac, riunito all'Aja dove era presente anche una delegazione siriana. Le somme necessarie per l'operazione sono già state sbloccate: la Gran Bretagna finanzierà un corposo contributo iniziale di tre milioni di dollari all'Opac, almeno è quello che è stato promesso dal ministro degli Esteri britannico William Hague dopo il voto Onu.Tornando al documento votato dall'Onu,la bozza è stato il frutto di un lunghissimo lavoro diplomatico fra il Ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov e la Presidenza Obama. Una volta raggiunto l'accordo era stato salutato con soddisfazione da tutta la Comunità Internazionale,una vera vittoria per tutti.Ora bisogna dare concretezza alle parole ufficiali, e il viatico è ottimo proprio grazie al voto favorevole dell'Onu allo smantellamento.Ieri intanto il segretario di Stato americano John Kerry ha commentato con decisione la situazione e ha sottolineato come tutte le nazioni siano d'accordo col ritenere vietate armi chimiche che costituiscono una pericolosa minaccia per la pace e la sicurezza internazionale.La bozza di risoluzione votata però non è tutelata dal Capitolo 7 della carta Onu, il capitolo cioè che prevede l'uso della forza. Il documento stabilisce che , in caso di inadempienza degli obblighi inseriti nella risoluzione, inerenti cioè un ulteriore uso di armi chimiche, non si avranno conseguenze dirette ma ci dovrà essere una nuova risoluzione Onu. Il documento è molto corposo,con ben 22 paragrafi, e condanna nei termini più forti qualsiasi uso di armi chimiche in Siria, e in particolare denuncia l'attacco avutosi nel 21 agosto scorso.
L'uso di armi chimiche,è stabilito nella risoluzione, costituisce una forte minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Dai paragrafi votati dall'Onu si evince che la Siria non può usare, produrre, acquistare o trasferire alcun tipo di arma chimica e sottolinea che questo vale per tutte le parti nel Paese mediorientale. Inoltre nella parte finale del documento si afferma che gli Stati membri dell'Onu si devono astenere dal fornire qualsiasi sostegno a chi tenti di produrre o trasferire tali armi. Tra le questioni centrali della risoluzione si evidenzia che l' Opac si occuperà direttamente del disarmo chimico, e che il regime di Damasco deve rispettare tale decisione, e cooperare pienamente con l'organizzazione dell'Aja. Il rispetto del contenuto dell'Opac e del Consiglio di Sicurezza verrà verificato periodicamente ogni mese dall'Onu,altrimenti la risoluzione dovrà dirsi violata e le conseguenze quelle su indicate.Insomma la Comunità Internazionale sembra finalmente compatta e forse le stragi siriane avranno finalmente una fine.
L'arsenale chimico in possesso del regime di Assad sarà smantellato.Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha deciso di votare all'unanimità la risoluzione sulla distruzione delle armi chimiche in Siria, la votazione è avvenuta due giorni fa.I Quindici paesi aventi diritto di voto hanno emesso un voto davvero storico,il documento era stato preparato insieme sia dagli Stati Uniti che dalla Russia e il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha ritenuto opportuno affermare che altri esperti dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) giungeranno in Siria martedì per le prime operazioni. Il rispetto del contenuto della decisione votata da Opac e Consiglio di sicurezza Onu verrà controllato e verificato dopo i primi 30 giorni dall'adozione della risoluzione,allo scopo di garantirne l'esecuzione. Ovviamente è chiaro che il buon esito della missione degli esperti per la distruzione delle armi chimiche in Siria dipende dal fatto che le autorità di Damasco rispettino pienamente gli impegni e si occupino in prima persona della sicurezza del personale Opac e Onu, tutte le parti insomma devono cooperare attivamente.
Lo smantellamento delle armi chimiche siriane dovrebbe avvenire entro il 2014 secondo ciò che afferma il comitato esecutivo dell'Opac, riunito all'Aja dove era presente anche una delegazione siriana. Le somme necessarie per l'operazione sono già state sbloccate: la Gran Bretagna finanzierà un corposo contributo iniziale di tre milioni di dollari all'Opac, almeno è quello che è stato promesso dal ministro degli Esteri britannico William Hague dopo il voto Onu.Tornando al documento votato dall'Onu,la bozza è stato il frutto di un lunghissimo lavoro diplomatico fra il Ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov e la Presidenza Obama. Una volta raggiunto l'accordo era stato salutato con soddisfazione da tutta la Comunità Internazionale,una vera vittoria per tutti.Ora bisogna dare concretezza alle parole ufficiali, e il viatico è ottimo proprio grazie al voto favorevole dell'Onu allo smantellamento.Ieri intanto il segretario di Stato americano John Kerry ha commentato con decisione la situazione e ha sottolineato come tutte le nazioni siano d'accordo col ritenere vietate armi chimiche che costituiscono una pericolosa minaccia per la pace e la sicurezza internazionale.La bozza di risoluzione votata però non è tutelata dal Capitolo 7 della carta Onu, il capitolo cioè che prevede l'uso della forza. Il documento stabilisce che , in caso di inadempienza degli obblighi inseriti nella risoluzione, inerenti cioè un ulteriore uso di armi chimiche, non si avranno conseguenze dirette ma ci dovrà essere una nuova risoluzione Onu. Il documento è molto corposo,con ben 22 paragrafi, e condanna nei termini più forti qualsiasi uso di armi chimiche in Siria, e in particolare denuncia l'attacco avutosi nel 21 agosto scorso.
L'uso di armi chimiche,è stabilito nella risoluzione, costituisce una forte minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Dai paragrafi votati dall'Onu si evince che la Siria non può usare, produrre, acquistare o trasferire alcun tipo di arma chimica e sottolinea che questo vale per tutte le parti nel Paese mediorientale. Inoltre nella parte finale del documento si afferma che gli Stati membri dell'Onu si devono astenere dal fornire qualsiasi sostegno a chi tenti di produrre o trasferire tali armi. Tra le questioni centrali della risoluzione si evidenzia che l' Opac si occuperà direttamente del disarmo chimico, e che il regime di Damasco deve rispettare tale decisione, e cooperare pienamente con l'organizzazione dell'Aja. Il rispetto del contenuto dell'Opac e del Consiglio di Sicurezza verrà verificato periodicamente ogni mese dall'Onu,altrimenti la risoluzione dovrà dirsi violata e le conseguenze quelle su indicate.Insomma la Comunità Internazionale sembra finalmente compatta e forse le stragi siriane avranno finalmente una fine.
Israele e Palestina.Conflitto senza fine.
di Ilenia Marini
Uno scontro politico-sociale perenne.
Il 2006 è un anno importante.In Palestina le elezioni politiche vengono vinte a sorpresa dal partito armato degli islamisti di Hamas. Il nuovo governo di Hamas ha però vita breve, poichè rapidamente viene boicottato sia dalla comunità internazionale che da Israele.Nel giugno del 2006 Hamas e Fatah accettano di formare un governo di unità nazionale, sulla base di un accordo raggiunto alla Mecca.La crisi interna allo stato palestinese si aggrava lentamente e nel maggio del 2007 sfocia in una vera battaglia in piazza che culmina con la conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas, mentre in Cisgiordania il gruppo Fatah muove accuse di colpo di Stato, e fonda un governo di Emergenza. In tutta risposta Israele sentendosi minacciata da Hamas dichiara Gaza “zona nemica” impone sulla Striscia un durissimo embargo, impedendo anche l'apertura dei confini.E' proprio a causa dell'embargo che nel 2008 Hamas distrugge tratti della barriera di confine, per permettere alla popolazione palestinese di entrare in Egitto e procurarsi generi di prima necessità.Intanto Israele e l'Autorità Palestinese di Abu Mazen,cominciano un lungo percorso di colloqui di pace con la supervisione Usa ad Annapolis.
Le trattative, però, sono molto difficoltose a causa soprattutto della riottosità israeliana ad accettare una serie di temi chiave del conflitto: lo status di Gerusalemme e quello dei profughi palestinesi. Anzi,come se non bastasse Israele continua l'allargamento delle sue colonie in Cisgiordania, nel chiaro obiettivo di iniziare l'ampliamento del proprio perimetro territoriale.Anche gli Usa sono contrari a questo atteggiamento israeliano ma le formali proteste restano inascoltate.Le concessioni che Israele intende fare ad Abu Mazen si limitano solo alla liberazione di alcuni detenuti e di militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, a condizione che rinuncino alla lotta armata. Nonostante tutto i colloqui di Annapolis promettono di portare alla nascita di uno Stato palestinese entro la fine del 2009. Ma nell'autunno 2008, però, la carriera politica del premier israeliano Olmert termina a causa dei guai giudiziari che portano la ministro degli Esteri Tzipi Livni a prendere il controllo del partito Kadima. Quindi il rispetto delle date per i colloqui diventa difficile da garantire e tutto slitta a dopo le elezioni in Israele e la fine del mandato di Abu Mazen. Intanto a sorpresa Hamas dichiara una tregua con Israele, impegnandosi a cessare il lancio di razzi verso il sud del territorio israeliano.Israele però non cessa il suo pugno duro e sporadici raid nel territorio palestinese vengono comunque effettuati.
L'embargo sulla Striscia di Gaza rimane e di fatto la popolazione palestinese viene affamata,sfiorando la crisi umanitaria.Il 27 dicembre 2008 Israele lancia in segreto l'offensiva denominata Cast Lead, Piombo Fuso.La Striscia di Gaza subisce per cinque giorni forti bombardamenti e il territorio viene invaso dall'esercito israeliano.Nel primo giorno di bombardamenti i morti si aggirano tra i 200 e i 300.I feriti vengono stimati da fonti mediche palestinesi in circa 700.Intanto, Hamas reagisce e dalla Striscia di Gaza parte il lancio di razzi Qassam e Grad sul sud d'Israele, che nel primo giorno causano una vittima e diversi feriti.Successivamente, nella mattina del 3 gennaio 2009, Israele inizia a colpire la Striscia con colpi di artiglieria,annunciando anche un'azione di terra.A Gaza la situazione si fa drammatica,il sistema sanitario collassa, a 200.000 abitanti manca l'elettricità,l'acqua corrente è disponibile solo per alcune ore,i bombardamenti hanno inoltre distrutto la rete fognaria e le acque reflue si riversano per le strade.Per fortuna il 18 gennaio 2009 si svolge la Conferenza di Pace di Sharm el Sheikh, fortemente richiesta dalla Comunità Internazionale e dall'egiziano Mubarak, che permette di firmare una tregua da parte d'Israele con conseguente ritiro dell'esercito da Gaza a patto che i confini siano sorvegliati direttamente dalle truppe.
Il bilancio di questi dieci giorni di guerra è drammatico,1200 morti palestinesi di cui ben 402 bambini,da parte israeliano invece 13 vittime e 123 feriti.Nel 2010 gli ispettori ONU hanno indagato sulle fasi del conflitto e accusato sia Israele che Hamas di violazione dei diritti umani.Da allora ad oggi la situazione sembra essersi rasserenata,la tregua dura da almeno tre anni,le condizioni politiche e democratiche fanno ben sperare sul futuro.Ma sempre grande è l'angoscia per le sorti di un conflitto instabile e sempre sull'orlo del caos.
Il 2006 è un anno importante.In Palestina le elezioni politiche vengono vinte a sorpresa dal partito armato degli islamisti di Hamas. Il nuovo governo di Hamas ha però vita breve, poichè rapidamente viene boicottato sia dalla comunità internazionale che da Israele.Nel giugno del 2006 Hamas e Fatah accettano di formare un governo di unità nazionale, sulla base di un accordo raggiunto alla Mecca.La crisi interna allo stato palestinese si aggrava lentamente e nel maggio del 2007 sfocia in una vera battaglia in piazza che culmina con la conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas, mentre in Cisgiordania il gruppo Fatah muove accuse di colpo di Stato, e fonda un governo di Emergenza. In tutta risposta Israele sentendosi minacciata da Hamas dichiara Gaza “zona nemica” impone sulla Striscia un durissimo embargo, impedendo anche l'apertura dei confini.E' proprio a causa dell'embargo che nel 2008 Hamas distrugge tratti della barriera di confine, per permettere alla popolazione palestinese di entrare in Egitto e procurarsi generi di prima necessità.Intanto Israele e l'Autorità Palestinese di Abu Mazen,cominciano un lungo percorso di colloqui di pace con la supervisione Usa ad Annapolis.
Le trattative, però, sono molto difficoltose a causa soprattutto della riottosità israeliana ad accettare una serie di temi chiave del conflitto: lo status di Gerusalemme e quello dei profughi palestinesi. Anzi,come se non bastasse Israele continua l'allargamento delle sue colonie in Cisgiordania, nel chiaro obiettivo di iniziare l'ampliamento del proprio perimetro territoriale.Anche gli Usa sono contrari a questo atteggiamento israeliano ma le formali proteste restano inascoltate.Le concessioni che Israele intende fare ad Abu Mazen si limitano solo alla liberazione di alcuni detenuti e di militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, a condizione che rinuncino alla lotta armata. Nonostante tutto i colloqui di Annapolis promettono di portare alla nascita di uno Stato palestinese entro la fine del 2009. Ma nell'autunno 2008, però, la carriera politica del premier israeliano Olmert termina a causa dei guai giudiziari che portano la ministro degli Esteri Tzipi Livni a prendere il controllo del partito Kadima. Quindi il rispetto delle date per i colloqui diventa difficile da garantire e tutto slitta a dopo le elezioni in Israele e la fine del mandato di Abu Mazen. Intanto a sorpresa Hamas dichiara una tregua con Israele, impegnandosi a cessare il lancio di razzi verso il sud del territorio israeliano.Israele però non cessa il suo pugno duro e sporadici raid nel territorio palestinese vengono comunque effettuati.
L'embargo sulla Striscia di Gaza rimane e di fatto la popolazione palestinese viene affamata,sfiorando la crisi umanitaria.Il 27 dicembre 2008 Israele lancia in segreto l'offensiva denominata Cast Lead, Piombo Fuso.La Striscia di Gaza subisce per cinque giorni forti bombardamenti e il territorio viene invaso dall'esercito israeliano.Nel primo giorno di bombardamenti i morti si aggirano tra i 200 e i 300.I feriti vengono stimati da fonti mediche palestinesi in circa 700.Intanto, Hamas reagisce e dalla Striscia di Gaza parte il lancio di razzi Qassam e Grad sul sud d'Israele, che nel primo giorno causano una vittima e diversi feriti.Successivamente, nella mattina del 3 gennaio 2009, Israele inizia a colpire la Striscia con colpi di artiglieria,annunciando anche un'azione di terra.A Gaza la situazione si fa drammatica,il sistema sanitario collassa, a 200.000 abitanti manca l'elettricità,l'acqua corrente è disponibile solo per alcune ore,i bombardamenti hanno inoltre distrutto la rete fognaria e le acque reflue si riversano per le strade.Per fortuna il 18 gennaio 2009 si svolge la Conferenza di Pace di Sharm el Sheikh, fortemente richiesta dalla Comunità Internazionale e dall'egiziano Mubarak, che permette di firmare una tregua da parte d'Israele con conseguente ritiro dell'esercito da Gaza a patto che i confini siano sorvegliati direttamente dalle truppe.
Il bilancio di questi dieci giorni di guerra è drammatico,1200 morti palestinesi di cui ben 402 bambini,da parte israeliano invece 13 vittime e 123 feriti.Nel 2010 gli ispettori ONU hanno indagato sulle fasi del conflitto e accusato sia Israele che Hamas di violazione dei diritti umani.Da allora ad oggi la situazione sembra essersi rasserenata,la tregua dura da almeno tre anni,le condizioni politiche e democratiche fanno ben sperare sul futuro.Ma sempre grande è l'angoscia per le sorti di un conflitto instabile e sempre sull'orlo del caos.
Ennesima strage di cristiani in Pakistan.
di Ilenia Marini
Sangue e morte in chiesa.Terrore in medioriente.
In Africa e soprattutto in Medioriente la religione cristiana non è quella più diffusa,anzi molto spesso è in forte minoranza dinanzi all'enormità del culto musulmano.In molte zone della terra chi intende professare la fede in Cristo è minacciato e perseguitato,un pò come accadeva secoli orsono nella Roma imperiale.Ennesimo esempio si è avuto ieri in Pakistan,ultima in ordine di tempo ma di certo non ultima strage di cristiani.Una strage fortemente cercata e voluta, realizzata con l'azione suicida di due kamikaze che si sono fatti esplodere tra i fedeli davanti a una chiesa di Peshawar. Orrore e sangue hanno quindi sconvolto ieri il Pakistan,decine le vittime tutte ovviamente tra fedeli cristiani colpiti nel luogo e nel momento della manifestazione della loro fede, la messa domenicale.Da pochi minuti era terminata la funzione religiosa nella chiesa di Khoati Bazaar a Peshawar, in Pakistan,una chiesa non molto grande ma molto frequentata dai fedeli di una religione in forte crescita nelle zone mediorientali.
Mescolati tra i fedeli in uscita, i kamikaze hanno compiuto la loro missione suicida facendosi esplodere. Il bilancio della strage è davvero drammatico: 81 morti e circa 145 feriti. Ma si tratta di un numero che probabilmente salirà molto nelle prosisme ore diventando molto più tragico. Il capo della polizia di Peshawar sostiene che nell'attacco terroristico in chiesa sono stati usati circa 7 kili di esplosivo potentissimo e che l'attentato è stato reso più cruento dall'aggiunta di biglie di acciaio. Inoltre, la polizia che indaga sull'episodio ha indicato di avere ritrovato quasi subito il cranio di uno degli attentatori suicidi, mentre il secondo è stato ritrovato addirittura sul tetto della chiesa.La maggioranza dei feriti si trova in gravi condizioni, ha riferito una fonte ospedaliera. Gli attacchi sono stati realizzati nel medisimo momento da entrambi i kamikaze. Il presidente dell'Alleanza pan-pachistana delle minoranze, Paul Bhatti, ha condannato l'attacco contro la chiesa a Peshawar e lo ha definito un vero tentativo di «destabilizzare il Paese». L'attentato di oggi è il più grave contro i cristiani pachistani afferma l'ex ministro per gli affari delle Minoranze.
Il Ministro però ha anche puntato il dito contro «forze straniere» che sarebbero dietro la strage e ha accusato il governo di non garantire abbastanza protezione alle minoranze religiose.I cristiani presenti in Pakistan sono solo il 4% della popolazione e negli ultimi anni sono stati spesso oggetto di attacchi islamici, la religione principale del paese con ben 180 milioni di fedeli. Essere cristiani, così come seguire altre religioni minoritarie nel Paese, è spesso considerato dall'Islam un sorta di peccato,di blasfemia.Un episodio analogo ma meno cruento si era avuto anche a marzo quando una folla esaltata di estremisti islamici aveva dato fuoco a un centinaio di abitazioni di cristiani nella Joseph Colony di Lahore mentre nel 2012 fu davvero piena di sdegno la notizia dell'arresto di una bambina down di soli 10 anni arresta per blasfemia.Tutti episodi critici che evidenziano come la libertà religiosa in Pakistan sia e resti solo un lontano miraggio.
In Africa e soprattutto in Medioriente la religione cristiana non è quella più diffusa,anzi molto spesso è in forte minoranza dinanzi all'enormità del culto musulmano.In molte zone della terra chi intende professare la fede in Cristo è minacciato e perseguitato,un pò come accadeva secoli orsono nella Roma imperiale.Ennesimo esempio si è avuto ieri in Pakistan,ultima in ordine di tempo ma di certo non ultima strage di cristiani.Una strage fortemente cercata e voluta, realizzata con l'azione suicida di due kamikaze che si sono fatti esplodere tra i fedeli davanti a una chiesa di Peshawar. Orrore e sangue hanno quindi sconvolto ieri il Pakistan,decine le vittime tutte ovviamente tra fedeli cristiani colpiti nel luogo e nel momento della manifestazione della loro fede, la messa domenicale.Da pochi minuti era terminata la funzione religiosa nella chiesa di Khoati Bazaar a Peshawar, in Pakistan,una chiesa non molto grande ma molto frequentata dai fedeli di una religione in forte crescita nelle zone mediorientali.
Mescolati tra i fedeli in uscita, i kamikaze hanno compiuto la loro missione suicida facendosi esplodere. Il bilancio della strage è davvero drammatico: 81 morti e circa 145 feriti. Ma si tratta di un numero che probabilmente salirà molto nelle prosisme ore diventando molto più tragico. Il capo della polizia di Peshawar sostiene che nell'attacco terroristico in chiesa sono stati usati circa 7 kili di esplosivo potentissimo e che l'attentato è stato reso più cruento dall'aggiunta di biglie di acciaio. Inoltre, la polizia che indaga sull'episodio ha indicato di avere ritrovato quasi subito il cranio di uno degli attentatori suicidi, mentre il secondo è stato ritrovato addirittura sul tetto della chiesa.La maggioranza dei feriti si trova in gravi condizioni, ha riferito una fonte ospedaliera. Gli attacchi sono stati realizzati nel medisimo momento da entrambi i kamikaze. Il presidente dell'Alleanza pan-pachistana delle minoranze, Paul Bhatti, ha condannato l'attacco contro la chiesa a Peshawar e lo ha definito un vero tentativo di «destabilizzare il Paese». L'attentato di oggi è il più grave contro i cristiani pachistani afferma l'ex ministro per gli affari delle Minoranze.
Il Ministro però ha anche puntato il dito contro «forze straniere» che sarebbero dietro la strage e ha accusato il governo di non garantire abbastanza protezione alle minoranze religiose.I cristiani presenti in Pakistan sono solo il 4% della popolazione e negli ultimi anni sono stati spesso oggetto di attacchi islamici, la religione principale del paese con ben 180 milioni di fedeli. Essere cristiani, così come seguire altre religioni minoritarie nel Paese, è spesso considerato dall'Islam un sorta di peccato,di blasfemia.Un episodio analogo ma meno cruento si era avuto anche a marzo quando una folla esaltata di estremisti islamici aveva dato fuoco a un centinaio di abitazioni di cristiani nella Joseph Colony di Lahore mentre nel 2012 fu davvero piena di sdegno la notizia dell'arresto di una bambina down di soli 10 anni arresta per blasfemia.Tutti episodi critici che evidenziano come la libertà religiosa in Pakistan sia e resti solo un lontano miraggio.
Polveriera Mediorientale.E' sempre caos.
di Ilenia Marini
Sempre pericolosi gli scenari internazionali nella zona araba.
Il Medio-oriente non è mai stato un argomento facile da trattare e da spiegare,difficile fare previsioni politiche e sociali e negli ultimi mesi lo è ancora di più. Per questo motivo la grande prudenza che nei rapporti diplomatici sta mostrando il presidente Obama forse è l’arma più utile,più delle bombe e delle missioni di attacco. La testimonianza di tutto questo l’ abbiamo dal recentissimo accordo stipulato fra le due super potenze Usa e Russia.Un accordo sulla Siria che scongiura attacchi e raid imminenti contro il regime di Assad ma che ha fortemente deluso gli attivisti e i ribelli siriani che invece speravano in un imminente piano di invasione americano contro la Siria allo scopo di rovesciare la dittatura del presidente Assad. Obama in Medioriente non gode di una forte popolarità,in paesi come Il Cairo, Beirut, Damasco, molti politici e religiosi lo vedono come un uomo troppo timoroso e con poco piglio decisionale,schiavo del compromesso e della diplomazia all’ennesima potenza.
Insomma un modo diverso di intendere l’essere leader di un paese. Ma questo argomento non ha grande presa sullo stesso Obama che più volte ha evidenziato di non desiderare l’essere amato per ciò che è ma per ciò che fa per il suo paese. Proteggere il suo elettorato e difendere la sicurezza nazionale questa è la sola preoccupazione vera di Obama. Ragionare oggi sulla base del discorso che Obama fece al Cairo nel 2009 non aiuta, perchè da allora il Medioriente è molto cambiato e sta ancora adesso cambiando in maniera talmente radicale che per individuare una similitudine storica si deve tornare alla prima guerra mondiale. Insomma, per gli Stati Uniti il focus è sulla strategia, la popolarità può aspettare anzi è del tutto futile. La Russia resta sostanzialmente molto lontana dal Medioriente, negli ultimi 30 anni la sua unica e reale relazione “araba” è stata solo con la Siria e sebbene abbia una forte potenza economica non possiede alcuna nozione geopolitica. I veri grandi attori della politica internazionale in Medio-oriente oggi sono l’Arabia Saudita, gli altri paesi del Golfo e l’Egitto.
Per ciò che riguarda Riad, sebbene la fiducia nell’America sia diminuita in relazione alla fretta di Obama di liberarsi di Mubarak e all’appoggio non arrivato per reprimere la rivolta in Bahrain (nonostante gli Usa avessero in zona la 5° flotta), la relazione diplomatica con Washington resterà forte e non solo per il petrolio (rispetto al quale esistono già altri paesi cui attingere) ma a causa della presenza ingombrante dell’Iran, la cui minaccia accomuna in breve gli interessi sauditi,americani e israeliani. Tutti i restanti paesi del Golfo Persico, Qatar in testa, ragionano grosso modo come Riad. Poi c’è la polveriera Egitto, dove gli Stati Uniti hanno di fatto “creato” l’esercito e subire l’avanzata politica della Russia è quasi impossibile,difficile che cambino le cose. Tra l’altro,nonostante le recenti schermaglie non pare affatto reale che Usa e militari egiziani vogliano davvero separarsi perché ad essere in gioco è anche la pace con Israele che nessuno vuole incrinare o ridimensionare. Anzi forse a sorpresa è proprio la questione israeliana l’unica che resta ancora stabile in una regione che vive nel caos, dalla Siria alla Libia alla Tunisia fino all’Algeria.
Il Medio-oriente non è mai stato un argomento facile da trattare e da spiegare,difficile fare previsioni politiche e sociali e negli ultimi mesi lo è ancora di più. Per questo motivo la grande prudenza che nei rapporti diplomatici sta mostrando il presidente Obama forse è l’arma più utile,più delle bombe e delle missioni di attacco. La testimonianza di tutto questo l’ abbiamo dal recentissimo accordo stipulato fra le due super potenze Usa e Russia.Un accordo sulla Siria che scongiura attacchi e raid imminenti contro il regime di Assad ma che ha fortemente deluso gli attivisti e i ribelli siriani che invece speravano in un imminente piano di invasione americano contro la Siria allo scopo di rovesciare la dittatura del presidente Assad. Obama in Medioriente non gode di una forte popolarità,in paesi come Il Cairo, Beirut, Damasco, molti politici e religiosi lo vedono come un uomo troppo timoroso e con poco piglio decisionale,schiavo del compromesso e della diplomazia all’ennesima potenza.
Insomma un modo diverso di intendere l’essere leader di un paese. Ma questo argomento non ha grande presa sullo stesso Obama che più volte ha evidenziato di non desiderare l’essere amato per ciò che è ma per ciò che fa per il suo paese. Proteggere il suo elettorato e difendere la sicurezza nazionale questa è la sola preoccupazione vera di Obama. Ragionare oggi sulla base del discorso che Obama fece al Cairo nel 2009 non aiuta, perchè da allora il Medioriente è molto cambiato e sta ancora adesso cambiando in maniera talmente radicale che per individuare una similitudine storica si deve tornare alla prima guerra mondiale. Insomma, per gli Stati Uniti il focus è sulla strategia, la popolarità può aspettare anzi è del tutto futile. La Russia resta sostanzialmente molto lontana dal Medioriente, negli ultimi 30 anni la sua unica e reale relazione “araba” è stata solo con la Siria e sebbene abbia una forte potenza economica non possiede alcuna nozione geopolitica. I veri grandi attori della politica internazionale in Medio-oriente oggi sono l’Arabia Saudita, gli altri paesi del Golfo e l’Egitto.
Per ciò che riguarda Riad, sebbene la fiducia nell’America sia diminuita in relazione alla fretta di Obama di liberarsi di Mubarak e all’appoggio non arrivato per reprimere la rivolta in Bahrain (nonostante gli Usa avessero in zona la 5° flotta), la relazione diplomatica con Washington resterà forte e non solo per il petrolio (rispetto al quale esistono già altri paesi cui attingere) ma a causa della presenza ingombrante dell’Iran, la cui minaccia accomuna in breve gli interessi sauditi,americani e israeliani. Tutti i restanti paesi del Golfo Persico, Qatar in testa, ragionano grosso modo come Riad. Poi c’è la polveriera Egitto, dove gli Stati Uniti hanno di fatto “creato” l’esercito e subire l’avanzata politica della Russia è quasi impossibile,difficile che cambino le cose. Tra l’altro,nonostante le recenti schermaglie non pare affatto reale che Usa e militari egiziani vogliano davvero separarsi perché ad essere in gioco è anche la pace con Israele che nessuno vuole incrinare o ridimensionare. Anzi forse a sorpresa è proprio la questione israeliana l’unica che resta ancora stabile in una regione che vive nel caos, dalla Siria alla Libia alla Tunisia fino all’Algeria.
Gli U.S.A. approvano il raid contro Assad.
di Ilenia Marini
La Risoluzione passa al Senato americano.
Con solo 7 contrari e 1 astenuto, la Commissione esteri del Senato americano ha deciso di approvare con fermezza il documento di risoluzione che permette e rende legittimo l’intervento armato degli Usa in Siria, come esplicitamente aveva richiesto il presidente Obama. La risoluzione che si è deciso di votare e che subirà poi un ulteriore controllo da parte dell'Aula in Senato, continua a basarsi sui due capitoli bipartisan inseriti la settimana scorsa ovvero un intervento militare «a tempo» che abbia una durata non superiore a 90 giorni e soprattutto senza l’impiego diretto sul suolo siriano dei soldati americani. Questo di oggi è il primo provvedimento che il Congresso Usa è chiamato a votare per permettere e dare autorizzazione ad un’azione militare dal lontano 2002, quando cioè fu data al presidente George W. Bush l'autorità di invadere militarmente l’Iraq e spodestare Saddam Hussein. Una volta avutasi la votazione la Casa Bianca ha mostrato tutta la propria contentezza per la decisione presa.
Ciò che rende felice Obama è soprattutto il fatto che le divisioni politiche fra Repubblicani e Democratici siano state superate in vista di uno scopo superiore ed importante. Un’efficienza istituzionale che noi italiani ad esempio spesso non abbiamo. Una volta che la risoluzione ha ottenuto il voto della Commissione adesso si attende la discussione nell’ aula del Senato i voti favorevoli all’intervento militare devono superare quota 60 per evitare situazioni di fastidioso ostruzionismo. Infine l’intera vicenda passerà poi al vaglio della Camera, che risulta essere a maggioranza repubblicana: molti esperti di politica nazionale americana sottolineano che alla Camera vi sia grande presenza di deputati che,anche se conservatori,prima di esprimere il voto dovranno dare ascolto alle proprie «constituency», cioè ai propri elettori che garantiscono loro le preferenze per essere rieletti di anno in anno. Recenti sondaggi evidenziano però che ben l'80% dei repubblicani alla Camera sia contrario all'attacco.
Quello che risulta di totale evidenza è che alla Commissione Esteri del Senato solo tre repubblicani hanno realmente votato sì all'intervento in Siria: il documento bipartisan è sorta dal volere di tre senatori firmatari Bob Corker, John McCain e Jeff Flake, l'altro senatore eletto in Arizona, quest’ultimo politicamente molto vicino all'ex sfidante di Obama. Altre notizie non certo positive per la Presidenza Obama giungono dal fronte interno,qui nella schiera dei senatori ben due democratici sono contrari, Tom Udall, del New Mexico, e Chris Murphy, Connecticut, e un astenuto, Ed Markey deputato del Massachussets,lo stato democratico per eccellenza. Si evince chiaramente quindi che dalle votazioni della Camera potrebbe scaturire un ulteriore segnale di fiducia o di sfiducia per la posizione di Obama.
Con solo 7 contrari e 1 astenuto, la Commissione esteri del Senato americano ha deciso di approvare con fermezza il documento di risoluzione che permette e rende legittimo l’intervento armato degli Usa in Siria, come esplicitamente aveva richiesto il presidente Obama. La risoluzione che si è deciso di votare e che subirà poi un ulteriore controllo da parte dell'Aula in Senato, continua a basarsi sui due capitoli bipartisan inseriti la settimana scorsa ovvero un intervento militare «a tempo» che abbia una durata non superiore a 90 giorni e soprattutto senza l’impiego diretto sul suolo siriano dei soldati americani. Questo di oggi è il primo provvedimento che il Congresso Usa è chiamato a votare per permettere e dare autorizzazione ad un’azione militare dal lontano 2002, quando cioè fu data al presidente George W. Bush l'autorità di invadere militarmente l’Iraq e spodestare Saddam Hussein. Una volta avutasi la votazione la Casa Bianca ha mostrato tutta la propria contentezza per la decisione presa.
Ciò che rende felice Obama è soprattutto il fatto che le divisioni politiche fra Repubblicani e Democratici siano state superate in vista di uno scopo superiore ed importante. Un’efficienza istituzionale che noi italiani ad esempio spesso non abbiamo. Una volta che la risoluzione ha ottenuto il voto della Commissione adesso si attende la discussione nell’ aula del Senato i voti favorevoli all’intervento militare devono superare quota 60 per evitare situazioni di fastidioso ostruzionismo. Infine l’intera vicenda passerà poi al vaglio della Camera, che risulta essere a maggioranza repubblicana: molti esperti di politica nazionale americana sottolineano che alla Camera vi sia grande presenza di deputati che,anche se conservatori,prima di esprimere il voto dovranno dare ascolto alle proprie «constituency», cioè ai propri elettori che garantiscono loro le preferenze per essere rieletti di anno in anno. Recenti sondaggi evidenziano però che ben l'80% dei repubblicani alla Camera sia contrario all'attacco.
Quello che risulta di totale evidenza è che alla Commissione Esteri del Senato solo tre repubblicani hanno realmente votato sì all'intervento in Siria: il documento bipartisan è sorta dal volere di tre senatori firmatari Bob Corker, John McCain e Jeff Flake, l'altro senatore eletto in Arizona, quest’ultimo politicamente molto vicino all'ex sfidante di Obama. Altre notizie non certo positive per la Presidenza Obama giungono dal fronte interno,qui nella schiera dei senatori ben due democratici sono contrari, Tom Udall, del New Mexico, e Chris Murphy, Connecticut, e un astenuto, Ed Markey deputato del Massachussets,lo stato democratico per eccellenza. Si evince chiaramente quindi che dalle votazioni della Camera potrebbe scaturire un ulteriore segnale di fiducia o di sfiducia per la posizione di Obama.
Elezioni in Mali.Il paese sta per rinascere.
di Ilenia Marini
La democrazia nel paese africano sta per ridare voce al popolo.
Il Mali è una delle nazioni più grandi ed antiche dell'Africa,oggi celebra la festa di fine Ramadan e dopo poche ore si svolgerà il ballottaggio delle presidenziali che decideranno il nuovo presidente e (forse) una vera nuova epoca per tutto il paese.Paese che ha subito una enorme crisi istituzionale e umanitaria durata più di un anno.Il Mali è uno stato in cui la cittadinanza è per il 90% musulmana e davvero grande sembra essere il desiderio di cambiamento e di rinascita. Molti sono stati gli episodi negativi di questi ultimi mesi a partire dalla ripresa della guerriglia indipendentista dei tuareg nel nord, un piccolo colpo di stato militare durato circa quattro mesi e infine l’occupazione di gran parte del territorio a nord ad opera di gruppi armati legati ad Al Qaeda.Adesso oltre 6 milioni di cittadini sono richiamati alle urne dopo aver partecipato in grande numero al primo turno, lo scorso 28 luglio.La percentuale di votanti è stata del 79%,davvero un record per queste nazioni africane.Il Mali nella sua storia non aveva mai avuto una percentuale di elettori superiore al 50%.
Al primo turno c'erano ben 26 candidati e tra questi si sono imposte le figure di Ibrahim Boubakar Keita, con il 39,79% delle preferenze, e Soumaila Cissé, col 19,70%. La legge elettorale maliana,quasi identica a quella della Francia, prevede il ballottaggio fra i due candidati di punta. Nelle ultime ore il clima si era molto surriscaldato a partire dalle pericolose minacce del Mujao (il Movimento per l’Unicità e la Jihad in Africa Occidentale, uno dei tre gruppi narcojihadisti attivi nel nord), il quale il giorno prima del voto aveva minacciato la popolazione di non recarsi al voto.Stranamente la situazione è rimasta serena,senza incidenti nella capitale e nessun attentato nelle tre città principali del paese (Timbuctu, Gao e Kidal), anche grazie alla presenza sul territorio di circa mille caschi blu dell'Onu che sono in Mali nell'ambito dell'Operazione Serval - cominciata l’11 gennaio con i bombardamenti dell’aviazione di Hollande sul villaggio di Konna contro le colonne qaediste in avanzata verso la capitale - missione che ufficialmente sarebbe ancora in corso. In Mali sono ancora presenti circa 3.200 soldati francesi, che fra qualche mese diverranno 1.000 come deciso a Parigi.
La nota davvero positiva è che le guerriglie nelle regioni settentrionali di Timbuctu, Gao e Kidal si sono interrotte nelle ultime settimane. Secondo alcuni membri CIA sul campo infatti, i capi e una buona parte dell’esercito di Al Qaeda nel Maghreb Islamico sarebbero usciti dal paese per riorganizzarsi e rifornirsi e si sarebbero accampati in paesi confinanti come Libia, Tunisia, Algeria, Niger e Mauritania. Questo mese è stato il mese sacro del Ramadan e la festa della chiusura del rito ha avuto per il Mali davvero un significato doppio,proprio per la contiguità con le elezioni. Elezioni che anche in Africa sembrano sempre di più uno strumento utile per mettere fine ai disordini e al caos militare che spesso si crea,una sorta di soluzione unica dopo un anno e mezzo d’immobilismo economico e politico. Nel paese si è diffusa la consapevolezza che dal voto uscirà un'alba nuova per il paese e in più vi sarà lo sblocco di 3,2 miliardi di dollari promessi dal club degli «Amici del Mali» (di cui fa parte anche l’Ue), riunitosi a Bruxelles a Maggio scorso,soldi da investire per stabilizzare e ricostruire il Mali dopo i drammi e le devastazioni degli ultimi anni.
Il Mali è una delle nazioni più grandi ed antiche dell'Africa,oggi celebra la festa di fine Ramadan e dopo poche ore si svolgerà il ballottaggio delle presidenziali che decideranno il nuovo presidente e (forse) una vera nuova epoca per tutto il paese.Paese che ha subito una enorme crisi istituzionale e umanitaria durata più di un anno.Il Mali è uno stato in cui la cittadinanza è per il 90% musulmana e davvero grande sembra essere il desiderio di cambiamento e di rinascita. Molti sono stati gli episodi negativi di questi ultimi mesi a partire dalla ripresa della guerriglia indipendentista dei tuareg nel nord, un piccolo colpo di stato militare durato circa quattro mesi e infine l’occupazione di gran parte del territorio a nord ad opera di gruppi armati legati ad Al Qaeda.Adesso oltre 6 milioni di cittadini sono richiamati alle urne dopo aver partecipato in grande numero al primo turno, lo scorso 28 luglio.La percentuale di votanti è stata del 79%,davvero un record per queste nazioni africane.Il Mali nella sua storia non aveva mai avuto una percentuale di elettori superiore al 50%.
Al primo turno c'erano ben 26 candidati e tra questi si sono imposte le figure di Ibrahim Boubakar Keita, con il 39,79% delle preferenze, e Soumaila Cissé, col 19,70%. La legge elettorale maliana,quasi identica a quella della Francia, prevede il ballottaggio fra i due candidati di punta. Nelle ultime ore il clima si era molto surriscaldato a partire dalle pericolose minacce del Mujao (il Movimento per l’Unicità e la Jihad in Africa Occidentale, uno dei tre gruppi narcojihadisti attivi nel nord), il quale il giorno prima del voto aveva minacciato la popolazione di non recarsi al voto.Stranamente la situazione è rimasta serena,senza incidenti nella capitale e nessun attentato nelle tre città principali del paese (Timbuctu, Gao e Kidal), anche grazie alla presenza sul territorio di circa mille caschi blu dell'Onu che sono in Mali nell'ambito dell'Operazione Serval - cominciata l’11 gennaio con i bombardamenti dell’aviazione di Hollande sul villaggio di Konna contro le colonne qaediste in avanzata verso la capitale - missione che ufficialmente sarebbe ancora in corso. In Mali sono ancora presenti circa 3.200 soldati francesi, che fra qualche mese diverranno 1.000 come deciso a Parigi.
La nota davvero positiva è che le guerriglie nelle regioni settentrionali di Timbuctu, Gao e Kidal si sono interrotte nelle ultime settimane. Secondo alcuni membri CIA sul campo infatti, i capi e una buona parte dell’esercito di Al Qaeda nel Maghreb Islamico sarebbero usciti dal paese per riorganizzarsi e rifornirsi e si sarebbero accampati in paesi confinanti come Libia, Tunisia, Algeria, Niger e Mauritania. Questo mese è stato il mese sacro del Ramadan e la festa della chiusura del rito ha avuto per il Mali davvero un significato doppio,proprio per la contiguità con le elezioni. Elezioni che anche in Africa sembrano sempre di più uno strumento utile per mettere fine ai disordini e al caos militare che spesso si crea,una sorta di soluzione unica dopo un anno e mezzo d’immobilismo economico e politico. Nel paese si è diffusa la consapevolezza che dal voto uscirà un'alba nuova per il paese e in più vi sarà lo sblocco di 3,2 miliardi di dollari promessi dal club degli «Amici del Mali» (di cui fa parte anche l’Ue), riunitosi a Bruxelles a Maggio scorso,soldi da investire per stabilizzare e ricostruire il Mali dopo i drammi e le devastazioni degli ultimi anni.
Al Qaeda resta sempre pericolosa.
di Ilenia Marini
Nuove tipologie di ordigni pronte a fare vittime.
Al Qaeda la conosciamo tutti,è l'organizzazione terroristica più pericolosa e sanguinaria del globo.Era anche la più ben finanziata grazie ai patrimoni di Osama Bin Laden,almeno fino alla sua uccisione ad opera delle SAS americane.Di solito in estate scatta spesso un allarme terrorismo in vari punti sensibili del mondo occidentale e sulla base di rivelazioni e confessioni si scoprono segreti e nuove tecniche di aggressione,in particolare nuove tipologie di bombe ed ordigni.Alcune sembrano invenzioni di fantasia altre invece spesso si rivelano amare verità.Ora però ai vertici di Al Qaeda si è posto Ibrahim Al Asiri, un terrorista pericoloso che ha studiato da chimico e si è elevato a vero artificiere per i qaedisti dello Yemen, si dice che abbia elaborato delle tipologie di bombe nuove e potentissime.
Un tipico esempio è il cosidetto micro-ordigno che si cela nelle parti intime del kamikaze: o perlomeno ciò è quello che riferiscono islamisti sauditi dopo un fallito attacco, una confessione che è giunta come attendibile anche in un rapporto di Europol.Ma non è tutto purtroppo.Di recente si parla di particolari novità.La prima è un esplosivo liquido che, una volta sciolto nell'acqua viene assorbito dagli indumenti dell’attentatore. Poi viene lasciato seccare e diventa un vero abito-bomba. Un metodo che secondo gli esperi della Cia potrebbe anche sfuggire ai controlli. L'unico mistero riguarda il metodo di innesco,ma la voce comunque pare davvero attendibile.Alcune indiscrezioni rivelano che una sorta di prototipo della bomba-liquida sia anche in possesso degli Usa,ricevuta da un ex kamikaze che in realtà era un agente infiltrato in Arabia.L'agente il mese scorso avrebbe dovuto farsi saltare in aria come attentatore proprio con l'abito-bomba appositamente creato ma una volta lontano è fuggito e ha rivelato tutti i piani al governo saudita.
Infine la più invasiva delle bombe che Al Qaeda avrebbe ideato di recente è una delicata operazione chirurgica per inserire nel corpo del terrorista una carica,piccola ma dalla forza detonante notevole.Esperti di sicurezza sono in allarme proprio per quest'ultimo tipo di ordigno,perchè è il più facile da eseguire e quindi più pericoloso.La mente di Al Asiri getta terrore sull'occidente e l'unica notizia lieta è che fino ad oggi, però, non si sono verificati casi reali ed attentati di questa tipologia.
Al Qaeda la conosciamo tutti,è l'organizzazione terroristica più pericolosa e sanguinaria del globo.Era anche la più ben finanziata grazie ai patrimoni di Osama Bin Laden,almeno fino alla sua uccisione ad opera delle SAS americane.Di solito in estate scatta spesso un allarme terrorismo in vari punti sensibili del mondo occidentale e sulla base di rivelazioni e confessioni si scoprono segreti e nuove tecniche di aggressione,in particolare nuove tipologie di bombe ed ordigni.Alcune sembrano invenzioni di fantasia altre invece spesso si rivelano amare verità.Ora però ai vertici di Al Qaeda si è posto Ibrahim Al Asiri, un terrorista pericoloso che ha studiato da chimico e si è elevato a vero artificiere per i qaedisti dello Yemen, si dice che abbia elaborato delle tipologie di bombe nuove e potentissime.
Un tipico esempio è il cosidetto micro-ordigno che si cela nelle parti intime del kamikaze: o perlomeno ciò è quello che riferiscono islamisti sauditi dopo un fallito attacco, una confessione che è giunta come attendibile anche in un rapporto di Europol.Ma non è tutto purtroppo.Di recente si parla di particolari novità.La prima è un esplosivo liquido che, una volta sciolto nell'acqua viene assorbito dagli indumenti dell’attentatore. Poi viene lasciato seccare e diventa un vero abito-bomba. Un metodo che secondo gli esperi della Cia potrebbe anche sfuggire ai controlli. L'unico mistero riguarda il metodo di innesco,ma la voce comunque pare davvero attendibile.Alcune indiscrezioni rivelano che una sorta di prototipo della bomba-liquida sia anche in possesso degli Usa,ricevuta da un ex kamikaze che in realtà era un agente infiltrato in Arabia.L'agente il mese scorso avrebbe dovuto farsi saltare in aria come attentatore proprio con l'abito-bomba appositamente creato ma una volta lontano è fuggito e ha rivelato tutti i piani al governo saudita.
Infine la più invasiva delle bombe che Al Qaeda avrebbe ideato di recente è una delicata operazione chirurgica per inserire nel corpo del terrorista una carica,piccola ma dalla forza detonante notevole.Esperti di sicurezza sono in allarme proprio per quest'ultimo tipo di ordigno,perchè è il più facile da eseguire e quindi più pericoloso.La mente di Al Asiri getta terrore sull'occidente e l'unica notizia lieta è che fino ad oggi, però, non si sono verificati casi reali ed attentati di questa tipologia.
Afghanistan.Attentato contro l'India.
di Ilenia Marini
8 morti a Jalalabad.Auto-bomba contro consolato indiano.
Ieri un ennesimo atto terroristico si è avuto in Afghanistan ed ha prodotto un nuovo e truculento bagno di sangue.Un kamikaze si è fatto saltare in aria di prima mattina nei pressi del consolato dell'India a Jalalabad (Afghanistan orientale). La notizia è stata velocemente diffusa dalle autorità per la sicurezza nazionale.Secondo i primi indizi l'atto dinamitardo sarebbe stato provocato da un terrorista suicida che al volante di un auto bomba si è andato a schiantare contro la barriera eretta a protezione del palazzo diplomatico dello stato indiano.Subito dopo l'attacco si è poi sviluppata nelle vicinanze del luogo una lunga sparatoria tra polizia e soggetti non identificati. Il bilancio provvisorio sarebbe di una strage,si contano almeno otto morti e 30 feriti.Il kamikaze si è fatto esplodere in un periodo della mattina molto frequentato,quando numerosi erano i cittadini indiani in fila al consolato per ottenere il visto d'ingresso nel paese afghano e secondo la tv nazionale di New Delhi, sei delle vittime avute dall'attentato sarebbero bambini.
Secondo alcuni testimoni la dinamica è stata la seguente: tre sconosciuti si sono avvicinati in auto al posto di blocco vicino alla sede diplomatica, due sono scesi e la polizia ha sparato contro di loro. Il terzo si è fatto esplodere facendo detonare l'auto imbottita a sua volta di esplosivi.Il portavoce del governo della provincia di Nangarhar, Ahmad Zia Abdulzai, ha confermato che l'autobomba è esplosa nelle vicinanze del consolato indiano di Jalalabad, ma non ha affermato con certezza il numero di vittime provocate. Da riportare il fatto che oggi il quotidiano indiano Mail Today ha dedicato la prima pagina alle vociferate minacceche in questi giorni il Pakistan sembrerebbe aver mosso nei confronti dell'ambasciatore indiano a Kabul, Amar Sinha.Il titolo del quotidiano era eloquente «Il Pakistan ordina di colpire il nostro uomo a Kabul», nel giornale si legge inoltre che i servizi di intelligence pachistani (Isi) hanno contattato esponenti della temibile Rete terroristica Haqqani per colpire l'ambasciatore Sinha.
Subito però è giunta una dichiarazione dei Talebani: un rappresentante importante , Zabihullah Mujahid, ha escluso però che nell'atto terroristico vi sia un qualsiasi coinvolgimento del gruppo jihadista.Nessuno dei combattenti talebani quindi avrebbe compiuto alcun assalto a Jalalabad ieri,negando ogni accusa indiana.Nessuna vera rivendicazione è giunta fino ad oggi da alcun gruppo islamico.Il mistero e soprattutto i morti restano.
Ieri un ennesimo atto terroristico si è avuto in Afghanistan ed ha prodotto un nuovo e truculento bagno di sangue.Un kamikaze si è fatto saltare in aria di prima mattina nei pressi del consolato dell'India a Jalalabad (Afghanistan orientale). La notizia è stata velocemente diffusa dalle autorità per la sicurezza nazionale.Secondo i primi indizi l'atto dinamitardo sarebbe stato provocato da un terrorista suicida che al volante di un auto bomba si è andato a schiantare contro la barriera eretta a protezione del palazzo diplomatico dello stato indiano.Subito dopo l'attacco si è poi sviluppata nelle vicinanze del luogo una lunga sparatoria tra polizia e soggetti non identificati. Il bilancio provvisorio sarebbe di una strage,si contano almeno otto morti e 30 feriti.Il kamikaze si è fatto esplodere in un periodo della mattina molto frequentato,quando numerosi erano i cittadini indiani in fila al consolato per ottenere il visto d'ingresso nel paese afghano e secondo la tv nazionale di New Delhi, sei delle vittime avute dall'attentato sarebbero bambini.
Secondo alcuni testimoni la dinamica è stata la seguente: tre sconosciuti si sono avvicinati in auto al posto di blocco vicino alla sede diplomatica, due sono scesi e la polizia ha sparato contro di loro. Il terzo si è fatto esplodere facendo detonare l'auto imbottita a sua volta di esplosivi.Il portavoce del governo della provincia di Nangarhar, Ahmad Zia Abdulzai, ha confermato che l'autobomba è esplosa nelle vicinanze del consolato indiano di Jalalabad, ma non ha affermato con certezza il numero di vittime provocate. Da riportare il fatto che oggi il quotidiano indiano Mail Today ha dedicato la prima pagina alle vociferate minacceche in questi giorni il Pakistan sembrerebbe aver mosso nei confronti dell'ambasciatore indiano a Kabul, Amar Sinha.Il titolo del quotidiano era eloquente «Il Pakistan ordina di colpire il nostro uomo a Kabul», nel giornale si legge inoltre che i servizi di intelligence pachistani (Isi) hanno contattato esponenti della temibile Rete terroristica Haqqani per colpire l'ambasciatore Sinha.
Subito però è giunta una dichiarazione dei Talebani: un rappresentante importante , Zabihullah Mujahid, ha escluso però che nell'atto terroristico vi sia un qualsiasi coinvolgimento del gruppo jihadista.Nessuno dei combattenti talebani quindi avrebbe compiuto alcun assalto a Jalalabad ieri,negando ogni accusa indiana.Nessuna vera rivendicazione è giunta fino ad oggi da alcun gruppo islamico.Il mistero e soprattutto i morti restano.
Zimbabwe.C'è speranza di democrazia.
di Ilenia Marini
Fra violenza e corruzione si vota per il successore di Mugabe.
In Africa esiste una realtà inquietante,una nazione in cui corruzione e violenza sono la base su cui poggia il potere costituito.Stiamo parlando dello Zimbabwe dove oggi si svolgeranno le prime elezioni democratiche dell'ultimo decennio.Democratiche però è una parola davvero paradossale,poichè la propaganda elettorale di queste settimane è stata dominata da minacce, intimidazioni, violenze e compravendita di voti tramite un uso criminale degli aiuti alimentari.Davvero assurdo visto che queste elezioni dovrebbero essere decisive per il futuro del Paese africano.Testimonianze recenti narrano di una nazione allo stremo,dove la censura è elevatissima e l'informazione è tutto tranne che libera.Anzi,solo ossequiosa verso le istituzioni politiche.Alcuni attivisti per i diritti umani per mesi hanno filmato, di nascosto, il continuo tentativo da parte del partito Zanu PF del padre padrone dello Zimbabwe,Robert Mugabe,che al potere da oltre trent’anni,si è dedicato a rubare, con ogni mezzo illecito, le prossime elezioni.
Violenze, fisiche e psicologiche, che sia le organizzazioni umanitarie sia il principale e storico sfidante di Mugabe, il suo primo ministro Morgan Tsvangirai, denunciano da molti mesi,denunce che però mai hanno oltrepassato la Rhodesia e sono arrivate in occidente.Nel trentennio di dittatura Mugabe è riuscito a dare vita a un vero e proprio sistema di controllo della società,un controllo tale che impone agli agricoltori delle periferie di elemosinare dal partito Zanu non solo le somme di denaro per vivere,ma perfino la quantità di sementi da coltivare.Tutto in cambio di voti.Il sistema Mugabe è sempre stato caratterizzato da violenze e ronde per le strade della nazione,spesso plotoni di giovani violenti con le insegne del partito infatti,controllano le strade e reprimono con forza e soprusi ogni forma di ribellione e protesta.Spesso si tratta di militanti avvezzi alle minacce quotidiane durante le assemblee di villaggio,che utilizzano la chiesa per compiere atti di propaganda,senza scordare che i pestaggi degli avversari politici sono all'ordine del giorno.
La Corte Costituzionale pochi mesi fa ha deciso di fissare appunto per il 1 agosto le elezioni per scegliere il successore dell' 89enne Robert Mugabe.A dire il vero però la Corte non ha fatto in tempo a compiere alcuna riforma vera e mettere a punto nessuna riforma sostanziale, né la riforma delle telecomunicazioni,tanto richiesta dagli organi occidentali,nè quella delle forze di sicurezza, chiesta spesso dal partito riformatore del MDC, il secondo partito del paese guidato dal primo ministro Tsvangirai. Il problema principale inoltre è che nessuna tipologia di riforma elettorale è stata attuata nè si è avuta nessun aggiornamento delle liste elettorali che da 15 anni restano bloccate impedendo ai cittadini di partecipare alla vita pubblica.Lo scorso mese la ong Research and Advocacy Unit ha sottolineato che il 90% dei nominativi delle liste sono politici iscritti solo al partito nazionalista di Mugabe.Tutt'altro che democrazia insomma.
In Africa esiste una realtà inquietante,una nazione in cui corruzione e violenza sono la base su cui poggia il potere costituito.Stiamo parlando dello Zimbabwe dove oggi si svolgeranno le prime elezioni democratiche dell'ultimo decennio.Democratiche però è una parola davvero paradossale,poichè la propaganda elettorale di queste settimane è stata dominata da minacce, intimidazioni, violenze e compravendita di voti tramite un uso criminale degli aiuti alimentari.Davvero assurdo visto che queste elezioni dovrebbero essere decisive per il futuro del Paese africano.Testimonianze recenti narrano di una nazione allo stremo,dove la censura è elevatissima e l'informazione è tutto tranne che libera.Anzi,solo ossequiosa verso le istituzioni politiche.Alcuni attivisti per i diritti umani per mesi hanno filmato, di nascosto, il continuo tentativo da parte del partito Zanu PF del padre padrone dello Zimbabwe,Robert Mugabe,che al potere da oltre trent’anni,si è dedicato a rubare, con ogni mezzo illecito, le prossime elezioni.
Violenze, fisiche e psicologiche, che sia le organizzazioni umanitarie sia il principale e storico sfidante di Mugabe, il suo primo ministro Morgan Tsvangirai, denunciano da molti mesi,denunce che però mai hanno oltrepassato la Rhodesia e sono arrivate in occidente.Nel trentennio di dittatura Mugabe è riuscito a dare vita a un vero e proprio sistema di controllo della società,un controllo tale che impone agli agricoltori delle periferie di elemosinare dal partito Zanu non solo le somme di denaro per vivere,ma perfino la quantità di sementi da coltivare.Tutto in cambio di voti.Il sistema Mugabe è sempre stato caratterizzato da violenze e ronde per le strade della nazione,spesso plotoni di giovani violenti con le insegne del partito infatti,controllano le strade e reprimono con forza e soprusi ogni forma di ribellione e protesta.Spesso si tratta di militanti avvezzi alle minacce quotidiane durante le assemblee di villaggio,che utilizzano la chiesa per compiere atti di propaganda,senza scordare che i pestaggi degli avversari politici sono all'ordine del giorno.
La Corte Costituzionale pochi mesi fa ha deciso di fissare appunto per il 1 agosto le elezioni per scegliere il successore dell' 89enne Robert Mugabe.A dire il vero però la Corte non ha fatto in tempo a compiere alcuna riforma vera e mettere a punto nessuna riforma sostanziale, né la riforma delle telecomunicazioni,tanto richiesta dagli organi occidentali,nè quella delle forze di sicurezza, chiesta spesso dal partito riformatore del MDC, il secondo partito del paese guidato dal primo ministro Tsvangirai. Il problema principale inoltre è che nessuna tipologia di riforma elettorale è stata attuata nè si è avuta nessun aggiornamento delle liste elettorali che da 15 anni restano bloccate impedendo ai cittadini di partecipare alla vita pubblica.Lo scorso mese la ong Research and Advocacy Unit ha sottolineato che il 90% dei nominativi delle liste sono politici iscritti solo al partito nazionalista di Mugabe.Tutt'altro che democrazia insomma.
Nuova strage di innocenti in Siria.19 morti.
di Ilenia Marini
Ad Aleppo continuano a morire civili e bambini inermi.
Mentre le Nazioni Unite arrivano finalmente a firmare un protocollo di controllo sull'uso di armi chimiche e non convenzionali nel conflitto siriano,lo scontro bellico invece non si ferma,anzi fa registrare l'ennesimo atto militare drammatico e sanguinoso.Ieri nella grande ed antica città di Aleppo,nel cuore delle Siria,dove secondo molti ha sede la base centrale operativa dei ribelli anti-Assad si è verificata un'altra strage di civili.Le voci parlano di ben 19 vittime,quasi tutti bambini o adolescenti di minore età.Mentre il Palazzo di Vetro a New York si concentra sulla scelta diplomatica più adatta da adottare,in Siria i bambini continuano a morire per le strade,senza colpe nè senza una reale ragione.Il delegato Onu Sellstrom,ha riferito che sulla base dell'ultimo accordo dovrebbe partire una delegazione a Damasco per verificare l'andamento della guerra e il rispetto dei diritti fondamentali,già l'anno scorso una delegazione semi-ufficiale era partita per la Siria,ma ad essa Assad non aveva mai permesso di svolgere alcuna verifica nè controllo diretto.Il dramma continua in una guerra che - sempre secondo l’Onu - ha ormai mietuto più di centomila morti, ultimo,come detto il massacro di numerosi civili tra i quali ben 19 minori, accaduto ad Aleppo, nel quartiere di Bab Nayrab,dove un missile balistico sparato dalla base militare di Qutayfa, a nord di Damasco,ha centrato un edificio abitato dalla popolazione.
La città di Aleppo è la roccaforte della ribellione,soprattutto la parte a Nord è letteralmente in mano agli insorti.L'esercito è bandito ed infatti ai militari di Assad non resta altro che bombardare la zona con missili Scud a breve raggio.Il problema è che Aleppo è una città densamente abitata e proprio nei quartieri popolari i ribelli hanno le loro basi operative.Quindi le bombe di Damasco spesso e volentieri provocano stragi di civili.Sempre ieri,l'Osservatorio per i diritti Umani aveva reso noto che erano stati uccisi circa 30 soldati del regime e che vi fosse il serio rischio che i ribelli avessero usato già in un paio di occasioni armi chimiche contro l'esercito di Assad.La situazione è quindi molto confusa e instabile,recenti notizie rivelano che Assad abbia comandato un'offensiva verso la città di Homs,terza città per grandezza della Siria,dove intorno ad una moschea sunnita si ritiene nascondersi uno dei maggiori centri militari dei rivoluzionari,l'offensiva a giorni dovrebbe partire a base di bombe e militari sul campo,per strappare agli insorti una città chiave,da molti definita «capitale della rivoluzione» contro il regime di Assad.
Gli osservatori dell'Onu nella città riferiscono che la situazione per adesso è tranquilla ad Homs,ma che anche li si parla di un attacco imminente da parte del regime.Grande è anche la paura per la moschea cittadina,dedicata ad un compagno del Profeta Maometto,un edificio antichissimo,fra i primi dell'arte ottomana nella regione.Ovviamente oltre a ciò altissima è la paura per il numero di vittime civili che potrebbero scatutire a causa dei futuri bombardamenti dell'esercito e anche delle vendette fra sciiti e sunniti della zona visto che,secondo molte fonti,numerosi gruppi di Hezbollah libanesi,sarebbero giunti nella zona per dare man forte all'esercito di Assad e uccidere il maggior numero di sunniti in città.Anche il movimento sciita alleato dell’Iran ha confermato ufficialmente di essere presente in Siria a fianco di Assad,contro l'ala sunnita del territorio siriano.Un vero vulcano di odio e violenza è pronto ad esplodere in Siria ed ovviamente la popolazione innocente sarà quella a pagare il prezzo maggiore di vite umane.
Mentre le Nazioni Unite arrivano finalmente a firmare un protocollo di controllo sull'uso di armi chimiche e non convenzionali nel conflitto siriano,lo scontro bellico invece non si ferma,anzi fa registrare l'ennesimo atto militare drammatico e sanguinoso.Ieri nella grande ed antica città di Aleppo,nel cuore delle Siria,dove secondo molti ha sede la base centrale operativa dei ribelli anti-Assad si è verificata un'altra strage di civili.Le voci parlano di ben 19 vittime,quasi tutti bambini o adolescenti di minore età.Mentre il Palazzo di Vetro a New York si concentra sulla scelta diplomatica più adatta da adottare,in Siria i bambini continuano a morire per le strade,senza colpe nè senza una reale ragione.Il delegato Onu Sellstrom,ha riferito che sulla base dell'ultimo accordo dovrebbe partire una delegazione a Damasco per verificare l'andamento della guerra e il rispetto dei diritti fondamentali,già l'anno scorso una delegazione semi-ufficiale era partita per la Siria,ma ad essa Assad non aveva mai permesso di svolgere alcuna verifica nè controllo diretto.Il dramma continua in una guerra che - sempre secondo l’Onu - ha ormai mietuto più di centomila morti, ultimo,come detto il massacro di numerosi civili tra i quali ben 19 minori, accaduto ad Aleppo, nel quartiere di Bab Nayrab,dove un missile balistico sparato dalla base militare di Qutayfa, a nord di Damasco,ha centrato un edificio abitato dalla popolazione.
La città di Aleppo è la roccaforte della ribellione,soprattutto la parte a Nord è letteralmente in mano agli insorti.L'esercito è bandito ed infatti ai militari di Assad non resta altro che bombardare la zona con missili Scud a breve raggio.Il problema è che Aleppo è una città densamente abitata e proprio nei quartieri popolari i ribelli hanno le loro basi operative.Quindi le bombe di Damasco spesso e volentieri provocano stragi di civili.Sempre ieri,l'Osservatorio per i diritti Umani aveva reso noto che erano stati uccisi circa 30 soldati del regime e che vi fosse il serio rischio che i ribelli avessero usato già in un paio di occasioni armi chimiche contro l'esercito di Assad.La situazione è quindi molto confusa e instabile,recenti notizie rivelano che Assad abbia comandato un'offensiva verso la città di Homs,terza città per grandezza della Siria,dove intorno ad una moschea sunnita si ritiene nascondersi uno dei maggiori centri militari dei rivoluzionari,l'offensiva a giorni dovrebbe partire a base di bombe e militari sul campo,per strappare agli insorti una città chiave,da molti definita «capitale della rivoluzione» contro il regime di Assad.
Gli osservatori dell'Onu nella città riferiscono che la situazione per adesso è tranquilla ad Homs,ma che anche li si parla di un attacco imminente da parte del regime.Grande è anche la paura per la moschea cittadina,dedicata ad un compagno del Profeta Maometto,un edificio antichissimo,fra i primi dell'arte ottomana nella regione.Ovviamente oltre a ciò altissima è la paura per il numero di vittime civili che potrebbero scatutire a causa dei futuri bombardamenti dell'esercito e anche delle vendette fra sciiti e sunniti della zona visto che,secondo molte fonti,numerosi gruppi di Hezbollah libanesi,sarebbero giunti nella zona per dare man forte all'esercito di Assad e uccidere il maggior numero di sunniti in città.Anche il movimento sciita alleato dell’Iran ha confermato ufficialmente di essere presente in Siria a fianco di Assad,contro l'ala sunnita del territorio siriano.Un vero vulcano di odio e violenza è pronto ad esplodere in Siria ed ovviamente la popolazione innocente sarà quella a pagare il prezzo maggiore di vite umane.
Sud-Sudan.Presidente sospende il Governo.
di Ilenia Marini
Incredibile ma vero.Il Presidente blocca la democrazia nel giovane paese africano.
Ieri nel paese africano più giovane che esista,il Sud Sudan,il Presidente dello Stato ha compiuto un atto che definirlo anti-democratico è poco.Ha deposto con un'azione unilaterale il vice-presidente e la squadra dell'intero governo.Un qualcosa davvero di inimmaginabile nelle moderne nazioni occidentali,ma all'ordine del giorno in Africa.La decisione di Salva Kiir Mayardit ha colto di sorpresa l'intera classe politica sudanese,una sorta di vero licenziamento in tronco dell'intero esecutivo,fatta in diretta tv.Tutto ciò è accaduto in un allarmante silenzio diplomatico e nel paese dopo la sorpresa iniziale ora la tensione interna comincia a montare.L'esercito ubbidendo agli ordini presidenziali ha bloccato le vie d'accesso alla zona dei ministeri e nel frattempo scoppiavano i primi scontri nel quartiere di Konyo Konyo, il più grande della città,dove ha sede il mercato cittadino.Le notizie però restano molto frammentate. Molti sudsudanesi non si sono recati al lavoro, i negozi sono rimasti chiusi, e ai diplomatici dell'Onu in missione nel territorio è stato chiesto di non allontanarsi dai loro quartieri.
La situazione a dire il vero era iniziata a degenerare già da marzo quando il presidente aveva attuato una forte riforma dell'esercito e dei capi dei vari plotoni militari,erano stati rimossi circa 110 alti ufficiali.Alcuni avevano criticato questa scelta pensando che venisse fatta solo per agevolare l'inserimento nell'esercito di funzionari appartenenti all'etnia Nuer, cui appartiene il presidente stesso.La decisione di “licenziare” il vice e l’intero gabinetto, insieme alla drastica diminuzione del numero di ministeri (da 30 a 18),si incanala nella totale diminuzione di poteri del vice-presidente,il cui ruolo è stato molto depotenziato dal capo dello stato sud-sudanese.Ma il vice-presidente Riek ha una personalità forte e difficile da silenziare ed inoltre gode di molto consenso tra il popolo che forse nel 2015 lo spingerà a correre alle future elezioni.Tutte queste forse sono le motivazioni che hanno spinto il presidente a tale decisione autoritaria.Le ripercussioni di queste vicende sullo scacchiere politico africano sono forti e a tinte drammatiche.Nato da soli tre anni,il Sud Sudan è inserito dall'Onu nella lista degli stati fantoccio,ovvero quelle nazioni nate da poco che non rispettano gli standard democratici previsti dalla Comunità internazionale.La sola ricchezza del paese,che tiene insieme la nazione e gli interessi di tutti, sono i vari pozzi petroliferi che però di recente scorrono di meno a causa di una serie di problemi diplomatici con il Sudan.Il Sud Sudan non ha sbocchi sul mare, fino ad oggi possiede solo il 20% delle vie di comunicazione asfaltate; l’unico modo per trasportare il greggio è mediante l'oleodotto sudanese,fino alle raffinerie di Port Sudan.
Quindi si può capire come le relazioni con il vicino Sudan siano fondamentali.L'instabilità è enorme,di recente il presidente sudanese Bashir ha minacciato di bloccare nuovamente l'oleodotto dal 7 agosto, accusando il Sud-Sudan di vendere armi ai ribelli interni.Nel paese comunque,a causa di lunghi decenni di guerra civile e ad ininterrotti scontri tribali,non si è avuto un vero sviluppo del settore agricolo,quasi tutti i prodotti arrivano importati dai paesi vicini,con ovviamente,maggiorazioni sul livello dei prezzi.I rapporti col presidente del Sudan si erano poi ammorbiditi grazie ai rapporti fra questi e il ministro degli esteri sud-sudanese e lo stesso vice Riek,ora,essendo questi allontanati dal governo,la vicenda resta sospesa e non si sanno le conseguenze che si manifesteranno.La situazione resta pesante ed instabile e non giova certo all'intera zona.
Ieri nel paese africano più giovane che esista,il Sud Sudan,il Presidente dello Stato ha compiuto un atto che definirlo anti-democratico è poco.Ha deposto con un'azione unilaterale il vice-presidente e la squadra dell'intero governo.Un qualcosa davvero di inimmaginabile nelle moderne nazioni occidentali,ma all'ordine del giorno in Africa.La decisione di Salva Kiir Mayardit ha colto di sorpresa l'intera classe politica sudanese,una sorta di vero licenziamento in tronco dell'intero esecutivo,fatta in diretta tv.Tutto ciò è accaduto in un allarmante silenzio diplomatico e nel paese dopo la sorpresa iniziale ora la tensione interna comincia a montare.L'esercito ubbidendo agli ordini presidenziali ha bloccato le vie d'accesso alla zona dei ministeri e nel frattempo scoppiavano i primi scontri nel quartiere di Konyo Konyo, il più grande della città,dove ha sede il mercato cittadino.Le notizie però restano molto frammentate. Molti sudsudanesi non si sono recati al lavoro, i negozi sono rimasti chiusi, e ai diplomatici dell'Onu in missione nel territorio è stato chiesto di non allontanarsi dai loro quartieri.
La situazione a dire il vero era iniziata a degenerare già da marzo quando il presidente aveva attuato una forte riforma dell'esercito e dei capi dei vari plotoni militari,erano stati rimossi circa 110 alti ufficiali.Alcuni avevano criticato questa scelta pensando che venisse fatta solo per agevolare l'inserimento nell'esercito di funzionari appartenenti all'etnia Nuer, cui appartiene il presidente stesso.La decisione di “licenziare” il vice e l’intero gabinetto, insieme alla drastica diminuzione del numero di ministeri (da 30 a 18),si incanala nella totale diminuzione di poteri del vice-presidente,il cui ruolo è stato molto depotenziato dal capo dello stato sud-sudanese.Ma il vice-presidente Riek ha una personalità forte e difficile da silenziare ed inoltre gode di molto consenso tra il popolo che forse nel 2015 lo spingerà a correre alle future elezioni.Tutte queste forse sono le motivazioni che hanno spinto il presidente a tale decisione autoritaria.Le ripercussioni di queste vicende sullo scacchiere politico africano sono forti e a tinte drammatiche.Nato da soli tre anni,il Sud Sudan è inserito dall'Onu nella lista degli stati fantoccio,ovvero quelle nazioni nate da poco che non rispettano gli standard democratici previsti dalla Comunità internazionale.La sola ricchezza del paese,che tiene insieme la nazione e gli interessi di tutti, sono i vari pozzi petroliferi che però di recente scorrono di meno a causa di una serie di problemi diplomatici con il Sudan.Il Sud Sudan non ha sbocchi sul mare, fino ad oggi possiede solo il 20% delle vie di comunicazione asfaltate; l’unico modo per trasportare il greggio è mediante l'oleodotto sudanese,fino alle raffinerie di Port Sudan.
Quindi si può capire come le relazioni con il vicino Sudan siano fondamentali.L'instabilità è enorme,di recente il presidente sudanese Bashir ha minacciato di bloccare nuovamente l'oleodotto dal 7 agosto, accusando il Sud-Sudan di vendere armi ai ribelli interni.Nel paese comunque,a causa di lunghi decenni di guerra civile e ad ininterrotti scontri tribali,non si è avuto un vero sviluppo del settore agricolo,quasi tutti i prodotti arrivano importati dai paesi vicini,con ovviamente,maggiorazioni sul livello dei prezzi.I rapporti col presidente del Sudan si erano poi ammorbiditi grazie ai rapporti fra questi e il ministro degli esteri sud-sudanese e lo stesso vice Riek,ora,essendo questi allontanati dal governo,la vicenda resta sospesa e non si sanno le conseguenze che si manifesteranno.La situazione resta pesante ed instabile e non giova certo all'intera zona.
Strage a Baghdad.Esplodono 12 autobombe.
di Ilenia Marini
Ancora sangue in Iraq tra sunniti e sciiti.
Quella tra sciiti e sunniti sembra essere diventata la nuova guerra santa da combattere nel modo arabo. Dopo la Siria,dopo l’Iran e dopo il Libano adesso è il turno del povero e flagellato Iraq subire ed assistere all’ennesimo atto terroristico nella sanguinosa battaglia fra le due fazioni dell’Islam. Ieri la capitale Baghdad è stata letteralmente sconvolta da una raffica di ordigni esplosi in vari punti affollati della città irachena. Una serie di attentati che ha causato oltre 65 morti e si dice,circa 200 feriti. Tutti civili ovviamente e bambini compresi. Secondo le prime indagini della polizia sarebbero state ben 12 tra autobombe e ordigni piazzati sul ciglio della strada che sono esplosi in diversi quartieri sciiti di Baghdad provocando lutto e dolore nella nazione. La notizia specifica viene riportata da un funzionario del Ministero degli Interni e anche da alcuni enti medici locali. Lo scopo esplicito degli attentatori era certamente di fare delle vere stragi e uccidere il più possibile,anche persone inermi presenti sul posto solo per caso.
Non a caso le bombe sono esplose quasi all’unisono,tutte nel tardo pomeriggio e in zone commerciali,quindi affollate di cittadini e turisti del luogo. L’affollamento della città era anche maggiore poichè ieri terminavano i giorni di digiuno del Ramadan e quindi i credenti erano per le strade a celebrare la giornata.Analizzando bene gli eventi gli investigatori hanno riferito che erano ben 10 le autobombe,deflagrate quasi tutte insieme e altri 3 ordigni rudimentali,di questi uno sembra essere rimasto inesploso.Ma questo conta poco poiché il numero impressionante di morti e feriti resta comunque.Una scia di sangue che colpisce il gruppo sciita della città irachena,già nei mesi scorsi oggetto di invettive da parte di una serie di leader religiosi sunniti. Gli attentati hanno colpito tutti quartieri a predominante popolazione sciita: quattro nel sud della capitale irachena, due nel centro, nel trafficato quartiere di Karrada, pochissimi minuti l’una dall’altra, due nei quartieri del nord, fra cui Tobchi, e due nel sobborgo di Madain, a est. Se proviamo a fare un rapido bilancio della situazione,negli ultimi due mesi si contano circa 500 vittime a Baghdad a causa di attentati molti dei quali non rivendicati.Anche in questo caso non vi è stata ancora alcuna rivendicazione, ma quasi certamente si tratta di un nuovo episodio della strisciante guerra sotterranea fra la minoranza sciita, al governo nel Paese, e la minoranza sunnita, che non si sente tutelata.
Questa sorta di conflitto interno già negli anni 2006-07 raggiunse il suo picco, quando le vittime del terrorismo a volte superavano le 3.000 al mese, coinvolgendo allora anche la minoranza curda del nord. Questa vera e propria guerra negli ultimi tempi sta riprendendo ad ardere in modo violento,e gli animi sembrano ancora di più incattiviti dal conflitto civile che flagella la vicina Siria.Infatti anche sulla guerra siriana sciiti e sunniti hanno punti di vista completamente opposti tra chi appoggia il regime di Assad e chi invece le ragioni dei ribelli. Secondo alcuni esperti di intelligence infine,può essere che questi ultimi attentati siano la risposta data dai sunniti al recente massacro in cui 20 fedeli sunniti rimasero vittima di un kamikaze fattosi saltare in aria venerdi scorso nei pressi della moschea di Baquba a nord della Capitale. Un ennesimo episodio che non fa altro che alimentare il fuoco al calderone delle tensioni in medi oriente. Tensioni che già da mesi aumentano in modo rapidissimo. A quando il prossimo massacro?
Quella tra sciiti e sunniti sembra essere diventata la nuova guerra santa da combattere nel modo arabo. Dopo la Siria,dopo l’Iran e dopo il Libano adesso è il turno del povero e flagellato Iraq subire ed assistere all’ennesimo atto terroristico nella sanguinosa battaglia fra le due fazioni dell’Islam. Ieri la capitale Baghdad è stata letteralmente sconvolta da una raffica di ordigni esplosi in vari punti affollati della città irachena. Una serie di attentati che ha causato oltre 65 morti e si dice,circa 200 feriti. Tutti civili ovviamente e bambini compresi. Secondo le prime indagini della polizia sarebbero state ben 12 tra autobombe e ordigni piazzati sul ciglio della strada che sono esplosi in diversi quartieri sciiti di Baghdad provocando lutto e dolore nella nazione. La notizia specifica viene riportata da un funzionario del Ministero degli Interni e anche da alcuni enti medici locali. Lo scopo esplicito degli attentatori era certamente di fare delle vere stragi e uccidere il più possibile,anche persone inermi presenti sul posto solo per caso.
Non a caso le bombe sono esplose quasi all’unisono,tutte nel tardo pomeriggio e in zone commerciali,quindi affollate di cittadini e turisti del luogo. L’affollamento della città era anche maggiore poichè ieri terminavano i giorni di digiuno del Ramadan e quindi i credenti erano per le strade a celebrare la giornata.Analizzando bene gli eventi gli investigatori hanno riferito che erano ben 10 le autobombe,deflagrate quasi tutte insieme e altri 3 ordigni rudimentali,di questi uno sembra essere rimasto inesploso.Ma questo conta poco poiché il numero impressionante di morti e feriti resta comunque.Una scia di sangue che colpisce il gruppo sciita della città irachena,già nei mesi scorsi oggetto di invettive da parte di una serie di leader religiosi sunniti. Gli attentati hanno colpito tutti quartieri a predominante popolazione sciita: quattro nel sud della capitale irachena, due nel centro, nel trafficato quartiere di Karrada, pochissimi minuti l’una dall’altra, due nei quartieri del nord, fra cui Tobchi, e due nel sobborgo di Madain, a est. Se proviamo a fare un rapido bilancio della situazione,negli ultimi due mesi si contano circa 500 vittime a Baghdad a causa di attentati molti dei quali non rivendicati.Anche in questo caso non vi è stata ancora alcuna rivendicazione, ma quasi certamente si tratta di un nuovo episodio della strisciante guerra sotterranea fra la minoranza sciita, al governo nel Paese, e la minoranza sunnita, che non si sente tutelata.
Questa sorta di conflitto interno già negli anni 2006-07 raggiunse il suo picco, quando le vittime del terrorismo a volte superavano le 3.000 al mese, coinvolgendo allora anche la minoranza curda del nord. Questa vera e propria guerra negli ultimi tempi sta riprendendo ad ardere in modo violento,e gli animi sembrano ancora di più incattiviti dal conflitto civile che flagella la vicina Siria.Infatti anche sulla guerra siriana sciiti e sunniti hanno punti di vista completamente opposti tra chi appoggia il regime di Assad e chi invece le ragioni dei ribelli. Secondo alcuni esperti di intelligence infine,può essere che questi ultimi attentati siano la risposta data dai sunniti al recente massacro in cui 20 fedeli sunniti rimasero vittima di un kamikaze fattosi saltare in aria venerdi scorso nei pressi della moschea di Baquba a nord della Capitale. Un ennesimo episodio che non fa altro che alimentare il fuoco al calderone delle tensioni in medi oriente. Tensioni che già da mesi aumentano in modo rapidissimo. A quando il prossimo massacro?
Russia.Condannato il blogger anti-Putin.
di Ilenia Marini
Condanna di 5 anni per furto.Sentenza politica?
Alexei Navalny, lavvocato e blogger nemico della corruzione politica e principale oppositore del presidente russo Vladimir Putin, è stato condannato per furto da un tribunale statale di Kirov, a nord di Mosca.La corte evidenzia che ha commesso un crimine molto grave ed ha annunciato la pena: 5 anni di carcere. Il blogger ascoltata la sentenza ha subito abbracciato moglie e mamma ed è stato portato direttamente in carcere dalla polizia penitenziaria.Navalny fin dalla prima accusa si era detto innocente e che l'intera vicenda giudiziaria fosse una macchinazione politica ai suoi danni.L'accusa mossa era quella di aver sottratto l'equivalente di 500mila dollari di legname da una segheria di Stato quando era consigliere regionale a Kirov, città a 600 chilometri a est di Mosca.Ma nonostante la condanna,proprio in questi giorni Navalny è stato confermato come candidato alle prossime elezioni per il sindaco di Mosca.
Il presidente della Commissione elettorale di Mosca, Valentin Gorbunov, ha infatti affermato che il blogger rimane candidato fino a quando la condanna non sarà esecutiva e perciò fino a quando non verrà emessa la sentenza di appello.Le motivazioni della decisione della corte verranno rese note fra 10 giorni,poi si potrà presentare appello ed entro ulteriori 30 giorni il tribunale regionale dovrà decidere sull'ammissibilità del ricorso.Comunque sia la legge russa stabilisce che ad almeno sei giorni dalle elezioni un candidato non può essere estromesso dal voto e quindi in linea teorica Navalny potrebbe farcela a correre per la poltrona di sindaco di Mosca.Nel frattempo sulla vicenda si sono accesi i riflettori dei politici anti-Putin,i movimenti che da anni lottano per avere maggiore chiarezza e maggiori diritti in Russia;a favore di Navalny è stato creato uno specifico network su Facebook: all'evento sembra che aderiranno oltre 6.500 persone. Le autorità cittadine hanno già fatto sapere che, non trattandosi di una manifestazione autorizzata, ogni tentativo di raduno sarà bloccato sul nascere.
La condanna a cinque anni di reclusione per il blogger russo fomenta però grossi dubbi sul legale rispetto dei diritti della persona in Russia e secondo la diplomatica Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Ue,esiste una grande preoccupazione per ciò che riguarda le sentenze a carico del noto blogger e del co-imputato, Pyotr Ofitserov, entrambi oppositori del Cremlino. Il blogger e leader dell'opposizione extra-parlamentare russa dovranno rimanere a Mosca,poiché con ogni probabilità otterranno gli arresti domiciliari ma Navalny ha fatto sapere di non aver ancora deciso se correre ancora alle elezioni per il sindaco della capitale russa, in programma a settembre. Sulla sua candidatura una precisa decisione sarà certamente concertata solo dopo il ritorno a Mosca e dopo averne abbondantemente parlato con i coordinatori della campagna elettorale.L'universo politico in Russia rimane nebuloso e rischioso,a fronte di una crescita economica evidente e positiva vi sono le sistematiche violazioni delle libertà di pensiero.Un'equazione che va assolutamente bilanciata.
Alexei Navalny, lavvocato e blogger nemico della corruzione politica e principale oppositore del presidente russo Vladimir Putin, è stato condannato per furto da un tribunale statale di Kirov, a nord di Mosca.La corte evidenzia che ha commesso un crimine molto grave ed ha annunciato la pena: 5 anni di carcere. Il blogger ascoltata la sentenza ha subito abbracciato moglie e mamma ed è stato portato direttamente in carcere dalla polizia penitenziaria.Navalny fin dalla prima accusa si era detto innocente e che l'intera vicenda giudiziaria fosse una macchinazione politica ai suoi danni.L'accusa mossa era quella di aver sottratto l'equivalente di 500mila dollari di legname da una segheria di Stato quando era consigliere regionale a Kirov, città a 600 chilometri a est di Mosca.Ma nonostante la condanna,proprio in questi giorni Navalny è stato confermato come candidato alle prossime elezioni per il sindaco di Mosca.
Il presidente della Commissione elettorale di Mosca, Valentin Gorbunov, ha infatti affermato che il blogger rimane candidato fino a quando la condanna non sarà esecutiva e perciò fino a quando non verrà emessa la sentenza di appello.Le motivazioni della decisione della corte verranno rese note fra 10 giorni,poi si potrà presentare appello ed entro ulteriori 30 giorni il tribunale regionale dovrà decidere sull'ammissibilità del ricorso.Comunque sia la legge russa stabilisce che ad almeno sei giorni dalle elezioni un candidato non può essere estromesso dal voto e quindi in linea teorica Navalny potrebbe farcela a correre per la poltrona di sindaco di Mosca.Nel frattempo sulla vicenda si sono accesi i riflettori dei politici anti-Putin,i movimenti che da anni lottano per avere maggiore chiarezza e maggiori diritti in Russia;a favore di Navalny è stato creato uno specifico network su Facebook: all'evento sembra che aderiranno oltre 6.500 persone. Le autorità cittadine hanno già fatto sapere che, non trattandosi di una manifestazione autorizzata, ogni tentativo di raduno sarà bloccato sul nascere.
La condanna a cinque anni di reclusione per il blogger russo fomenta però grossi dubbi sul legale rispetto dei diritti della persona in Russia e secondo la diplomatica Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Ue,esiste una grande preoccupazione per ciò che riguarda le sentenze a carico del noto blogger e del co-imputato, Pyotr Ofitserov, entrambi oppositori del Cremlino. Il blogger e leader dell'opposizione extra-parlamentare russa dovranno rimanere a Mosca,poiché con ogni probabilità otterranno gli arresti domiciliari ma Navalny ha fatto sapere di non aver ancora deciso se correre ancora alle elezioni per il sindaco della capitale russa, in programma a settembre. Sulla sua candidatura una precisa decisione sarà certamente concertata solo dopo il ritorno a Mosca e dopo averne abbondantemente parlato con i coordinatori della campagna elettorale.L'universo politico in Russia rimane nebuloso e rischioso,a fronte di una crescita economica evidente e positiva vi sono le sistematiche violazioni delle libertà di pensiero.Un'equazione che va assolutamente bilanciata.
Egitto.Ecco il nuovo governo post-Morsi.
di Ilenia Marini
Al Cairo giura il nuovo governo provvisorio.
Ieri al Cairo si è insediato il nuovo governo egiziano.Un esecutivo di transizione che è andato a sostituire il vecchio governo di Morsi,costretto alle dimissioni dai moti rivoltosi scoppiati nelle piazze egiziane nell'ultimo mese.Il neo leader Adly Mansour ha ricevuto la squadra di governo che ha giurato davanti alla Costituzione egiziana.La televisione nazionale ha dato in diretta le notizie sull'evento,la squadra del governo provvisorio era capeggiata dal presidente Hazem al-Beblawi.I nomi dei neo-ministri sono variegati ma non mancano conferme e alcune sorprese.Tra le conferme c'è il generale Abdel Fatah al-Sisi, che resta alla guida del ministero della Difesa e che è stato anche nominato tra i tre nuovi vice premier. Al-Sisi durante la presidenza di Mohamed Morsi, costretto a dimmettersi il 3 luglio, era ministro della Difesa e capo supremo delle Forze Armate. Gli altri premier scelti da el-Beblawi sono Ziad Bahaa-Eddin e Hossam Eissa. Nabil Fahmy, personalità prestigiosa,ex ambasciatore egiziano negli Stati Uniti dal 1999 al 2008 durante l’era Mubarak, è stato scelto come nuovo ministro degli Esteri, mentre agli Interni rimane non senza polemiche Mohamed Ibrahim, contestato da molti attivisti che ne hanno frequentemente rivendicato la destituzione.
Nonostante il nuovo percorso politico tracciato, per le strade del Cairo le violenze sembrano non fermarsi.Solo nella sera di ieri ci sono stati ben 8 morti e 200 feriti nei sanguinosi scontri di piazza tra chi sostiene l'oramai ex premier Morsi e le milizie dell'esercito che proteggono le nuove istituzioni.Le forze dell’esercito hanno agito con vigore e forza traendo in arresto ben 400 soggetti appartenenti al partito islamista.Le violenze restano quindi la costante in Egitto.Nonostante la caduta di Morsi la calma non sembra tornare.Gli animi sono ancora molto accesi e i gruppi politici avversi non accennano a calmare le reciproche accuse che spesso sfociano in scontri aperti anche con le forze dell'ordine.Dei 260 feriti nei disordini al Cairo, 120 sono ricoverati in ospedale e ancora tenuti sotto osservazione.Due manifestanti sono rimasti vittime delle violenze lungo il ponte 6 ottobre che troneggia sul Nilo,qui i poliziotti avevano sparato lacrimogeni per entrare nel blocco di coloro che protestavano in piazza,i manifestanti hanno in risposta iniziato una fitta sassaiola.Altri cinque sono morti nel quartiere di Gizenah.Infine, si è saputo che Israele, violando in parte il trattato di pace con l’Egitto che espressamente lo impedisce, ha dato l’autorizzazione a dislocare ben due plotoni di fanteria nella penisola del Sinai, dove -soprattutto nella zona nord-occidentale- si è avuto nell'ultima settimana un intensificarsi dell’attività dei gruppi armati.
Ma anche l’esercito egiziano non è da meno e sembra essere intenzionato a dispiegare un battaglione ad el-Arish, al nord, e un altro nel sud nei pressi di Sharm el-Sheikh.Lo scopo sarebbe quello di muovere una offensiva armata contro le cellule di islamisti arroccate sul Sinai; e tutto ma credere che nei prossimi giorni si avranno sviluppi di notevole importanza sulla vicenda.
Ieri al Cairo si è insediato il nuovo governo egiziano.Un esecutivo di transizione che è andato a sostituire il vecchio governo di Morsi,costretto alle dimissioni dai moti rivoltosi scoppiati nelle piazze egiziane nell'ultimo mese.Il neo leader Adly Mansour ha ricevuto la squadra di governo che ha giurato davanti alla Costituzione egiziana.La televisione nazionale ha dato in diretta le notizie sull'evento,la squadra del governo provvisorio era capeggiata dal presidente Hazem al-Beblawi.I nomi dei neo-ministri sono variegati ma non mancano conferme e alcune sorprese.Tra le conferme c'è il generale Abdel Fatah al-Sisi, che resta alla guida del ministero della Difesa e che è stato anche nominato tra i tre nuovi vice premier. Al-Sisi durante la presidenza di Mohamed Morsi, costretto a dimmettersi il 3 luglio, era ministro della Difesa e capo supremo delle Forze Armate. Gli altri premier scelti da el-Beblawi sono Ziad Bahaa-Eddin e Hossam Eissa. Nabil Fahmy, personalità prestigiosa,ex ambasciatore egiziano negli Stati Uniti dal 1999 al 2008 durante l’era Mubarak, è stato scelto come nuovo ministro degli Esteri, mentre agli Interni rimane non senza polemiche Mohamed Ibrahim, contestato da molti attivisti che ne hanno frequentemente rivendicato la destituzione.
Nonostante il nuovo percorso politico tracciato, per le strade del Cairo le violenze sembrano non fermarsi.Solo nella sera di ieri ci sono stati ben 8 morti e 200 feriti nei sanguinosi scontri di piazza tra chi sostiene l'oramai ex premier Morsi e le milizie dell'esercito che proteggono le nuove istituzioni.Le forze dell’esercito hanno agito con vigore e forza traendo in arresto ben 400 soggetti appartenenti al partito islamista.Le violenze restano quindi la costante in Egitto.Nonostante la caduta di Morsi la calma non sembra tornare.Gli animi sono ancora molto accesi e i gruppi politici avversi non accennano a calmare le reciproche accuse che spesso sfociano in scontri aperti anche con le forze dell'ordine.Dei 260 feriti nei disordini al Cairo, 120 sono ricoverati in ospedale e ancora tenuti sotto osservazione.Due manifestanti sono rimasti vittime delle violenze lungo il ponte 6 ottobre che troneggia sul Nilo,qui i poliziotti avevano sparato lacrimogeni per entrare nel blocco di coloro che protestavano in piazza,i manifestanti hanno in risposta iniziato una fitta sassaiola.Altri cinque sono morti nel quartiere di Gizenah.Infine, si è saputo che Israele, violando in parte il trattato di pace con l’Egitto che espressamente lo impedisce, ha dato l’autorizzazione a dislocare ben due plotoni di fanteria nella penisola del Sinai, dove -soprattutto nella zona nord-occidentale- si è avuto nell'ultima settimana un intensificarsi dell’attività dei gruppi armati.
Ma anche l’esercito egiziano non è da meno e sembra essere intenzionato a dispiegare un battaglione ad el-Arish, al nord, e un altro nel sud nei pressi di Sharm el-Sheikh.Lo scopo sarebbe quello di muovere una offensiva armata contro le cellule di islamisti arroccate sul Sinai; e tutto ma credere che nei prossimi giorni si avranno sviluppi di notevole importanza sulla vicenda.
Il Ciad.Cuore dell'Africa,dove il nulla è tutto.
di Ilenia Marini
Viaggio nelle calde terre dove nacque l'umanità.
Esistono varie forme di deserto nel mondo.Il deserto del Mohave in Nevada,il freddo deserto della steppa mongola,il deserto Tabernas in Spagna,ma il vero deserto,quello che è impresso nel nostro immaginario è il deserto del Sahara,Africa.E' talmente vasto e sconfinato che nelle sere ventose la sabbia sahariana può arrivare fine alle strade trafficate del Cairo,se non addirittura,valicare il Mediterraneo e giungere placido anche in Sicilia,trasportato dallo scirocco caldo.Il Sahara è il deserto atavico,quello dei nostri antenati,è qui che siamo nati,è qui che milioni di anni fa i primi australopitechi nacquero e iniziarono a trasmigrare nel mondo.Un gran pezzo del Sahara è occupato da una nazione,immensa e misteriosa,il Ciad.E' uno stato figlio del colonialismo belga dell'800,abitato da circa 12 milioni di persone di etnia e religione diversa,musulmana,cristiana e animista.I due terzi della popolazione vive a sud nella zona dei laghi,un terzo di irriducibili vive ancora nelle zone desertiche,a nord,sperduti nel nulla africano.La città che fa da crocevia fra il Sahara e il resto della nazione è Sahel,qui le popolazioni stanziali e nomadi si incontrano,scambiano e commerciano.Chi rimane lì,a coltivare il poco di terra che rimane,chi invece segue le carovane verso nord,alla volta del deserto,in un viaggio mistico e iniziatico.
Oggi i turisti fanno quella tratta a bordo di pullman e jeep 4x4 ma i locali la fanno su dromedari robusti e resistenti.Interi villaggi si spostano insieme,sembrano città intere viaggianti speranzose verso l'ignoto.Ignoto per noi occidentali,perchè per i nomdai del luogo la meta è chiara e precisa,senza dubbi e fraintendimenti,un itinerario immobile,tramandato di padre in figlio.Il deserto ovviamente non è uniforme,il territorio muta spesso,c'è la sabbia tipica delle dune altissime che conosciamo,c'è la roccia nuda,ci sono i ciottoli polverosi,ma il paradigma è sempre lo stesso,solo cielo e terra,il nulla metafisico che ispirerebbe i migliori poeti.Il deserto è miraggio ed oasi,ma spesso le oasi sono reali e l' i nomadi trovano vita e coraggio.Una nicchia vitale fatta di acqua,ombra e riposo.Oltre che miraggio,il deserto del Ciad è anche miracolo,perchè solo miracolo potremmo definire il magnifico bacino di laghi comunicanti di Ounianga,un sistema antichissimo,di circa quindicimila anni fa,con ben 60.000 ettari di acqua salata,dolce,vegetazione fitta e pesci in abbondanza.Un paesaggio splendido definito dall'Unesco nel 2011 patrimonio dell'Umanità.Sempre a nord nel bel mezzo del Sahara spunta poi una montagna vulcanica altissima,ben 3.500 metri di origine vulcanica,si chiama Emi Kousse,la cima più alta dell'intero deserto africano.La pietra della montagna è nera,vulcanica e modellata come creta dal vento del deserto nel corso dei decenni.
In queste zone vivono i Tebù,popolazione nomade che sopravvive grazie al commercio e che già con i Cartaginesi nel 500 a.C. intratteneva floridi rapporti commerciali.Sono uomini altissimi,pelle scura e naso aquilino,sanno produrre il vetro e del fantastico pane senza sale,costruire villaggi con rami di palme e trovare nel nulla dei pascoli verdi per le loro capre.Nel zona di Acacus nel territorio del Fezzan in alcune grotte buie e possibile ammirare antichissime decorazioni rupestri di epoca neolitica,inerenti la caccia e i viaggi,incisioni su roccia viva meravigliose anch'esse definite patrimonio dell'Umanità.Qui si viaggia solo sui dorsi dei cammelli e proprio loro,i cammelli,hanno lo sguardo di chi sa come vanno le cose qui,nel cuore del Sahara,nel ventre del mondo.Qui dove la leggenda africana si fa realtà.
Esistono varie forme di deserto nel mondo.Il deserto del Mohave in Nevada,il freddo deserto della steppa mongola,il deserto Tabernas in Spagna,ma il vero deserto,quello che è impresso nel nostro immaginario è il deserto del Sahara,Africa.E' talmente vasto e sconfinato che nelle sere ventose la sabbia sahariana può arrivare fine alle strade trafficate del Cairo,se non addirittura,valicare il Mediterraneo e giungere placido anche in Sicilia,trasportato dallo scirocco caldo.Il Sahara è il deserto atavico,quello dei nostri antenati,è qui che siamo nati,è qui che milioni di anni fa i primi australopitechi nacquero e iniziarono a trasmigrare nel mondo.Un gran pezzo del Sahara è occupato da una nazione,immensa e misteriosa,il Ciad.E' uno stato figlio del colonialismo belga dell'800,abitato da circa 12 milioni di persone di etnia e religione diversa,musulmana,cristiana e animista.I due terzi della popolazione vive a sud nella zona dei laghi,un terzo di irriducibili vive ancora nelle zone desertiche,a nord,sperduti nel nulla africano.La città che fa da crocevia fra il Sahara e il resto della nazione è Sahel,qui le popolazioni stanziali e nomadi si incontrano,scambiano e commerciano.Chi rimane lì,a coltivare il poco di terra che rimane,chi invece segue le carovane verso nord,alla volta del deserto,in un viaggio mistico e iniziatico.
Oggi i turisti fanno quella tratta a bordo di pullman e jeep 4x4 ma i locali la fanno su dromedari robusti e resistenti.Interi villaggi si spostano insieme,sembrano città intere viaggianti speranzose verso l'ignoto.Ignoto per noi occidentali,perchè per i nomdai del luogo la meta è chiara e precisa,senza dubbi e fraintendimenti,un itinerario immobile,tramandato di padre in figlio.Il deserto ovviamente non è uniforme,il territorio muta spesso,c'è la sabbia tipica delle dune altissime che conosciamo,c'è la roccia nuda,ci sono i ciottoli polverosi,ma il paradigma è sempre lo stesso,solo cielo e terra,il nulla metafisico che ispirerebbe i migliori poeti.Il deserto è miraggio ed oasi,ma spesso le oasi sono reali e l' i nomadi trovano vita e coraggio.Una nicchia vitale fatta di acqua,ombra e riposo.Oltre che miraggio,il deserto del Ciad è anche miracolo,perchè solo miracolo potremmo definire il magnifico bacino di laghi comunicanti di Ounianga,un sistema antichissimo,di circa quindicimila anni fa,con ben 60.000 ettari di acqua salata,dolce,vegetazione fitta e pesci in abbondanza.Un paesaggio splendido definito dall'Unesco nel 2011 patrimonio dell'Umanità.Sempre a nord nel bel mezzo del Sahara spunta poi una montagna vulcanica altissima,ben 3.500 metri di origine vulcanica,si chiama Emi Kousse,la cima più alta dell'intero deserto africano.La pietra della montagna è nera,vulcanica e modellata come creta dal vento del deserto nel corso dei decenni.
In queste zone vivono i Tebù,popolazione nomade che sopravvive grazie al commercio e che già con i Cartaginesi nel 500 a.C. intratteneva floridi rapporti commerciali.Sono uomini altissimi,pelle scura e naso aquilino,sanno produrre il vetro e del fantastico pane senza sale,costruire villaggi con rami di palme e trovare nel nulla dei pascoli verdi per le loro capre.Nel zona di Acacus nel territorio del Fezzan in alcune grotte buie e possibile ammirare antichissime decorazioni rupestri di epoca neolitica,inerenti la caccia e i viaggi,incisioni su roccia viva meravigliose anch'esse definite patrimonio dell'Umanità.Qui si viaggia solo sui dorsi dei cammelli e proprio loro,i cammelli,hanno lo sguardo di chi sa come vanno le cose qui,nel cuore del Sahara,nel ventre del mondo.Qui dove la leggenda africana si fa realtà.
Paura a Beirut.Bomba contro Hezbollah.
di Ilenia Marini
Autobomba in pieno centro.Morte e distruzione in Libano.
Ieri a sud di Beirut,la capitale del Libano,si è avuta un'impressionante esplosione.Un'autobomba è saltata in aria nel centro di un quartiere che secondo molti nasconde una delle roccaforti di Hezbollah sul territorio.Il perimetro dell'attentato è stato isolato con la fattiva collaborazione dei membri del partito islamico che in questo paese gode di una vera milizia armata.Dopo l'esplosione si è avuto un incendio,poi domato,ma comunque si contano almeno 10 morti e tanti feriti,soprattutto fra i membri del partito sciita filo iraniano. Gli uomini di Hezbollah hanno subito isolato l'area, un Centro di cooperazione islamica gestito dall'organizzazione nel quartiere di Bir al-Abed. L'autobomba una volta esplosa ha creato colonne altissime di denso fumo nero,ricordando in parte i terribili anni '80 e '90 quando Beirut era afflitta dal sanguinoso terrorismo islamico anti-americano,la paura maggiore è che l'attentanto sia l'inizio di una nuova serie di situazioni di tensione e conflittualità interna.Il Ministro della Sanità libanese,Alì Hasan,dopo vari tentennamenti ha affermato che i feriti sarebbero 73,22 dei quali sono ancora trattenuti in ospedale.Gli esperti dell'esercito libanese,interpellati sulle modalità dell'attentato,affermano che l'autobomba era caricata con almeno 40 kg di esplosivo, e che la fragorosa detonazione ha lasciato sulla strada un vero cratere profondo tre metri almeno e distrutto ben 15 auto nelle vicinanze.I danni potevano essere molteplici poichè a poche decine di metri dal luogo dell'attentanto è presente un distributore di carburanti che avrebbe potuto moltiplicare la forza detonante dell'ordigno.
I feriti sono stati prontamente condotti nei vicini ospedali di Bahman e Rasoul al-Atham.La zona è una zona residenziale e commerciale e lo scoppio ha provocato danni vistosi ai palazzi e alle case vicine,frantumando numerose finestre per l'onda d'urto. L'esplosione secondo molti non è un caso che sia avvenuta proprio il giorno di inizio del Ramadan che per molti libanesi sciiti ha un'importanza sacrale ed è il peggiore attentato che si sia registrato nella zona da almeno vent'anni.Bisogna sottolineare che da almeno un anno in Libano sono in forte aumento le tensioni fra sciiti e sunniti, anche a causa della guerra civile nella vicinissima Siria,guerra che i due gruppi libanesi giudicano in maniera diversa: i ribelli siriani sono perlopiù sunniti e vengono appoggiati dalla parte sunnita della popolazione libanese; il gruppo Hezbollah è invece di stirpe sciita e molti sciiti libanesi sostengono Bashar Assad, che è un membro della setta alawita, derivata dall'islam sciita. La zona dell'attentato è adiacente al centro direzionale del partito Hezbollah,dove lavorano numerosi dirigenti del gruppo,oramai istituzionalizzato e questa forse è la connessione che fa ipotizzare che siano stati i gruppi sunniti ad ordire l'attentato proprio contro la componente sciita del paese.Ma è importante sottolineare che già il mese scorso qualcosa iniziava a muoversi in Libano.Sempre nella zona meridionale di Beirut infatti,dove Hezbollah ha i suoi centri di potere,sono stati lanciati due razzi che esplodendo hanno provocato una decina di feriti.Agli islamisti sunniti non piace affatto che Hezbollah abbia appoggiato la repressione di Assad in Siria contro i ribelli,anzi peggio ancora quando dal Libano sono stati inviati a sostegno di Damasco veri contingenti di militari per sostenere l'esercito siriano.
La situazione inizia ribollire e diventa ancora più tesa da quando è stato rivelato che la Cia americana starebbe iniziando a rifornire di armi i ribelli siriani.Ecco gli interessi e gli odi sulla vicenda iniziano a diventare molteplici e quindi pericolosissimi da gestire.Infine,una nota drammatica e tragica sui pericoli che una situazione del genere può provocare sulla popolazione inerme.La settimana scorsa nei pressi di una scuola a nord di Beirut 8 bambini sono rimasti gravemente feriti a causa dello scoppio di una bomba a mano trovata per caso e con cui i bambini giocavano ignari. Per fortuna nessuna vittima ma questo lascia intuire il totale caos che inizia a prendere corpo ora anche nel Libano.
Ieri a sud di Beirut,la capitale del Libano,si è avuta un'impressionante esplosione.Un'autobomba è saltata in aria nel centro di un quartiere che secondo molti nasconde una delle roccaforti di Hezbollah sul territorio.Il perimetro dell'attentato è stato isolato con la fattiva collaborazione dei membri del partito islamico che in questo paese gode di una vera milizia armata.Dopo l'esplosione si è avuto un incendio,poi domato,ma comunque si contano almeno 10 morti e tanti feriti,soprattutto fra i membri del partito sciita filo iraniano. Gli uomini di Hezbollah hanno subito isolato l'area, un Centro di cooperazione islamica gestito dall'organizzazione nel quartiere di Bir al-Abed. L'autobomba una volta esplosa ha creato colonne altissime di denso fumo nero,ricordando in parte i terribili anni '80 e '90 quando Beirut era afflitta dal sanguinoso terrorismo islamico anti-americano,la paura maggiore è che l'attentanto sia l'inizio di una nuova serie di situazioni di tensione e conflittualità interna.Il Ministro della Sanità libanese,Alì Hasan,dopo vari tentennamenti ha affermato che i feriti sarebbero 73,22 dei quali sono ancora trattenuti in ospedale.Gli esperti dell'esercito libanese,interpellati sulle modalità dell'attentato,affermano che l'autobomba era caricata con almeno 40 kg di esplosivo, e che la fragorosa detonazione ha lasciato sulla strada un vero cratere profondo tre metri almeno e distrutto ben 15 auto nelle vicinanze.I danni potevano essere molteplici poichè a poche decine di metri dal luogo dell'attentanto è presente un distributore di carburanti che avrebbe potuto moltiplicare la forza detonante dell'ordigno.
I feriti sono stati prontamente condotti nei vicini ospedali di Bahman e Rasoul al-Atham.La zona è una zona residenziale e commerciale e lo scoppio ha provocato danni vistosi ai palazzi e alle case vicine,frantumando numerose finestre per l'onda d'urto. L'esplosione secondo molti non è un caso che sia avvenuta proprio il giorno di inizio del Ramadan che per molti libanesi sciiti ha un'importanza sacrale ed è il peggiore attentato che si sia registrato nella zona da almeno vent'anni.Bisogna sottolineare che da almeno un anno in Libano sono in forte aumento le tensioni fra sciiti e sunniti, anche a causa della guerra civile nella vicinissima Siria,guerra che i due gruppi libanesi giudicano in maniera diversa: i ribelli siriani sono perlopiù sunniti e vengono appoggiati dalla parte sunnita della popolazione libanese; il gruppo Hezbollah è invece di stirpe sciita e molti sciiti libanesi sostengono Bashar Assad, che è un membro della setta alawita, derivata dall'islam sciita. La zona dell'attentato è adiacente al centro direzionale del partito Hezbollah,dove lavorano numerosi dirigenti del gruppo,oramai istituzionalizzato e questa forse è la connessione che fa ipotizzare che siano stati i gruppi sunniti ad ordire l'attentato proprio contro la componente sciita del paese.Ma è importante sottolineare che già il mese scorso qualcosa iniziava a muoversi in Libano.Sempre nella zona meridionale di Beirut infatti,dove Hezbollah ha i suoi centri di potere,sono stati lanciati due razzi che esplodendo hanno provocato una decina di feriti.Agli islamisti sunniti non piace affatto che Hezbollah abbia appoggiato la repressione di Assad in Siria contro i ribelli,anzi peggio ancora quando dal Libano sono stati inviati a sostegno di Damasco veri contingenti di militari per sostenere l'esercito siriano.
La situazione inizia ribollire e diventa ancora più tesa da quando è stato rivelato che la Cia americana starebbe iniziando a rifornire di armi i ribelli siriani.Ecco gli interessi e gli odi sulla vicenda iniziano a diventare molteplici e quindi pericolosissimi da gestire.Infine,una nota drammatica e tragica sui pericoli che una situazione del genere può provocare sulla popolazione inerme.La settimana scorsa nei pressi di una scuola a nord di Beirut 8 bambini sono rimasti gravemente feriti a causa dello scoppio di una bomba a mano trovata per caso e con cui i bambini giocavano ignari. Per fortuna nessuna vittima ma questo lascia intuire il totale caos che inizia a prendere corpo ora anche nel Libano.
Torna la tensione per le strade di Belfast.
di Ilenia Marini
Molotov e proteste in Irlanda del Nord.La rabbia anarchica sale.
Nelle ultime settimane riesplode a sorpresa la tensione per le strade di Belfast,Irlanda del Nord.Durante delle manifestazioni studentesche,gruppi di giovani e di disoccupati hanno iniziato una fitta sassaiola con annesso lancio di bottiglie molotov contro la Police service of Northern Ireland (Psni),per l'occasione in assetto antisommossa.Secondo i ben informati,nelle strade laterali gli anziani dei vari gruppi anarchici e insurrezionalisti irlandesi erano nascosti e intenti ad impartire comandi ed ordini alle giovani leve nel mezzo delle proteste.Addirittura sarebbero coinvolti alcuni alcuni vecchi leader del disciolto gruppo paramilitare dell'Ulster volunteer force (Uvf), Gli inseparabili alleati del gruppo terroristico dell'Ira,tanto noto negli anni ottanta e primi novanta.Il capo dipartimento della polizia nord-irlandese ha evidenziato che in effetti alcuni paramilitari hanno manipolato le proteste e rivolto le armi contro la polizia.Almeno sette feriti e dieci arresti sono stati compiuti nelle ultime ore.Per alcuni anni le città nord-irlandesi avevano goduto di pace e serenità.Ora il fumo e l'odore acre dei lacrimogeni sembra tornare a disturbare le calme giornate dei cittadini del luogo.I ben informati ritengono che da almeno tre mesi i gruppi anarchici della città di Belfast siano in agitazione e stiano per preparare qualche avvenimento significativo.
Negli ultimi trenta giorni sono stati ben 50 i membri della polizia feriti e circa 100 gli arresti di sospettati,ma nulla di concreto è stato però fatto.L'epicentro della protesta anti-governativa sarebbero alcuni quartieri proletari della zona est di Belfast.Quartieri ricchi di immigrati e sottoproletariato perlopiù disoccupato e dedito alla micro-criminalità.Non ha rasserenato gli animi nemmeno la decisione del Comune di Belfast che ha deciso di far sventolare fuori dall'edificio la bandiera della Gran Bretagna,un vessillo cui gli insurrezionalisti anarchici non si sono mai riconosciuti e fonte di mille scontri in passato.Un'atto azzardato che ha dimenticato i quasi trentanni di battaglie per strada tra occupanti e occupati,una lotta civile con l'altra Irlanda,ritenuta filo-britannica,che ha insanguinato decenni e decenni,con numerosi caduti fra ambo le parti.I sobborghi di Belfast portano ancora i segni.Numerosi sono i muri che ricordano attentati e vittime,così come molti sono in giro per la città i murales che identificano zone di appartenenza rispetto ad altre.Quartieri lealisti e quartieri irlandesi,sempre in tensione fra loro.Dopo gli Accordi di Downing Street del 1998 le parti scelsero la via della diplomazia per risolvere le reciproche rivedicazioni,ma una parte della città sembra ancora non essersi arresa alla pacifica discussione.L'aggravante di questi ultimi anni è la crisi economica e l'enorme tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 70%.
La rabbia sociale quindi aumenta e spesso la scintilla della tensione può essere davvero minima.Tutto diventa una scusante per sfogare l'odio civile e la rabbia verso uno stato assente.Un dato davvero preoccupante è la quantità di armi illegali che la polizia ha negli ultimi tre anni sequestrato nei quartieri popolari di Belfast.Un aumento del 80% che fa spevanto,facendoci tornare indietro nel tempo all'epoca dei «Blocchi H» della terribile prigione di Long Kesh, di Bobby Sands e di tutti gli altri «hunger strike».Anni cruenti in cui i terroristi dell'Ira uccidevano poliziotti e giudici per le strade della città nel nome dell'Indipendenza dall'Irlanda. In effetti cinque mesi fa un episodio analogo e spaventoso è ricapitato.Il gruppo denominato New Ira ha rivendicato l'uccisione dell'agente della polizia penitenziaria David Black,ucciso di sera lungo l'autostrada mentre si recava nel carcere di Maghaberry nel quale qualche settimana prima erano stati rinchiusi circa 40 nazionalisti irlandesi accusati di banda armata e tentato omicidio.La paura a Belfast sembra tornare nelle strade.
Nelle ultime settimane riesplode a sorpresa la tensione per le strade di Belfast,Irlanda del Nord.Durante delle manifestazioni studentesche,gruppi di giovani e di disoccupati hanno iniziato una fitta sassaiola con annesso lancio di bottiglie molotov contro la Police service of Northern Ireland (Psni),per l'occasione in assetto antisommossa.Secondo i ben informati,nelle strade laterali gli anziani dei vari gruppi anarchici e insurrezionalisti irlandesi erano nascosti e intenti ad impartire comandi ed ordini alle giovani leve nel mezzo delle proteste.Addirittura sarebbero coinvolti alcuni alcuni vecchi leader del disciolto gruppo paramilitare dell'Ulster volunteer force (Uvf), Gli inseparabili alleati del gruppo terroristico dell'Ira,tanto noto negli anni ottanta e primi novanta.Il capo dipartimento della polizia nord-irlandese ha evidenziato che in effetti alcuni paramilitari hanno manipolato le proteste e rivolto le armi contro la polizia.Almeno sette feriti e dieci arresti sono stati compiuti nelle ultime ore.Per alcuni anni le città nord-irlandesi avevano goduto di pace e serenità.Ora il fumo e l'odore acre dei lacrimogeni sembra tornare a disturbare le calme giornate dei cittadini del luogo.I ben informati ritengono che da almeno tre mesi i gruppi anarchici della città di Belfast siano in agitazione e stiano per preparare qualche avvenimento significativo.
Negli ultimi trenta giorni sono stati ben 50 i membri della polizia feriti e circa 100 gli arresti di sospettati,ma nulla di concreto è stato però fatto.L'epicentro della protesta anti-governativa sarebbero alcuni quartieri proletari della zona est di Belfast.Quartieri ricchi di immigrati e sottoproletariato perlopiù disoccupato e dedito alla micro-criminalità.Non ha rasserenato gli animi nemmeno la decisione del Comune di Belfast che ha deciso di far sventolare fuori dall'edificio la bandiera della Gran Bretagna,un vessillo cui gli insurrezionalisti anarchici non si sono mai riconosciuti e fonte di mille scontri in passato.Un'atto azzardato che ha dimenticato i quasi trentanni di battaglie per strada tra occupanti e occupati,una lotta civile con l'altra Irlanda,ritenuta filo-britannica,che ha insanguinato decenni e decenni,con numerosi caduti fra ambo le parti.I sobborghi di Belfast portano ancora i segni.Numerosi sono i muri che ricordano attentati e vittime,così come molti sono in giro per la città i murales che identificano zone di appartenenza rispetto ad altre.Quartieri lealisti e quartieri irlandesi,sempre in tensione fra loro.Dopo gli Accordi di Downing Street del 1998 le parti scelsero la via della diplomazia per risolvere le reciproche rivedicazioni,ma una parte della città sembra ancora non essersi arresa alla pacifica discussione.L'aggravante di questi ultimi anni è la crisi economica e l'enorme tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 70%.
La rabbia sociale quindi aumenta e spesso la scintilla della tensione può essere davvero minima.Tutto diventa una scusante per sfogare l'odio civile e la rabbia verso uno stato assente.Un dato davvero preoccupante è la quantità di armi illegali che la polizia ha negli ultimi tre anni sequestrato nei quartieri popolari di Belfast.Un aumento del 80% che fa spevanto,facendoci tornare indietro nel tempo all'epoca dei «Blocchi H» della terribile prigione di Long Kesh, di Bobby Sands e di tutti gli altri «hunger strike».Anni cruenti in cui i terroristi dell'Ira uccidevano poliziotti e giudici per le strade della città nel nome dell'Indipendenza dall'Irlanda. In effetti cinque mesi fa un episodio analogo e spaventoso è ricapitato.Il gruppo denominato New Ira ha rivendicato l'uccisione dell'agente della polizia penitenziaria David Black,ucciso di sera lungo l'autostrada mentre si recava nel carcere di Maghaberry nel quale qualche settimana prima erano stati rinchiusi circa 40 nazionalisti irlandesi accusati di banda armata e tentato omicidio.La paura a Belfast sembra tornare nelle strade.
Datagate.Anche i leader UE venivano spiati.
di Ilenia Marini
I capi di Stato europei venivano spiati dalla NSA.Urgono spiegazioni.
Lo scandalo del DataGate non accenna a placarsi.La talpa della Cia che da settimane sta diffondendo le notizie e i documenti che hanno innescato il clamore e le polemiche sul piano Shelp continua nelle sue rivelazioni e ora sembrerebbe che nel furto di documenti e informazioni anche i leader e i paesi dell'Unione Europea sarebbero stati oggetti e quindi vittime del sistema di spionaggio.Secondo le rivelazioni la NSA americana spiava i diplomatici UE e la stessa Cia più volte avrebbe intercettato i telefoni dei capi governo riuniti a Bruxelles nelle riunioni comunitarie.L'ex agente Edward Snowden lo ha affermato con certezza e questo ha già messo in allarme il Presidente dell'Unione Europea che starebbe per inviare formale richiesta di spiegazioni alla Casa Bianca.L'irritazione è davvero massima.Il comportamento della NSA per nulla legittimo e corretto insomma.A dire il vero già due anni fa l'Agenzia di Sicurezza Europea aveva scoperto che alcune telefonate del Palazzo Lipsius cioè l'edificio in cui si riuniva il Consiglio Europeo,venivano intercettate e disturbate dall'esterno.Ma non si era riusciti a capire di chi fosse la colpa.Ora,facendo due più due,si può intuire da dove venissero orchestrate le intercettazioni.Anzi c'è di più.
Si è scoperto che nei pressi del Palazzo Lipsis un'intera ala di un edificio era stato affittato alla NSA americana nell'ambito di un progetto antiterrorismo sotto l'emblema della NATO.Davvero semplice quindi dedurre che da quell'edificio partisse il sistema di spionaggio che avrebbe intercettato numerosi dialoghi tra capi di Stato europei.I vertici del Parlamento Europeo si dicono allibiti dalle informazioni sul caso e lo stesso Schulz ha sottolineato che trattasi di uno scandalo enorme su cui biosgna dare spiegazioni urgentemente onde evitare di incrinare i delicati rapporti fra Usa e Ue.Spostandoci oltreoceano la situazione resta caotica e ingarbugliata.Il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden ha avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente dell'Ecuador Rafael Correa. In una conferenza stampa ad Aromo, Correa ha riferito che Biden gli avrebbe richiesto di non accettare la domanda di asilo della talpa Snowden, che Quito si è detta pronta ad esaminare.Un caso diverso ma sotto alcuni punti di vista simile è quello che riguarda il famoso hacker numero uno di Wikileaks, Julian Assange, anch'egli ricercato negli Usa che da più di un anno è ospite dell'ambasciata ecuadoriana a Londra. Nella stessa conferenza stampa, Correa ha anche mosso delle velate critiche alla Casa Bianca definendo lo scandalo del Datagate "il più grande caso di spionaggio nella storia dell'umanita' riguardante gli Stati Uniti".
Una notizia che davvero lascia a bocca aperta e che viene raccolta dal quotidiano inglese The Guardian sarebbe poi quella che in segreto alcuni stati europei avrebbero uno specifico accordo finalizzato allo scambio di dati personali con la National Security Agency.Tra questi stati ci sarebbero Italia e Germania.Il quotidiano inglese ritiene che questa notizia sia attendibile e che sia stata verificata attraverso un ex agente della Nsa Wayne Madsen.Lo stesso Giorgio Napolitano si è espresso sull'argomento,sottolineando che a breve una nota formale del Quirinale verrà inviata ad Obama per avere maggiori chiarimenti.Si prospettano giorni di tensione alla Casa Bianca e chissà se altre notizia usciranno o meno ed alimenteranno il fuoco dello scandalo DataGate
Lo scandalo del DataGate non accenna a placarsi.La talpa della Cia che da settimane sta diffondendo le notizie e i documenti che hanno innescato il clamore e le polemiche sul piano Shelp continua nelle sue rivelazioni e ora sembrerebbe che nel furto di documenti e informazioni anche i leader e i paesi dell'Unione Europea sarebbero stati oggetti e quindi vittime del sistema di spionaggio.Secondo le rivelazioni la NSA americana spiava i diplomatici UE e la stessa Cia più volte avrebbe intercettato i telefoni dei capi governo riuniti a Bruxelles nelle riunioni comunitarie.L'ex agente Edward Snowden lo ha affermato con certezza e questo ha già messo in allarme il Presidente dell'Unione Europea che starebbe per inviare formale richiesta di spiegazioni alla Casa Bianca.L'irritazione è davvero massima.Il comportamento della NSA per nulla legittimo e corretto insomma.A dire il vero già due anni fa l'Agenzia di Sicurezza Europea aveva scoperto che alcune telefonate del Palazzo Lipsius cioè l'edificio in cui si riuniva il Consiglio Europeo,venivano intercettate e disturbate dall'esterno.Ma non si era riusciti a capire di chi fosse la colpa.Ora,facendo due più due,si può intuire da dove venissero orchestrate le intercettazioni.Anzi c'è di più.
Si è scoperto che nei pressi del Palazzo Lipsis un'intera ala di un edificio era stato affittato alla NSA americana nell'ambito di un progetto antiterrorismo sotto l'emblema della NATO.Davvero semplice quindi dedurre che da quell'edificio partisse il sistema di spionaggio che avrebbe intercettato numerosi dialoghi tra capi di Stato europei.I vertici del Parlamento Europeo si dicono allibiti dalle informazioni sul caso e lo stesso Schulz ha sottolineato che trattasi di uno scandalo enorme su cui biosgna dare spiegazioni urgentemente onde evitare di incrinare i delicati rapporti fra Usa e Ue.Spostandoci oltreoceano la situazione resta caotica e ingarbugliata.Il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden ha avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente dell'Ecuador Rafael Correa. In una conferenza stampa ad Aromo, Correa ha riferito che Biden gli avrebbe richiesto di non accettare la domanda di asilo della talpa Snowden, che Quito si è detta pronta ad esaminare.Un caso diverso ma sotto alcuni punti di vista simile è quello che riguarda il famoso hacker numero uno di Wikileaks, Julian Assange, anch'egli ricercato negli Usa che da più di un anno è ospite dell'ambasciata ecuadoriana a Londra. Nella stessa conferenza stampa, Correa ha anche mosso delle velate critiche alla Casa Bianca definendo lo scandalo del Datagate "il più grande caso di spionaggio nella storia dell'umanita' riguardante gli Stati Uniti".
Una notizia che davvero lascia a bocca aperta e che viene raccolta dal quotidiano inglese The Guardian sarebbe poi quella che in segreto alcuni stati europei avrebbero uno specifico accordo finalizzato allo scambio di dati personali con la National Security Agency.Tra questi stati ci sarebbero Italia e Germania.Il quotidiano inglese ritiene che questa notizia sia attendibile e che sia stata verificata attraverso un ex agente della Nsa Wayne Madsen.Lo stesso Giorgio Napolitano si è espresso sull'argomento,sottolineando che a breve una nota formale del Quirinale verrà inviata ad Obama per avere maggiori chiarimenti.Si prospettano giorni di tensione alla Casa Bianca e chissà se altre notizia usciranno o meno ed alimenteranno il fuoco dello scandalo DataGate
In Egitto nulla cambia.Riscoppia il caos.
di Ilenia Marini
Inutile la Primavera Araba di anni fa.Popolo di nuovo in piazza.
In questi giorni in Egitto sembra di essere tornati indietro col tempo.Di nuovo rabbia e proteste per le strade,violenze e atti terribili e il bilancio inizia ad essere cupo; già due morti,tra cui un americano e ben cento feriti negli atti insurrezionali per le strade del Cairo.La questione ruota tutta intorno al nome del neo presidente eletto mesi orsono,ovvero Mohammed Morsi,contro il quale si sono scagliati i suoi avversari politici e i sostenitori del partito dei Fratelli Mussulmani.Anche le strade di Alessandria d'Egitto sono messe a ferro e fuoco dai rivoltosi,numerose le auto incendiate e i negozi distrutti,nel quartiere di Port Said poi ieri c'è stato un vero attentato,un ordigno è esploso nei pressi di un bar e hanno perso la vita un egiziano ed un giovane studente americano in vacanza in Egitto.La pericolosità della situazione aumenta ogni giorno tanto che lo stesso Obama ha consigliato ai cittadini americani di non recarsi in Egitto in visita o comunque di posticipare il più possibile la partenza a causa dei disordini sociali di questi giorni.
Il Dipartimento di Stato Usa,tanto per chiarire la gravità delle circostanze,ha invitato i dipendenti non essenziali ad abbandonare il territorio insieme alle loro famiglie,almeno fino a che i disordini non saranno stati sedati dall'esercito governativo.Come detto i morti.Ben due a causa di una bomba in pieno centro; il luogo dell'attentanto era simbolico,li infatti aveva sede una sezione della Fratellanza mussulmana,un gesto di aggressione quindi a sfondo politico ben chiaro.Il cittadino americano era stato anche trasportato in ospedale ad Alessandria ma è arrivato già deceduto.La miccia degli scontri si era avuta la settimana scorsa quando nel corso di una manifestazione a sostegno del governo in carica qualcuno ha cominciato a sparare colpi di fucile invocando precetti del Corano.Subito la folla si è divisa tra i sostenitori di Morsi e quelli dei Fratelli Islamici e entrambi i gruppi hanno iniziato a scontrarsi e anche a spararsi addosso,per fortuna solo una ventina di feriti e miracolosamente nessun morto.Ma quello è stato l'inizio della tensione politico-sociale.L'esercito in questi giorni ha tentato di calmare gli animi,con poco successo a dire il vero.Spari di lacrimogeni e fucili con proiettili di gomma sono i mezzi adoperati per spegnere il fuoco delle proteste ma per adesso sembra senza utili conseguenze.
I due gruppi politici si odiano,hanno due visioni opposte della vita e della poltica e soprattutto un modo diverso di vedere applicati i precetti religiosi.Morsi più liberale e occidentale,i Fratelli Mussulmani invece molto più integralisti e fautori di una politica autarchica e chiusa ai rapporti con l'occidente.Insomma una situazione davvero delicata dove nessuno riconosce la legittimità dell'altro ad esistere nel paese.La Primavera Araba era scoppiata allo scopo di eliminare il regime e innescare processi democratici,calmando gli animi e gli scontri in piazza.Dopo due anni possiamo dire che tutto pare finito.Un sostanziale fallimento servito solo a rovesciare il vecchio governo ma che non ha per nulla imposto il metodo democratico e liberale in Egitto.Un nuovo focolaio di tensione sembra essersi acceso in Medioriente,l'ennesimo e non ne sentivamo di certo il bisogno.
In questi giorni in Egitto sembra di essere tornati indietro col tempo.Di nuovo rabbia e proteste per le strade,violenze e atti terribili e il bilancio inizia ad essere cupo; già due morti,tra cui un americano e ben cento feriti negli atti insurrezionali per le strade del Cairo.La questione ruota tutta intorno al nome del neo presidente eletto mesi orsono,ovvero Mohammed Morsi,contro il quale si sono scagliati i suoi avversari politici e i sostenitori del partito dei Fratelli Mussulmani.Anche le strade di Alessandria d'Egitto sono messe a ferro e fuoco dai rivoltosi,numerose le auto incendiate e i negozi distrutti,nel quartiere di Port Said poi ieri c'è stato un vero attentato,un ordigno è esploso nei pressi di un bar e hanno perso la vita un egiziano ed un giovane studente americano in vacanza in Egitto.La pericolosità della situazione aumenta ogni giorno tanto che lo stesso Obama ha consigliato ai cittadini americani di non recarsi in Egitto in visita o comunque di posticipare il più possibile la partenza a causa dei disordini sociali di questi giorni.
Il Dipartimento di Stato Usa,tanto per chiarire la gravità delle circostanze,ha invitato i dipendenti non essenziali ad abbandonare il territorio insieme alle loro famiglie,almeno fino a che i disordini non saranno stati sedati dall'esercito governativo.Come detto i morti.Ben due a causa di una bomba in pieno centro; il luogo dell'attentanto era simbolico,li infatti aveva sede una sezione della Fratellanza mussulmana,un gesto di aggressione quindi a sfondo politico ben chiaro.Il cittadino americano era stato anche trasportato in ospedale ad Alessandria ma è arrivato già deceduto.La miccia degli scontri si era avuta la settimana scorsa quando nel corso di una manifestazione a sostegno del governo in carica qualcuno ha cominciato a sparare colpi di fucile invocando precetti del Corano.Subito la folla si è divisa tra i sostenitori di Morsi e quelli dei Fratelli Islamici e entrambi i gruppi hanno iniziato a scontrarsi e anche a spararsi addosso,per fortuna solo una ventina di feriti e miracolosamente nessun morto.Ma quello è stato l'inizio della tensione politico-sociale.L'esercito in questi giorni ha tentato di calmare gli animi,con poco successo a dire il vero.Spari di lacrimogeni e fucili con proiettili di gomma sono i mezzi adoperati per spegnere il fuoco delle proteste ma per adesso sembra senza utili conseguenze.
I due gruppi politici si odiano,hanno due visioni opposte della vita e della poltica e soprattutto un modo diverso di vedere applicati i precetti religiosi.Morsi più liberale e occidentale,i Fratelli Mussulmani invece molto più integralisti e fautori di una politica autarchica e chiusa ai rapporti con l'occidente.Insomma una situazione davvero delicata dove nessuno riconosce la legittimità dell'altro ad esistere nel paese.La Primavera Araba era scoppiata allo scopo di eliminare il regime e innescare processi democratici,calmando gli animi e gli scontri in piazza.Dopo due anni possiamo dire che tutto pare finito.Un sostanziale fallimento servito solo a rovesciare il vecchio governo ma che non ha per nulla imposto il metodo democratico e liberale in Egitto.Un nuovo focolaio di tensione sembra essersi acceso in Medioriente,l'ennesimo e non ne sentivamo di certo il bisogno.
Afghanistan - I talebani attaccano Kabul.
di Ilenia Marini
Martedi notte un commando suicida di islamisti ha assalito la zona presidenziale.
E' stata un'alba di sangue quella di ieri a Kabul.In pieno centro nella zona in cui dopo la guerra sono stati ricostruiti i palazzi del potere,tra cui quello presidenziale.I talebani hanno subito rivendicato l'azione terroristica la quale è consistita in un vero assalto per le vie della capitale.Un gruppo non specificato di talebani armati di kalashnikov ha iniziato a fare fuoco verso i Ministeri e la residenza presidenziale di Karzai.L'esercito afghano proteggeva la zona ed è nata subito una lunga sparatoria durata circa un'ora.Alla fine,secondo il Ministero degli Interni afghano,ci sono stati tre soldati feriti e l'uccisione di tutti gli assalitori.Non è chiaro se al momento dell'assalto Karzai fosse nel palazzo o meno.Di sicuro c'era molta stampa al seguito di una delegazione araba in visita e i giornalisti hanno ripreso e documentato tutto.I talebani,secondo indiscrezioni,hanno superato i checkpoint facilmente attraverso documenti falsi,poi una volta nella zona scelta hanno imbracciato i fucili e iniziato a sparare.Subito un plotone di soldati si è schierato a difesa.In un 'ora come detto,raffiche di mitra automatico hanno risuonato nell'aria e secondo un giornalista della Cnn anche il vicino palazzo che ospita gli uffici della CIA sarebbe stato colpito dai mitra,per fortuna senza vittime nè feriti.
L’attacco terroristico nello specifico è avvenuto nella zona di Shash Darak,lì dove c'è un ingresso laterale del palazzo del Presidente e alcuni punti di collegamento con le squadra militari della missione Isaf.Il perimetro era definito l'anello d'acciaio,proprio per la sua impenetrabilità,garantita da ben 25 squadre di soldati a guardia della zona.Ma i talebani sono comunque penetrati e dopo alcune centinaia di metri avrebbero potuto trovare l'ingresso diretto per l'ambasciata USA,forse uno o il vero obiettivo dell'azione criminale.In contemporanea all'assalto in città sono poi esplose alcune autobombe per attrarre l'attenzione e distrarre la polizia afghana per fortuna senza vittime civili.L'opinione pubblica si allarma e chiede come mai un gruppo di terroristi entri così facilmente all'interno di una zona super-protetta.I responsabili della missione Isaf ci tengono però a sottolineare che l'anello d'acciaio è controllato esclusivamente da soldati afghani,ben addestrati e armati ma comunque afghani con collegamenti con la popolazione civile.Insomma un aiuto o una talpa interna non è esclusa.
I Talebani hanno rinendicato l'assalto definendola un'azione kamikaze contro gli usurpatori del popolo afghano,queste sono state le parole usate dal portavoce Zabihullah Mujahid. L’attacco terroristico è avvenuto dopo pochi giorni che la Nato con una decisione definitiva ha letteralmente consegnato la sicurezza del Paese alle forze afghane e dopo il preliminare di accordo bilaterale che tra qualche mese Kabul firmerà con gli Usa nel quale si deciderà se lasciare o meno sul territorio afghano un piccolo contingente militare americano anche oltre il 2014. Intanto per avere delucidazioni dirette sulla questione Obama oggi invierà a Kabul il suo personale inviato speciale per gli affari Usa-Pakistan-Afghanista,ovvero James Dobbins.Lo scopo sarà raccogliere notizie ed umori sulla situazione e mantenere inalterati i rapporti con Karzai e Al Zardari,ma l'ambiente resta comunque molto instabile.
E' stata un'alba di sangue quella di ieri a Kabul.In pieno centro nella zona in cui dopo la guerra sono stati ricostruiti i palazzi del potere,tra cui quello presidenziale.I talebani hanno subito rivendicato l'azione terroristica la quale è consistita in un vero assalto per le vie della capitale.Un gruppo non specificato di talebani armati di kalashnikov ha iniziato a fare fuoco verso i Ministeri e la residenza presidenziale di Karzai.L'esercito afghano proteggeva la zona ed è nata subito una lunga sparatoria durata circa un'ora.Alla fine,secondo il Ministero degli Interni afghano,ci sono stati tre soldati feriti e l'uccisione di tutti gli assalitori.Non è chiaro se al momento dell'assalto Karzai fosse nel palazzo o meno.Di sicuro c'era molta stampa al seguito di una delegazione araba in visita e i giornalisti hanno ripreso e documentato tutto.I talebani,secondo indiscrezioni,hanno superato i checkpoint facilmente attraverso documenti falsi,poi una volta nella zona scelta hanno imbracciato i fucili e iniziato a sparare.Subito un plotone di soldati si è schierato a difesa.In un 'ora come detto,raffiche di mitra automatico hanno risuonato nell'aria e secondo un giornalista della Cnn anche il vicino palazzo che ospita gli uffici della CIA sarebbe stato colpito dai mitra,per fortuna senza vittime nè feriti.
L’attacco terroristico nello specifico è avvenuto nella zona di Shash Darak,lì dove c'è un ingresso laterale del palazzo del Presidente e alcuni punti di collegamento con le squadra militari della missione Isaf.Il perimetro era definito l'anello d'acciaio,proprio per la sua impenetrabilità,garantita da ben 25 squadre di soldati a guardia della zona.Ma i talebani sono comunque penetrati e dopo alcune centinaia di metri avrebbero potuto trovare l'ingresso diretto per l'ambasciata USA,forse uno o il vero obiettivo dell'azione criminale.In contemporanea all'assalto in città sono poi esplose alcune autobombe per attrarre l'attenzione e distrarre la polizia afghana per fortuna senza vittime civili.L'opinione pubblica si allarma e chiede come mai un gruppo di terroristi entri così facilmente all'interno di una zona super-protetta.I responsabili della missione Isaf ci tengono però a sottolineare che l'anello d'acciaio è controllato esclusivamente da soldati afghani,ben addestrati e armati ma comunque afghani con collegamenti con la popolazione civile.Insomma un aiuto o una talpa interna non è esclusa.
I Talebani hanno rinendicato l'assalto definendola un'azione kamikaze contro gli usurpatori del popolo afghano,queste sono state le parole usate dal portavoce Zabihullah Mujahid. L’attacco terroristico è avvenuto dopo pochi giorni che la Nato con una decisione definitiva ha letteralmente consegnato la sicurezza del Paese alle forze afghane e dopo il preliminare di accordo bilaterale che tra qualche mese Kabul firmerà con gli Usa nel quale si deciderà se lasciare o meno sul territorio afghano un piccolo contingente militare americano anche oltre il 2014. Intanto per avere delucidazioni dirette sulla questione Obama oggi invierà a Kabul il suo personale inviato speciale per gli affari Usa-Pakistan-Afghanista,ovvero James Dobbins.Lo scopo sarà raccogliere notizie ed umori sulla situazione e mantenere inalterati i rapporti con Karzai e Al Zardari,ma l'ambiente resta comunque molto instabile.
Brasile.Fra crescita economica e dubbi.
di Ilenia Marini
l Gigante Sud-Americano è cresciuto tantissimo.Durerà?
Il Brasile,la patria del divertimento,dell'estate perenne e della gioia di vivere,da un paio di anni è divenuta la patria del benessere e della crescita economica.Nel 2012 è stato protagonista di uno sviluppo in ogni settore che l'ha portato a conquistare la sesta posizione nella particolare classifica delle superpotenze mondiali,spodestando nietemeno che il Regno Unito,il tasso annuo di aumento del PIL era di ben 7,5 %.Ora nell'arco di due anni si appresta ad ospitare due importantissime rassegne sportive che metteranno ancora di più i riflettori sul paese sudamericano.Parliamo ovviamente del Mondiale 2014 e delle Olimpiadi 2016.Molte restano però le cose da chiarire e cioè se il Brasile continuerà nella sua crescita o se il ciclo di sviluppo si fermerà per assestarsi o peggio ancora regredire; ed inoltre se una serie di problematiche come la micro-criminalità elevata e il pessimo servizio di trasporto pubblico verrano o meno corretti.
A dire il vero in questo 2013 il tasso di crescita del PIL ha rallentato e non poco,solo un 3% netto che comunque resta un miraggio per un paese fermo come l'Italia.Il reddito annuo di un cittadino brasiliano è fissato su 12.000 dollari contro i 18.000 dell'Italia ma quello che spaventa molti è il dislivello esorbitante tra la parte est e la parte ovest del paese.A est infatti l'economia è ancora arretratissima,il paese è rimasto nella dimensione del Quarto Mondo,esistono ancora piantagioni immense e latifondi improduttivi,antico retaggio di un sistema coloniale di matrice portoghese che stenta ad essere sostituito da un'agricoltura virtuosa.La parte ovest invece è molto sviluppata,intere megalopoli come San Paolo e Rio de Janeiro sono cresciute e brulicano di attività economiche e finanziarie.Sono sorte nelle periferie ampie zone industriali con sviluppi in settore strategici come siderurgia,alimentare ed energetico.Un'economia davvero vitale.Nel 2013 però,come detto,la crescita ha rallentato;una delle cause è anche la crisi economica che ha colpito la Cina,da sempre il principale investitore nel paese carioca.
Ma comunque il Brasile rimane la superpotenza dell'America latina con la migliore industria manifatturiera del continente.Il dilemma che attanaglia molti,politici ed economisti è appunto capire cosa accadrà dopo le due vetrine mediatiche dei Mondiali e delle Olimpiadi.Il benessere continuerà a crescere e a far sviluppare il paese oppure il percorso di crescita ha raggiunto limiti estremi ed ora sono quindi altre le politiche da intraprendere?Molti criticano l'eccesso di denaro pubblico speso per la costruzione di numerosi impianti sportivi.Molto meglio impiegare la spesa pubblica per le infrastrutture come le autostrade che serviranno al paese anche dopo le manifestazioni sportive.Impianti sportivi e alberghi, invece, permettono un ammortizzamento limitato.Bisognerà sostenere fortemente il turismo per continuare a darvi un senso.Autostrade e ferrovie soprattutto nella zona est del paese erano forse la scelta più utile al Brasile.Ma poco importa adesso.Non ci resta che stare a vedere l'evolversi della situazione.
Il Brasile,la patria del divertimento,dell'estate perenne e della gioia di vivere,da un paio di anni è divenuta la patria del benessere e della crescita economica.Nel 2012 è stato protagonista di uno sviluppo in ogni settore che l'ha portato a conquistare la sesta posizione nella particolare classifica delle superpotenze mondiali,spodestando nietemeno che il Regno Unito,il tasso annuo di aumento del PIL era di ben 7,5 %.Ora nell'arco di due anni si appresta ad ospitare due importantissime rassegne sportive che metteranno ancora di più i riflettori sul paese sudamericano.Parliamo ovviamente del Mondiale 2014 e delle Olimpiadi 2016.Molte restano però le cose da chiarire e cioè se il Brasile continuerà nella sua crescita o se il ciclo di sviluppo si fermerà per assestarsi o peggio ancora regredire; ed inoltre se una serie di problematiche come la micro-criminalità elevata e il pessimo servizio di trasporto pubblico verrano o meno corretti.
A dire il vero in questo 2013 il tasso di crescita del PIL ha rallentato e non poco,solo un 3% netto che comunque resta un miraggio per un paese fermo come l'Italia.Il reddito annuo di un cittadino brasiliano è fissato su 12.000 dollari contro i 18.000 dell'Italia ma quello che spaventa molti è il dislivello esorbitante tra la parte est e la parte ovest del paese.A est infatti l'economia è ancora arretratissima,il paese è rimasto nella dimensione del Quarto Mondo,esistono ancora piantagioni immense e latifondi improduttivi,antico retaggio di un sistema coloniale di matrice portoghese che stenta ad essere sostituito da un'agricoltura virtuosa.La parte ovest invece è molto sviluppata,intere megalopoli come San Paolo e Rio de Janeiro sono cresciute e brulicano di attività economiche e finanziarie.Sono sorte nelle periferie ampie zone industriali con sviluppi in settore strategici come siderurgia,alimentare ed energetico.Un'economia davvero vitale.Nel 2013 però,come detto,la crescita ha rallentato;una delle cause è anche la crisi economica che ha colpito la Cina,da sempre il principale investitore nel paese carioca.
Ma comunque il Brasile rimane la superpotenza dell'America latina con la migliore industria manifatturiera del continente.Il dilemma che attanaglia molti,politici ed economisti è appunto capire cosa accadrà dopo le due vetrine mediatiche dei Mondiali e delle Olimpiadi.Il benessere continuerà a crescere e a far sviluppare il paese oppure il percorso di crescita ha raggiunto limiti estremi ed ora sono quindi altre le politiche da intraprendere?Molti criticano l'eccesso di denaro pubblico speso per la costruzione di numerosi impianti sportivi.Molto meglio impiegare la spesa pubblica per le infrastrutture come le autostrade che serviranno al paese anche dopo le manifestazioni sportive.Impianti sportivi e alberghi, invece, permettono un ammortizzamento limitato.Bisognerà sostenere fortemente il turismo per continuare a darvi un senso.Autostrade e ferrovie soprattutto nella zona est del paese erano forse la scelta più utile al Brasile.Ma poco importa adesso.Non ci resta che stare a vedere l'evolversi della situazione.
Al G8 poco coraggio e molta riflessione.
di Ilenia Marini
Conclusi i lavori del G8.Pochissime le decisioni realmente prese.
Si sono chiusi il lavori del G8 tenutosi nel verde incantato dell'Irlanda del Nord.Le otto super potenze mondiali hanno discusso a lungo di svariati temi di interesse mondiale ma secondo il comunicato emesso alla fine,nessun leader ha messo sul tavolo lo spinoso argomento della crisi siriana nè tantomeno il futuro del presidente della Siria Assad,alleato fraterno proprio di uno degli invitati al tavolo,ovvero Vladimir Putin.In parte ciò lo si aveva intuito quando negli atti preparatori al G8 enormemente lontane erano state le posizioni degli USA da una parte,che chiedevano la caduta di Assad con instaurazione di un regime democratico in Siria e la Russia che invece oltre che alleata siriana ha lasciato intuire che ogni forma di imposizione al governo di Assad avrebbe ottenuto il veto di Putin.Questa netta differenza di posizioni ha imposto alle diplomazie anche di rinviare di un mese la conferenza di pace a Ginevra proprio per smussare questi angoli che appaiono per ora spigolosissimi.
I lavori del G8 hanno avuto come inauguratore il premier inglese Cameron che però una sua opinione sulla situazione in Siria ha voluto esprimerla sottolineando come nel G8 tutti sono propensi con l'approfondire le circostanze e verificare sul campo l'esistenza di armi chimiche in possesso di Assad e poi regolarsi di conseguenza.Vladimir Putin si è allineato a questa opinione ma non ha mancato di evidenziare come sia in corso un'indagine ONU e non vi è prova evidente che sia stato il presidente Assad ad averle usate per primo.Dopo l'inchiesta si deciderà insomma presso il Consiglio di Sicurezza dell'Onu.Sempre sul tema lotta al terrorismo dal G8 arriva un forte monito per combattere i numerosi rapimenti che nelle zone a rischio avvengono con frequenza enorme.Vietato pagare i riscatti ai terrotisti altrimenti si alimenta un traffico che secondo alcune voci arriva a circa 70 milioni di dollari che finirebbero nelle casse insanguinate di Al Qaeda.Poi nelle discussioni è stata la volta degli argomenti in campo economico e fiscale.A riguardo importanti passi sono stati fatti sulla lotta all'evasione fiscale e soprattutto sul percorso normativo congiunto per abbattere il fenomeno dei paradisi fiscali.
La lista nera dei paesi che violano tali norme di trasparenza è stata ampliata e rafforzate sono state le sanzioni per il reato di evasione.Congiunta è stata l'idea di potenziare la rete di informazione fra le varie autorità nazionali agevolando lo scambio e la circolazione di documenti.Sul tema economico il nostro Presidente del Consiglio ha tenuto a specificare che l'Italia è finalmente uscita dal vortice negativo del 2012,che non è più uno stato sotto la lente di ingrandimento della Commissione e che tutti gli accordi verranno rispettati compreso l'obbligo del 3% di Pil da non sforare,cosa che invece il Cavaliere aveva invitato a fare pur di dare una scossa alla crescita e all'economia nazionale.Infine il G8 ha trattato lungamente il tema della disoccupazione e alla fine dagli atti e dagli accordi conclusivi si può intuire che gli Stati rafforzeranno gli interventi a sostegno dei disoccupati,soprattutto giovanili e le politiche di incentivo alla domanda di lavoro.Un monito anche per l'UE di attivare normative per unificare le politiche finanziarie a riguardo e invitare la BCE ad abbassare il tasso di interesse bancario.Diminuendo il costo del denaro si può incentivare la crescita degli investimenti e iniziare la ripresa economica anche in Europa.Questo è lo scopo prefissato.
Si sono chiusi il lavori del G8 tenutosi nel verde incantato dell'Irlanda del Nord.Le otto super potenze mondiali hanno discusso a lungo di svariati temi di interesse mondiale ma secondo il comunicato emesso alla fine,nessun leader ha messo sul tavolo lo spinoso argomento della crisi siriana nè tantomeno il futuro del presidente della Siria Assad,alleato fraterno proprio di uno degli invitati al tavolo,ovvero Vladimir Putin.In parte ciò lo si aveva intuito quando negli atti preparatori al G8 enormemente lontane erano state le posizioni degli USA da una parte,che chiedevano la caduta di Assad con instaurazione di un regime democratico in Siria e la Russia che invece oltre che alleata siriana ha lasciato intuire che ogni forma di imposizione al governo di Assad avrebbe ottenuto il veto di Putin.Questa netta differenza di posizioni ha imposto alle diplomazie anche di rinviare di un mese la conferenza di pace a Ginevra proprio per smussare questi angoli che appaiono per ora spigolosissimi.
I lavori del G8 hanno avuto come inauguratore il premier inglese Cameron che però una sua opinione sulla situazione in Siria ha voluto esprimerla sottolineando come nel G8 tutti sono propensi con l'approfondire le circostanze e verificare sul campo l'esistenza di armi chimiche in possesso di Assad e poi regolarsi di conseguenza.Vladimir Putin si è allineato a questa opinione ma non ha mancato di evidenziare come sia in corso un'indagine ONU e non vi è prova evidente che sia stato il presidente Assad ad averle usate per primo.Dopo l'inchiesta si deciderà insomma presso il Consiglio di Sicurezza dell'Onu.Sempre sul tema lotta al terrorismo dal G8 arriva un forte monito per combattere i numerosi rapimenti che nelle zone a rischio avvengono con frequenza enorme.Vietato pagare i riscatti ai terrotisti altrimenti si alimenta un traffico che secondo alcune voci arriva a circa 70 milioni di dollari che finirebbero nelle casse insanguinate di Al Qaeda.Poi nelle discussioni è stata la volta degli argomenti in campo economico e fiscale.A riguardo importanti passi sono stati fatti sulla lotta all'evasione fiscale e soprattutto sul percorso normativo congiunto per abbattere il fenomeno dei paradisi fiscali.
La lista nera dei paesi che violano tali norme di trasparenza è stata ampliata e rafforzate sono state le sanzioni per il reato di evasione.Congiunta è stata l'idea di potenziare la rete di informazione fra le varie autorità nazionali agevolando lo scambio e la circolazione di documenti.Sul tema economico il nostro Presidente del Consiglio ha tenuto a specificare che l'Italia è finalmente uscita dal vortice negativo del 2012,che non è più uno stato sotto la lente di ingrandimento della Commissione e che tutti gli accordi verranno rispettati compreso l'obbligo del 3% di Pil da non sforare,cosa che invece il Cavaliere aveva invitato a fare pur di dare una scossa alla crescita e all'economia nazionale.Infine il G8 ha trattato lungamente il tema della disoccupazione e alla fine dagli atti e dagli accordi conclusivi si può intuire che gli Stati rafforzeranno gli interventi a sostegno dei disoccupati,soprattutto giovanili e le politiche di incentivo alla domanda di lavoro.Un monito anche per l'UE di attivare normative per unificare le politiche finanziarie a riguardo e invitare la BCE ad abbassare il tasso di interesse bancario.Diminuendo il costo del denaro si può incentivare la crescita degli investimenti e iniziare la ripresa economica anche in Europa.Questo è lo scopo prefissato.
Elezioni in Iran.Una nuova era è possibile.
di Ilenia Marini
In Iran si attende una svolta politica epocale.
In Iran è iniziato lo spoglio delle elezioni presidenziali.Già il 50% delle schede valide è stato controllato e secondo le prime indiscrezioni sarebbe in testa il moderato Hassan Rohani, sostenuto dai riformisti e quindi il favorito fino ad ora a succedere a Mahmud Ahamdinejad.Si ritiene che in base ai voti scrutinati Rohani potrebbe essere vicino alla quota necessaria per evitare il ballottaggio della settimana prossima.La quasi vittoria del leader riformista è stata resa possibile dalle forti divisioni interne del partito conservatore di Khamenei, che alle urne è giunto frammentato con ben quattro candidati tra cui il famoso sindaco di Teheran, Mohammad Baqer Qalibaf, che sta ottenendo il 15% dei voti a fronte del 50% che viene attribuito a Rohani.Altri candidati erano il negoziatore per il nucleare Said Jalili ed il consigliere diplomatico della Guida, Ali Akbar Velayati,che hanno ottenuto meno dell’indipendente Mohsen Rezai.Ma chi è veramente Rohani?Politicamente è nato nell'ala ideologica dell'ex presidente Hashemi Rafsanjani,ha avuto una lunga carriera da giureconsulto islamico e di recente è divenuto espressione anche del movimento riformista che negli ultimi anni aveva subito una vera e propria emarginazione istituzionale a causa dell'appoggio politico dato nel lontano 2009 ai moti rivoltosi avutisi a Teheran contro il regime di Ahamdinejadd.
Ma col passare del tempo il sostegno popolare è aumentato e i sondaggi già il mese scorso premiavano le politiche progressiste del partito di Rohani.La settima scorsa il leader conservatore Khamenei ha utilizzato Twitter per esprimere il suo parere sulle elezioni ed ha affermato che un voto per chiunque di questi candidati è un voto per la repubblica islamica e un voto di fiducia nel sistema e nel meccanismo elettorali.Insomma un invito ai cittadini a partecipare al sistema politico iraniano.L'affluenza elettorale è stata molto alta anche se leggermente inferiore rispetto alle elezioni del 2009,le ultime stime ritengono che sarà toccata la quota degli 85% degli aventi diritto,una quota altissima. In Iran le decisioni politiche e strategiche del paese vengonoperò prese da Khamenei,ma l’elezione del presidente in Iran è molto rilevante per l'intera comunità internazionale poichè è il presidente che si occupa di economia,della battaglia contro la disoccupazione e l'inflazione,battaglia difficile anche a causa delle sanzioni internazionali.Il Presidente inoltre ha un ruolo importante nella gestione del negoziato sul programma nucleare di Teheran, sospettato dall'ONU di tramare finalità militari.
A tal fine è utile sottolineare che Rohani è ricordato per essere stato il negoziatore che nel 2003 riuscì ad ottonere da Francia, Gran Bretagna e Germania una moratoria sull’arricchimento dell’uranio,uno dei punti che da sempre viene criticato sul pericoloso programma nucleare iraniano e riuscì ad ottenere un allentamento della pressione da parte del mondo occidentale.Poi però nel 2006 Ahmadinejad riprese la tecnica di arricchimento dell'uranio suscitando allarme e paure in tutto il mondo.Per fortuna mai nulla di drammatico è accaduto da allora.Un politico moderato ed equilibrato insomma,non affetto da nazionalismo patologico come il suo predecessore,queste sono le qualità maggiori che fanno di Rohani il personaggio che potrebbe dare una nuova era al popolo iraniano.
In Iran è iniziato lo spoglio delle elezioni presidenziali.Già il 50% delle schede valide è stato controllato e secondo le prime indiscrezioni sarebbe in testa il moderato Hassan Rohani, sostenuto dai riformisti e quindi il favorito fino ad ora a succedere a Mahmud Ahamdinejad.Si ritiene che in base ai voti scrutinati Rohani potrebbe essere vicino alla quota necessaria per evitare il ballottaggio della settimana prossima.La quasi vittoria del leader riformista è stata resa possibile dalle forti divisioni interne del partito conservatore di Khamenei, che alle urne è giunto frammentato con ben quattro candidati tra cui il famoso sindaco di Teheran, Mohammad Baqer Qalibaf, che sta ottenendo il 15% dei voti a fronte del 50% che viene attribuito a Rohani.Altri candidati erano il negoziatore per il nucleare Said Jalili ed il consigliere diplomatico della Guida, Ali Akbar Velayati,che hanno ottenuto meno dell’indipendente Mohsen Rezai.Ma chi è veramente Rohani?Politicamente è nato nell'ala ideologica dell'ex presidente Hashemi Rafsanjani,ha avuto una lunga carriera da giureconsulto islamico e di recente è divenuto espressione anche del movimento riformista che negli ultimi anni aveva subito una vera e propria emarginazione istituzionale a causa dell'appoggio politico dato nel lontano 2009 ai moti rivoltosi avutisi a Teheran contro il regime di Ahamdinejadd.
Ma col passare del tempo il sostegno popolare è aumentato e i sondaggi già il mese scorso premiavano le politiche progressiste del partito di Rohani.La settima scorsa il leader conservatore Khamenei ha utilizzato Twitter per esprimere il suo parere sulle elezioni ed ha affermato che un voto per chiunque di questi candidati è un voto per la repubblica islamica e un voto di fiducia nel sistema e nel meccanismo elettorali.Insomma un invito ai cittadini a partecipare al sistema politico iraniano.L'affluenza elettorale è stata molto alta anche se leggermente inferiore rispetto alle elezioni del 2009,le ultime stime ritengono che sarà toccata la quota degli 85% degli aventi diritto,una quota altissima. In Iran le decisioni politiche e strategiche del paese vengonoperò prese da Khamenei,ma l’elezione del presidente in Iran è molto rilevante per l'intera comunità internazionale poichè è il presidente che si occupa di economia,della battaglia contro la disoccupazione e l'inflazione,battaglia difficile anche a causa delle sanzioni internazionali.Il Presidente inoltre ha un ruolo importante nella gestione del negoziato sul programma nucleare di Teheran, sospettato dall'ONU di tramare finalità militari.
A tal fine è utile sottolineare che Rohani è ricordato per essere stato il negoziatore che nel 2003 riuscì ad ottonere da Francia, Gran Bretagna e Germania una moratoria sull’arricchimento dell’uranio,uno dei punti che da sempre viene criticato sul pericoloso programma nucleare iraniano e riuscì ad ottenere un allentamento della pressione da parte del mondo occidentale.Poi però nel 2006 Ahmadinejad riprese la tecnica di arricchimento dell'uranio suscitando allarme e paure in tutto il mondo.Per fortuna mai nulla di drammatico è accaduto da allora.Un politico moderato ed equilibrato insomma,non affetto da nazionalismo patologico come il suo predecessore,queste sono le qualità maggiori che fanno di Rohani il personaggio che potrebbe dare una nuova era al popolo iraniano.
Assad prepara l'offensiva verso Aleppo.
di Ilenia Marini
Il Dittatore siriano vuole mettere fine alla rivolta col sangue.
In Siria la guerra civile continua,più sanguinosa e drammatica che mai.L'esercito governativo di Assad è riuscito a capovolgere le sorti degli scontri e adesso gode di una posizione di vantaggio verso le truppe ribelli alle quali i grandi paesi occidentali,anche a causa delle loro incapacità a prendere decisioni strategiche valide,sembrano far mancare il necessario appoggio sia diplomatico che materiale.L'esercito regolare dopo aver conquistato la roccaforte di Qusayr sembra puntare deciso e pronto all'assalto verso l'antica città di Aleppo che da mesi era stata scelta dai ribelli come loro base principale.L'offensiva è iniziata ieri e la propaganda del regime lascia intuire che già centinaia siano i rivoluzionari uccisi e catturati dalle truppe;l'azione militare di Assad è stata definita Tempesta del Nord poichè il dittatore siriano desidera che come un uragano l'esercito debelli i nidi di rivoltosi nascosti nei quartieri di Aleppo e purifichi come pioggia la zona e quei quartieri che da mesi ospitano le cellule ribelli della zona.Solo gli Stati Uniti restano molto vigili e molto preoccupati dei fatti siriani.La delegazione Usa infatti non solo ha più volte ribadito che il Presidente Assad dovrebbe abdicare e concedere libere elezioni ai cittadini ma sta anche ipotizzando l'invio di armi ai ribelli per permettere loro di recuperare posizioni nel conflitto.La settimana prossima alla Casa Bianca Obama si riunirà con il suo staff incaricato di trovare una soluzione alla crisi siriana e molte sono le opzioni sul tavolo,tavolo al quale siederà anche John Kerry che per l'uopo ha depennato proprio la sua visita diplomatica in Medio Oriente.
I dati che arrivano dalla Commissione Onu sulle violazioni in Siria sono davvero preoccupanti.Solo tra aprile e maggio sono più di tremila le vittime cadute sul campo di battaglia di cui ben 350 fra bambini e ragazzi.Un vero massacro.La rivolta siriana però non si affievolisce,nonostante i successi dell'esercito di Assad i ribelli continua ad opporsi e il rischio è che la vicenda inizi ad interessare anche il confine libanese.Non è certo una novità il fatto che il partito sciita libanese e gli stessi Hezbollah di Beirut abbiano sempre appoggiato le politiche di Assad e più di un patto strategico sia stato firmato col governo siriano.Quindi il pericolo che i rivoltosi al confine reagiscano alla pressione libanese è comunque strisciante.Due giorni fa infatti un convoglio di miliziani Hezbollah era diretto verso il confine siriano ed è stato oggetto di un attentato senza però vittime.I rivoltosi siriani si difendono definendosi estranei al fatto ma sottolineano che molto probabilmente quel convoglio di miliziani libanesi fosse diretto a dare manforte all'esercito di Assad.Quindi evidenziando come la posizione libanese sia non del tutto neutrale.Se la rivolta si allargasse oltre confine sarebbe il caos.Una vera miccia accesa che farebbe riesplodere la polveriera mediorientale.Ogni nazione infatti,in quelle terre,nutre rancori mai sopiti verso gli stati confinanti,a partire ovviamente da Israele e Palestina,senza dimenticare Iran e Iraq.
Intanto la situazione evolve.Vladimir Putin che era e resta l'unico ad appoggiare la linea Assad sta valutando l'idea di inviare un contingente ONU sul territorio allo scopo di sostituire il contingente austriaco che tra qualche mese si ritirerà dalla zona e ha già sottolineato al suo alleato Assad di non esagerare nella violenza contro i ribelli per non attirare su di se la cattiva opinione occidentale.Inoltre da una settimana in Giordania,migliaia di soldati sia della zona che dei paesi Nato tra cui l'Italia si esericitano al combattimento nel territorio nell'ambito dell'operazione `Eager Lion´ cominciata sotto il comando Usa.Manovre esercitative in vista di un futuro impiego?Nessuno può saperlo e Assad per sicurezza ha comunque predisposto lungo il confine con il regno hashemita un contingente a protezione del confine siriano.L'ipotesi che gli USA stiano progettando un intervento di terra contro la Siria non sembra essere più una lontana utopia.
In Siria la guerra civile continua,più sanguinosa e drammatica che mai.L'esercito governativo di Assad è riuscito a capovolgere le sorti degli scontri e adesso gode di una posizione di vantaggio verso le truppe ribelli alle quali i grandi paesi occidentali,anche a causa delle loro incapacità a prendere decisioni strategiche valide,sembrano far mancare il necessario appoggio sia diplomatico che materiale.L'esercito regolare dopo aver conquistato la roccaforte di Qusayr sembra puntare deciso e pronto all'assalto verso l'antica città di Aleppo che da mesi era stata scelta dai ribelli come loro base principale.L'offensiva è iniziata ieri e la propaganda del regime lascia intuire che già centinaia siano i rivoluzionari uccisi e catturati dalle truppe;l'azione militare di Assad è stata definita Tempesta del Nord poichè il dittatore siriano desidera che come un uragano l'esercito debelli i nidi di rivoltosi nascosti nei quartieri di Aleppo e purifichi come pioggia la zona e quei quartieri che da mesi ospitano le cellule ribelli della zona.Solo gli Stati Uniti restano molto vigili e molto preoccupati dei fatti siriani.La delegazione Usa infatti non solo ha più volte ribadito che il Presidente Assad dovrebbe abdicare e concedere libere elezioni ai cittadini ma sta anche ipotizzando l'invio di armi ai ribelli per permettere loro di recuperare posizioni nel conflitto.La settimana prossima alla Casa Bianca Obama si riunirà con il suo staff incaricato di trovare una soluzione alla crisi siriana e molte sono le opzioni sul tavolo,tavolo al quale siederà anche John Kerry che per l'uopo ha depennato proprio la sua visita diplomatica in Medio Oriente.
I dati che arrivano dalla Commissione Onu sulle violazioni in Siria sono davvero preoccupanti.Solo tra aprile e maggio sono più di tremila le vittime cadute sul campo di battaglia di cui ben 350 fra bambini e ragazzi.Un vero massacro.La rivolta siriana però non si affievolisce,nonostante i successi dell'esercito di Assad i ribelli continua ad opporsi e il rischio è che la vicenda inizi ad interessare anche il confine libanese.Non è certo una novità il fatto che il partito sciita libanese e gli stessi Hezbollah di Beirut abbiano sempre appoggiato le politiche di Assad e più di un patto strategico sia stato firmato col governo siriano.Quindi il pericolo che i rivoltosi al confine reagiscano alla pressione libanese è comunque strisciante.Due giorni fa infatti un convoglio di miliziani Hezbollah era diretto verso il confine siriano ed è stato oggetto di un attentato senza però vittime.I rivoltosi siriani si difendono definendosi estranei al fatto ma sottolineano che molto probabilmente quel convoglio di miliziani libanesi fosse diretto a dare manforte all'esercito di Assad.Quindi evidenziando come la posizione libanese sia non del tutto neutrale.Se la rivolta si allargasse oltre confine sarebbe il caos.Una vera miccia accesa che farebbe riesplodere la polveriera mediorientale.Ogni nazione infatti,in quelle terre,nutre rancori mai sopiti verso gli stati confinanti,a partire ovviamente da Israele e Palestina,senza dimenticare Iran e Iraq.
Intanto la situazione evolve.Vladimir Putin che era e resta l'unico ad appoggiare la linea Assad sta valutando l'idea di inviare un contingente ONU sul territorio allo scopo di sostituire il contingente austriaco che tra qualche mese si ritirerà dalla zona e ha già sottolineato al suo alleato Assad di non esagerare nella violenza contro i ribelli per non attirare su di se la cattiva opinione occidentale.Inoltre da una settimana in Giordania,migliaia di soldati sia della zona che dei paesi Nato tra cui l'Italia si esericitano al combattimento nel territorio nell'ambito dell'operazione `Eager Lion´ cominciata sotto il comando Usa.Manovre esercitative in vista di un futuro impiego?Nessuno può saperlo e Assad per sicurezza ha comunque predisposto lungo il confine con il regno hashemita un contingente a protezione del confine siriano.L'ipotesi che gli USA stiano progettando un intervento di terra contro la Siria non sembra essere più una lontana utopia.
Data-Gate.Scandalo che fa tremare gli Usa.
di Ilenia Marini
Spionaggio informatico.Ecco un altro scandalo made in USA.
Un ennesimo scandalo arriva dagli Stati Uniti d'America dove Barack Obama deve,in questi giorni,affrontare le critiche per il cosiddetto Datagate.Un tecnico della CIA,un 29enne ora autoesiliatosi ad Honk Kong,aveva nei giorni scorsi rivelato che,in nome della sicurezza nazionale e con l'esplicita autorizzazione della NSA,la celebre Agezia per la Sicurezza Nazionale americana,aveva spiato letteralmente milioni e milioni di cittadini.Aveva rubato tutto,password,documenti,foto,video ed e-mail.Tutto veniva carpito dall'Agenzia e archiviato in caso di futuri utilizzi,ovviamente contro gli stessi ignari cittadini.Uno scandalo palese,un'enorme violazione della privacy senza precedenti,una vicenda da film di spionaggio ma che invece accadeva davvero.Il Presidente Obama non ha negato l'esistenza di questa operazione,nome in codice Prism,anzi ha evidenziato che è comunque un piano strategico approvato dal Congresso già nel 2007.Oggetto del mega-furto di documenti informatici erano,secondo il Presidente,solo i cittadini che in modo diretto o indiretto avevano a che fare con la sicurezza nazionale.Si tratta di un tentativo di giustificazione davvero patetico.Solo sulla base di un mandato autorizzato e solo dopo aver avvertito l'indagato di essere oggetto di indagini,si possono compiere accertamenti di questo tipo su un normale cittadino.
Lo impone la legge penale federale,lo impone la legge sulla privacy e lo impone la stessa Costituzione Americana,una se non la sola,più liberale possibile.Insomma uno scandalo senza precedenti.Fa davvero scalpore che Google abbia ammesso in tutta tranquillità di comunicare al governo Usa tutti i dati riservati che le venivano richiesti e cosa analoga non è stata smentita nè da Yahoo nè da Facebook.Di recente il quotidiano The Guardian ha rivelato che il sistema Prism veniva in parte adoperato anche dal governo anglosassone,attuando un vero piano di spionaggio telematico ai danni di incolpevoli cittadini inglesi.Sotto accusa è finita la Gchq, l’agenzia per la sicurezza elettronica britannica, simile all’americana Nsa, che però, in teoria, dovrebbe avere più vincoli dei colleghi Usa, visto che nel Regno Unito, Paese in cui mancano addirittura le carte d’identità, la privacy è sacrosanta.Non sembra sia così, invece,il Guardian rivela infatti che nel 2011 e nel 2012 sono ben 198 i rapporti creati dall'agenzia inglese adoperando i dati del sistema Prism.Questo programma informatico permette infatti di rubare,letteralmente,dati sensibili inerenti persone, direttamente da aziende quali Google,Yahoo e anche Skype,il sistema di video telefonate via web.Anzi certi siti,di cui il nome non è stato fatto,una volta aperti permettevano attraverso sofisticate webcam interne,di spiare direttamente dallo schermo del desktop l'utilizzatore.Tutto davvero inquietante.I dati una volta raccolti e immagazzinati,racconta la talpa americana,venivano poi trasmessi alla Cia e all' M16 inglese,dati che poi venivano adoperati per controllare i rapporti di suddetti cittadini con ogni forma di gruppo,associazioni o enti di stampo terroristico o anche solo islamico.
Questo sistema permetteva agli agenti si valicare ogni forma di autorizzazione giuridica o di vincolo di riservatezza e lasciano di stucco le parole dei vertici delle agenzie sia americane che inglesi,le quali non hanno escluso ciò e si sono trincerate dietro un no commenti che sa tanto di ammissione implicita.Questo grande scandalo avrà di certo conseguenze politiche e forti critiche da parte dell'opinione pubblica che in Inghilterra più che in America è molto più agguerrita sul tema della tutela della privacy.Non si escludono ripercussioni gravi sia verso il ministro degli Interni inglese sia verso lo stesso premier David Cameron,che si è appreso di recente,faccia parte anche del tanto discusso gruppo Bilderberg,una sorta di loggia non tanto segreta ramificata in tutta Europa.L'opposizione laburista inglese grida vendetta e rivendica spiegazioni dal governo.Ma adesso poco importa,con certezza si sa che i nostri dati sensibili presenti nella rete potevano in passato e possono tutt'ora adesso essere violati e rubati non da hackers criminali e quindi con pratiche illegali a scopo di truffa,ma dalle stesse autorià che dovrebbero difendere le nostre vite e i nostri diritti,compreso il diritto alla privacy.L'occhio del Grande Fratello a quanto emerge è rivolto su di noi e questo ci lascia tutti indignati e grandemente perplessi.
Un ennesimo scandalo arriva dagli Stati Uniti d'America dove Barack Obama deve,in questi giorni,affrontare le critiche per il cosiddetto Datagate.Un tecnico della CIA,un 29enne ora autoesiliatosi ad Honk Kong,aveva nei giorni scorsi rivelato che,in nome della sicurezza nazionale e con l'esplicita autorizzazione della NSA,la celebre Agezia per la Sicurezza Nazionale americana,aveva spiato letteralmente milioni e milioni di cittadini.Aveva rubato tutto,password,documenti,foto,video ed e-mail.Tutto veniva carpito dall'Agenzia e archiviato in caso di futuri utilizzi,ovviamente contro gli stessi ignari cittadini.Uno scandalo palese,un'enorme violazione della privacy senza precedenti,una vicenda da film di spionaggio ma che invece accadeva davvero.Il Presidente Obama non ha negato l'esistenza di questa operazione,nome in codice Prism,anzi ha evidenziato che è comunque un piano strategico approvato dal Congresso già nel 2007.Oggetto del mega-furto di documenti informatici erano,secondo il Presidente,solo i cittadini che in modo diretto o indiretto avevano a che fare con la sicurezza nazionale.Si tratta di un tentativo di giustificazione davvero patetico.Solo sulla base di un mandato autorizzato e solo dopo aver avvertito l'indagato di essere oggetto di indagini,si possono compiere accertamenti di questo tipo su un normale cittadino.
Lo impone la legge penale federale,lo impone la legge sulla privacy e lo impone la stessa Costituzione Americana,una se non la sola,più liberale possibile.Insomma uno scandalo senza precedenti.Fa davvero scalpore che Google abbia ammesso in tutta tranquillità di comunicare al governo Usa tutti i dati riservati che le venivano richiesti e cosa analoga non è stata smentita nè da Yahoo nè da Facebook.Di recente il quotidiano The Guardian ha rivelato che il sistema Prism veniva in parte adoperato anche dal governo anglosassone,attuando un vero piano di spionaggio telematico ai danni di incolpevoli cittadini inglesi.Sotto accusa è finita la Gchq, l’agenzia per la sicurezza elettronica britannica, simile all’americana Nsa, che però, in teoria, dovrebbe avere più vincoli dei colleghi Usa, visto che nel Regno Unito, Paese in cui mancano addirittura le carte d’identità, la privacy è sacrosanta.Non sembra sia così, invece,il Guardian rivela infatti che nel 2011 e nel 2012 sono ben 198 i rapporti creati dall'agenzia inglese adoperando i dati del sistema Prism.Questo programma informatico permette infatti di rubare,letteralmente,dati sensibili inerenti persone, direttamente da aziende quali Google,Yahoo e anche Skype,il sistema di video telefonate via web.Anzi certi siti,di cui il nome non è stato fatto,una volta aperti permettevano attraverso sofisticate webcam interne,di spiare direttamente dallo schermo del desktop l'utilizzatore.Tutto davvero inquietante.I dati una volta raccolti e immagazzinati,racconta la talpa americana,venivano poi trasmessi alla Cia e all' M16 inglese,dati che poi venivano adoperati per controllare i rapporti di suddetti cittadini con ogni forma di gruppo,associazioni o enti di stampo terroristico o anche solo islamico.
Questo sistema permetteva agli agenti si valicare ogni forma di autorizzazione giuridica o di vincolo di riservatezza e lasciano di stucco le parole dei vertici delle agenzie sia americane che inglesi,le quali non hanno escluso ciò e si sono trincerate dietro un no commenti che sa tanto di ammissione implicita.Questo grande scandalo avrà di certo conseguenze politiche e forti critiche da parte dell'opinione pubblica che in Inghilterra più che in America è molto più agguerrita sul tema della tutela della privacy.Non si escludono ripercussioni gravi sia verso il ministro degli Interni inglese sia verso lo stesso premier David Cameron,che si è appreso di recente,faccia parte anche del tanto discusso gruppo Bilderberg,una sorta di loggia non tanto segreta ramificata in tutta Europa.L'opposizione laburista inglese grida vendetta e rivendica spiegazioni dal governo.Ma adesso poco importa,con certezza si sa che i nostri dati sensibili presenti nella rete potevano in passato e possono tutt'ora adesso essere violati e rubati non da hackers criminali e quindi con pratiche illegali a scopo di truffa,ma dalle stesse autorià che dovrebbero difendere le nostre vite e i nostri diritti,compreso il diritto alla privacy.L'occhio del Grande Fratello a quanto emerge è rivolto su di noi e questo ci lascia tutti indignati e grandemente perplessi.
Congo.Caos e dramma politico-sociale.
di Ilenia Marini
Massacri di innocenti e incapacità politiche evidenti.
La terra africana è una terra insanguinata,un luogo ricco di problematiche e drammi,dove decenni di dittature, di caos politico e sociale hanno prodotto arretratezza,miseria e assenza quasi totale di prospettive future.Una testimonianza di ciò la si è avuta ancora una volta nella Repubblica Democratica del Congo (RDC).Si tratta di una nazione in cui da anni non si riesce ad individuare un equilibrio politico e il livello di democrazia è quasi assente.Le milizie militari e i gruppi armati sono molti,ovviamente non tutti regolari ed autorizzati.Ogni singolo clan sembra essere dotato di una propria forza militare pronta a far scoppiare lo scontro sociale in qualsiasi momento.Di recente la situazione è divenuta molto tesa dopo l’arresto e la successiva liberazione del maggiore Kassongo,appartenente al movimento ribelle RCD/Goma, uno dei principali gruppi di guerriglia del territorio che ha aderito al governo di unità nazionale. Gli alleati del RCD/Goma hanno minacciato di ritirarsi dall’esecutivo e da tutte le istituzioni governative.
Il principale gruppo di insurrezione della nazione è l’Unione Congolese per la Democrazia (RCD) nato nel 1998 in contrapposizione all’allora presidente Laurent-Désiré Kabila (il cui posto è stato preso dal figlio Joseph dopo la sua morte nel 2001). Il RCD si è smembrato in varie sottomilizie e gruppi armati,spesso incontrollati ed anarchici e il principale dei quali è il RCD-Goma. Nel giugno 2003, dopo una trattativa lunga e non senza problemi,basti pensare ai numerosi attentati verificatisi nel periodo,è stato formato il governo di unità nazionale previsto dalle norme dell'Intesa firmata a Sun City (Sudafrica) dell’aprile 2003.Oltre al Presidente Kabila, e alla quasi totalità dei partiti politici,nel governo sono rappresentati anche quasi tutti i principali gruppi di guerriglia.L'attività del governo centrale però è stata molto limitata dalle diatribe interne ai partiti che si sono ostruiti a vicenda. L’arresto del maggiore Kassongo è stato l’ultimo episodio di tensione verificatosi tra le forze politico-militari in gioco.
La cosa terribile di questi scontri fra fazioni dello stesso governo è che spesso sono i cittadini inermi e schierati con i gruppi politici avversi ad avere la peggio.Lungo il confine settentrionale ad esempio le milizie regolari Mayi Mayi hanno costretto alla fuga oltre 15mila persone dal villaggio di Kitenge, nella provincia del Katanga (sud del Congo);molti anche gli attacchi armati ai civili che in pochi mesi hanno provocato ben 100 morti. I Mayi Mayi sono miliziani locali accecati dall'odio nazionalista distintosi negli scontri verso gli eserciti del Rwanda,del Burundi e dell'Uganda che mesi orsono avevano occupato la zona est del Congo.La cosa davvero inquietante e purtroppo documentata e certa è che plotoni del gruppo Mayi Mayi, nel corso della loro attività, si sono tramutati in veri gruppi di banditi che uccidono e ricattano la popolazione e come se non bastasse si lasciano corrompere nell'esercizio delle loro funzioni di ordine pubblico.Un caos molto simile a ciò che spesso ci viene descritto nei film e che invece non è finzione ma pura e tragica verità.
La terra africana è una terra insanguinata,un luogo ricco di problematiche e drammi,dove decenni di dittature, di caos politico e sociale hanno prodotto arretratezza,miseria e assenza quasi totale di prospettive future.Una testimonianza di ciò la si è avuta ancora una volta nella Repubblica Democratica del Congo (RDC).Si tratta di una nazione in cui da anni non si riesce ad individuare un equilibrio politico e il livello di democrazia è quasi assente.Le milizie militari e i gruppi armati sono molti,ovviamente non tutti regolari ed autorizzati.Ogni singolo clan sembra essere dotato di una propria forza militare pronta a far scoppiare lo scontro sociale in qualsiasi momento.Di recente la situazione è divenuta molto tesa dopo l’arresto e la successiva liberazione del maggiore Kassongo,appartenente al movimento ribelle RCD/Goma, uno dei principali gruppi di guerriglia del territorio che ha aderito al governo di unità nazionale. Gli alleati del RCD/Goma hanno minacciato di ritirarsi dall’esecutivo e da tutte le istituzioni governative.
Il principale gruppo di insurrezione della nazione è l’Unione Congolese per la Democrazia (RCD) nato nel 1998 in contrapposizione all’allora presidente Laurent-Désiré Kabila (il cui posto è stato preso dal figlio Joseph dopo la sua morte nel 2001). Il RCD si è smembrato in varie sottomilizie e gruppi armati,spesso incontrollati ed anarchici e il principale dei quali è il RCD-Goma. Nel giugno 2003, dopo una trattativa lunga e non senza problemi,basti pensare ai numerosi attentati verificatisi nel periodo,è stato formato il governo di unità nazionale previsto dalle norme dell'Intesa firmata a Sun City (Sudafrica) dell’aprile 2003.Oltre al Presidente Kabila, e alla quasi totalità dei partiti politici,nel governo sono rappresentati anche quasi tutti i principali gruppi di guerriglia.L'attività del governo centrale però è stata molto limitata dalle diatribe interne ai partiti che si sono ostruiti a vicenda. L’arresto del maggiore Kassongo è stato l’ultimo episodio di tensione verificatosi tra le forze politico-militari in gioco.
La cosa terribile di questi scontri fra fazioni dello stesso governo è che spesso sono i cittadini inermi e schierati con i gruppi politici avversi ad avere la peggio.Lungo il confine settentrionale ad esempio le milizie regolari Mayi Mayi hanno costretto alla fuga oltre 15mila persone dal villaggio di Kitenge, nella provincia del Katanga (sud del Congo);molti anche gli attacchi armati ai civili che in pochi mesi hanno provocato ben 100 morti. I Mayi Mayi sono miliziani locali accecati dall'odio nazionalista distintosi negli scontri verso gli eserciti del Rwanda,del Burundi e dell'Uganda che mesi orsono avevano occupato la zona est del Congo.La cosa davvero inquietante e purtroppo documentata e certa è che plotoni del gruppo Mayi Mayi, nel corso della loro attività, si sono tramutati in veri gruppi di banditi che uccidono e ricattano la popolazione e come se non bastasse si lasciano corrompere nell'esercizio delle loro funzioni di ordine pubblico.Un caos molto simile a ciò che spesso ci viene descritto nei film e che invece non è finzione ma pura e tragica verità.
Finanziamenti ai partiti.Come va all'estero?
di Ilenia Marini
Sistemi e tecniche di rimborso.Come vive la politica negli altri paesi?
Il Governo italiano ieri è riuscito in un'impresa che da decenni non accadeva,è riuscito ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti.Dopo il referendum degli anni novanta,che lo aveva già abrogato per volontà popolare,la politica era riuscita a reinserirlo sotto forma di rimborsi elettorali.Bene la nuova normativa elimina ogni tipo di apporto pubblico alle casse dei partiti politici.Era una scelta da fare,soprattutto in un contesto di crisi economica nel quale il denaro pubblico deve essere finalizzato ad interventi molto più urgenti ed importanti.Ma facciamo una panoramica internazionale per comprendere come funzianano le cose nel mondo,sul tema dei finanziamenti ai partiti e capire,ancor più esplicitamente,di come il nostro paese fosse davvero un'anomalia tutta particolare.Nelle altre nazioni esistono fondamentalmente due linee di pensiero:da un lato, gli Stati Uniti, con un modello “privatistico”; dall’altro, l’Europa con un modello “pubblicistico”.Poi alcuni grandi paesi optano per una via mediana,mescolando finanziamento pubblico e contributi dei cittadini privati. Vediamo nello specifico alcune situazioni degne di nota.Negli Stati Uniti,come dicevamo, le spese per la campagna elettorale dei due soli partiti politici,Democratici e Repubblicani, sono finanziate dai privati: il 70% arriva da donazioni individuali, il 20% da specifici comitati di sostegno elettorale che spesso nascondono grosse lobby e imprese private interessate e infine il 10% dai fondi privati degli stessi candidati.
In America,data la vastità del territorio e l'importanza del paese,le spese elettorali spesso hanno cifre enormi,inimmaginabili per altre nazioni,basti pensare che recentemente Barack Obama ha speso circa 600 milioni di dollari per la sua campagna presidenziale. La legge federale però determina alcuni limiti normativi sia ai contributi privati sia ai comitati di sostegno (lobby) ed è espressamente vietato sia alle aziende private sia ai sindacati elargire somme direttamente se non attraverso la forma del comitato elettorale.Gli innegabili pregi di un sistema totalmente privato di finanziamento dei partiti è il risparmio sulla spessa pubblica e una sorta di meritocrazia del finanziamento,poichè si presume che il cittadino destini le somme di denaro ai politici che meglio abbiano svolto il loro ruolo presso le Istituzioni,non certo a chi abbia fallito il suo compito o commesso reati.Il limite altrettanto evidente di un sistema privato come quello statunitense è che i contributi che giungono dai comitati spesso,come detto,arrivano dalle grandi imprese e corporazioni,le quali elargiscono somme da capogiro per uno o per un altro candidato.Questi contributi quindi danno enorme potere alle lobby che finiscono anche implicitamente con il condizionare il futuro operato del politico eletto,ancorandolo ai propri interessi privati.
Nei paesi europei, il sistema maggiormente diffuso è quello dei finanziamento pubblico,ai cittadini,sotto forma di donazioni, è lasciato un ruolo facoltativo e marginale.In Germania ad esempio lo Stato sussidia direttamente l’attività dei partitii, ma, per legge, non può essere superiore ai contributi dei privati;quindi si verifica una divisione quasi perfetta tra finanziamento privato e pubblico. In Spagna, il sistema di finanziamento ai partiti è puramente pubblico, con previsione di rimborsi elettorali e sussidi pubblici,un pò come è stato in Italia fino ad ieri. Allo stesso modo, in Francia, vi è un rimborso annuale fissato in un massimo di 80 milioni di euro, a cui si aggiungono poi ulteriori sussidi elettorali sempre pubblici.Esistono poi vari paesi che utilizzano un sistema ibrido:nella maggior parte dei casi infatti sono i privati che donano contributi ai partiti,che costituiscono il grosso delle somme,mentre lo Stato,rimborsa le spese elettorali pure.Ciò si verifica ad esempio in Australia,in Canada e anche nel Regno Unito di sua maestà.L'Olanda invece adopera un sistema molto particolare:le somme da donare ai partiti politici giungono dagli stessi cittadini iscritti nelle fila dei partiti stessi,le imprese private raramente effettuano contributi e solo da qualche anno lo Stato ha introdotto una forma di rimborso pubblico ma proporzionato non alle spesse ma ai voti presi.L'Italia,prima di ieri,si poneva quindi in un contesto di finanziamento pubblico,ma la grossa anomalia era che l'ammontare dei rimborsi elargiti fosse di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri paesi che adottavano il medesimo sistema (Rizzo nel suo libro sulla casta infatti sottolinea che la Spagna prevede rimborsi per 130 milioni,la Francia per 110,la Germania per 120 e invece l'Italia per più di 190 milioni di euro).Un'anomalia troppo esplicita da non essere corretta legislativamente.
Il Governo italiano ieri è riuscito in un'impresa che da decenni non accadeva,è riuscito ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti.Dopo il referendum degli anni novanta,che lo aveva già abrogato per volontà popolare,la politica era riuscita a reinserirlo sotto forma di rimborsi elettorali.Bene la nuova normativa elimina ogni tipo di apporto pubblico alle casse dei partiti politici.Era una scelta da fare,soprattutto in un contesto di crisi economica nel quale il denaro pubblico deve essere finalizzato ad interventi molto più urgenti ed importanti.Ma facciamo una panoramica internazionale per comprendere come funzianano le cose nel mondo,sul tema dei finanziamenti ai partiti e capire,ancor più esplicitamente,di come il nostro paese fosse davvero un'anomalia tutta particolare.Nelle altre nazioni esistono fondamentalmente due linee di pensiero:da un lato, gli Stati Uniti, con un modello “privatistico”; dall’altro, l’Europa con un modello “pubblicistico”.Poi alcuni grandi paesi optano per una via mediana,mescolando finanziamento pubblico e contributi dei cittadini privati. Vediamo nello specifico alcune situazioni degne di nota.Negli Stati Uniti,come dicevamo, le spese per la campagna elettorale dei due soli partiti politici,Democratici e Repubblicani, sono finanziate dai privati: il 70% arriva da donazioni individuali, il 20% da specifici comitati di sostegno elettorale che spesso nascondono grosse lobby e imprese private interessate e infine il 10% dai fondi privati degli stessi candidati.
In America,data la vastità del territorio e l'importanza del paese,le spese elettorali spesso hanno cifre enormi,inimmaginabili per altre nazioni,basti pensare che recentemente Barack Obama ha speso circa 600 milioni di dollari per la sua campagna presidenziale. La legge federale però determina alcuni limiti normativi sia ai contributi privati sia ai comitati di sostegno (lobby) ed è espressamente vietato sia alle aziende private sia ai sindacati elargire somme direttamente se non attraverso la forma del comitato elettorale.Gli innegabili pregi di un sistema totalmente privato di finanziamento dei partiti è il risparmio sulla spessa pubblica e una sorta di meritocrazia del finanziamento,poichè si presume che il cittadino destini le somme di denaro ai politici che meglio abbiano svolto il loro ruolo presso le Istituzioni,non certo a chi abbia fallito il suo compito o commesso reati.Il limite altrettanto evidente di un sistema privato come quello statunitense è che i contributi che giungono dai comitati spesso,come detto,arrivano dalle grandi imprese e corporazioni,le quali elargiscono somme da capogiro per uno o per un altro candidato.Questi contributi quindi danno enorme potere alle lobby che finiscono anche implicitamente con il condizionare il futuro operato del politico eletto,ancorandolo ai propri interessi privati.
Nei paesi europei, il sistema maggiormente diffuso è quello dei finanziamento pubblico,ai cittadini,sotto forma di donazioni, è lasciato un ruolo facoltativo e marginale.In Germania ad esempio lo Stato sussidia direttamente l’attività dei partitii, ma, per legge, non può essere superiore ai contributi dei privati;quindi si verifica una divisione quasi perfetta tra finanziamento privato e pubblico. In Spagna, il sistema di finanziamento ai partiti è puramente pubblico, con previsione di rimborsi elettorali e sussidi pubblici,un pò come è stato in Italia fino ad ieri. Allo stesso modo, in Francia, vi è un rimborso annuale fissato in un massimo di 80 milioni di euro, a cui si aggiungono poi ulteriori sussidi elettorali sempre pubblici.Esistono poi vari paesi che utilizzano un sistema ibrido:nella maggior parte dei casi infatti sono i privati che donano contributi ai partiti,che costituiscono il grosso delle somme,mentre lo Stato,rimborsa le spese elettorali pure.Ciò si verifica ad esempio in Australia,in Canada e anche nel Regno Unito di sua maestà.L'Olanda invece adopera un sistema molto particolare:le somme da donare ai partiti politici giungono dagli stessi cittadini iscritti nelle fila dei partiti stessi,le imprese private raramente effettuano contributi e solo da qualche anno lo Stato ha introdotto una forma di rimborso pubblico ma proporzionato non alle spesse ma ai voti presi.L'Italia,prima di ieri,si poneva quindi in un contesto di finanziamento pubblico,ma la grossa anomalia era che l'ammontare dei rimborsi elargiti fosse di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri paesi che adottavano il medesimo sistema (Rizzo nel suo libro sulla casta infatti sottolinea che la Spagna prevede rimborsi per 130 milioni,la Francia per 110,la Germania per 120 e invece l'Italia per più di 190 milioni di euro).Un'anomalia troppo esplicita da non essere corretta legislativamente.
La Turchia.Il nuovo paradiso economico.
di Ilenia Marini
Un paese in costante crescita che si pone obiettivi sempre ambiziosi.
Negli ultimi cinque anni c'è un paese dell'Unione Europea che sembra non essere interessato dai venti di crisi,il vortice di stagnazione,peggiorata tra il 2011 e 1012 pare averlo ignorato.Stiamo parlando della Turchia presieduta dal presidentissimo,amico intimo di Silvio Berlusconi,Recep Erdogan.In pochi anni lo Stato turco ha avuto una crescita intensa e repentina tanto da spingere l'alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton, a definirlo un paese chiave e strategicamente decisivo nei piani europei,soprattutto in vista del probabile conflitto in terra di Siria che a breve richiederà,nella peggiore delle ipotaesi,un intervento diretto.Il Presidente Erdogan di recente ha anche inaugurato l'apertura finanziaria della borsa di Istanbul,con lo scopo di farne,in breve tempo,un centro borsistico fra i primi in Europa,insieme a Londra,Tokyo e New York. Alcuni esperti del settore definiscono la Turchia una sorta di tigre in piena crescita che nel campo politico,economico e finanziario è destinata ancora a progredire.Un'economia in salute davvero,che riesce ad attirare investimenti e profitti,quindi denaro e occupazione.
Se guardiamo ai numeri le cose diventano evidenti: crescita del 7-10% del Pil su base annua,diminuzione dell'inflazione che per il 2014 si stima intorno al 6% rispetto al 8% del 2013,esportazioni ed importazioni in crescita esponenziale per un ammontare totale di 300 mld di euro quasi.Il tasso occupazionale in crescita costante,nel 2013 si stima un livello di +12%,una forza lavoro qualificata e competente,con un'età media di soli 29 anni,ben 400 mila laureati che arrivano dalle circa 160 università presenti sul territorio nazionale.I recenti accordi con l'Unione Europea hanno moltiplicato il commercio e fatto della Turchia il principale partner comunitario,la popolazione è di 70 milioni di abitanti su un territorio più grande di circa un terzo di quello italiano.Ma la vera differenza la fanno i capitali esteri che giungono famelici.Nel 2012 si è chiuso un quinquiennio d'oro che conta una somma enorme,ben 110 mld di investimenti compiuti in svariati settori,soprattutto infrastrutture e finanza.La burocrazia è migliorata molto,anzi,si è evoluta in modo quasi miracoloso,la cura Erdogan è stata imponente e oggi un nuovo imprenditore può in soli 7 giorni dare vita alla propria società dal nulla.A livello normativo il governo ha emanato il nuovo codice del commercio basato su principi di liberalizzazione e mercantilismo,i meccanismi economici ne hanno giovato in maniera palese;senza dimenticare la posizione geografica della Turchia,un punto tale da renderla strategica e elemento di contatto con il mondo arabo e mediorientale.
Sul fronte interno il governo di Erdogan è riuscito addirittura ad abbassare la pressione fiscale e incentivare le aziende,gli interventi legislativi in campo economico e sociale hanno fatto schizzare il reddito pro capite del cittadino turco che oggi è di 11.000 dollari all'anno di media.In campo finanziario la crescita è stata invidiabile,solo nel 2012 l'indice borsistico,il cosiddetto Ise,è aumentato del 40%,dati incredibili,un vero boom economico.Le uniche pecche riguardano il livello di rischio attentati terroristici,che rimane comunque alto e sopra la media e un sistema di giustizia ancora troppo lento e sotto alcuni punti,poco trasparente.Il tempo lungo di risoluzione delle controversie civili è davvero l'unico neo del nuovo sistema turco,un neo su cui intervenire a breve.La Turchia è divenuta quindi simbolo di crescita,emblema di come il buon capitalismo,su solide basi liberali,riesca ad innalzare di netto il livello di benessere del territorio e,in attesa di festeggiare il centenario della Repubblica Turca, il Presidente Erdogan si pone un obiettivo ambizioso ed elevato,fare della Turchia una potenza economica tale da entrare nella lista delle prime 10 potenze del mondo.Questo obiettivo,secondo Erdogan,non è lontano dalla realtà soprattuto in vista di ulteriori aumenti del reddito pro capite nei prossimi anni,di un innalzamento degli investimenti stranieri e della nascita della prima azienda automobilistica interamente made in Turchia.Davvero non male come crescita economica.
Negli ultimi cinque anni c'è un paese dell'Unione Europea che sembra non essere interessato dai venti di crisi,il vortice di stagnazione,peggiorata tra il 2011 e 1012 pare averlo ignorato.Stiamo parlando della Turchia presieduta dal presidentissimo,amico intimo di Silvio Berlusconi,Recep Erdogan.In pochi anni lo Stato turco ha avuto una crescita intensa e repentina tanto da spingere l'alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton, a definirlo un paese chiave e strategicamente decisivo nei piani europei,soprattutto in vista del probabile conflitto in terra di Siria che a breve richiederà,nella peggiore delle ipotaesi,un intervento diretto.Il Presidente Erdogan di recente ha anche inaugurato l'apertura finanziaria della borsa di Istanbul,con lo scopo di farne,in breve tempo,un centro borsistico fra i primi in Europa,insieme a Londra,Tokyo e New York. Alcuni esperti del settore definiscono la Turchia una sorta di tigre in piena crescita che nel campo politico,economico e finanziario è destinata ancora a progredire.Un'economia in salute davvero,che riesce ad attirare investimenti e profitti,quindi denaro e occupazione.
Se guardiamo ai numeri le cose diventano evidenti: crescita del 7-10% del Pil su base annua,diminuzione dell'inflazione che per il 2014 si stima intorno al 6% rispetto al 8% del 2013,esportazioni ed importazioni in crescita esponenziale per un ammontare totale di 300 mld di euro quasi.Il tasso occupazionale in crescita costante,nel 2013 si stima un livello di +12%,una forza lavoro qualificata e competente,con un'età media di soli 29 anni,ben 400 mila laureati che arrivano dalle circa 160 università presenti sul territorio nazionale.I recenti accordi con l'Unione Europea hanno moltiplicato il commercio e fatto della Turchia il principale partner comunitario,la popolazione è di 70 milioni di abitanti su un territorio più grande di circa un terzo di quello italiano.Ma la vera differenza la fanno i capitali esteri che giungono famelici.Nel 2012 si è chiuso un quinquiennio d'oro che conta una somma enorme,ben 110 mld di investimenti compiuti in svariati settori,soprattutto infrastrutture e finanza.La burocrazia è migliorata molto,anzi,si è evoluta in modo quasi miracoloso,la cura Erdogan è stata imponente e oggi un nuovo imprenditore può in soli 7 giorni dare vita alla propria società dal nulla.A livello normativo il governo ha emanato il nuovo codice del commercio basato su principi di liberalizzazione e mercantilismo,i meccanismi economici ne hanno giovato in maniera palese;senza dimenticare la posizione geografica della Turchia,un punto tale da renderla strategica e elemento di contatto con il mondo arabo e mediorientale.
Sul fronte interno il governo di Erdogan è riuscito addirittura ad abbassare la pressione fiscale e incentivare le aziende,gli interventi legislativi in campo economico e sociale hanno fatto schizzare il reddito pro capite del cittadino turco che oggi è di 11.000 dollari all'anno di media.In campo finanziario la crescita è stata invidiabile,solo nel 2012 l'indice borsistico,il cosiddetto Ise,è aumentato del 40%,dati incredibili,un vero boom economico.Le uniche pecche riguardano il livello di rischio attentati terroristici,che rimane comunque alto e sopra la media e un sistema di giustizia ancora troppo lento e sotto alcuni punti,poco trasparente.Il tempo lungo di risoluzione delle controversie civili è davvero l'unico neo del nuovo sistema turco,un neo su cui intervenire a breve.La Turchia è divenuta quindi simbolo di crescita,emblema di come il buon capitalismo,su solide basi liberali,riesca ad innalzare di netto il livello di benessere del territorio e,in attesa di festeggiare il centenario della Repubblica Turca, il Presidente Erdogan si pone un obiettivo ambizioso ed elevato,fare della Turchia una potenza economica tale da entrare nella lista delle prime 10 potenze del mondo.Questo obiettivo,secondo Erdogan,non è lontano dalla realtà soprattuto in vista di ulteriori aumenti del reddito pro capite nei prossimi anni,di un innalzamento degli investimenti stranieri e della nascita della prima azienda automobilistica interamente made in Turchia.Davvero non male come crescita economica.
Germania-Italia.Tensione sull'immagrazione.
di Ilenia Marini
Situazione difficile e accuse tra i due paesi sul tema migranti.
Ieri dalle Istituzioni tedesche preposte al controllo dei flussi migratori sono giunte delle parole gravi verso l'Italia.Il nucleo dell'accusa riguarda un centinaio di migranti giunti dalle terre centro-africane, i quali avevano ottenuto lo status di rifugiati politici poichè provenienti da paese infestati da guerre civili e persecuzioni razziali.I documenti di esuli erano stati erogati dalle autorità italiane ma secondo le accuse,le stesse autorità italiane avrebbero fornito ai migranti una somma di 500 euro a testa, rilasciato un permesso di soggiorno di tre mesi a patto di trasferirsi in altri paesi membri,in particolare la Germania.Il problema è notevole poichè i migranti arrivano da nazioni in cui almeno formalmente esistono regimi politici democratici come Nigeria,Ghana,Senegal e Togo e quindi una volta giunti in Germania,in virtù della severissima normativa,rischierebbero di essere cacciati e rispediti in Libia nei terribili campi di immigrati la cui pessima fama è oramai acquisita in tutto il mondo.
Le istituzioni tedesche sottolineano proprio ciò,ovvero che gli africani non hanno diritto di asilo politico in base al paese di nascita e quindi tale status sarebbe stato concesso troppo facilmente dalle autorità italiane,dare a della povera gente delle speranze false è sbagliato,evidenziano a Berlino.Anzi,il Ministro degli Affari Sociali rimarca che gli africani esuli dovrebbero stare nei paesi in cui i loro documenti siano normativamente legittimi,ad esempio in Italia,visto che sono state le autotità italiane a rilasciarli.Come si può agevolmente capire è una questione delicata e particolare,soprattutto in vista delle problematiche e degli attriti che già persistono fra i vari paesi dell'eurozona.In settembre ad esempio una serie di accordi tra gli stati membri sul tema delle migrazioni andranno ridiscussi e si rischia di riaprire le polemiche sul flusso di migrazione inerenti i paesi dell'Unione Europea bagnati dal Mediterraneo,polemiche che l'anno scorso fecere non pochi in danni in seno al Consiglio Europeo.
L'incidente diplomatico è dietro l'angolo e ovviamente gli altri paesi del sud-Europa,che rappresentano la porta di accesso comunitaria per i migranti che giungono dall'Africa,non hanno intenzione di subire l'atteggiamento rigido e menefreghista dei paesi del nord-Europa,Germania in primis. L'Italia sia in passato che di recente ha più volte portato nelle aule della Commissione Europea il tema delle migrazioni e spesso ha spinto per decisioni condivise e definitive ma che mai sono state realmente prese a riguardo.L'Italia ha ribadito che non è prassi rara che gli esuli giunghino nel suo territorio solo per vicinanza logistica,ma che poi spontaneamente si dirigono verso gli stati del nord-Europa.Questa è la difesa delle Istituzioni italiane,contro la grave accusa tedesca,la vicenda sarà sicuramente oggetto di inchiesta della Commissione,ma intanto il sasso nello stagno è stato lanciato.La Germania sembra aver alzato ancora di più i muri dei suoi confini nazionali.
Ieri dalle Istituzioni tedesche preposte al controllo dei flussi migratori sono giunte delle parole gravi verso l'Italia.Il nucleo dell'accusa riguarda un centinaio di migranti giunti dalle terre centro-africane, i quali avevano ottenuto lo status di rifugiati politici poichè provenienti da paese infestati da guerre civili e persecuzioni razziali.I documenti di esuli erano stati erogati dalle autorità italiane ma secondo le accuse,le stesse autorità italiane avrebbero fornito ai migranti una somma di 500 euro a testa, rilasciato un permesso di soggiorno di tre mesi a patto di trasferirsi in altri paesi membri,in particolare la Germania.Il problema è notevole poichè i migranti arrivano da nazioni in cui almeno formalmente esistono regimi politici democratici come Nigeria,Ghana,Senegal e Togo e quindi una volta giunti in Germania,in virtù della severissima normativa,rischierebbero di essere cacciati e rispediti in Libia nei terribili campi di immigrati la cui pessima fama è oramai acquisita in tutto il mondo.
Le istituzioni tedesche sottolineano proprio ciò,ovvero che gli africani non hanno diritto di asilo politico in base al paese di nascita e quindi tale status sarebbe stato concesso troppo facilmente dalle autorità italiane,dare a della povera gente delle speranze false è sbagliato,evidenziano a Berlino.Anzi,il Ministro degli Affari Sociali rimarca che gli africani esuli dovrebbero stare nei paesi in cui i loro documenti siano normativamente legittimi,ad esempio in Italia,visto che sono state le autotità italiane a rilasciarli.Come si può agevolmente capire è una questione delicata e particolare,soprattutto in vista delle problematiche e degli attriti che già persistono fra i vari paesi dell'eurozona.In settembre ad esempio una serie di accordi tra gli stati membri sul tema delle migrazioni andranno ridiscussi e si rischia di riaprire le polemiche sul flusso di migrazione inerenti i paesi dell'Unione Europea bagnati dal Mediterraneo,polemiche che l'anno scorso fecere non pochi in danni in seno al Consiglio Europeo.
L'incidente diplomatico è dietro l'angolo e ovviamente gli altri paesi del sud-Europa,che rappresentano la porta di accesso comunitaria per i migranti che giungono dall'Africa,non hanno intenzione di subire l'atteggiamento rigido e menefreghista dei paesi del nord-Europa,Germania in primis. L'Italia sia in passato che di recente ha più volte portato nelle aule della Commissione Europea il tema delle migrazioni e spesso ha spinto per decisioni condivise e definitive ma che mai sono state realmente prese a riguardo.L'Italia ha ribadito che non è prassi rara che gli esuli giunghino nel suo territorio solo per vicinanza logistica,ma che poi spontaneamente si dirigono verso gli stati del nord-Europa.Questa è la difesa delle Istituzioni italiane,contro la grave accusa tedesca,la vicenda sarà sicuramente oggetto di inchiesta della Commissione,ma intanto il sasso nello stagno è stato lanciato.La Germania sembra aver alzato ancora di più i muri dei suoi confini nazionali.