COGITO
a cura di Federica Bellucci
Godwin e il suo anarchismo filosofico.
di Federica Bellucci
Un grande pioniere del pensiero filosofico moderno.
Dai tutti glistudiosi del pensiero filosofico anarchico il nome di William Godwin viene sempre posto come il primo vero teorico di questo movimento. Eppure, anche se gli esperti e maggiori studiosi del tema sono convinti, Godwin forse non ha avuto un'altrettanta attenzione specifica verso l'insieme del suo pensiero o verso aspetti particolari di esso. Tutti sanno che il punto centrale del suo pensiero si fonda sull'antitesi, che egli inizialmente formula sotto l'influsso rousseauviano, fra natura e storia. Problema, questo, di straordinaria importanza perché tutta la posteriore riflessione teorica dell'anarchismo ruoterà attorno ad esso. Non dobbiamo dimenticare infatti che la matrice illuministica sarà una componente indistruttibile di tutto il pensiero anarchico in quanto è soprattutto ad essa che va imputato il persistente antistoricismo che ha impregnato ed impregna, spiegandola, la sua dimensione rivoluzionaria. Se partiamo dalla prospettiva godwiniana vertente sull'antitesi radicale fra natura e storia dove, con il primo termine (natura), s'intende il campo originario dell'uomo e con il secondo (storia) quello dell'ingiustizia, del potere e dell'alienazione, è facile comprendere come sia tipico dell'anarchismo concepire il salto rivoluzionario - al fine di ridare all'uomo la libertà originariamente perduta - secondo modalità principalmente volontaristiche.
La logicità di questo discorso si fonda, in effetti, sulla semplice considerazione che la natura umana è fonte spontanea e ricettacolo primitivo della libertà e dell'uguaglianza per cui lo sviluppo della loro costruzione diventa possibile, in un certo senso, a qualsiasi livello storico dell'umanità. In altri termini la libertà e l'uguaglianza non scaturiscono necessariamente da precise condizioni attraverso le quali il processo storico snoda, ma possono essere concepite e poi poste indipendentemente o, se vogliamo, contro di esso.Questa concezione - che sta un po' all'opposto della prospettiva bakuniniana secondo la quale la libertà è una conquista e non un dato originario dell'uomo (pensiamo alla sua feroce polemica con Rousseau) - si basa sull'assoluto valore assegnato alla ragione umana. Per Godwin, che risente qui in modo preponderante dell'influsso della cultura illuministica, essa è un dato originario universalmente comune ad ogni individuo per cui è soprattutto ad essa che bisogna fare appello per la costruzione di una società nuova. In polemica con il pensiero contrattualistico,soprattutto con Locke, egli afferma la possibilità di una società fondata sulla regione e sulla libertà e quindi sulla più ampia tolleranza.L'indissolubile binomio godwiniano fra ragione e libertà (la ragione dovrebbe essere l'unica vera legislatrice di ogni società) è fondato sull'intima convinzione della continua perfettibilità della natura umana. Abbiamo così che lo statuto antropologico formulato da Godwin, anche se costruito anch'esso secondo una tipica visione illuministica, può essere concepito, per l'intenzione ideologica libertaria che lo sottende, come un pozzo senza fondo.
La natura umana è cioè un ricettacolo propulsivo di infinite possibilità progettuali, idea, questa, che anticipa di oltre cent'anni l'antropologismo fenomenologico sia esso di ispirazione husserliana o meno. Ma se l'uomo si presenta come un prisma dalle infinite sfaccettature ne discende come logico e naturale corollario un concetto pluralistico delle strutture sociali con le quali egli deve vivere. Come non riconoscere, anche in questo caso, l'anticipazione di tutta una tematica libertaria che va dall'associazionismo libertario di Fourier al federalismo pluralistico di Proudhon, fino al comunismo armonico della "società aperta" di Kropotkin. Concetto, questo del pluralismo, anch'esso saccheggiato oggi a piene mani dalla cultura, ufficiale e non, di sinistra.Se il concetto della possibilità nega, da un punto di vista metodologico, la certezza di uno sviluppo determinato della storia umana (sottolineiamo: nega la certezza, non un determinato sviluppo), se nega cioè a priori qualsiasi oggettività (sottolineiamo ancora: nega qualsiasi oggettività a priori, non una volta data), esso ci dice come questa stessa possibilità si ponga di fatto come l'unica realtà. Si dà così che la libertà è la sola condizione eternamente inesauribile, imprescindibile, indistruttibile, incondizionabile, e non eliminabile della vita umana. Solo il concetto della possibilità verifica e conferma quello della potenzialità libertaria ed egualitaria della natura umana. Eccoci così ritornati a Godwin attraverso un discorso sull'essenzialità dell'anarchismo.Alla fine una cosa sembra essere davvero certa:William Godwin fu un grande pioniere non solo dell'educazione libertaria, ma dell'intero pensiero anarchico.
Dai tutti glistudiosi del pensiero filosofico anarchico il nome di William Godwin viene sempre posto come il primo vero teorico di questo movimento. Eppure, anche se gli esperti e maggiori studiosi del tema sono convinti, Godwin forse non ha avuto un'altrettanta attenzione specifica verso l'insieme del suo pensiero o verso aspetti particolari di esso. Tutti sanno che il punto centrale del suo pensiero si fonda sull'antitesi, che egli inizialmente formula sotto l'influsso rousseauviano, fra natura e storia. Problema, questo, di straordinaria importanza perché tutta la posteriore riflessione teorica dell'anarchismo ruoterà attorno ad esso. Non dobbiamo dimenticare infatti che la matrice illuministica sarà una componente indistruttibile di tutto il pensiero anarchico in quanto è soprattutto ad essa che va imputato il persistente antistoricismo che ha impregnato ed impregna, spiegandola, la sua dimensione rivoluzionaria. Se partiamo dalla prospettiva godwiniana vertente sull'antitesi radicale fra natura e storia dove, con il primo termine (natura), s'intende il campo originario dell'uomo e con il secondo (storia) quello dell'ingiustizia, del potere e dell'alienazione, è facile comprendere come sia tipico dell'anarchismo concepire il salto rivoluzionario - al fine di ridare all'uomo la libertà originariamente perduta - secondo modalità principalmente volontaristiche.
La logicità di questo discorso si fonda, in effetti, sulla semplice considerazione che la natura umana è fonte spontanea e ricettacolo primitivo della libertà e dell'uguaglianza per cui lo sviluppo della loro costruzione diventa possibile, in un certo senso, a qualsiasi livello storico dell'umanità. In altri termini la libertà e l'uguaglianza non scaturiscono necessariamente da precise condizioni attraverso le quali il processo storico snoda, ma possono essere concepite e poi poste indipendentemente o, se vogliamo, contro di esso.Questa concezione - che sta un po' all'opposto della prospettiva bakuniniana secondo la quale la libertà è una conquista e non un dato originario dell'uomo (pensiamo alla sua feroce polemica con Rousseau) - si basa sull'assoluto valore assegnato alla ragione umana. Per Godwin, che risente qui in modo preponderante dell'influsso della cultura illuministica, essa è un dato originario universalmente comune ad ogni individuo per cui è soprattutto ad essa che bisogna fare appello per la costruzione di una società nuova. In polemica con il pensiero contrattualistico,soprattutto con Locke, egli afferma la possibilità di una società fondata sulla regione e sulla libertà e quindi sulla più ampia tolleranza.L'indissolubile binomio godwiniano fra ragione e libertà (la ragione dovrebbe essere l'unica vera legislatrice di ogni società) è fondato sull'intima convinzione della continua perfettibilità della natura umana. Abbiamo così che lo statuto antropologico formulato da Godwin, anche se costruito anch'esso secondo una tipica visione illuministica, può essere concepito, per l'intenzione ideologica libertaria che lo sottende, come un pozzo senza fondo.
La natura umana è cioè un ricettacolo propulsivo di infinite possibilità progettuali, idea, questa, che anticipa di oltre cent'anni l'antropologismo fenomenologico sia esso di ispirazione husserliana o meno. Ma se l'uomo si presenta come un prisma dalle infinite sfaccettature ne discende come logico e naturale corollario un concetto pluralistico delle strutture sociali con le quali egli deve vivere. Come non riconoscere, anche in questo caso, l'anticipazione di tutta una tematica libertaria che va dall'associazionismo libertario di Fourier al federalismo pluralistico di Proudhon, fino al comunismo armonico della "società aperta" di Kropotkin. Concetto, questo del pluralismo, anch'esso saccheggiato oggi a piene mani dalla cultura, ufficiale e non, di sinistra.Se il concetto della possibilità nega, da un punto di vista metodologico, la certezza di uno sviluppo determinato della storia umana (sottolineiamo: nega la certezza, non un determinato sviluppo), se nega cioè a priori qualsiasi oggettività (sottolineiamo ancora: nega qualsiasi oggettività a priori, non una volta data), esso ci dice come questa stessa possibilità si ponga di fatto come l'unica realtà. Si dà così che la libertà è la sola condizione eternamente inesauribile, imprescindibile, indistruttibile, incondizionabile, e non eliminabile della vita umana. Solo il concetto della possibilità verifica e conferma quello della potenzialità libertaria ed egualitaria della natura umana. Eccoci così ritornati a Godwin attraverso un discorso sull'essenzialità dell'anarchismo.Alla fine una cosa sembra essere davvero certa:William Godwin fu un grande pioniere non solo dell'educazione libertaria, ma dell'intero pensiero anarchico.
Löwith e la mutevolezza del logos.
di Federica Bellucci
Un profondo pensatore sul sentiero di Heidegger.
Karl Löwith fu un importante filosofo tedesco,principale esponente del posthegellismo.Fu allievo di Edmund Husserl e soprattutto di Martin Heidegger all’Università di Friburgo, visse in Germania fino al 1937 quando a causa delle leggi razziali fu espatriato.Visse alcuni anni in Giappone, dove rimase affascinato dalla filosofia zen; questa filosofia delineava per l'uomo un rapporto col nulla non improntato al nichilismo, e lo invitava ad abbandonarsi alla natura,intesa in maniera del tutto estranea al soggettivismo ed allo storicismo dell’Europa. Fu inoltre un acuto e critico osservatore del processo di appropriazione della scienza occidentale da parte dei paesi orientali. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti e lavorò, tra l’altro, presso l’Università di Chicago. Fece ritorno in Germania nel 1952 e da allora si dedicò all’insegnamento fino al 1973 anno della sua morte.
Karl Löwith considera lo svolgimento del pensiero europeo come un processo di secolarizzazione della visione teologico-biblica della storia, caratterizzata a sua volta dal profetismo, dall’attesa di un "futuro escatologico", e quindi dalla possibilità che ogni evento possa essere giustificato sulla base di uno scopo finale. Tale prospettiva prometteva una impossibile conciliazione tra il logos — la razionalità cristianizzata, e l’imprevedibile mutevolezza dell’agire umano e degli eventi naturali; la riflessione degli stessi filosofi della storia ha finito per mostrarne il fallimento, con la caduta in un relativismo storicistico e nel conseguente decisionismo politico che riempie pericolosamente il vuoto lasciato dalla perdita degli antichi valori condivisi. La vecchia Europa era stata caratterizzata da uno Spirito unitario, da una idea di umanità e di finalità legata intimamente con quella di divinità. Questa idea di fatto la opponeva al resto del mondo. A partire dalla metà del XIX secolo tale unità "civile" dell'Europa è però andata in crisi sia per fattori esterni, quali l’emergere di potenze politiche extraeuropee come Russia, Stati Uniti e Giappone; e sia per le vicende interne, cioè l’affermazione del proletariato e del nichilismo pessimista ed irrazionalista.
Di fatto, uomo e mondo erano stati intellettualmente divisi. Tutto del mondo e della storia è stato frantumato e rielaborato dalla potenza negativa dell’intelletto. Tale negatività non porta ancora al nichilismo, poiché rimane in qualche modo ingabbiata all’interno del sistema grazie al concetto di Spirito, cioè alla coincidenza di razionalità e divinità cui si è accennato sopra, che tiene ancora legati filosofia e mondo, ragione e storia. Ciò nonostante, "proprio mediante la sua conciliazione Hegel ha chiarito per tutte le epoche future che l’uomo e il mondo sono separati da quando nessun dio li tiene più uniti" (Nietzsche e l’eterno ritorno). Così, quando la fede condivisa in un Dio, in dei valori, nella razionalità viene a mancare, allora il nichilismo esplode e porta alla disintegrazione di questo sistema.Qui stanno la grandezza e il fallimento della filosofia di Nietzsche. Egli ha reso esplicita l’ambiguità e la doppiezza della situazione dell’uomo moderno, ma non è riuscito a superarla (del resto, per Löwith ciò è assolutamente impossibile). Ed allora il suo stesso tentativo in tal senso indica il suo stare ancora pienamente nella tradizione teologica: difatti egli ha dovuto comunque scegliere tra mondo e soggetto, ed ha scelto per quest’ultimo, poiché la "transvalutazione di tutti i valori" ed il conseguente prospettivismo sono ancora una volta la ripetizione della potenza fondante valori del soggetto; inoltre, nonostante la ripresa di una concezione circolare del tempo atta a dissolvere l’intera visione del mondo biblico-cristiana, l’interesse primario di Nietzsche è sempre stimolato "dalla brama di futuro e la volontà di crearlo", ed in ciò rispecchia appunto la tracotanza creatrice e conquistatrice dell’Occidente cristiano.
Karl Löwith fu un importante filosofo tedesco,principale esponente del posthegellismo.Fu allievo di Edmund Husserl e soprattutto di Martin Heidegger all’Università di Friburgo, visse in Germania fino al 1937 quando a causa delle leggi razziali fu espatriato.Visse alcuni anni in Giappone, dove rimase affascinato dalla filosofia zen; questa filosofia delineava per l'uomo un rapporto col nulla non improntato al nichilismo, e lo invitava ad abbandonarsi alla natura,intesa in maniera del tutto estranea al soggettivismo ed allo storicismo dell’Europa. Fu inoltre un acuto e critico osservatore del processo di appropriazione della scienza occidentale da parte dei paesi orientali. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti e lavorò, tra l’altro, presso l’Università di Chicago. Fece ritorno in Germania nel 1952 e da allora si dedicò all’insegnamento fino al 1973 anno della sua morte.
Karl Löwith considera lo svolgimento del pensiero europeo come un processo di secolarizzazione della visione teologico-biblica della storia, caratterizzata a sua volta dal profetismo, dall’attesa di un "futuro escatologico", e quindi dalla possibilità che ogni evento possa essere giustificato sulla base di uno scopo finale. Tale prospettiva prometteva una impossibile conciliazione tra il logos — la razionalità cristianizzata, e l’imprevedibile mutevolezza dell’agire umano e degli eventi naturali; la riflessione degli stessi filosofi della storia ha finito per mostrarne il fallimento, con la caduta in un relativismo storicistico e nel conseguente decisionismo politico che riempie pericolosamente il vuoto lasciato dalla perdita degli antichi valori condivisi. La vecchia Europa era stata caratterizzata da uno Spirito unitario, da una idea di umanità e di finalità legata intimamente con quella di divinità. Questa idea di fatto la opponeva al resto del mondo. A partire dalla metà del XIX secolo tale unità "civile" dell'Europa è però andata in crisi sia per fattori esterni, quali l’emergere di potenze politiche extraeuropee come Russia, Stati Uniti e Giappone; e sia per le vicende interne, cioè l’affermazione del proletariato e del nichilismo pessimista ed irrazionalista.
Di fatto, uomo e mondo erano stati intellettualmente divisi. Tutto del mondo e della storia è stato frantumato e rielaborato dalla potenza negativa dell’intelletto. Tale negatività non porta ancora al nichilismo, poiché rimane in qualche modo ingabbiata all’interno del sistema grazie al concetto di Spirito, cioè alla coincidenza di razionalità e divinità cui si è accennato sopra, che tiene ancora legati filosofia e mondo, ragione e storia. Ciò nonostante, "proprio mediante la sua conciliazione Hegel ha chiarito per tutte le epoche future che l’uomo e il mondo sono separati da quando nessun dio li tiene più uniti" (Nietzsche e l’eterno ritorno). Così, quando la fede condivisa in un Dio, in dei valori, nella razionalità viene a mancare, allora il nichilismo esplode e porta alla disintegrazione di questo sistema.Qui stanno la grandezza e il fallimento della filosofia di Nietzsche. Egli ha reso esplicita l’ambiguità e la doppiezza della situazione dell’uomo moderno, ma non è riuscito a superarla (del resto, per Löwith ciò è assolutamente impossibile). Ed allora il suo stesso tentativo in tal senso indica il suo stare ancora pienamente nella tradizione teologica: difatti egli ha dovuto comunque scegliere tra mondo e soggetto, ed ha scelto per quest’ultimo, poiché la "transvalutazione di tutti i valori" ed il conseguente prospettivismo sono ancora una volta la ripetizione della potenza fondante valori del soggetto; inoltre, nonostante la ripresa di una concezione circolare del tempo atta a dissolvere l’intera visione del mondo biblico-cristiana, l’interesse primario di Nietzsche è sempre stimolato "dalla brama di futuro e la volontà di crearlo", ed in ciò rispecchia appunto la tracotanza creatrice e conquistatrice dell’Occidente cristiano.
Barth e l'inutilità filosofica della fede.
di Federica Bellucci
La nuova presa di coscienza della filosofia liberale.
Alcuni anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale nell'ambito della teologia liberale molto grande fu il vento di crisi filosofica e concettuale.Il dramma poi degli accadimenti bellici e il correlativo crollo di tutto un preciso mondo spirituale spinsero numerosi teologi e uomini di chiesa ad iniziare un lungo processo di riflessione sulle problematicità di tante "sicurezze" e verità date per scontate ieri: in primis la fede, la ragione, il privilegiamento della prospettiva umanistico-storicistica, l'esistenza di valori etici universali e oggettivi.La personalità di maggior rilievo tra i nuovi teologi "dialettici" fu senza dubbio Karl Barth (1886-1968). Nato in Svizzera ma formatosi nelle università tedesche, fu allievo tra l'altro di Harnack. Nel secondo decennio del Novecento si allontanò dalle posizioni della teologia liberale. Nel 1919 pubblicò uno scritto sull' Epistola ai Romani (poi rimaneggiato nel 1922), che nonostante la forma esteriore di semplice commento al celebre testo biblico fu subito considerato un'opera rivoluzionaria per la radicalità delle tesi che vi erano contenute. Il presupposto di fondo dell' Epistola ai Romani è la duplice convinzione barthiana dell'esistenza di un'insuperabile differenza ontologica tra la creatura e il creatore e della necessità di ridimensionare radicalmente le pretese esplicative del razionalismo filosofico-teologico, ricollocando al centro dell'esperienza umana la dimensione religiosa.
Anzi, propriamente, la fede.è percepibile la ripresa da parte di Barth del pensiero kierkegaardiano, di cui il teologo svizzero fu uno dei principali riscopritori primo-novecenteschi; si è a tal proposito parlato di una "rinascita" di Kierkegaard, a sottolineare che dopo mezzo secolo di oblìo, il filosofo danese torna finalmente sulla scena filosofica. Vicino a Kierkegaard Barth lo è anche nella sua intensa riflessione sull'umano, la sua peccaminosità e la sua finitudine. E' proprio per tale riflessione che l'opera barthiana è stata considerata una delle più significative sorgenti dell'esistenzialismo europeo ed è stata accostata al pensiero di Heiddeger. Tale interpretazione è giustificata purchè si tengano ben presenti le differenze degli esistenzialisti tedeschi e francesi. E' ben vero, infatti, che alcune tra le più stimolanti pagine barthiane sono quelle dedicate all'esistenza umana e ai suoi limiti: ma è anche vero che al centro di quelle stesse pagine sta non tanto l'essere umano quanto l'essere divino - o meglio il loro drammatico rapporto. Dio è, in effetti, la "figura" che attraverso la meditazione barthiana torna ad assumere - con tratti di potente originalità - un rilievo assolutamente centrale e predominante nella teologia primo-novecentesca.
Dio è, per Barth, lo "sconosciuto", il " totalmente Altro ". Dio è alterità assoluta e incolmabile differenza nei confronti di tutto ciò che è umano, e non può pertanto essere conosciuto né come potenza naturale né come forza che sta al di sopra della natura: ogni pretesa di questo tipo è un " equivoco " religioso, se non una superstizione, e si adatta a compromessi mondani. Bisogna rinunciare alla religione, la cui funzione consolatoria ha solo aiutato l'uomo a mettere fra parentesi la sua drammatica situazione, segnata dal 'no' che Dio rivolge a lui e al mondo. Tale orientamento è accertabile nella Dogmatica ecclesiale , il cui primo volume uscì nel 1932 e che ha esercitato una profonda influenza nell'intero mondo cristiano. Significativi in questa stessa prospettiva i saggi Comunità cristiana e comunità civile (1946), Umanesimo (1950), L'umanità di Dio (1956) e Introduzione alla teologia evangelica (1962). Il testo più suggestivo di Barth resta peraltro proprio l' Epistola ai Romani , che ha continuato ad affascinare intere generazioni di lettori. La radicale messa in questione di certezze secolari, la drammatica accentuazione della limitatezza e della costitutiva colpa dell'uomo, e soprattutto l'interpretazione della fede come senso del limite dell'oltre, come contestazione di tutti i valori e le opere terrene, come continuo scandalo e paradosso per le coscienze quiete e le anime belle, come imprevista e sconvolgente possibilità di rigenerazione spirituale per ogni essere umano, indipendentemente dalla sua razza, ceto e convinzioni: questo sono le principali componenti di un messaggio tra i più alti della meditazione religiosa del Novecento.
Alcuni anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale nell'ambito della teologia liberale molto grande fu il vento di crisi filosofica e concettuale.Il dramma poi degli accadimenti bellici e il correlativo crollo di tutto un preciso mondo spirituale spinsero numerosi teologi e uomini di chiesa ad iniziare un lungo processo di riflessione sulle problematicità di tante "sicurezze" e verità date per scontate ieri: in primis la fede, la ragione, il privilegiamento della prospettiva umanistico-storicistica, l'esistenza di valori etici universali e oggettivi.La personalità di maggior rilievo tra i nuovi teologi "dialettici" fu senza dubbio Karl Barth (1886-1968). Nato in Svizzera ma formatosi nelle università tedesche, fu allievo tra l'altro di Harnack. Nel secondo decennio del Novecento si allontanò dalle posizioni della teologia liberale. Nel 1919 pubblicò uno scritto sull' Epistola ai Romani (poi rimaneggiato nel 1922), che nonostante la forma esteriore di semplice commento al celebre testo biblico fu subito considerato un'opera rivoluzionaria per la radicalità delle tesi che vi erano contenute. Il presupposto di fondo dell' Epistola ai Romani è la duplice convinzione barthiana dell'esistenza di un'insuperabile differenza ontologica tra la creatura e il creatore e della necessità di ridimensionare radicalmente le pretese esplicative del razionalismo filosofico-teologico, ricollocando al centro dell'esperienza umana la dimensione religiosa.
Anzi, propriamente, la fede.è percepibile la ripresa da parte di Barth del pensiero kierkegaardiano, di cui il teologo svizzero fu uno dei principali riscopritori primo-novecenteschi; si è a tal proposito parlato di una "rinascita" di Kierkegaard, a sottolineare che dopo mezzo secolo di oblìo, il filosofo danese torna finalmente sulla scena filosofica. Vicino a Kierkegaard Barth lo è anche nella sua intensa riflessione sull'umano, la sua peccaminosità e la sua finitudine. E' proprio per tale riflessione che l'opera barthiana è stata considerata una delle più significative sorgenti dell'esistenzialismo europeo ed è stata accostata al pensiero di Heiddeger. Tale interpretazione è giustificata purchè si tengano ben presenti le differenze degli esistenzialisti tedeschi e francesi. E' ben vero, infatti, che alcune tra le più stimolanti pagine barthiane sono quelle dedicate all'esistenza umana e ai suoi limiti: ma è anche vero che al centro di quelle stesse pagine sta non tanto l'essere umano quanto l'essere divino - o meglio il loro drammatico rapporto. Dio è, in effetti, la "figura" che attraverso la meditazione barthiana torna ad assumere - con tratti di potente originalità - un rilievo assolutamente centrale e predominante nella teologia primo-novecentesca.
Dio è, per Barth, lo "sconosciuto", il " totalmente Altro ". Dio è alterità assoluta e incolmabile differenza nei confronti di tutto ciò che è umano, e non può pertanto essere conosciuto né come potenza naturale né come forza che sta al di sopra della natura: ogni pretesa di questo tipo è un " equivoco " religioso, se non una superstizione, e si adatta a compromessi mondani. Bisogna rinunciare alla religione, la cui funzione consolatoria ha solo aiutato l'uomo a mettere fra parentesi la sua drammatica situazione, segnata dal 'no' che Dio rivolge a lui e al mondo. Tale orientamento è accertabile nella Dogmatica ecclesiale , il cui primo volume uscì nel 1932 e che ha esercitato una profonda influenza nell'intero mondo cristiano. Significativi in questa stessa prospettiva i saggi Comunità cristiana e comunità civile (1946), Umanesimo (1950), L'umanità di Dio (1956) e Introduzione alla teologia evangelica (1962). Il testo più suggestivo di Barth resta peraltro proprio l' Epistola ai Romani , che ha continuato ad affascinare intere generazioni di lettori. La radicale messa in questione di certezze secolari, la drammatica accentuazione della limitatezza e della costitutiva colpa dell'uomo, e soprattutto l'interpretazione della fede come senso del limite dell'oltre, come contestazione di tutti i valori e le opere terrene, come continuo scandalo e paradosso per le coscienze quiete e le anime belle, come imprevista e sconvolgente possibilità di rigenerazione spirituale per ogni essere umano, indipendentemente dalla sua razza, ceto e convinzioni: questo sono le principali componenti di un messaggio tra i più alti della meditazione religiosa del Novecento.
Lotze e un nuovo idealismo razionale.
di Federica Bellucci
Una forte e decisa reazione all'idealismo hegelliano.
Rudolf H. Lotze fu uno dei principali filosofi che cercò di conciliare i concetti della scienza meccanicista con i princìpi dell’idealismo romantico. Il suo pensiero è secondo molti una specie di reazione forte contro il panteismo idealistico di Hegel, che sembrava sacrificare l’individualità e la varietà dell’esistenza ad un formale ed astratto schema di sviluppo dialettico. Lotze definì la sua posizione filosofica come un idealismo teleologico, e considerava l’etica il punto di partenza della metafisica. Mentre da una parte rinforzava la visione meccanica della natura, dall’altra cercava di mostrare come il meccanicismo - la relazione causa/effetto – fosse in realtà incomprensibile, se non come la realizzazione di un mondo di idee morali. Così ogni catena causale diventa allo stesso tempo una catena teleologica. Lotze riuscì ad elaborare questa conciliazione tra una visione meccanicista con una teleologica combinando le monadi del pensiero di Leibniz con la sostanza infinita di Spinoza: in quest’ultima trovano infatti il proprio fondamento le cose individuali (monadi), ed inoltre, attraverso la sua unità che tutto comprende, diventa possibile l’interrelazione.
Tenendo insieme la monadologia leibniziana e il panteismo di Spinosa, Lotze cerca di tenere coniugare monismo e pluralismo, meccanicismo e teleologia, realismo e idealismo, panteismo e teismo. Lotze riconosce valore alle istanze dell’idealismo etico-religioso di Fichte e le applica ad una sobria e scientifica interpretazione dei fenomeni naturali. In Lotze convivono una ferma convinzione dell’universale validità delle leggi scientifiche e la consapevolezza della necessità della metafisica.La conoscenza – sostiene – è il risultato dell’osservazione e dell’esperimento, non di uno sviluppo logico-dialettico". L’obiettivo della metafisica è perciò quello di analizzare e sistematizzare i concetti prodotti dalla scienza. Secondo Lotze la natura è sì governata da leggi meccaniche, ma il sistema della natura è un insieme di mezzi indirizzati verso un fine fissato da Dio. Egli considera tutte le cose come immanenti in Dio; ciò che gli scienziati vedono come una causalità meccanica è semplicemente l’espressione dell’attività divina. Le cosiddette leggi naturali sono nient’altro che azione divina: sono i modi dell’operare di Dio. Lotze rileva come l’uomo non possa trovare nessun appagamento etico-religioso nell’universo meccanizzato della scienza. L’uomo, che è in se stesso un’unità, porta l’Unità all’esistenza utilizzando idee e ideali: le unità, in natura, sono prodotti mentali.
Sicchè è incontestabile che la natura si muove secondo leggi necessarie ed immutabili; ma bisogna aggiungere che tale ordinamento meccanico è espressione di una saggezza superiore, ed ha uno scopo complessivo che è quello della realizzazione del bene. Anzi quanto piú si approfondisce la perfezione del meccanismo naturale, tanto piú si fa chiaro il principio superiore di razionalità inerente alla realtà. E infatti, la scoperta che il processo di evoluzione della natura culmina nell'uomo, nella sua vita spirituale, è la testimonianza che tutta la realtà, cosiddetta «materiale», è nella sua sostanza «spirituale», e che l'affermazione dello spirito è il fine stesso del processo naturale. Inoltre la regolarità del processo mostra che Dio è la condizione di ogni evento fisico e di ogni legge meccanica. All'uomo cosí resta aperta la via alla speranza e alla gioia dell'esistenza, come pure la possibilità dell'azione morale e la certezza della fede.
Rudolf H. Lotze fu uno dei principali filosofi che cercò di conciliare i concetti della scienza meccanicista con i princìpi dell’idealismo romantico. Il suo pensiero è secondo molti una specie di reazione forte contro il panteismo idealistico di Hegel, che sembrava sacrificare l’individualità e la varietà dell’esistenza ad un formale ed astratto schema di sviluppo dialettico. Lotze definì la sua posizione filosofica come un idealismo teleologico, e considerava l’etica il punto di partenza della metafisica. Mentre da una parte rinforzava la visione meccanica della natura, dall’altra cercava di mostrare come il meccanicismo - la relazione causa/effetto – fosse in realtà incomprensibile, se non come la realizzazione di un mondo di idee morali. Così ogni catena causale diventa allo stesso tempo una catena teleologica. Lotze riuscì ad elaborare questa conciliazione tra una visione meccanicista con una teleologica combinando le monadi del pensiero di Leibniz con la sostanza infinita di Spinoza: in quest’ultima trovano infatti il proprio fondamento le cose individuali (monadi), ed inoltre, attraverso la sua unità che tutto comprende, diventa possibile l’interrelazione.
Tenendo insieme la monadologia leibniziana e il panteismo di Spinosa, Lotze cerca di tenere coniugare monismo e pluralismo, meccanicismo e teleologia, realismo e idealismo, panteismo e teismo. Lotze riconosce valore alle istanze dell’idealismo etico-religioso di Fichte e le applica ad una sobria e scientifica interpretazione dei fenomeni naturali. In Lotze convivono una ferma convinzione dell’universale validità delle leggi scientifiche e la consapevolezza della necessità della metafisica.La conoscenza – sostiene – è il risultato dell’osservazione e dell’esperimento, non di uno sviluppo logico-dialettico". L’obiettivo della metafisica è perciò quello di analizzare e sistematizzare i concetti prodotti dalla scienza. Secondo Lotze la natura è sì governata da leggi meccaniche, ma il sistema della natura è un insieme di mezzi indirizzati verso un fine fissato da Dio. Egli considera tutte le cose come immanenti in Dio; ciò che gli scienziati vedono come una causalità meccanica è semplicemente l’espressione dell’attività divina. Le cosiddette leggi naturali sono nient’altro che azione divina: sono i modi dell’operare di Dio. Lotze rileva come l’uomo non possa trovare nessun appagamento etico-religioso nell’universo meccanizzato della scienza. L’uomo, che è in se stesso un’unità, porta l’Unità all’esistenza utilizzando idee e ideali: le unità, in natura, sono prodotti mentali.
Sicchè è incontestabile che la natura si muove secondo leggi necessarie ed immutabili; ma bisogna aggiungere che tale ordinamento meccanico è espressione di una saggezza superiore, ed ha uno scopo complessivo che è quello della realizzazione del bene. Anzi quanto piú si approfondisce la perfezione del meccanismo naturale, tanto piú si fa chiaro il principio superiore di razionalità inerente alla realtà. E infatti, la scoperta che il processo di evoluzione della natura culmina nell'uomo, nella sua vita spirituale, è la testimonianza che tutta la realtà, cosiddetta «materiale», è nella sua sostanza «spirituale», e che l'affermazione dello spirito è il fine stesso del processo naturale. Inoltre la regolarità del processo mostra che Dio è la condizione di ogni evento fisico e di ogni legge meccanica. All'uomo cosí resta aperta la via alla speranza e alla gioia dell'esistenza, come pure la possibilità dell'azione morale e la certezza della fede.
Hegel e la Fenomenologia dello Spirito.
Un percorso filosofico che appassiona e avvicina alla verità.
La fenomenologia dello spirito è una delle più intense e particolari teorie filosofiche di Hegel con la quale il filosofo tedesco di allontana definitivamente dal credo del maestro Schelling. In essa lo spirito viene posto come risultato di un processo (storico e logico) e non come un oggetto statico da contemplare. Nella Fenomenologia vengono descritti i momenti ideali dello spirito attraverso le vicende storiche. La storia si erge a vera scienza della coscienza fenomenica, immediata, formale. Il discorso "sullo" spirito diventa un discorso "dello" spirito, fatto più che altro in maniera allusiva. Infatti il "vero" non viene semplicemente pensato come "sostanza" ma anche e soprattutto come "soggetto", cioè come una realtà vivente e spirituale che si muove nella storia, anticipando l'innalzarsi della filosofia a scienza. Il luogo del discorso è il tempo, tradizionale avversario di tutte le metafisiche pre-hegeliane. Le parti del discorso sono le varie forme (culturali) che lo spirito ha assunto nel tempo. La contraddizione è l'elemento fondamentale del movimento dello spirito: essa, compresa attraverso la dialettica, determina le varie trasformazioni delle figure fenomenologiche. Ogni figura è relativa, in quanto, ritenendo d'essere assoluta (ogni cultura infatti ritiene d'essere la verità), produce inevitabilmente la propria opposizione, che la nega e la supera.La verità in realtà per Hegel è un processo, un divenire. Il vero è l'intero, l'intero è ottenuto con uno sviluppo, l'assoluto è il risultato dello sviluppo. Hegel si richiama a Parmenide per dimostrare che l'assoluto è solo nel processo che scorre, attraverso opposizioni e riunificazioni continue.
La dialettica è la struttura di questo movimento per contraddizioni. Le sue caratteristiche fondamentali sono le seguenti: 1) essa si fonda sul principio universale di contraddizione, per cui le cose hanno senso solo se contraddittorie, 2) è triadica (tesi-antitesi-sintesi), ovvero si basa sul principio della negazione della negazione, 3) afferma il passaggio dalla quantità alla qualità e dal semplice al complesso (o dal più basso al più alto), 4) afferma l'infinità di questo processo (che avviene nell'uomo, nella natura, nella conoscenza), per cui non solo la dialettica deve corrispondere a una situazione reale perché essa sia attendibile, ma essendo essa l'intelligenza delle cose dovrebbe anche saper indicare come conformarsi al loro svolgimento. Il superamento è la risoluzione (relativa) della contraddizione: è insieme negazione della vecchia forma e suo ulteriore sviluppo (quindi anche la sua conservazione nel movimento).Da cosa nasce la contraddizione? Dal desiderio, che scinde lo spirito dalla natura e che inaugura la storia, la civiltà, il tempo. Il desiderio del soggetto autocosciente si scontra col desiderio di altri soggetti. Qui -secondo Hegel- non avviene il contratto (come vuole Hobbes), ma l'antagonismo dell'uomo con l'uomo (prima figura culturale), ovvero l'assoggettamento del più debole da parte del più forte. Si stabilisce così quella relazione tra padrone e servo che ha la sua concreta espressione storica nella società antica. La decisione di chi sarà il signore e di chi sarà il servo avviene nel conflitto delle autocoscienze. Entrare in conflitto vuol dire per entrambi rischiare fisicamente la morte. Il primo che si ritira da questo rischio, mostrando così che il suo desiderio è meno forte, acquisterà un'autocoscienza da servo.
In tal modo si ha la formazione dello Stato: non di quello etico, basato sul diritto, ma di quello fenomenico, basato sulla forza.Tuttavia, la vita del signore dipende dal lavoro del servo, e il servo e il signore che hanno coscienza di questo si sentiranno, l'uno, meno servo, l'altro, meno signore. Il signore ha coscienza della sua dipendenza dal servo, e il servo ha coscienza di poter trasformare i prodotti della natura, quindi ha coscienza dell'indipendenza dell'uomo dalla natura, anche se il signore gli ha tolto la proprietà delle cose. Mediante il lavoro, la coscienza del servo acquista una posizione più alta rispetto a quella precedente del signore e si rassegna, nella pratica, consapevole della propria superiorità filosofica (così ha inizio la sapienza o lo stoicismo). D'altra parte la coscienza stoica può riguardare anche il padrone -come riguardò Marco Aurelio, oltre che Epitteto: essa infatti è l'indifferenza verso la vera verità delle cose, che vengono accettate solo in quanto accettabili. [Da notare che qui Hegel ha cercato di dimostrare che sia per il servo che per il signore la contraddizione era relativa. In realtà per il servo è assoluta, in quanto egli ha consapevolezza dell'inutilità del signore e insieme dello sfruttamento cui questi lo sottopone, per cui agli occhi del servo la contraddizione non può che apparire assoluta: egli, pur avendo coscienza della propria superiorità, deve limitarsi ad affermarla solo nel pensiero.
La fenomenologia dello spirito è una delle più intense e particolari teorie filosofiche di Hegel con la quale il filosofo tedesco di allontana definitivamente dal credo del maestro Schelling. In essa lo spirito viene posto come risultato di un processo (storico e logico) e non come un oggetto statico da contemplare. Nella Fenomenologia vengono descritti i momenti ideali dello spirito attraverso le vicende storiche. La storia si erge a vera scienza della coscienza fenomenica, immediata, formale. Il discorso "sullo" spirito diventa un discorso "dello" spirito, fatto più che altro in maniera allusiva. Infatti il "vero" non viene semplicemente pensato come "sostanza" ma anche e soprattutto come "soggetto", cioè come una realtà vivente e spirituale che si muove nella storia, anticipando l'innalzarsi della filosofia a scienza. Il luogo del discorso è il tempo, tradizionale avversario di tutte le metafisiche pre-hegeliane. Le parti del discorso sono le varie forme (culturali) che lo spirito ha assunto nel tempo. La contraddizione è l'elemento fondamentale del movimento dello spirito: essa, compresa attraverso la dialettica, determina le varie trasformazioni delle figure fenomenologiche. Ogni figura è relativa, in quanto, ritenendo d'essere assoluta (ogni cultura infatti ritiene d'essere la verità), produce inevitabilmente la propria opposizione, che la nega e la supera.La verità in realtà per Hegel è un processo, un divenire. Il vero è l'intero, l'intero è ottenuto con uno sviluppo, l'assoluto è il risultato dello sviluppo. Hegel si richiama a Parmenide per dimostrare che l'assoluto è solo nel processo che scorre, attraverso opposizioni e riunificazioni continue.
La dialettica è la struttura di questo movimento per contraddizioni. Le sue caratteristiche fondamentali sono le seguenti: 1) essa si fonda sul principio universale di contraddizione, per cui le cose hanno senso solo se contraddittorie, 2) è triadica (tesi-antitesi-sintesi), ovvero si basa sul principio della negazione della negazione, 3) afferma il passaggio dalla quantità alla qualità e dal semplice al complesso (o dal più basso al più alto), 4) afferma l'infinità di questo processo (che avviene nell'uomo, nella natura, nella conoscenza), per cui non solo la dialettica deve corrispondere a una situazione reale perché essa sia attendibile, ma essendo essa l'intelligenza delle cose dovrebbe anche saper indicare come conformarsi al loro svolgimento. Il superamento è la risoluzione (relativa) della contraddizione: è insieme negazione della vecchia forma e suo ulteriore sviluppo (quindi anche la sua conservazione nel movimento).Da cosa nasce la contraddizione? Dal desiderio, che scinde lo spirito dalla natura e che inaugura la storia, la civiltà, il tempo. Il desiderio del soggetto autocosciente si scontra col desiderio di altri soggetti. Qui -secondo Hegel- non avviene il contratto (come vuole Hobbes), ma l'antagonismo dell'uomo con l'uomo (prima figura culturale), ovvero l'assoggettamento del più debole da parte del più forte. Si stabilisce così quella relazione tra padrone e servo che ha la sua concreta espressione storica nella società antica. La decisione di chi sarà il signore e di chi sarà il servo avviene nel conflitto delle autocoscienze. Entrare in conflitto vuol dire per entrambi rischiare fisicamente la morte. Il primo che si ritira da questo rischio, mostrando così che il suo desiderio è meno forte, acquisterà un'autocoscienza da servo.
In tal modo si ha la formazione dello Stato: non di quello etico, basato sul diritto, ma di quello fenomenico, basato sulla forza.Tuttavia, la vita del signore dipende dal lavoro del servo, e il servo e il signore che hanno coscienza di questo si sentiranno, l'uno, meno servo, l'altro, meno signore. Il signore ha coscienza della sua dipendenza dal servo, e il servo ha coscienza di poter trasformare i prodotti della natura, quindi ha coscienza dell'indipendenza dell'uomo dalla natura, anche se il signore gli ha tolto la proprietà delle cose. Mediante il lavoro, la coscienza del servo acquista una posizione più alta rispetto a quella precedente del signore e si rassegna, nella pratica, consapevole della propria superiorità filosofica (così ha inizio la sapienza o lo stoicismo). D'altra parte la coscienza stoica può riguardare anche il padrone -come riguardò Marco Aurelio, oltre che Epitteto: essa infatti è l'indifferenza verso la vera verità delle cose, che vengono accettate solo in quanto accettabili. [Da notare che qui Hegel ha cercato di dimostrare che sia per il servo che per il signore la contraddizione era relativa. In realtà per il servo è assoluta, in quanto egli ha consapevolezza dell'inutilità del signore e insieme dello sfruttamento cui questi lo sottopone, per cui agli occhi del servo la contraddizione non può che apparire assoluta: egli, pur avendo coscienza della propria superiorità, deve limitarsi ad affermarla solo nel pensiero.
Comunitarismo.Analisi teorico-concettuale.
di Federica Bellucci
Nascita di un pensiero e di un'idea politica moderna.
La parola comunitarismo, come gran parte degli "ismi", enfatizza il termine che lo produce, ovvero comunità; la sua genesi risale ai primi anni ottanta, e avviene principalmente grazie a due testi rappresentativi: After Virtue di MacIntyre (1981) e Liberalism and the limits of justice di Sandel (1982). E' più di un mero caso che filosofi analitici e continentali (per quanto possa essere attendibile tale dicotomia) abbiano ripensato le radici dell'essere in comune e - allo stesso tempo - le radici dell'essere come comune, così che ne è nata una risposta potente agli ideali individualistici di derivazione lockeana, dominanti in buona parte del pensiero politico moderno. Anzitutto si può intuire come le premesse di tale rinascita risiedano in nuce nel "romanticismo politico" tedesco condiviso ad esempio da Schlegel, Schleiermacher e Müller: di contro ad una concezione meccanicistica e atomistica dello Stato, quale quella illuministica post-rivoluzionaria, se ne propugna una che fa dell'organicità e della vitalità i suoi marchi distintivi.
Ed in effetti è spontaneo pensare che le filosofie della comunità vogliano porre un argine alle teorie del contratto in generale, come espressione della ricerca di regole procedurali universali che astraggono dalle individualità concrete plasmate da tradizioni e narrazioni. La comunità appare come il tessuto imprescindibile di ogni discorso teorico, la sua effettualità storica pone in essere il confronto tra le individualità senza che queste possano prescinderne. Che lo riconosciamo o no - scrive MacIntyre - noi siamo il prodotto del passato, e non possiamo estirpare da noi stessi (...) quelle parti di noi che sono costituite dalla nostra relazione con ciascuna fase formativa della nostra storia. L'importanza di cui è rivestita la tradizione viene talvolta eccessivamente sottolineata, così che non è difficile prevedere alcune rischiose derive ultra-conservatrici: Charles Taylor, ad esempio, ha sostenuto che è necessario anzitutto sostenere le credenze della propria realtà storico-sociale di partenza.
Che questo rappresenti un problema è chiaro se si guarda a certe pratiche sociali lesive dei diritti umani più basilari eppure largamente condivise, fra le tante l'infibulazione. E' pertanto possibile supporre che, fino ad ora, i comunitaristi abbiano mosso forti e consistenti critiche al liberalismo ed al primato del modello economico di razionalità malgrado la loro alternativa resti una proposta ambigua anzitutto sotto un rispetto: quali sono i limiti della tanto agognata comunità? Coincide con la famiglia, lo stato, le associazioni o cos'altro? In seguito a questa impasse ci possono essere due risposte: la prima consiste nel ribadire il valore utopico del pensiero comunitarista, sarà il futuro - si dice - a stabilire la forma della comunità. L'altra risposta, accettata da Sandel, stabilisce il limite della comunità nel republicanism. L'urgenza della proposta in questione mette però in guardia dai rischi di un liberalismo fondato sui diritti anzichè sul bene collettivo (che viene pensato soltanto come accidentale convergenza d'interessi individuali), e di un liberalismo economico pronto ad eclissare qualunque valore altro dalla razionalità economica.
La parola comunitarismo, come gran parte degli "ismi", enfatizza il termine che lo produce, ovvero comunità; la sua genesi risale ai primi anni ottanta, e avviene principalmente grazie a due testi rappresentativi: After Virtue di MacIntyre (1981) e Liberalism and the limits of justice di Sandel (1982). E' più di un mero caso che filosofi analitici e continentali (per quanto possa essere attendibile tale dicotomia) abbiano ripensato le radici dell'essere in comune e - allo stesso tempo - le radici dell'essere come comune, così che ne è nata una risposta potente agli ideali individualistici di derivazione lockeana, dominanti in buona parte del pensiero politico moderno. Anzitutto si può intuire come le premesse di tale rinascita risiedano in nuce nel "romanticismo politico" tedesco condiviso ad esempio da Schlegel, Schleiermacher e Müller: di contro ad una concezione meccanicistica e atomistica dello Stato, quale quella illuministica post-rivoluzionaria, se ne propugna una che fa dell'organicità e della vitalità i suoi marchi distintivi.
Ed in effetti è spontaneo pensare che le filosofie della comunità vogliano porre un argine alle teorie del contratto in generale, come espressione della ricerca di regole procedurali universali che astraggono dalle individualità concrete plasmate da tradizioni e narrazioni. La comunità appare come il tessuto imprescindibile di ogni discorso teorico, la sua effettualità storica pone in essere il confronto tra le individualità senza che queste possano prescinderne. Che lo riconosciamo o no - scrive MacIntyre - noi siamo il prodotto del passato, e non possiamo estirpare da noi stessi (...) quelle parti di noi che sono costituite dalla nostra relazione con ciascuna fase formativa della nostra storia. L'importanza di cui è rivestita la tradizione viene talvolta eccessivamente sottolineata, così che non è difficile prevedere alcune rischiose derive ultra-conservatrici: Charles Taylor, ad esempio, ha sostenuto che è necessario anzitutto sostenere le credenze della propria realtà storico-sociale di partenza.
Che questo rappresenti un problema è chiaro se si guarda a certe pratiche sociali lesive dei diritti umani più basilari eppure largamente condivise, fra le tante l'infibulazione. E' pertanto possibile supporre che, fino ad ora, i comunitaristi abbiano mosso forti e consistenti critiche al liberalismo ed al primato del modello economico di razionalità malgrado la loro alternativa resti una proposta ambigua anzitutto sotto un rispetto: quali sono i limiti della tanto agognata comunità? Coincide con la famiglia, lo stato, le associazioni o cos'altro? In seguito a questa impasse ci possono essere due risposte: la prima consiste nel ribadire il valore utopico del pensiero comunitarista, sarà il futuro - si dice - a stabilire la forma della comunità. L'altra risposta, accettata da Sandel, stabilisce il limite della comunità nel republicanism. L'urgenza della proposta in questione mette però in guardia dai rischi di un liberalismo fondato sui diritti anzichè sul bene collettivo (che viene pensato soltanto come accidentale convergenza d'interessi individuali), e di un liberalismo economico pronto ad eclissare qualunque valore altro dalla razionalità economica.
Quine e la concezione olistica del sapere.
di Federica Bellucci
Quando le teorie del sapere conquistano la filosofia.
L’olismo di Quine è sicuramente una delle tipologie di concezione unitaria del sapere tra le più moderne ed attuali.Una concezione che però contiene anche palesi elementi della sua negazione.Quine fotografa l'insieme delle teorie sul mondo con un'immagine metaforica, che è esiste allo stesso tempo come una teoria globale circa il sapere e una nuova proposta circa la forma e la struttura dell'albero del sapere. La sua è una teoria di tipo olistico e in esplicito contrasto con le teorie verificazioniste derivanti in qualche modo dal primo neopositivismo. Quine nega che un singolo enunciato o una singola teoria riescano ad essere verificate e con ciò sostiene l'esistenza di una totale interconnessione del sapere. Secondo la teoria di Quine, è possibile confermare o non confermare le teorie del campo e quando non le confermiamo si provoca un mutamento del nostro sapere e, quindi, della conformazione stessa.
Queste elaborazioni riguardano direttamente le teorie più periferiche e meno sicure, ma, qualora ciò non fosse possibile, la questione può anche ben riguardare teorie più interne e più sicure.La "sicurezza" di teorie più forti come la logica e la matematica contribuisce a dare ad esse una posizione quasi intoccabile. Noi spesso siamo contrari all'accettazione di modifiche alle teorie più certe anche perché le loro leggi fungono da presupposto per tutte le altre e una modifica di questi presupposti avrebbe conseguenze e metterebbe in gioco la validità di tutte le teorie del campo. Quindi nell'atto di scegliere fra una specifica regola logica e una legge naturale, è più semplice modificare la seconda perché la modifica della prima sconvolgerebbe tutto il campo e richiederebbe non solo una sua completa revisione.
Il problema paradossale resta chiaro per ciò che attiene all'incapacità di vedere l’esistenza di preteorie, di saperi, di comportamenti la cui origine, formazione, integrazione si perde nella storia del nostro vivere; non sembra quindi esistereun albero unitario del sapere ma un coacervo di teorie-credenze che comprende certamente principi, indirizzi e teorie che "occupano" i posti più interni del campo del sapere. Sono le preteorie, le abitudini, i linguaggi che, ad esempio, fungono da presupposto alle teorie nobili e istituzionalizzate danno un mondo già colonizzato, già assimilato, già digitalizzato dai nostri lontani progenitori in cui si è sviluppata e persevera nello svilupparsi la convergenza tra un universo fisico articolato in oggetti e un linguaggio fatto esclusivamente di nomi e proposizioni.
L’olismo di Quine è sicuramente una delle tipologie di concezione unitaria del sapere tra le più moderne ed attuali.Una concezione che però contiene anche palesi elementi della sua negazione.Quine fotografa l'insieme delle teorie sul mondo con un'immagine metaforica, che è esiste allo stesso tempo come una teoria globale circa il sapere e una nuova proposta circa la forma e la struttura dell'albero del sapere. La sua è una teoria di tipo olistico e in esplicito contrasto con le teorie verificazioniste derivanti in qualche modo dal primo neopositivismo. Quine nega che un singolo enunciato o una singola teoria riescano ad essere verificate e con ciò sostiene l'esistenza di una totale interconnessione del sapere. Secondo la teoria di Quine, è possibile confermare o non confermare le teorie del campo e quando non le confermiamo si provoca un mutamento del nostro sapere e, quindi, della conformazione stessa.
Queste elaborazioni riguardano direttamente le teorie più periferiche e meno sicure, ma, qualora ciò non fosse possibile, la questione può anche ben riguardare teorie più interne e più sicure.La "sicurezza" di teorie più forti come la logica e la matematica contribuisce a dare ad esse una posizione quasi intoccabile. Noi spesso siamo contrari all'accettazione di modifiche alle teorie più certe anche perché le loro leggi fungono da presupposto per tutte le altre e una modifica di questi presupposti avrebbe conseguenze e metterebbe in gioco la validità di tutte le teorie del campo. Quindi nell'atto di scegliere fra una specifica regola logica e una legge naturale, è più semplice modificare la seconda perché la modifica della prima sconvolgerebbe tutto il campo e richiederebbe non solo una sua completa revisione.
Il problema paradossale resta chiaro per ciò che attiene all'incapacità di vedere l’esistenza di preteorie, di saperi, di comportamenti la cui origine, formazione, integrazione si perde nella storia del nostro vivere; non sembra quindi esistereun albero unitario del sapere ma un coacervo di teorie-credenze che comprende certamente principi, indirizzi e teorie che "occupano" i posti più interni del campo del sapere. Sono le preteorie, le abitudini, i linguaggi che, ad esempio, fungono da presupposto alle teorie nobili e istituzionalizzate danno un mondo già colonizzato, già assimilato, già digitalizzato dai nostri lontani progenitori in cui si è sviluppata e persevera nello svilupparsi la convergenza tra un universo fisico articolato in oggetti e un linguaggio fatto esclusivamente di nomi e proposizioni.
Austin e l'enunciato performativo.
di Federica Bellucci
La teoria e l'applicazione degli atti linguistici.
John Austin è stato uno dei padri della filosofia del linguaggio.La sua riflessione si inserisce nella tradizione dell'analisi del linguaggio ordinario, prevalente a Oxford e Cambridge tra gli anni '40 e gli anni '50. Fondamentali sono state le sue ricerche sui cosiddetti " speech acts " ("atti linguistici"), esposte in lezioni tenute tra il 1951 e il 1955, pubblicate poi con il titolo " How to do Things with Words " ( " Come fare cose con le parole "), dove viene introdotta la nozione di "enunciato performativo". La teoria degli atti linguistici (distinti in locutori, illocutori e perlocutori a seconda che l'enunciato sia descrittivo, esprima un'intenzione o un'azione del parlante o infine un'emozione, preghiera o persuasione) fa di Austin uno dei più fini analisti del linguaggio ordinario. Austin è originale rappresentante della filosofia analitica , indirizzo di pensiero che si richiama a Moore e alla seconda fase del pensiero di Wittgenstein, ma anche a Russell e a Frege.
I suoi principali esponenti fanno capo alle università inglesi di Cambridge e Oxford e a quella di Harvard, negli Stati Uniti. L'analisi a cui fa riferimento la filosofia analitica ha avuto una pluralità di significati. Quello prevalente ha identificato la filosofia con una sistematica e minuziosa analisi del linguaggio, volta, da un lato, ad esaminare i problemi posti dal linguaggio, con gli errori e i fraintendimenti che esso comporta, e, dall'altro, a individuare e a risolvere problemi chiarendo il significato delle proposizioni adottate. Anche se continueranno ad esservi sostenitori della necessità di costruire un "linguaggio perfetto" (i Costruttivisti) , la filosofia analitica ha, in larga misura, abbandonato il presupposto dell'assolutezza del linguaggio ideale e della messa in discussione del linguaggio ordinario in nome di un linguaggio ritenuto rigoroso e scientifico.
La filosofia analitica svolge soprattutto un'opera di ricerca e di chiarificazione concettuale e linguistica con la quale studia non solo il linguaggio scientifico, ma anche il linguaggio comune tanto da venire designata anche come "filosofia del linguaggio ordinario".In lui l'appello al linguaggio ordinario acquista maggior peso. Il linguaggio ordinario va preso in massima considerazione perché è "ricco" e quindi può costituire un utile strumento di analisi e paragone per il filosofo che lavora in aree "filosoficamente calde" e che si sono sviluppate magari sotto il segno della super-semplificazione. Austin definisce il linguaggio ordinario come oggetto privilegiato dell'analisi filosofica, assumendosi l'obiettivo di fare una specie di inventario delle più comuni espressioni che vi sono usate. Il linguaggio ordinario costituisce un oggetto di studio molto più ricco e significativo di quelli offerti dai saperi altamente formalizzati.
John Austin è stato uno dei padri della filosofia del linguaggio.La sua riflessione si inserisce nella tradizione dell'analisi del linguaggio ordinario, prevalente a Oxford e Cambridge tra gli anni '40 e gli anni '50. Fondamentali sono state le sue ricerche sui cosiddetti " speech acts " ("atti linguistici"), esposte in lezioni tenute tra il 1951 e il 1955, pubblicate poi con il titolo " How to do Things with Words " ( " Come fare cose con le parole "), dove viene introdotta la nozione di "enunciato performativo". La teoria degli atti linguistici (distinti in locutori, illocutori e perlocutori a seconda che l'enunciato sia descrittivo, esprima un'intenzione o un'azione del parlante o infine un'emozione, preghiera o persuasione) fa di Austin uno dei più fini analisti del linguaggio ordinario. Austin è originale rappresentante della filosofia analitica , indirizzo di pensiero che si richiama a Moore e alla seconda fase del pensiero di Wittgenstein, ma anche a Russell e a Frege.
I suoi principali esponenti fanno capo alle università inglesi di Cambridge e Oxford e a quella di Harvard, negli Stati Uniti. L'analisi a cui fa riferimento la filosofia analitica ha avuto una pluralità di significati. Quello prevalente ha identificato la filosofia con una sistematica e minuziosa analisi del linguaggio, volta, da un lato, ad esaminare i problemi posti dal linguaggio, con gli errori e i fraintendimenti che esso comporta, e, dall'altro, a individuare e a risolvere problemi chiarendo il significato delle proposizioni adottate. Anche se continueranno ad esservi sostenitori della necessità di costruire un "linguaggio perfetto" (i Costruttivisti) , la filosofia analitica ha, in larga misura, abbandonato il presupposto dell'assolutezza del linguaggio ideale e della messa in discussione del linguaggio ordinario in nome di un linguaggio ritenuto rigoroso e scientifico.
La filosofia analitica svolge soprattutto un'opera di ricerca e di chiarificazione concettuale e linguistica con la quale studia non solo il linguaggio scientifico, ma anche il linguaggio comune tanto da venire designata anche come "filosofia del linguaggio ordinario".In lui l'appello al linguaggio ordinario acquista maggior peso. Il linguaggio ordinario va preso in massima considerazione perché è "ricco" e quindi può costituire un utile strumento di analisi e paragone per il filosofo che lavora in aree "filosoficamente calde" e che si sono sviluppate magari sotto il segno della super-semplificazione. Austin definisce il linguaggio ordinario come oggetto privilegiato dell'analisi filosofica, assumendosi l'obiettivo di fare una specie di inventario delle più comuni espressioni che vi sono usate. Il linguaggio ordinario costituisce un oggetto di studio molto più ricco e significativo di quelli offerti dai saperi altamente formalizzati.
Heidegger e la ricerca di essere e tempo.
di Federica Bellucci
Un lunghissimo percorso filosofico che termina nel paradosso.
Essere e tempo sono due concetti intensi come una sorta di lunga Odissea moderna,un argomento cui il filosofo Heidegger dedicò ventanni della sua riflessione filosofica.Una ricerca del "senso" del quale, alla fine, rimane solo un annuncio: l'essere deve ancora essere analizzato. Finora, abbiamo considerato solo l'esserci; manca completamente il "senso".In Essere e tempo viene dunque formulato il problema che terrà occupato Heidegger per tutti i suoi giorni, quello dell'essere. Secondo Heidegger, la tradizione della metafisica ha mancato di riflettere sul problema dell'essere perchè, anche quando compare, non viene pensato in rapporto col tempo, come articolazione di passato, presente e futuro. Nella tradizione della metafisica l'essere è ridotto a ente e quindi viene tematizzato solo in quanto presente. Tale errore viene ricondotto a Platone ed Aristotele. Essi diedero vita ad una metafisica della presenza. Ma il presente, per Heidegger, può essere solo nella dimensione del tempo. Si tratta perciò di ritornare a pensare l'essere anche rispetto a passato e futuro, affinché l'essere non venga più pensato in una sola dimensione, la quale ha un carattere stabile, e solo per questo non può sfuggire al controllo ed al dominio del soggetto.Essere e tempo era quindi il titolo appropriato per l'opera che Heidegger voleva compiere. Il testo doveva includere due parti, ciascuna divisa in tre sezioni. Ma il progetto si interruppe alla seconda sezione della prima parte.
Fino al termine, il filo conduttore è fornito dall'analisi della condizione dell'uomo, ente privilegiato che è il Dasein, ovvero l'esserci. L'esserci ha questo privilegio, avendo sempre la possibilità di porsi il problema dell'essere. Secondo Heidegger, tale problema ha portata esistenziale, quindi ontologica, e non esistentiva, quindi ontica. La differenza di significato tra "ontico" ed "ontologico", già adottata da Husserl, è che una conoscenza ontica è di natura empirica, e non arriva alla cosa in sè, all'ente in quanto è.Quest'analisi non può dunque risolversi nell'antropologia o nella psicologia, tanto meno nella biologia. Il carattere ontico della conoscenza è ogni considerazione sull'ente che si ferma senza arrivare a mettere in questione il suo essere. Il carattere fondamentale dell'esserci umano è l'essere-nel-mondo, non il suo essere soggetto,anima o pensiero. Essere-nel-mondo non significa starci dentro come una cosa, ma assumere il mondo come orizzonte del progetto. La progettualità umana è definita trascendenza, che non è un comportamento possibile tra i tanti, ma la stessa costituzione fondamentale dell'esserci. D'altro canto, il mondo non è una cosa, ma il campo di possibilità dell'umano trascendere. Dunque l'esserci ek-siste nelo senso etimologico della parola, "sta fuori" ed "oltrepassa" la realtà in direzione della possibilità.
Insistendo su tale differenza tra la propria concezione di esistenza e quella tradizionale, Heidegger può dire che l'essenza dell'essere umano è l'esistenza. Tuttavia, i modi d'essere dell'ek-sistere non sono descrivibili mediante categorie. Con esse si determinano le caratteristiche delle cose semplicemente presenti. I modi d'essere dell'esistenza si determinano attraverso esistenziali, nei quali, a differenza che nelle categorie, è custodita la possibilità. La temporalità non è, per Heidegger, il tempo dei calendari e degli orologi che misurano e datano gli eventi. Non è nemmeno il tempo soggettivo della coscienza pura. Piuttosto, la temporalità si manifesta in primo luogo nell'essere-per-il-futuro dell'esserci in senso pratico, che può risultare autentico o inautentico. Nell'esistenza autentica la cura dell'esserci è dispersa nel mondo. Nella vita autentica, al contrario, l'esserci deve scegliere la possibilità più possibile. E proprio nel momento della più autentica libertà, l'esserci viene a trovarsi dipendente, quindi asservito, da possibolità tramandate e ereditate. Quindi l'esserci autentico ha uno sguardo temporale rivolto al passato, oltre che al presente ed al futuro. In tale contesto, l'esserci autentico si può appropriare del proprio destino.
Essere e tempo sono due concetti intensi come una sorta di lunga Odissea moderna,un argomento cui il filosofo Heidegger dedicò ventanni della sua riflessione filosofica.Una ricerca del "senso" del quale, alla fine, rimane solo un annuncio: l'essere deve ancora essere analizzato. Finora, abbiamo considerato solo l'esserci; manca completamente il "senso".In Essere e tempo viene dunque formulato il problema che terrà occupato Heidegger per tutti i suoi giorni, quello dell'essere. Secondo Heidegger, la tradizione della metafisica ha mancato di riflettere sul problema dell'essere perchè, anche quando compare, non viene pensato in rapporto col tempo, come articolazione di passato, presente e futuro. Nella tradizione della metafisica l'essere è ridotto a ente e quindi viene tematizzato solo in quanto presente. Tale errore viene ricondotto a Platone ed Aristotele. Essi diedero vita ad una metafisica della presenza. Ma il presente, per Heidegger, può essere solo nella dimensione del tempo. Si tratta perciò di ritornare a pensare l'essere anche rispetto a passato e futuro, affinché l'essere non venga più pensato in una sola dimensione, la quale ha un carattere stabile, e solo per questo non può sfuggire al controllo ed al dominio del soggetto.Essere e tempo era quindi il titolo appropriato per l'opera che Heidegger voleva compiere. Il testo doveva includere due parti, ciascuna divisa in tre sezioni. Ma il progetto si interruppe alla seconda sezione della prima parte.
Fino al termine, il filo conduttore è fornito dall'analisi della condizione dell'uomo, ente privilegiato che è il Dasein, ovvero l'esserci. L'esserci ha questo privilegio, avendo sempre la possibilità di porsi il problema dell'essere. Secondo Heidegger, tale problema ha portata esistenziale, quindi ontologica, e non esistentiva, quindi ontica. La differenza di significato tra "ontico" ed "ontologico", già adottata da Husserl, è che una conoscenza ontica è di natura empirica, e non arriva alla cosa in sè, all'ente in quanto è.Quest'analisi non può dunque risolversi nell'antropologia o nella psicologia, tanto meno nella biologia. Il carattere ontico della conoscenza è ogni considerazione sull'ente che si ferma senza arrivare a mettere in questione il suo essere. Il carattere fondamentale dell'esserci umano è l'essere-nel-mondo, non il suo essere soggetto,anima o pensiero. Essere-nel-mondo non significa starci dentro come una cosa, ma assumere il mondo come orizzonte del progetto. La progettualità umana è definita trascendenza, che non è un comportamento possibile tra i tanti, ma la stessa costituzione fondamentale dell'esserci. D'altro canto, il mondo non è una cosa, ma il campo di possibilità dell'umano trascendere. Dunque l'esserci ek-siste nelo senso etimologico della parola, "sta fuori" ed "oltrepassa" la realtà in direzione della possibilità.
Insistendo su tale differenza tra la propria concezione di esistenza e quella tradizionale, Heidegger può dire che l'essenza dell'essere umano è l'esistenza. Tuttavia, i modi d'essere dell'ek-sistere non sono descrivibili mediante categorie. Con esse si determinano le caratteristiche delle cose semplicemente presenti. I modi d'essere dell'esistenza si determinano attraverso esistenziali, nei quali, a differenza che nelle categorie, è custodita la possibilità. La temporalità non è, per Heidegger, il tempo dei calendari e degli orologi che misurano e datano gli eventi. Non è nemmeno il tempo soggettivo della coscienza pura. Piuttosto, la temporalità si manifesta in primo luogo nell'essere-per-il-futuro dell'esserci in senso pratico, che può risultare autentico o inautentico. Nell'esistenza autentica la cura dell'esserci è dispersa nel mondo. Nella vita autentica, al contrario, l'esserci deve scegliere la possibilità più possibile. E proprio nel momento della più autentica libertà, l'esserci viene a trovarsi dipendente, quindi asservito, da possibolità tramandate e ereditate. Quindi l'esserci autentico ha uno sguardo temporale rivolto al passato, oltre che al presente ed al futuro. In tale contesto, l'esserci autentico si può appropriare del proprio destino.
Royce e la nuova analisi tra idea e realtà.
di Federica Bellucci
Una profonda riflessione sui legami tra idea e realtà.
Royce fu un grande filosofo statunitense che si formò alle università di California e John Hopkins e fu principale allievo di W. James.Da giovane accademico visse in Germania, dove collaborò molto con Lotze. Insegnò anche ad Harvard. Punto focale nell'idealismo di Royce è la ridiscussione dei legami tra idea e realtà. Royce soleva distinguere tra un significato esterno di idea (il riferimento a una realtà altra di cui essa è appunto idea) e uno interno (il fine che ci si propone formulando l'idea stessa): l'unico legame vero esistente tra idea e realtà è l'assimilazione della realtà esterna dell'idea all'intenzione che ne costituisce il significato interno; l'idea non ha così una realtà, ma tende a essa nel realizzarsi, si determina precisando il proprio significato e fine eliminando le possibilità marginali. Ma tale realizzazione può effettuarsi solo nell'ambito di una coscienza totale, in cui ogni coscienza individuale sia integrata. Royce concepisce la totalità assoluta come compatibile con le sotto-totalità rappresentate dalle coscienze finite, utilizzando il concetto di numero come sistema autorappresentativo (un tutto le cui parti sono a loro volta totalità in corrispondenza con esso) sviluppato da Cantor e Dedekind.
É così possibile eliminare l'aporia in cui cade il finito secondo Bradley. Nell'ultima fase del suo pensiero Royce riaffronta il problema dei rapporti fra finito e assoluto concependo un processo di unificazione dei singoli soggetti, nell'interpretazione da essi data del mondo come sistema di segni, e che conduce alla costituzione di una comunità.Egli concepisce anzitutto l'idealismo come quell'"analisi che consiste semplicemente nel mettere in luce che il mondo della conoscenza, checché esso contenga, è materiato della stessa sostanza di cui son fatte le idee", cioè nel mostrare che tutto il reale "non è per ognuno di noi che un sistema di idee". Consideriamo, egli dice, "il nostro cosí reale mondo dei sensi, pieno di luce, di calore, di suono"; la sua "solidità", la sua "esteriorità", ce lo fanno apparire, a prima vista, come "ostinato", "semplicemente rigido", "irriducibile" alla volontà dell'uomo. Eppure noi sappiamo che possiamo in qualche misura modificarlo. Ciò significa forse ch'esso, nonostante l'apparenza, sia sostanzialmente duttile all'azione dell'uomo? No, esso ci sembra rimanere pur sempre in qualche modo irriducibile: "La materia, ad esempio, è irriducibile quando ci sta contro in dure muraglie"; e che dire della irriducibilità delle "menti", come ad esempio di quella di una fanciulla riluttante all'amore?
Dunque tutto il mondo di cui abbiamo esperienza, appare non dipendere da noi; appare avere una sua "realtà" non conferita da noi.Dio infatti è una realtà che contiene in sé le infinite menti umane in modo che ognuna rappresenta la totalità del contenente. In tal senso Dio è infinito, ma infinito è anche ogni singolo spirito umano; e tale infinità non nullifica la finitezza e la molteplicità dei singoli. Quanto all'universo, esso è l'insieme di "segni reali"; per l'uomo esso è l'"interpretazione" di quei segni; proprio tale interpretazione rende gli uomini una "comunità spirituale" di natura universale e divina. In e per questa comunità l'individuo conosce il vero e pratica il bene; vero e bene che non sono quindi accessibili all'individuo in quanto tale, ma in quanto membro di quella comunità che dà la sua "interpretazione" dei "segni reali". L'idea di una tale comunità è ciò che rende fecondo il cristianesimo, che appunto indica nell'amore proprio la "fedeltà" dell'individuo alla comunità, e, insieme, il criterio per valutare fini compiti e azioni.
Royce fu un grande filosofo statunitense che si formò alle università di California e John Hopkins e fu principale allievo di W. James.Da giovane accademico visse in Germania, dove collaborò molto con Lotze. Insegnò anche ad Harvard. Punto focale nell'idealismo di Royce è la ridiscussione dei legami tra idea e realtà. Royce soleva distinguere tra un significato esterno di idea (il riferimento a una realtà altra di cui essa è appunto idea) e uno interno (il fine che ci si propone formulando l'idea stessa): l'unico legame vero esistente tra idea e realtà è l'assimilazione della realtà esterna dell'idea all'intenzione che ne costituisce il significato interno; l'idea non ha così una realtà, ma tende a essa nel realizzarsi, si determina precisando il proprio significato e fine eliminando le possibilità marginali. Ma tale realizzazione può effettuarsi solo nell'ambito di una coscienza totale, in cui ogni coscienza individuale sia integrata. Royce concepisce la totalità assoluta come compatibile con le sotto-totalità rappresentate dalle coscienze finite, utilizzando il concetto di numero come sistema autorappresentativo (un tutto le cui parti sono a loro volta totalità in corrispondenza con esso) sviluppato da Cantor e Dedekind.
É così possibile eliminare l'aporia in cui cade il finito secondo Bradley. Nell'ultima fase del suo pensiero Royce riaffronta il problema dei rapporti fra finito e assoluto concependo un processo di unificazione dei singoli soggetti, nell'interpretazione da essi data del mondo come sistema di segni, e che conduce alla costituzione di una comunità.Egli concepisce anzitutto l'idealismo come quell'"analisi che consiste semplicemente nel mettere in luce che il mondo della conoscenza, checché esso contenga, è materiato della stessa sostanza di cui son fatte le idee", cioè nel mostrare che tutto il reale "non è per ognuno di noi che un sistema di idee". Consideriamo, egli dice, "il nostro cosí reale mondo dei sensi, pieno di luce, di calore, di suono"; la sua "solidità", la sua "esteriorità", ce lo fanno apparire, a prima vista, come "ostinato", "semplicemente rigido", "irriducibile" alla volontà dell'uomo. Eppure noi sappiamo che possiamo in qualche misura modificarlo. Ciò significa forse ch'esso, nonostante l'apparenza, sia sostanzialmente duttile all'azione dell'uomo? No, esso ci sembra rimanere pur sempre in qualche modo irriducibile: "La materia, ad esempio, è irriducibile quando ci sta contro in dure muraglie"; e che dire della irriducibilità delle "menti", come ad esempio di quella di una fanciulla riluttante all'amore?
Dunque tutto il mondo di cui abbiamo esperienza, appare non dipendere da noi; appare avere una sua "realtà" non conferita da noi.Dio infatti è una realtà che contiene in sé le infinite menti umane in modo che ognuna rappresenta la totalità del contenente. In tal senso Dio è infinito, ma infinito è anche ogni singolo spirito umano; e tale infinità non nullifica la finitezza e la molteplicità dei singoli. Quanto all'universo, esso è l'insieme di "segni reali"; per l'uomo esso è l'"interpretazione" di quei segni; proprio tale interpretazione rende gli uomini una "comunità spirituale" di natura universale e divina. In e per questa comunità l'individuo conosce il vero e pratica il bene; vero e bene che non sono quindi accessibili all'individuo in quanto tale, ma in quanto membro di quella comunità che dà la sua "interpretazione" dei "segni reali". L'idea di una tale comunità è ciò che rende fecondo il cristianesimo, che appunto indica nell'amore proprio la "fedeltà" dell'individuo alla comunità, e, insieme, il criterio per valutare fini compiti e azioni.
Kuhn e la sua lotta ai paradigmi dogmatici.
di Federica Bellucci
La filosofia americana nelle teorie di un pensatore indimenticato.
Di notevole pregio è stata la riflessione filosofica fatta dallo statunitense Thomas Kuhn,fondatore della celebre Scuola di Boston.Per Kuhn è l'abbandono del discorso critico a determinare la transizione della scienza matura, qui sorgerà poi la sua ortodossia indiscussa.Già il percorso teorico di Feyerabend, aveva condotto verso una forte critica dei paradigmi alternativi e delle anomalie diventando avvertibili. Ma ci si può spingere oltre arrivando alla proliferazione di teorie che riescono anche a criticarsi vicendevolmente nell'ambito di un concreto consenso dogmatico? Kuhn e i suoi colleghi della Scuola di Boston ci parlano di "rivoluzione permanente"radicalizzando il compito dei controlli critici di Popper, e si apprestano a dirigersi verso criteri liberal nell'ambito della proliferazione di concezioni di puro anarchismo dogmatico.La "società chiusa" ipotizzata dai vecchi filosofi è adesso non compatibile con la società libera (o aperta), che tramuta le città della scienza in veri modelli di democrazia.
Per il pensiero di Kuhn seguendo l'ideale popperiano si arriva alla falsificabilità o controllabilità delle idee che comunque rimane l'unico vero modo di discernere scienza e follia, ipotesi critiche e dogmatismo. Kuhn nel suo famoso saggio La rivoluzione copernicana (1957), espose una riflessione molto accurata affermando che il cammino della scienza si dirama non per accumulazioni, secondo una crescita continua, ma attraverso rivoluzioni . Le rivoluzioni, però, nella storia dell'umanità sono dei rari istanti di eccezionalità rispetto a quella che egli definisce scienza normale , ovvero una tecnica di ricerca comodamente basata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, sui quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, costruisce il fondamento della sua nuova teoria e prassi. La scienza normale è quindi per Kuhn caratterizzata da un'approvazione sulla validità di questi risultati, che diventano criticamente dei paradigmi , ossia modelli che ci permettono di determinare quali sono i problemi e i metodi legittimi e originano di conseguenza le teorie della ricerca scientifica e filosofica.Così accade per l' astronomia tolemaica o copernicana o per le teorie newtoniane.
I paradigmi però non devono assolutamente essere regole rigide, ma devono avere due caratteristiche: la prima di esse è la novità.Una novità stabile e sufficientemente ampia di seguaci, in virtù della quale gli studiosi siano distolti da forme di attività scientifica differenti in contrasto con essa.Ma i paradigmi devono essere anche aperti in modo da consentire di risolvere i problemi teorici. La scienza filosofica quindi se costruita su tali basi mira a produrre novità, cerca di risolvere problemi nell'ambito di procedure riconosciute.Ma nel passo finale del suo saggio Kuhn definisce la via, affermando che il progresso della scienza è sempre accompagnato da una perdita, da un restringimento di settori e competenze, che confina troppo la comunicazione; ma tale progresso non sempre è indirizzato alla ricerca della verità, ma al massimo ad una crescente corrispondenza con la realtà. Insomma si può agevolmente affermare che si conosce il punto d'origine di una ricerca filosofica ma la meta verso cui si tende,quella che Kant definita "la cosa",rimane non conoscibile.
Di notevole pregio è stata la riflessione filosofica fatta dallo statunitense Thomas Kuhn,fondatore della celebre Scuola di Boston.Per Kuhn è l'abbandono del discorso critico a determinare la transizione della scienza matura, qui sorgerà poi la sua ortodossia indiscussa.Già il percorso teorico di Feyerabend, aveva condotto verso una forte critica dei paradigmi alternativi e delle anomalie diventando avvertibili. Ma ci si può spingere oltre arrivando alla proliferazione di teorie che riescono anche a criticarsi vicendevolmente nell'ambito di un concreto consenso dogmatico? Kuhn e i suoi colleghi della Scuola di Boston ci parlano di "rivoluzione permanente"radicalizzando il compito dei controlli critici di Popper, e si apprestano a dirigersi verso criteri liberal nell'ambito della proliferazione di concezioni di puro anarchismo dogmatico.La "società chiusa" ipotizzata dai vecchi filosofi è adesso non compatibile con la società libera (o aperta), che tramuta le città della scienza in veri modelli di democrazia.
Per il pensiero di Kuhn seguendo l'ideale popperiano si arriva alla falsificabilità o controllabilità delle idee che comunque rimane l'unico vero modo di discernere scienza e follia, ipotesi critiche e dogmatismo. Kuhn nel suo famoso saggio La rivoluzione copernicana (1957), espose una riflessione molto accurata affermando che il cammino della scienza si dirama non per accumulazioni, secondo una crescita continua, ma attraverso rivoluzioni . Le rivoluzioni, però, nella storia dell'umanità sono dei rari istanti di eccezionalità rispetto a quella che egli definisce scienza normale , ovvero una tecnica di ricerca comodamente basata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, sui quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, costruisce il fondamento della sua nuova teoria e prassi. La scienza normale è quindi per Kuhn caratterizzata da un'approvazione sulla validità di questi risultati, che diventano criticamente dei paradigmi , ossia modelli che ci permettono di determinare quali sono i problemi e i metodi legittimi e originano di conseguenza le teorie della ricerca scientifica e filosofica.Così accade per l' astronomia tolemaica o copernicana o per le teorie newtoniane.
I paradigmi però non devono assolutamente essere regole rigide, ma devono avere due caratteristiche: la prima di esse è la novità.Una novità stabile e sufficientemente ampia di seguaci, in virtù della quale gli studiosi siano distolti da forme di attività scientifica differenti in contrasto con essa.Ma i paradigmi devono essere anche aperti in modo da consentire di risolvere i problemi teorici. La scienza filosofica quindi se costruita su tali basi mira a produrre novità, cerca di risolvere problemi nell'ambito di procedure riconosciute.Ma nel passo finale del suo saggio Kuhn definisce la via, affermando che il progresso della scienza è sempre accompagnato da una perdita, da un restringimento di settori e competenze, che confina troppo la comunicazione; ma tale progresso non sempre è indirizzato alla ricerca della verità, ma al massimo ad una crescente corrispondenza con la realtà. Insomma si può agevolmente affermare che si conosce il punto d'origine di una ricerca filosofica ma la meta verso cui si tende,quella che Kant definita "la cosa",rimane non conoscibile.
Lakatos e il falsificazionismo dogmatico.
di Federica Bellucci
Tra euristica e filosofia matematica.Un nuovo percorso.
Lakatos fu un profondo filosofo ungherese dal pensiero fine e limpido che nella prima metà del '900 stupì molto gli ambienti accademici di Cambridge e della prestigiosa London School of Economics, dove si distinse come allievo di Popper, per poi sostituirlo nella sua stessa cattedra.Fin dagli inizi ebbe grande interesse per la filosofia della matematica e si dedicò poi dopo anche alla filosofia delle scienze empiriche.La riflessione filosofica di Lakatos, pur muovendosi all'interno dell'universo popperiano, si schiera contro sia il falsicazionismo dogmatico, ovvero l'idea che la scoperta di un solo elemento contrario può portare all'automatica falsificazione di una teoria (Lakatos sottolinea che nessuno neppure Popper ha mai appoggiato una tesi siffatta) sia il falsificazionismo metodologico puro, consistente nel credere che la storia della scienza sia come una perenne tensione fra le teorie e i fatti. Il pensiero di Lakatos, che mantiene in considerazione le molte critiche fatte da autori come Kuhn, Feyerabend e Agassi, è quella del cosiddetto falsificazionismo metodologico complesso,per il quale la lunga battaglia teorica è solo tra fatti e almeno due teorie o quelli che lui denomina,programmi di ricerca scientifici, in tensione fra essi.
Venendo allo specifico il programma di ricerca è costituito da una susseguirsi di teorie che si sviluppano partendo da un nucleo centrale che, per assunto metodologico, deve considerarsi non falsificabile. Seguendo tale ragionamento, un programma ha la possibilità almeno potenziale di dimostrare il suo valore, e la sua vera progressività in antagonismo con un altro programma. Un programma di ricerca non ha come elemento caratterizzante solo il proprio nucleo non falsificabile, ma anche una sorta di barriera protettiva, formata da una folta schiera di teorie ausiliarie e di supporto che esistono nella specifica funzione di proteggere il nucleo centrale da attacchi di altre teorie differenti.L'esistenza quindi di un nucleo non falsificabile fa si che ogni programma, almeno dal punto di vista epistemologico, si sviluppi in un vero universo di anomalie e che, allo stesso tempo, le cosiddette confutazioni finiscano col perdere importanza o , comunque, finiscano con l'essere considerate come semplici ed ovvi problemi da risolvere. Solo se si manifestano reali e successive modificazioni della barriera teorica protettiva allora non si possono più predire fatti nuovi e così facendo il programma di ricerca inizia una fase di lento regresso.Tale regresso però non è ancora tale da portare all'abbandono del programma di ricerca, poiché, affinché accada questo, è obbligatoria e decisiva l'esistenza di un altro programma, che sia capace di spiegare e di prevedere un maggior numero di fatti nuovi, solo allora risulterà giusto e razionale abbandonare il programma da parte della comunità scientifica.
Quindi Lakatos arriva ad affermare che nella storia della scienza, una teoria viene messa da parte ed abbandonata non quando qualche fatto si trova in contrasto con essa, ma solo quando la comunità scientifica entra in possesso di una teoria migliore. Con un esempio si può ancora meglio comprendere;se prendiamo la meccanica di Newton, anche se ricca di moltissime anomalie, venne abbandonata solo dopo si sviluppò e diffuse la famosa teoria di Einstein. Questo è il centro teorico della riflessione lakatosiana della scienza e della storia della scienza. La scienza quindi risulta essere un vero campo di battaglia per programmi di ricerca piuttosto che per teorie isolate. La scienza complessa e razionale è formata da programmi di ricerca che arrivano a prevedere non soltanto fatti nuovi, ma, anche nuove teorie di supporto ed ausilio.La scienza complessa a differenza del semplicistico e ovvio schema del prova-errore, ha un salvifico potere euristico. In questo modo risulta evidente per Lakatos, la debolezza di alcuni programmi che, come il Marxismo e il Freudismo, finiscono per plasmare le proprie specifiche teorie ausiliarie sulla lunga scia di alcuni fatti, senza però riuscire in modo chiaro a prevederne di nuovi.
Lakatos fu un profondo filosofo ungherese dal pensiero fine e limpido che nella prima metà del '900 stupì molto gli ambienti accademici di Cambridge e della prestigiosa London School of Economics, dove si distinse come allievo di Popper, per poi sostituirlo nella sua stessa cattedra.Fin dagli inizi ebbe grande interesse per la filosofia della matematica e si dedicò poi dopo anche alla filosofia delle scienze empiriche.La riflessione filosofica di Lakatos, pur muovendosi all'interno dell'universo popperiano, si schiera contro sia il falsicazionismo dogmatico, ovvero l'idea che la scoperta di un solo elemento contrario può portare all'automatica falsificazione di una teoria (Lakatos sottolinea che nessuno neppure Popper ha mai appoggiato una tesi siffatta) sia il falsificazionismo metodologico puro, consistente nel credere che la storia della scienza sia come una perenne tensione fra le teorie e i fatti. Il pensiero di Lakatos, che mantiene in considerazione le molte critiche fatte da autori come Kuhn, Feyerabend e Agassi, è quella del cosiddetto falsificazionismo metodologico complesso,per il quale la lunga battaglia teorica è solo tra fatti e almeno due teorie o quelli che lui denomina,programmi di ricerca scientifici, in tensione fra essi.
Venendo allo specifico il programma di ricerca è costituito da una susseguirsi di teorie che si sviluppano partendo da un nucleo centrale che, per assunto metodologico, deve considerarsi non falsificabile. Seguendo tale ragionamento, un programma ha la possibilità almeno potenziale di dimostrare il suo valore, e la sua vera progressività in antagonismo con un altro programma. Un programma di ricerca non ha come elemento caratterizzante solo il proprio nucleo non falsificabile, ma anche una sorta di barriera protettiva, formata da una folta schiera di teorie ausiliarie e di supporto che esistono nella specifica funzione di proteggere il nucleo centrale da attacchi di altre teorie differenti.L'esistenza quindi di un nucleo non falsificabile fa si che ogni programma, almeno dal punto di vista epistemologico, si sviluppi in un vero universo di anomalie e che, allo stesso tempo, le cosiddette confutazioni finiscano col perdere importanza o , comunque, finiscano con l'essere considerate come semplici ed ovvi problemi da risolvere. Solo se si manifestano reali e successive modificazioni della barriera teorica protettiva allora non si possono più predire fatti nuovi e così facendo il programma di ricerca inizia una fase di lento regresso.Tale regresso però non è ancora tale da portare all'abbandono del programma di ricerca, poiché, affinché accada questo, è obbligatoria e decisiva l'esistenza di un altro programma, che sia capace di spiegare e di prevedere un maggior numero di fatti nuovi, solo allora risulterà giusto e razionale abbandonare il programma da parte della comunità scientifica.
Quindi Lakatos arriva ad affermare che nella storia della scienza, una teoria viene messa da parte ed abbandonata non quando qualche fatto si trova in contrasto con essa, ma solo quando la comunità scientifica entra in possesso di una teoria migliore. Con un esempio si può ancora meglio comprendere;se prendiamo la meccanica di Newton, anche se ricca di moltissime anomalie, venne abbandonata solo dopo si sviluppò e diffuse la famosa teoria di Einstein. Questo è il centro teorico della riflessione lakatosiana della scienza e della storia della scienza. La scienza quindi risulta essere un vero campo di battaglia per programmi di ricerca piuttosto che per teorie isolate. La scienza complessa e razionale è formata da programmi di ricerca che arrivano a prevedere non soltanto fatti nuovi, ma, anche nuove teorie di supporto ed ausilio.La scienza complessa a differenza del semplicistico e ovvio schema del prova-errore, ha un salvifico potere euristico. In questo modo risulta evidente per Lakatos, la debolezza di alcuni programmi che, come il Marxismo e il Freudismo, finiscono per plasmare le proprie specifiche teorie ausiliarie sulla lunga scia di alcuni fatti, senza però riuscire in modo chiaro a prevederne di nuovi.
Feyerabend e l'anarchia epistemologica.
di Federica Bellucci
L'ideatore dell'anarchismo epistemologico e del puro relativismo.
Un percorso filosofico dai confini estremi e paradossali è certamente presente nel pensiero del filosofo viennese Paul Feyerabend,principale allievo di Wittgenstein e poi più a lungo di Popper, protagonista di una forte collaborazione accademica con studiosi come Kuhn e Lakatos. Feyerabend ha compiuto verso l'epistemologia neopositivistica una critica impietosa che ha presto riguardato tutta la tradizione razionalistica, non escluso il "razionalismo critico" popperiano.La polemica feyerabendiana nei confronti degli errori del pensiero neopositivistico (e in parte popperiano) è davvero enorme e radicale. Seguendo il pensiero neopsitivista,afferma Feyerabend, la scienza è una costruzione esclusivamente teorico-cognitiva 'pura' contraddistinta dall'osservanza di principi procedurali precisi e invarianti (il cosiddetto 'metodo'), e quindi una scienza basata sul giudizio secondo criteri prettamente teorici-'puri' e universali. Il filosofo austriaco è critico propone una concezione epismetologica alternativa,nuova e profondamente diversa. Per Feyerabend la scienza è anzitutto un'impresa nella maggior parte dei casi 'impura', nel senso che nasce,si sviluppa e si orienta sulla base di forti componenti storico-culturali, pratico-sociali e perfino ideologiche.
Quindi per egli sono interessi e fini reali molto più che astratti criteri teorico-epistemologici a fungere da guida e sviluppare il cammino della scienza e del sapere. In secondo luogo, la scienza di cui si parla è in perenne cammino nel vero senso della parola. Mentre la tradizione razionalistico-popperiana ha concepito un'idea fondamentalmente univoca ed a-temporale della scienza vera, Feyerabend evidenzia invece che vi sia una grande dimensione temporale, dinamica e irriducibilmente plurale del sapere scientifico. Parte proprio da questo concetto ben critico che , contrapponendosi di nuovo in modo frontale a una specifica ideologia epistemologica, il filosofo austriaco evidenzia la vera costitutiva storicità e la conseguente soggezione al mutamento dei princìpi, dei metodi e degli obiettivi della scienza.Proprio partendo da ciò Feyerabend ha proposto una radicale 'liberalizzazione' dell'epistemologia razionalistico-'metodologica' tradizionale . Una teoria nuova che parte dapprima dall'individuazione e dalla valorizzazione dei metodi, delle procedure (talora inattese e sorprendenti) che la scienza ha da sempre posto alla sua base e grazie ai quali la scienza stessa ha acquistato sempre maggior forza ed efficacia.
E' da questa prima origine che Feyerabend arriva infine ad affermare la sua concezione teorica più famosa ma anche più dibattutta ovvero il cosiddetto " anarchismo epistemologico ". Esso teoricamente ha come fondamento due princìpi strettamente collegati tra di loro: la risoluta negazione (che presenta anche elementi estremistici e provocatori) della necessità; e la tesi (non meno paradossale) che, nella scienza, " ogni cosa vada bene ": nel senso che la ricerca empirica e scientifica è così congeniata da potersi avvalere, per i propri obiettivi, delle astuzie della ragione più diverse, imprevedibili e trasgressive.Alla luce di queste sue teorie provocatorie non deve sorprendere che l'epistemologia feyerabendiana ci porti in modo diretto ad esiti radicalmente pragmatici,una sorta di relativismo puro. Da una parte la valutazione e la stessa interpretazione della teoria ha come pilastri criteri in larga misura extra-logici e non per forza di cose necessariamente cognitivi: l'opzione di una specifica teoria, ben lontana dal possedere un fondamento razionale-oggettivo, risponde quindi essenzialmente a bisogni e fini di natura pratica.Eccola vera novità di Feyerabend.
Un percorso filosofico dai confini estremi e paradossali è certamente presente nel pensiero del filosofo viennese Paul Feyerabend,principale allievo di Wittgenstein e poi più a lungo di Popper, protagonista di una forte collaborazione accademica con studiosi come Kuhn e Lakatos. Feyerabend ha compiuto verso l'epistemologia neopositivistica una critica impietosa che ha presto riguardato tutta la tradizione razionalistica, non escluso il "razionalismo critico" popperiano.La polemica feyerabendiana nei confronti degli errori del pensiero neopositivistico (e in parte popperiano) è davvero enorme e radicale. Seguendo il pensiero neopsitivista,afferma Feyerabend, la scienza è una costruzione esclusivamente teorico-cognitiva 'pura' contraddistinta dall'osservanza di principi procedurali precisi e invarianti (il cosiddetto 'metodo'), e quindi una scienza basata sul giudizio secondo criteri prettamente teorici-'puri' e universali. Il filosofo austriaco è critico propone una concezione epismetologica alternativa,nuova e profondamente diversa. Per Feyerabend la scienza è anzitutto un'impresa nella maggior parte dei casi 'impura', nel senso che nasce,si sviluppa e si orienta sulla base di forti componenti storico-culturali, pratico-sociali e perfino ideologiche.
Quindi per egli sono interessi e fini reali molto più che astratti criteri teorico-epistemologici a fungere da guida e sviluppare il cammino della scienza e del sapere. In secondo luogo, la scienza di cui si parla è in perenne cammino nel vero senso della parola. Mentre la tradizione razionalistico-popperiana ha concepito un'idea fondamentalmente univoca ed a-temporale della scienza vera, Feyerabend evidenzia invece che vi sia una grande dimensione temporale, dinamica e irriducibilmente plurale del sapere scientifico. Parte proprio da questo concetto ben critico che , contrapponendosi di nuovo in modo frontale a una specifica ideologia epistemologica, il filosofo austriaco evidenzia la vera costitutiva storicità e la conseguente soggezione al mutamento dei princìpi, dei metodi e degli obiettivi della scienza.Proprio partendo da ciò Feyerabend ha proposto una radicale 'liberalizzazione' dell'epistemologia razionalistico-'metodologica' tradizionale . Una teoria nuova che parte dapprima dall'individuazione e dalla valorizzazione dei metodi, delle procedure (talora inattese e sorprendenti) che la scienza ha da sempre posto alla sua base e grazie ai quali la scienza stessa ha acquistato sempre maggior forza ed efficacia.
E' da questa prima origine che Feyerabend arriva infine ad affermare la sua concezione teorica più famosa ma anche più dibattutta ovvero il cosiddetto " anarchismo epistemologico ". Esso teoricamente ha come fondamento due princìpi strettamente collegati tra di loro: la risoluta negazione (che presenta anche elementi estremistici e provocatori) della necessità; e la tesi (non meno paradossale) che, nella scienza, " ogni cosa vada bene ": nel senso che la ricerca empirica e scientifica è così congeniata da potersi avvalere, per i propri obiettivi, delle astuzie della ragione più diverse, imprevedibili e trasgressive.Alla luce di queste sue teorie provocatorie non deve sorprendere che l'epistemologia feyerabendiana ci porti in modo diretto ad esiti radicalmente pragmatici,una sorta di relativismo puro. Da una parte la valutazione e la stessa interpretazione della teoria ha come pilastri criteri in larga misura extra-logici e non per forza di cose necessariamente cognitivi: l'opzione di una specifica teoria, ben lontana dal possedere un fondamento razionale-oggettivo, risponde quindi essenzialmente a bisogni e fini di natura pratica.Eccola vera novità di Feyerabend.
Nancy e l'analisi decostruttiva della realtà.
di Federica Bellucci
La fine dell'occidente in un percorso di logica contingenza.
Jean Luc Nancy è da considerarsi, insieme ad Alain Badiou, Jacques Ranciere come una delle voci più significative della filosofia contemporanea francese, dopo la generazione di Foucault, Deleuze, Derrida, Lacan.Basilare nella sua riflessione è l'analisi che egli sviluppa sulla contemporaneità: nello specifico riguardo la consunzione del rapporto tra modernità e metafisica, e del modo in cui la modernità abbia svuotato e decostruito la metafisica ma allo stesso tempo portato ad esaurimento se stessa con la medesima azione decostruttiva.Nancy attiva la sua analisi come un’indagine fenomenologica cercando di scandagliare tale rapporto. Il metodo adottato da Nancy è quello di posizionarsi in mezzo alla rottura epocale consumatasi alla fine del XX secolo, la cui caratteristica principale è stata la chiusura definitiva della storia dell’Occidente e della metafisica collegati alla dissoluzione del contatto religioso e cristiano che ancora teneva insieme il mondo occidentale nel secolo scorso.
Il crollo dell’occidente e della metafisica, sono argomenti molto battuti dalla filosofia del XX secolo e già in precedenza celebrità come Marx, Freud, Nietzsche, Heidegger, avevano cominciato la riflessione a riguardo. Ma adesso queste riflessioni secondo Nancy trovano il loro compimento dentro l’attuale fase storica del mondo con l’esplosione del processo di globalizzazione e mondializzazione che crea per la prima volta la totale coincidenza del mondo con se stesso. Perciò si deve affermare che il mondo è la stessa esperienza che il mondo fa di se stesso, che coincide con il percorrersi nel profondo da un lato all'altro. Ma attraverso questo percorso profondo il mondo si riscopre peggiore e profondamente segnato da lacerazioni e contraddizioni dice Nancy.La globalizzazione ha prodotto effetti negati tramutando il globo in glomus, pura agglomerato, ammasso, accumulazione che polarizza il benessere tutto da una parte (quartieri,case,città) e nel resto si avverte una infinita miseria,con poche speranze. I questo glomus osserviamo ammaliati la crescita senza sosta della tecnoscienza, la crescita correlativa della popolazione, l’aggravamento delle ineguaglianze generali, la perdita delle certezze e delle identità che in passato davano garanzie al mondo e alla nostra stessa umanità.
La civiltà occidentale che ha creato la ragione e la visione dell'universale,purtroppo adesso non è più il centro del mondo.Affermare che Dio è morto non diventa una frase da atei,un atto di aggressione verso il cristianesimo, ma semplicemente la meta di un logico risultato del cristianesimo stesso. Nancy arriva a soffermarsi sulla preghiera per liberarci da Dio stesso.Se Dio muore il mondo non dipende più da un assoluto ed infallibile creatore, né da qualsiasi elemento esterno. E per Dio non si intende per forza quello del Cristianesimo ma anche il Dio della metafisica,dell’ontoteologia.Un Dio che si sveste di tutti gli attributi divini di un’esistenza indipendente, per diventare parte di un mondo immanente, intrappolato in una vita anfibiologa e nel medesimo istante fatta di contingenza. Nancy ci richiama alla memoria il Dio di Spinoza definito causa immanente del mondo,per il filosofo francese questo Dio crea il migliore dei mondi ma poi si limita a diventarne ragione interna nell’ordine generale delle cose.
Jean Luc Nancy è da considerarsi, insieme ad Alain Badiou, Jacques Ranciere come una delle voci più significative della filosofia contemporanea francese, dopo la generazione di Foucault, Deleuze, Derrida, Lacan.Basilare nella sua riflessione è l'analisi che egli sviluppa sulla contemporaneità: nello specifico riguardo la consunzione del rapporto tra modernità e metafisica, e del modo in cui la modernità abbia svuotato e decostruito la metafisica ma allo stesso tempo portato ad esaurimento se stessa con la medesima azione decostruttiva.Nancy attiva la sua analisi come un’indagine fenomenologica cercando di scandagliare tale rapporto. Il metodo adottato da Nancy è quello di posizionarsi in mezzo alla rottura epocale consumatasi alla fine del XX secolo, la cui caratteristica principale è stata la chiusura definitiva della storia dell’Occidente e della metafisica collegati alla dissoluzione del contatto religioso e cristiano che ancora teneva insieme il mondo occidentale nel secolo scorso.
Il crollo dell’occidente e della metafisica, sono argomenti molto battuti dalla filosofia del XX secolo e già in precedenza celebrità come Marx, Freud, Nietzsche, Heidegger, avevano cominciato la riflessione a riguardo. Ma adesso queste riflessioni secondo Nancy trovano il loro compimento dentro l’attuale fase storica del mondo con l’esplosione del processo di globalizzazione e mondializzazione che crea per la prima volta la totale coincidenza del mondo con se stesso. Perciò si deve affermare che il mondo è la stessa esperienza che il mondo fa di se stesso, che coincide con il percorrersi nel profondo da un lato all'altro. Ma attraverso questo percorso profondo il mondo si riscopre peggiore e profondamente segnato da lacerazioni e contraddizioni dice Nancy.La globalizzazione ha prodotto effetti negati tramutando il globo in glomus, pura agglomerato, ammasso, accumulazione che polarizza il benessere tutto da una parte (quartieri,case,città) e nel resto si avverte una infinita miseria,con poche speranze. I questo glomus osserviamo ammaliati la crescita senza sosta della tecnoscienza, la crescita correlativa della popolazione, l’aggravamento delle ineguaglianze generali, la perdita delle certezze e delle identità che in passato davano garanzie al mondo e alla nostra stessa umanità.
La civiltà occidentale che ha creato la ragione e la visione dell'universale,purtroppo adesso non è più il centro del mondo.Affermare che Dio è morto non diventa una frase da atei,un atto di aggressione verso il cristianesimo, ma semplicemente la meta di un logico risultato del cristianesimo stesso. Nancy arriva a soffermarsi sulla preghiera per liberarci da Dio stesso.Se Dio muore il mondo non dipende più da un assoluto ed infallibile creatore, né da qualsiasi elemento esterno. E per Dio non si intende per forza quello del Cristianesimo ma anche il Dio della metafisica,dell’ontoteologia.Un Dio che si sveste di tutti gli attributi divini di un’esistenza indipendente, per diventare parte di un mondo immanente, intrappolato in una vita anfibiologa e nel medesimo istante fatta di contingenza. Nancy ci richiama alla memoria il Dio di Spinoza definito causa immanente del mondo,per il filosofo francese questo Dio crea il migliore dei mondi ma poi si limita a diventarne ragione interna nell’ordine generale delle cose.
Putnam e la logica del realismo metafisico.
di Federica Bellucci
Tra analismo e neopositivismo.Una riflessione nuova.
Putnam, è uno dei filosofi statunitensi della recente generazione più apprezzati a livello accademico,allievo e continuatore delle teorie positiviste di Quine. La sua riflessione filosofica parte da una matrice analitica e neopositivistica per poi sfociare nel puro pragmatismo americano.Da subito Putnam nega completamente l'esistenza di verità a priori : anche la conclamata geometria euclidea ad esempio è una teoria sullo spazio finito e quindi esplicitamente empirica, o per dirla alla Kant, sintetica. Nella sua opera maggiore,il saggio "L'analitico e il sintetico" del 1963, Putnam muove una critica al suo maestro Quine e alla sua analiticità.Per lui infatti esiste una correlazione stretta tra le nozioni di significato, di analiticità e di sinonimia, ma questo non vuol dire che proteggere tali differenze sia sbagliato.Le nozioni analitiche nascono e vanno divulgate partendo da un principio pragmatico, esse esistono in quanto tali perchè così noi le intendiamo senza riuscire a spiegare il loro intrinseco carattere, anche se molto spesso dobbiamo distinguerle da quelle che nozioni non sono o che sembrano esserle solo all'apparenza. I principi analitici sorgono grazie a una "convenzione implicita", il che però ammette anche una loro successiva revisione.
Negli anni ottanta Putnam evolve la sua riflessione teorica appoggiandosi su teorie che egli stesso definisce basi di realismo metafìsico.Il punto apicale parte dalla presupposizione, cioè, dall'indipendenza della realtà dalla mente umana, che può quindi finire con l'essere anche smentita dalla metafisica. Questa tipologia evoluta di realismo si va accomunando sia con il "realismo ingenuo" (quello tipico del senso comune), secondo cui noi vediamo oggetti della nostra vita ordinaria, come i tavoli, le sedie e i cubetti di ghiaccio, sia con il realismo forte dei filosofi secondo il quale esistono le entità inosservabili che la scienza cerca di spiegare come gli atomi, il dna ecc. In particolare nel suo saggio di quel periodo dal titolo "Saggi filosofici" Putnam si erge a difensore del realismo empirico , fondato sull'inferenza alla miglior spiegazione: il concetto iniziale è che sia le esperienze empiriche sia gli esperimenti di laboratorio servono ad indicarci che una realtà esiste, che è indipendente da noi e che ci fa capire come alcune nostre proposizioni sono vere ed altre false. Questa teoria è un chiaro esempio di ipotesi empirica, cioè non può avvalersi di valutazioni apodittiche e quindi definitive, ma è contraddistinta da una tradizione molto ampia che arriva fino alla filosofia di Kant e che fino ad oggi non ha una base teorica migliore.
Gli schemi concettuali per Putnam non possono essere sempre a priori com'erano per Kant, ma vanno valutati ed adoperati in base a una scelta che ha a fondamento determinati valori: ogni valutazione interiore sulla razionalità e sulla verità si basa sempre sull' etica , perché senza valori non avrebbero natura ed esistenza i fatti.Putnam infine ci indica che la scienza ha i suoi valori cognitivi come dimostra l'impossibilità di spiegare effettivamenti enunciati osservativi ed enunciati teorici. Quando cerchiamo di spiegare concetti come la giustificazione o la conferma utilizziamo solo criteri di accettabilità razionale che non risultano essere completamente oggettivi ma dipendono da un giudizio di valore sui criteri che vogliamo che una teoria possegga o meno. La morale quindi alla fine del ragionamento diventa un chiaro accordo fra la valutazione individuale e l'approvazione collettiva, in parte come affermava nella sua riflessione lo stesso Rawls.E' possibile quindi ritenere che la concezione più ragionevole della razionalità va sempre e comunque sviluppata all'interno dei sistemi culturali ed è grandemente fallace cercare di giudicarla ponendosi all'esterno di suddetti sistemi.
Putnam, è uno dei filosofi statunitensi della recente generazione più apprezzati a livello accademico,allievo e continuatore delle teorie positiviste di Quine. La sua riflessione filosofica parte da una matrice analitica e neopositivistica per poi sfociare nel puro pragmatismo americano.Da subito Putnam nega completamente l'esistenza di verità a priori : anche la conclamata geometria euclidea ad esempio è una teoria sullo spazio finito e quindi esplicitamente empirica, o per dirla alla Kant, sintetica. Nella sua opera maggiore,il saggio "L'analitico e il sintetico" del 1963, Putnam muove una critica al suo maestro Quine e alla sua analiticità.Per lui infatti esiste una correlazione stretta tra le nozioni di significato, di analiticità e di sinonimia, ma questo non vuol dire che proteggere tali differenze sia sbagliato.Le nozioni analitiche nascono e vanno divulgate partendo da un principio pragmatico, esse esistono in quanto tali perchè così noi le intendiamo senza riuscire a spiegare il loro intrinseco carattere, anche se molto spesso dobbiamo distinguerle da quelle che nozioni non sono o che sembrano esserle solo all'apparenza. I principi analitici sorgono grazie a una "convenzione implicita", il che però ammette anche una loro successiva revisione.
Negli anni ottanta Putnam evolve la sua riflessione teorica appoggiandosi su teorie che egli stesso definisce basi di realismo metafìsico.Il punto apicale parte dalla presupposizione, cioè, dall'indipendenza della realtà dalla mente umana, che può quindi finire con l'essere anche smentita dalla metafisica. Questa tipologia evoluta di realismo si va accomunando sia con il "realismo ingenuo" (quello tipico del senso comune), secondo cui noi vediamo oggetti della nostra vita ordinaria, come i tavoli, le sedie e i cubetti di ghiaccio, sia con il realismo forte dei filosofi secondo il quale esistono le entità inosservabili che la scienza cerca di spiegare come gli atomi, il dna ecc. In particolare nel suo saggio di quel periodo dal titolo "Saggi filosofici" Putnam si erge a difensore del realismo empirico , fondato sull'inferenza alla miglior spiegazione: il concetto iniziale è che sia le esperienze empiriche sia gli esperimenti di laboratorio servono ad indicarci che una realtà esiste, che è indipendente da noi e che ci fa capire come alcune nostre proposizioni sono vere ed altre false. Questa teoria è un chiaro esempio di ipotesi empirica, cioè non può avvalersi di valutazioni apodittiche e quindi definitive, ma è contraddistinta da una tradizione molto ampia che arriva fino alla filosofia di Kant e che fino ad oggi non ha una base teorica migliore.
Gli schemi concettuali per Putnam non possono essere sempre a priori com'erano per Kant, ma vanno valutati ed adoperati in base a una scelta che ha a fondamento determinati valori: ogni valutazione interiore sulla razionalità e sulla verità si basa sempre sull' etica , perché senza valori non avrebbero natura ed esistenza i fatti.Putnam infine ci indica che la scienza ha i suoi valori cognitivi come dimostra l'impossibilità di spiegare effettivamenti enunciati osservativi ed enunciati teorici. Quando cerchiamo di spiegare concetti come la giustificazione o la conferma utilizziamo solo criteri di accettabilità razionale che non risultano essere completamente oggettivi ma dipendono da un giudizio di valore sui criteri che vogliamo che una teoria possegga o meno. La morale quindi alla fine del ragionamento diventa un chiaro accordo fra la valutazione individuale e l'approvazione collettiva, in parte come affermava nella sua riflessione lo stesso Rawls.E' possibile quindi ritenere che la concezione più ragionevole della razionalità va sempre e comunque sviluppata all'interno dei sistemi culturali ed è grandemente fallace cercare di giudicarla ponendosi all'esterno di suddetti sistemi.
Morìn ed il metodo dell’interdipendenza.
di Federica Bellucci
L'ideatore della filosofia della complessità.
Edgar Morìn è un filosofo francese contemporaneo,figlio di genitori italiani ed ebrei trasferitisi in Francia.Da molti è ritenuto il filosofo delle complessità,padre di una riflessione intima ardua e non comune,autore di opere filosofiche dalla immane bellezza e completezza teorica come L’uomo e la morte, Il metodo (diviso in sei volumi) e I miei demoni. Emblematica una sua particolare frase ovvero: il contrario di una grande verità è un’altra grande verità. Nella sua opera Il metodo filosofico si propone il difficile scopo di eliminare il vecchio paradigma della scienza classica, semplicistica e riduzionista, per provare a creare il paradigma della complessità. Anche se in passato è stato basilare, il paradigma classico è secondo Morin ormai un vero intralcio alla conoscenza. La sua peculiarità intrinseca cioè disgiuntiva e specialistica rasente al parossismo non rende gli scienziati capaci di intravedere le connessioni profonde, le inconciliabilità, i grandi misteri della conoscenza.
La congiunzione, la complementarietà, l’accettazione del dubbio, soprattutto quella che Morìn definì la coscienza dell’interdipendenza e la contestualizzazione,ecco alcuni dei nuovi, essenziali elementi costitutivi del paradigma complesso. Questi elementi ben si mescolano in due aspetti del percorso filosofico come l'ontologia e l'epistemologia. Nella riflessione moriniana, quei concetti che erano le fondamenta della scienza classica da Cartesio, Newton, Laplace in poi,svaniscono; se prima si guardava alla la fede nell’ordine assoluto dell’universo e nel determinismo ed era ferma la convinzione che dovesse sempre essere applicato il teorema aristotelico per il quale non esiste scienza se non nel generale, negando in modo assoluto l’individuo ed il soggetto, la fede nell’onniscienza e nell’assenza di errori, incertezze, imprecisioni, caso. La filosofia di Morìn parte dalle teorie di Hegel, Eraclito e Adorno, e arriva a considerare la conoscenza come un meccanismo dialogico fra elementi concorrenziali, antagonisti e complementari, in questo modo è la dialettica a discernersi dalla sintesi, e diventa vera dialettica negativa fra opposti irriducibili e complessi.
In ogni aspetto dell'universo che ci circonda,secondo Morin, il fenomeno,ovvero il sistema dei sistemi emergenti, è costituito da due o più facce, che si alternano, si distinguono, si escludono e si co-causano. Il celebre metodo Morìn ha assorbito principi sia dalla teoria dei sistemi (von Bertalanffy), sia dalla teoria dell’informazione,soprattutto di Weave,sia dalla dinamica interiore dei sistemi dissipativi (Prigogine) e si prefige non di spiegare tutto, ma di aiutare a capire meglio ciò che ci circonda. Chi non conosce o rifiuta il metodo potrà solo arrivare a scoprire il sentimento della complessità. Morìn è stato per anni un mentore per un'intera classe di filosofi francesi,molto ammirato in America ed in Giappone; negli ultimi anni una certa Accademia interna sembra criticarlo oltre il necessario mettendo in dubbio ogni singolo aspetto della sua riflessione filosofica e definendolo più un sofista ipnotizzatore che un filosofo a tutti gli effetti.Mai critica fu più errata ed ingiusta.
Edgar Morìn è un filosofo francese contemporaneo,figlio di genitori italiani ed ebrei trasferitisi in Francia.Da molti è ritenuto il filosofo delle complessità,padre di una riflessione intima ardua e non comune,autore di opere filosofiche dalla immane bellezza e completezza teorica come L’uomo e la morte, Il metodo (diviso in sei volumi) e I miei demoni. Emblematica una sua particolare frase ovvero: il contrario di una grande verità è un’altra grande verità. Nella sua opera Il metodo filosofico si propone il difficile scopo di eliminare il vecchio paradigma della scienza classica, semplicistica e riduzionista, per provare a creare il paradigma della complessità. Anche se in passato è stato basilare, il paradigma classico è secondo Morin ormai un vero intralcio alla conoscenza. La sua peculiarità intrinseca cioè disgiuntiva e specialistica rasente al parossismo non rende gli scienziati capaci di intravedere le connessioni profonde, le inconciliabilità, i grandi misteri della conoscenza.
La congiunzione, la complementarietà, l’accettazione del dubbio, soprattutto quella che Morìn definì la coscienza dell’interdipendenza e la contestualizzazione,ecco alcuni dei nuovi, essenziali elementi costitutivi del paradigma complesso. Questi elementi ben si mescolano in due aspetti del percorso filosofico come l'ontologia e l'epistemologia. Nella riflessione moriniana, quei concetti che erano le fondamenta della scienza classica da Cartesio, Newton, Laplace in poi,svaniscono; se prima si guardava alla la fede nell’ordine assoluto dell’universo e nel determinismo ed era ferma la convinzione che dovesse sempre essere applicato il teorema aristotelico per il quale non esiste scienza se non nel generale, negando in modo assoluto l’individuo ed il soggetto, la fede nell’onniscienza e nell’assenza di errori, incertezze, imprecisioni, caso. La filosofia di Morìn parte dalle teorie di Hegel, Eraclito e Adorno, e arriva a considerare la conoscenza come un meccanismo dialogico fra elementi concorrenziali, antagonisti e complementari, in questo modo è la dialettica a discernersi dalla sintesi, e diventa vera dialettica negativa fra opposti irriducibili e complessi.
In ogni aspetto dell'universo che ci circonda,secondo Morin, il fenomeno,ovvero il sistema dei sistemi emergenti, è costituito da due o più facce, che si alternano, si distinguono, si escludono e si co-causano. Il celebre metodo Morìn ha assorbito principi sia dalla teoria dei sistemi (von Bertalanffy), sia dalla teoria dell’informazione,soprattutto di Weave,sia dalla dinamica interiore dei sistemi dissipativi (Prigogine) e si prefige non di spiegare tutto, ma di aiutare a capire meglio ciò che ci circonda. Chi non conosce o rifiuta il metodo potrà solo arrivare a scoprire il sentimento della complessità. Morìn è stato per anni un mentore per un'intera classe di filosofi francesi,molto ammirato in America ed in Giappone; negli ultimi anni una certa Accademia interna sembra criticarlo oltre il necessario mettendo in dubbio ogni singolo aspetto della sua riflessione filosofica e definendolo più un sofista ipnotizzatore che un filosofo a tutti gli effetti.Mai critica fu più errata ed ingiusta.
Royce e l'investigazione empirica.
di Federica Bellucci
Il puro spiritualismo ed idealismo di matrice statunitense.
Royce fu un filosofo americano ed insegnante emerito di Harvard. Fondatore della scuola di Boston incentrata su nuovi metodi di idealismo basati sulla ridiscussione dei rapporti tra idea e realtà. Royce distingue tra un concetto esterno di idea (il riferimento a una realtà diversa di cui essa è appunto idea) e uno interno (lo scopo che ci prefissiamo formulando l'idea stessa): l'unico vero legame esistente tra idea e realtà è la fusione della realtà esterna dell'idea all'intenzione che ne rappresenta il concetto interno.Quindi l'idea non ha una realtà, ma mira verso ciò per realizzarsi, in questo modo si forma con precisione il proprio significato e fine senza il pericolo di possibilità marginali. Questa forma di realizzazione può aversi però solo grazie ad una coscienza totale,dove le varie coscienze individuali siano integrata. Royce elabora la totalità assoluta come collegabile alle sotto-totalità rappresentate dalle coscienze finite, partendo dal significato di numero come sistema autorappresentativo così come già detto da Cantor e Dedekind. In tale maniera si elimina la fastidiosa aporia in cui si bloccano le idee di Bradley. Nell'ultima parte della sua riflessione filosofica Royce riaffronta il problema dei rapporti fra finito e assoluto ideando una sorta di processo di unificazione dei singoli soggetti, nell'interpretazione che si ricava del mondo come sistema di segni, e che porta alla creazione di una comunità dove il singolo uomo dà fedeltà nella esplicita realizzazione del proprio ruolo sociale.
Si potrebbe quindi pensare che nonostante l'apparenza, l'idea sia sostanzialmente condizionata all'azione dell'uomo? No, essa è e rimane sempre in qualche modo irriducibile; se prendiamo ad esempio la materia essa è irriducibile come la stessa irriducibilità delle "menti".Il concetto che si ricava allora è che tutto il mondo di cui abbiamo esperienza, appare non dipendere da noi; ma sembra possedere una sua "realtà" non dipendente dall'uomo. In egual modo il mondo sensibile, quello delle cose. Nel legame che noi creiamo col mondo delle cose esso è davvero "oggettivo" ed indipendente dalle nostre "idee"? È veramente "reale" in modo assoluto senza essere anche "ideale"? Molto utile può essere un chiaro esempio.Se consideriamo una sinfonia; le onde sonore nell'aria hanno una loro realtà; ma il loro significato è collegato alla nostra percezione della musica; la sinfonia non è quindi solo flusso delle onde sonore, né degli strumenti. La conclusione è che il reale è sí "reale", ma anche in parte "ideale".Da ciò Royce è arrivato a parlare di una Coscienza universale che possiede al suo interno in forma piena, ciò che l'essere individuale cerca di conoscere. Esso è il centro dove si collocano essere e verità. In essa sono presenti e vive tutte le menti finite.
Inoltre la Coscienza universale è fuori dalle leggi del tempo. In tal senso questa Coscienza è Dio. Dio non trascendente, ma è immanente nel tutto. Dio nella sua eterna intemporalità e assoluto e perfezione, non esclude la storia, non cancella ignoranze ed errori, questi concetti negativi sono legati alla vita degli individui umani che in Dio sono esistenti. Si potrebbe dire che proprio il fatto che l'uomo vive in Dio dà all'uomo stesso la fiducia che una soluzione è sempre esistente,che ad una fatica è legata comunque una ricompensa.Nel momento in cui l'individuo vive ed agisce secondo le leggi morali soddisfa la finitezza consapevole della pienezza di Dio; l'uomo si autodetermina e finisce con l'essere per natura finito e infinito.
Royce fu un filosofo americano ed insegnante emerito di Harvard. Fondatore della scuola di Boston incentrata su nuovi metodi di idealismo basati sulla ridiscussione dei rapporti tra idea e realtà. Royce distingue tra un concetto esterno di idea (il riferimento a una realtà diversa di cui essa è appunto idea) e uno interno (lo scopo che ci prefissiamo formulando l'idea stessa): l'unico vero legame esistente tra idea e realtà è la fusione della realtà esterna dell'idea all'intenzione che ne rappresenta il concetto interno.Quindi l'idea non ha una realtà, ma mira verso ciò per realizzarsi, in questo modo si forma con precisione il proprio significato e fine senza il pericolo di possibilità marginali. Questa forma di realizzazione può aversi però solo grazie ad una coscienza totale,dove le varie coscienze individuali siano integrata. Royce elabora la totalità assoluta come collegabile alle sotto-totalità rappresentate dalle coscienze finite, partendo dal significato di numero come sistema autorappresentativo così come già detto da Cantor e Dedekind. In tale maniera si elimina la fastidiosa aporia in cui si bloccano le idee di Bradley. Nell'ultima parte della sua riflessione filosofica Royce riaffronta il problema dei rapporti fra finito e assoluto ideando una sorta di processo di unificazione dei singoli soggetti, nell'interpretazione che si ricava del mondo come sistema di segni, e che porta alla creazione di una comunità dove il singolo uomo dà fedeltà nella esplicita realizzazione del proprio ruolo sociale.
Si potrebbe quindi pensare che nonostante l'apparenza, l'idea sia sostanzialmente condizionata all'azione dell'uomo? No, essa è e rimane sempre in qualche modo irriducibile; se prendiamo ad esempio la materia essa è irriducibile come la stessa irriducibilità delle "menti".Il concetto che si ricava allora è che tutto il mondo di cui abbiamo esperienza, appare non dipendere da noi; ma sembra possedere una sua "realtà" non dipendente dall'uomo. In egual modo il mondo sensibile, quello delle cose. Nel legame che noi creiamo col mondo delle cose esso è davvero "oggettivo" ed indipendente dalle nostre "idee"? È veramente "reale" in modo assoluto senza essere anche "ideale"? Molto utile può essere un chiaro esempio.Se consideriamo una sinfonia; le onde sonore nell'aria hanno una loro realtà; ma il loro significato è collegato alla nostra percezione della musica; la sinfonia non è quindi solo flusso delle onde sonore, né degli strumenti. La conclusione è che il reale è sí "reale", ma anche in parte "ideale".Da ciò Royce è arrivato a parlare di una Coscienza universale che possiede al suo interno in forma piena, ciò che l'essere individuale cerca di conoscere. Esso è il centro dove si collocano essere e verità. In essa sono presenti e vive tutte le menti finite.
Inoltre la Coscienza universale è fuori dalle leggi del tempo. In tal senso questa Coscienza è Dio. Dio non trascendente, ma è immanente nel tutto. Dio nella sua eterna intemporalità e assoluto e perfezione, non esclude la storia, non cancella ignoranze ed errori, questi concetti negativi sono legati alla vita degli individui umani che in Dio sono esistenti. Si potrebbe dire che proprio il fatto che l'uomo vive in Dio dà all'uomo stesso la fiducia che una soluzione è sempre esistente,che ad una fatica è legata comunque una ricompensa.Nel momento in cui l'individuo vive ed agisce secondo le leggi morali soddisfa la finitezza consapevole della pienezza di Dio; l'uomo si autodetermina e finisce con l'essere per natura finito e infinito.
Goodman e il nuovo costruttivismo radicale.
di Federica Bellucci
Una nuova visione epistemologica della realtà di fatto.
Nelson Goodman,filosofo americano del '900 è stato tra i maggiori epistemologi e filosofi contemporanei con maggiore impatto sulla comunità filosofica internazionale. Amico e allievo di Quine,insieme al quale per decenni insegnò presso l' Università di Harvard a Boston, fu da sempre molto vicino al pensiero e ai concetti del filosofo autore del celebre saggio Parola e oggetto.Base di tutto è l'intento di rimanere ancorato ad una prospettiva fondamentale empiristica, emancipandola però dalle forti limitazioni e dagli schemi dei "dogmi".Goodman si oppone radicalmente al mito e al credo inerente l' esistenza di quelle "entità astratte" come le classi, gli universali: l'universo in cui viviamo è formato da " oggetti fisici o eventi di esperienza sensoriale "; i predicati " che non sono collegabili ad individui concreti o ad oggetti concreti " vanno bocciati in toto.
Molto dura fu poi la sua critica alla scienza matematica, considerata da molti filosofi,in primis Russell,come l'espressione e al contempo la prova dell'esistenza di verità autonome e universali.Essa infatti è da Goodman spiegata come un mero "apparato" strumentale: le sue formule in realtà sarebbero semplicemente comodi mezzi per rendere più facili i calcoli , ma non ci aiutano ad ottenere delle reali questioni di verità. Nella sua ampia e complessa opera La struttura dell'apparenza,pubblicata nel 1951,e nei successivi saggi Ipotesi e previsioni (1953-54) Goodman si allontana in modo deciso da alcune teorie tipiche della corrente del neopositivismo. Così,nello specifico, egli evidenzia una contraddizione che definì il mito del dato: non esistono "dati" dal significato univoco-oggettivo, capaci quindi di essere in grado di costruire un fondamento empirico certo per la conoscenza. Così allora bisogna criticare aspramente nella stessa prospettiva la distinzione neopositivistica tra concetto osservazionale e concetto teorico: ogni atto cognitivo è atto teorico e basta poichè si emancipa all'interno di un sistema di elementi non empirico-fattuali ma simbolico-concettuali.
Una domanda a questo punto sorge spontanea: è possibile l'esistenza,ritornando nuovamente all'uomo, di regole per considerare un animale bipede o un aggregato di molecole un soggetto sociale? Per Goodman la risposta a tale dubbio filosofico è completamente negativa. Inoltre molte delle questioni che i neopositivisti si facevano sono in realtà strutturalmente improponibili: è sbagliato infatti chiedersi quale sia la versione del mondo che sia in assoluto più vera in rapporto alla "realtà" perché, come anche il kantismo dimostrava, non esiste una specifica realtà in sé che noi possiamo cogliere oggettivamente, in modo da renderla universalmente valida come criterio di verifica "pura" delle nostre varie versioni.Ovviamente ciò non vuol dire aprioristicamente l'impossibilità di valutare quale sia la versione più vera non in termini assoluti ma in senso relativo ad un determinato contesto. Su tale prospettiva di riflessione Goodman ci evidenzia che tutte le versioni del mondo sono compatibili tra di loro: ma la questione della compatibilità, formale e sostanziale, tra le varie versioni del mondo rappresenta un settore di indagine che esula dal compito specifico del buon filosofo.
Nelson Goodman,filosofo americano del '900 è stato tra i maggiori epistemologi e filosofi contemporanei con maggiore impatto sulla comunità filosofica internazionale. Amico e allievo di Quine,insieme al quale per decenni insegnò presso l' Università di Harvard a Boston, fu da sempre molto vicino al pensiero e ai concetti del filosofo autore del celebre saggio Parola e oggetto.Base di tutto è l'intento di rimanere ancorato ad una prospettiva fondamentale empiristica, emancipandola però dalle forti limitazioni e dagli schemi dei "dogmi".Goodman si oppone radicalmente al mito e al credo inerente l' esistenza di quelle "entità astratte" come le classi, gli universali: l'universo in cui viviamo è formato da " oggetti fisici o eventi di esperienza sensoriale "; i predicati " che non sono collegabili ad individui concreti o ad oggetti concreti " vanno bocciati in toto.
Molto dura fu poi la sua critica alla scienza matematica, considerata da molti filosofi,in primis Russell,come l'espressione e al contempo la prova dell'esistenza di verità autonome e universali.Essa infatti è da Goodman spiegata come un mero "apparato" strumentale: le sue formule in realtà sarebbero semplicemente comodi mezzi per rendere più facili i calcoli , ma non ci aiutano ad ottenere delle reali questioni di verità. Nella sua ampia e complessa opera La struttura dell'apparenza,pubblicata nel 1951,e nei successivi saggi Ipotesi e previsioni (1953-54) Goodman si allontana in modo deciso da alcune teorie tipiche della corrente del neopositivismo. Così,nello specifico, egli evidenzia una contraddizione che definì il mito del dato: non esistono "dati" dal significato univoco-oggettivo, capaci quindi di essere in grado di costruire un fondamento empirico certo per la conoscenza. Così allora bisogna criticare aspramente nella stessa prospettiva la distinzione neopositivistica tra concetto osservazionale e concetto teorico: ogni atto cognitivo è atto teorico e basta poichè si emancipa all'interno di un sistema di elementi non empirico-fattuali ma simbolico-concettuali.
Una domanda a questo punto sorge spontanea: è possibile l'esistenza,ritornando nuovamente all'uomo, di regole per considerare un animale bipede o un aggregato di molecole un soggetto sociale? Per Goodman la risposta a tale dubbio filosofico è completamente negativa. Inoltre molte delle questioni che i neopositivisti si facevano sono in realtà strutturalmente improponibili: è sbagliato infatti chiedersi quale sia la versione del mondo che sia in assoluto più vera in rapporto alla "realtà" perché, come anche il kantismo dimostrava, non esiste una specifica realtà in sé che noi possiamo cogliere oggettivamente, in modo da renderla universalmente valida come criterio di verifica "pura" delle nostre varie versioni.Ovviamente ciò non vuol dire aprioristicamente l'impossibilità di valutare quale sia la versione più vera non in termini assoluti ma in senso relativo ad un determinato contesto. Su tale prospettiva di riflessione Goodman ci evidenzia che tutte le versioni del mondo sono compatibili tra di loro: ma la questione della compatibilità, formale e sostanziale, tra le varie versioni del mondo rappresenta un settore di indagine che esula dal compito specifico del buon filosofo.
Scheler e l’etica materiale dei valori.
di Federica Bellucci
La prima vera critica alle teorie neokantiane.
Max Scheler fu uno dei principali allievi del filosofo tedesco Edmund Husserl e riuscì dopo di lui ad imprimere una svolta in chiave ontologica al celebre metodo fenomenologico inaugurato proprio da Husserl.Nello specifico in ambito filosofico urgeva applicare il metodo innovativo e valido anche ad altri ambiti dell'esperienza umana oltre a quello della conoscenza, con un'attenzione maggiore per la vita emotiva e per l'etica. E proprio qui indirizzò i suoi studi Max Scheler.Nato a Monaco nel 1874 da famiglia ebreo-tedesca, si convertì al cattolicesimo anche se in età matura inizierà poi a prenderne le distanze.Le sue opere di maggiore successo furono Il formalismo nell'etica (1924) e L'etica materiale dei valori (1928). Da questi scritti traspare chiara la convinzione di Scheler,così come Husserl, del carattere intenzionale della coscienza umana.Per lui la coscienza umana è coscienza di qualche cosa: non esiste coscienza senza oggetto.Insieme al maestro Husserl concordava che i singoli atti intenzionali della coscienza potevano direttamente essere soggetti ad un’analisi fenomenologia inerente le proprie essenze, e profonda era la consapevolezza dell’irriducibilità reciproca degli atti intenzionali da cui nasceva la diretta autonomia dell'etica nei confronti della logica.
Scheler era un rigido critico del neokantismo della Scuola di Amburgo,evidenziando che tale linea filosofica trascurando l'esperienza empirica, non fosse capace di spiegare le vere peculiarità della vita spirituale ed ideologica dell'individuo. Per Scheler inoltre la gamma complessa dei sentimenti, non solo quella conoscitiva, è anch'essa piena di intenzionalità . Il sentimento è un vero ambito,una categoria autonoma dal conoscere, poichè parte e si sviluppa su elementi originari propri, dati a priori e non provenienti dalle conoscenze di dati di fatto. Le azioni che riguardano il sentimento sono infatti collegate intenzionalmente ai valori, che finiscono quindi con l'essere concepiti come qualità inerenti alle cose e oggetto di intenzionalità conoscitiva, molto diversa dalle tipologie di conoscenza proprie della percezione o dell'intelletto.Scheler parla allora di una intuizione emozionale, dotata di un'evidenza propria non inferiore all'evidenza degli atti della logica conoscitiva. I valori rappresentano pertanto un universo oggettivo caratterizzato da proprie leggi a priori ed è l'etica ad avere il ruolo di evidenziare e descrivere tale universo. Con queste considerazioni Scheler arrivò ad affermare come il problema filosofico della conoscenza non era il solo problema degno di riflessione come invece la Scuola neokantiana riteneva.
L'obiettivo del nostro filosofo era di ridare importanza alle teorie sul formalismo etico, proprio come originariamente faceva la vera teoria kantiana. I seguaci di Kant infatti avevano erroneamente deciso di eliminare sentimento ed emozioni dalla vita morale ed avevano posto l'accento esclusivamente sul fondamento della morale in una legge universale della ragione, puramente formale e in grado di comandare tutto e tutti indipendentemente dalle esigenze di felicità. Secondo Scheler, invece, la vita morale deve assolutamente contenere anche sentimenti ed emozioni: soltanto grazie ad essi, infatti, possiamo agevolmente accedere ai valori. L'etica pertanto non deve essere concepita in chiave puramente formale ma possiede uno specifico contenuto a priori derivante dall'intuizione dei valori: ecco che per maggiore chiarezza Scheler parlerà per la pria volta di etica materiale. I valori sono oggettivi e universali e quindi non sono captati empiricamente dall'esperienza variabile ma sono compresi direttamente dall'intuizione.Partendo da questi costrutti logici Scheler elaborerà La posizione dell'uomo nel cosmo, una sorta di antropologia dualistica, basata sulla polarità fra spirito e impulso irrazionale da cui si ergerebbe una tipologia di panteismo dinamico, nel quale il cosmo è la divinità stessa. Con la sua teoria sui valori, Scheler ha fondato l’antropologia filosofica con la quale lo schema dei valori ha una sua forma crescente e costantemente dipendente dallo sviluppo storico e sempre tendente ad un percorso lineare ed irenico.
Max Scheler fu uno dei principali allievi del filosofo tedesco Edmund Husserl e riuscì dopo di lui ad imprimere una svolta in chiave ontologica al celebre metodo fenomenologico inaugurato proprio da Husserl.Nello specifico in ambito filosofico urgeva applicare il metodo innovativo e valido anche ad altri ambiti dell'esperienza umana oltre a quello della conoscenza, con un'attenzione maggiore per la vita emotiva e per l'etica. E proprio qui indirizzò i suoi studi Max Scheler.Nato a Monaco nel 1874 da famiglia ebreo-tedesca, si convertì al cattolicesimo anche se in età matura inizierà poi a prenderne le distanze.Le sue opere di maggiore successo furono Il formalismo nell'etica (1924) e L'etica materiale dei valori (1928). Da questi scritti traspare chiara la convinzione di Scheler,così come Husserl, del carattere intenzionale della coscienza umana.Per lui la coscienza umana è coscienza di qualche cosa: non esiste coscienza senza oggetto.Insieme al maestro Husserl concordava che i singoli atti intenzionali della coscienza potevano direttamente essere soggetti ad un’analisi fenomenologia inerente le proprie essenze, e profonda era la consapevolezza dell’irriducibilità reciproca degli atti intenzionali da cui nasceva la diretta autonomia dell'etica nei confronti della logica.
Scheler era un rigido critico del neokantismo della Scuola di Amburgo,evidenziando che tale linea filosofica trascurando l'esperienza empirica, non fosse capace di spiegare le vere peculiarità della vita spirituale ed ideologica dell'individuo. Per Scheler inoltre la gamma complessa dei sentimenti, non solo quella conoscitiva, è anch'essa piena di intenzionalità . Il sentimento è un vero ambito,una categoria autonoma dal conoscere, poichè parte e si sviluppa su elementi originari propri, dati a priori e non provenienti dalle conoscenze di dati di fatto. Le azioni che riguardano il sentimento sono infatti collegate intenzionalmente ai valori, che finiscono quindi con l'essere concepiti come qualità inerenti alle cose e oggetto di intenzionalità conoscitiva, molto diversa dalle tipologie di conoscenza proprie della percezione o dell'intelletto.Scheler parla allora di una intuizione emozionale, dotata di un'evidenza propria non inferiore all'evidenza degli atti della logica conoscitiva. I valori rappresentano pertanto un universo oggettivo caratterizzato da proprie leggi a priori ed è l'etica ad avere il ruolo di evidenziare e descrivere tale universo. Con queste considerazioni Scheler arrivò ad affermare come il problema filosofico della conoscenza non era il solo problema degno di riflessione come invece la Scuola neokantiana riteneva.
L'obiettivo del nostro filosofo era di ridare importanza alle teorie sul formalismo etico, proprio come originariamente faceva la vera teoria kantiana. I seguaci di Kant infatti avevano erroneamente deciso di eliminare sentimento ed emozioni dalla vita morale ed avevano posto l'accento esclusivamente sul fondamento della morale in una legge universale della ragione, puramente formale e in grado di comandare tutto e tutti indipendentemente dalle esigenze di felicità. Secondo Scheler, invece, la vita morale deve assolutamente contenere anche sentimenti ed emozioni: soltanto grazie ad essi, infatti, possiamo agevolmente accedere ai valori. L'etica pertanto non deve essere concepita in chiave puramente formale ma possiede uno specifico contenuto a priori derivante dall'intuizione dei valori: ecco che per maggiore chiarezza Scheler parlerà per la pria volta di etica materiale. I valori sono oggettivi e universali e quindi non sono captati empiricamente dall'esperienza variabile ma sono compresi direttamente dall'intuizione.Partendo da questi costrutti logici Scheler elaborerà La posizione dell'uomo nel cosmo, una sorta di antropologia dualistica, basata sulla polarità fra spirito e impulso irrazionale da cui si ergerebbe una tipologia di panteismo dinamico, nel quale il cosmo è la divinità stessa. Con la sua teoria sui valori, Scheler ha fondato l’antropologia filosofica con la quale lo schema dei valori ha una sua forma crescente e costantemente dipendente dallo sviluppo storico e sempre tendente ad un percorso lineare ed irenico.
Weber e le legittime forme di potere.
di Cristina Morelli
Nasce la filosofia politica e la legittimità del potere.
Max Weber con il suo originale pensiero influenzò per decenni le scuole filosofiche d’Europa donando all’intera comunità di studiosi una serie di strumenti teorici perfetti per dare concreta interpretazione alla realtà. Weber inizia un lungo percorso di natura sociologica basando come oggetto del tutto l'agire dotato di senso, meglio concepito come quell’atteggiamento umano a cui l'individuo che compie poi l’azione da un suo senso soggettivo. Questo ossimoro però non deve portare a credere che la sociologia sia basata su interpretazioni soggettive . Al contrario essa ha fondamento su una specifica conoscenza scientifica, infatti obiettivo fondamentale e scopo principe sarebbe il comprendere e nel medesimo momento spiegare l'agire sociale dei soggetti che si muovono nella realtà concreta. In questa maniera si può pervenire a conclusioni che riescano ad essere 'oggettive' e in una parola sola: la " verità". Max Weber però diede un notevole contributo alla concettualizzazione unitaria del potere. Il filosofo tedesco ci delinea un concetto ideale di potere. Il potere è capacità di fare, essere in grado di imporre ad un soggetto la propria volontà indipendentemente dal volere o meno di esso. Il potere non è paragonabile all’ obbedienza, ma più precisamente è disposizione sistematica all'obbedienza e quindi in una parola sola,disciplina.
Ogni potere però necessita di essere legittimo per poter esser esercitato sugli altri in modo giusto. Quindi Weber descrive ben tre categorie di legittimazione del potere: il Potere carismatico, il Potere tradizionale. ed il Potere legale. Il Potere carismatico si fonda sulla parola greca carisma che significa grazia ed ha un’ origine soprattutto teologica, è proprio con il carisma che il fedele si convince ad obbedire al potere. La principale istituzione dotata di carisma in questi sensi è la Chiesa,unica e sola depositaria. Il Carisma è l’elemento che permette di collegare il fedele al soprannaturale. Per Weber esiste poi quello che lui chiama carisma in senso laico ovvero la capacità di sembrare agli altri individui un soggetto straordinario. Il carisma laico è spesso collegato a caratteristiche non effettivamente appartenenti per natura all’individuo. La persona carismatica quindi finisce con l’avere potere grazie alle caratteristiche che gli altri intravedono in lui e non certo per le sue reali qualità intrinseche. Potere tradizionale - E' un potere acquisito e gestito che sprofonda le sue radici nel passato ed un chiaro esempio è la Monarchia ereditaria dove il potere stesso è determinato e si tramanda sulla base di regole tradizionali. Potere legale - È questa la forma di potere per Weber più importante ed è definito dal filosofo potere razionale- legale.
Alla base c’è il corollario per cui il suddito esegue gli ordini perché il leader è stato legalmente indicato come chi detiene il potere. Il potere è razionale perché è razionale tutto ciò che deriva dalla legge e perciò questa tipologia di potere è formalmente razionale. Infine un passo interessante è dedicato alla burocrazia che diviene prodotto dell'età moderna. Weber arriva ad affermare che la burocrazia è razionale perché operando in maniera spersonalizzata evidenzia chiaramente i criteri di scelta per raggiungere i fini pubblici e quindi è razionale in relazione allo scopo che deve perseguire usando i mezzi migliori per realizzare il fine. Per Weber la burocrazia è un vero ideale di tipo euristico dove per tipi ideali egli intende solo quelle costruzioni mentali, punti di riferimento che l'uomo crea autonomamente per riuscire ad avvicinarsi alla realtà, e conferire ad essa un senso che sia chiaro ed intellegibile.
Max Weber con il suo originale pensiero influenzò per decenni le scuole filosofiche d’Europa donando all’intera comunità di studiosi una serie di strumenti teorici perfetti per dare concreta interpretazione alla realtà. Weber inizia un lungo percorso di natura sociologica basando come oggetto del tutto l'agire dotato di senso, meglio concepito come quell’atteggiamento umano a cui l'individuo che compie poi l’azione da un suo senso soggettivo. Questo ossimoro però non deve portare a credere che la sociologia sia basata su interpretazioni soggettive . Al contrario essa ha fondamento su una specifica conoscenza scientifica, infatti obiettivo fondamentale e scopo principe sarebbe il comprendere e nel medesimo momento spiegare l'agire sociale dei soggetti che si muovono nella realtà concreta. In questa maniera si può pervenire a conclusioni che riescano ad essere 'oggettive' e in una parola sola: la " verità". Max Weber però diede un notevole contributo alla concettualizzazione unitaria del potere. Il filosofo tedesco ci delinea un concetto ideale di potere. Il potere è capacità di fare, essere in grado di imporre ad un soggetto la propria volontà indipendentemente dal volere o meno di esso. Il potere non è paragonabile all’ obbedienza, ma più precisamente è disposizione sistematica all'obbedienza e quindi in una parola sola,disciplina.
Ogni potere però necessita di essere legittimo per poter esser esercitato sugli altri in modo giusto. Quindi Weber descrive ben tre categorie di legittimazione del potere: il Potere carismatico, il Potere tradizionale. ed il Potere legale. Il Potere carismatico si fonda sulla parola greca carisma che significa grazia ed ha un’ origine soprattutto teologica, è proprio con il carisma che il fedele si convince ad obbedire al potere. La principale istituzione dotata di carisma in questi sensi è la Chiesa,unica e sola depositaria. Il Carisma è l’elemento che permette di collegare il fedele al soprannaturale. Per Weber esiste poi quello che lui chiama carisma in senso laico ovvero la capacità di sembrare agli altri individui un soggetto straordinario. Il carisma laico è spesso collegato a caratteristiche non effettivamente appartenenti per natura all’individuo. La persona carismatica quindi finisce con l’avere potere grazie alle caratteristiche che gli altri intravedono in lui e non certo per le sue reali qualità intrinseche. Potere tradizionale - E' un potere acquisito e gestito che sprofonda le sue radici nel passato ed un chiaro esempio è la Monarchia ereditaria dove il potere stesso è determinato e si tramanda sulla base di regole tradizionali. Potere legale - È questa la forma di potere per Weber più importante ed è definito dal filosofo potere razionale- legale.
Alla base c’è il corollario per cui il suddito esegue gli ordini perché il leader è stato legalmente indicato come chi detiene il potere. Il potere è razionale perché è razionale tutto ciò che deriva dalla legge e perciò questa tipologia di potere è formalmente razionale. Infine un passo interessante è dedicato alla burocrazia che diviene prodotto dell'età moderna. Weber arriva ad affermare che la burocrazia è razionale perché operando in maniera spersonalizzata evidenzia chiaramente i criteri di scelta per raggiungere i fini pubblici e quindi è razionale in relazione allo scopo che deve perseguire usando i mezzi migliori per realizzare il fine. Per Weber la burocrazia è un vero ideale di tipo euristico dove per tipi ideali egli intende solo quelle costruzioni mentali, punti di riferimento che l'uomo crea autonomamente per riuscire ad avvicinarsi alla realtà, e conferire ad essa un senso che sia chiaro ed intellegibile.
L'agire comunicativo di Habermas.
di Cristina Morelli
Un nuovo pensiero che rivoluziona la filosofia.
Il pensiero di Habermas ha contribuito a porre le basi dell'attuale dibattito filosofico in tema di crisi di legittimità che percorre le attuali comunità occidentali a capitalismo avanzato. Habermas infatti partì con il credo che l'agire comunicativo rappresentasse un basilare mezzo tramite cui gli individui compiono la loro intesa sulle azioni e sulle norme che poi giudicheranno come vincolanti.Si parla in questo caso del concetto di agire comunicativo, ovvero la specie di agire sociale che tramuta in possibilità il vero esempio e modello di democrazia e che si supera elevandosi dall' agire sociale di origine weberiana per quanto riguarda ciò che ne diviene base e fondamento del legame intersoggettivo.Se utilizziamo nell' agire sociale l'agire comunicativo, si ipotizza che con il fatto medesimo di entrare in comunicazione linguistica gli individui finalizzino le loro azioni a raggiungere l'intesa, perlomeno su ciò che riguarda un minimo di comprensione reciproca. Si parte allora da uno schema minimo di razionalità usando il quale l'uomo può argomentare spiegare e proporre alla comunità in cui vive le sue stesse convinzioni.
La possibilità di comprendere l'oggetto verso cui tende ogni singolo individuo con la propria azione è garantita dalle spiegazioni o affermazioni che vengono fornite e che devono essere verificabili.Tali azioni fanno nascere una vera relazione fiduciaria tra i diversi individui.Nella sua Teoria dell'agire comunicativo Habermas spiega che il concetto di agire comunicativo è enucleato mediante il controllo di situazioni e si articola su due vie maestre: l'aspetto teleologico della realizzazione di scopi (o anche detta attuazione) e l'elemento comunicativo dell'interpretazione della situazione. Nell'agire comunicativo i soggetti seguono i loro piani dirigendosi verso una definizione comune della situazione. Costitutiva dell'agire finalizzato all'intesa, è la condizione che gli individui applichino i propri piani di comune accordo in una situazione di azione definita e stabile. Gli individui devono agire cercando di evitare due cose: il rischio di fallimento dell' intesa e cioè il dissenso o il fraintendimento, e il rischio del fallimento del piano di azione,il cosiddetto insuccesso. Solo se si cerca di evitare il primo si può poi agevolmente raggiungere il secondo scopo.
I soggetti non riescono a raggiungere i propri obiettivi se non riescono a soddisfare la necessità di comprensione per le possibilità di azione. E' davvero palese in Habermas l'ascendenza kantiana; soprattutto con riferimento al principio di universalizzazione delle istanze etiche, una vera e completa rivisitazione dell'imperativo categorico che consiglia agli individui sociali di considerare come vincolanti solo le massime di azione.Insomma per Habermas, il processo di riconoscimento e fondazione delle norme sociali, e quindi il metodo di costituzione della società, può essere garantito mediante gli effettivi discorsi tra soggetti, dove nascono le argomentazioni e si cerca l'intesa su quelle migliori. Con Habermas si forma un concetto di agire, quello appunto comunicativo, che riuscirà a valorizzare il principale elemento strutturale della società moderna,la comunicazione.
Il pensiero di Habermas ha contribuito a porre le basi dell'attuale dibattito filosofico in tema di crisi di legittimità che percorre le attuali comunità occidentali a capitalismo avanzato. Habermas infatti partì con il credo che l'agire comunicativo rappresentasse un basilare mezzo tramite cui gli individui compiono la loro intesa sulle azioni e sulle norme che poi giudicheranno come vincolanti.Si parla in questo caso del concetto di agire comunicativo, ovvero la specie di agire sociale che tramuta in possibilità il vero esempio e modello di democrazia e che si supera elevandosi dall' agire sociale di origine weberiana per quanto riguarda ciò che ne diviene base e fondamento del legame intersoggettivo.Se utilizziamo nell' agire sociale l'agire comunicativo, si ipotizza che con il fatto medesimo di entrare in comunicazione linguistica gli individui finalizzino le loro azioni a raggiungere l'intesa, perlomeno su ciò che riguarda un minimo di comprensione reciproca. Si parte allora da uno schema minimo di razionalità usando il quale l'uomo può argomentare spiegare e proporre alla comunità in cui vive le sue stesse convinzioni.
La possibilità di comprendere l'oggetto verso cui tende ogni singolo individuo con la propria azione è garantita dalle spiegazioni o affermazioni che vengono fornite e che devono essere verificabili.Tali azioni fanno nascere una vera relazione fiduciaria tra i diversi individui.Nella sua Teoria dell'agire comunicativo Habermas spiega che il concetto di agire comunicativo è enucleato mediante il controllo di situazioni e si articola su due vie maestre: l'aspetto teleologico della realizzazione di scopi (o anche detta attuazione) e l'elemento comunicativo dell'interpretazione della situazione. Nell'agire comunicativo i soggetti seguono i loro piani dirigendosi verso una definizione comune della situazione. Costitutiva dell'agire finalizzato all'intesa, è la condizione che gli individui applichino i propri piani di comune accordo in una situazione di azione definita e stabile. Gli individui devono agire cercando di evitare due cose: il rischio di fallimento dell' intesa e cioè il dissenso o il fraintendimento, e il rischio del fallimento del piano di azione,il cosiddetto insuccesso. Solo se si cerca di evitare il primo si può poi agevolmente raggiungere il secondo scopo.
I soggetti non riescono a raggiungere i propri obiettivi se non riescono a soddisfare la necessità di comprensione per le possibilità di azione. E' davvero palese in Habermas l'ascendenza kantiana; soprattutto con riferimento al principio di universalizzazione delle istanze etiche, una vera e completa rivisitazione dell'imperativo categorico che consiglia agli individui sociali di considerare come vincolanti solo le massime di azione.Insomma per Habermas, il processo di riconoscimento e fondazione delle norme sociali, e quindi il metodo di costituzione della società, può essere garantito mediante gli effettivi discorsi tra soggetti, dove nascono le argomentazioni e si cerca l'intesa su quelle migliori. Con Habermas si forma un concetto di agire, quello appunto comunicativo, che riuscirà a valorizzare il principale elemento strutturale della società moderna,la comunicazione.
Dewey e la teoria delle emozioni.
di Cristina Morelli
Il principale contributo di uno dei massimi filosofi statunitensi.
Quando parliamo di filosofia americana alcuni sembrano non avere la fiducia sufficiente per prenderla in considerazione.Ma c'è un nome su tutti che merita davvero elogi e considerazioni e questo è certamente quello di John Dewey,creatore della celebre Teoria delle emozioni nata sullo sfondo dell'annoso dibattito fra le svariate tecniche di approccio filosofico, epistemologico ed estetico,fino ad arrivare alle successive teorie di matrice scientifiche e psicoanalitiche della scienza cognitiva. Le sue concezioni spingono verso una interpretazione fortemente critica verso la tradizione moderna, e specialmente verso le forme di riduzionismo dualista ma pure antisoggettivistica e antisostanzialista. Le emozioni per Dewey nascono dalla interazione di uomo e ambiente grazie ad una dimensione organica e corporea del legame con l’ambiente,In questo modo si manifesta palese il contatto tra movimento e azione.
Gli elementi che connaturano le emozioni sono fisici e psichici e sembrano come detto il risultato esplicitato di una forte interazione, isolabili grazie ad una chiara riflessione analitica.Dewey sottolinea però che l'ipotetico presunto dualismo tra sensibilità e cognizione è sostanzialmente artificioso, poiché quando parliamo del sentimento e del carattere estetico di una relazione con l’ambiente in realtà stiamo interpretando un fascio di significati che l’ambiente stesso contiene per garantire l’esistenza e il benessere dell’organismo umano che in esso vive.Da ciò nasce quella che è definita prima forma emotiva di coscienza. Dalla Teoria dell'emozioni è sempre individuabile la forte critica a una concezione soggettivistica dell’emozione e dell’esperienza, che lungi dall’essere imputate a una soggettività privata, sono comprese in senso relazionale, quali funzioni dell’appartenenza dinamica dell’organismo umano alle situazioni naturali, sociali e culturali nel quale appare radicato e con cui interagisce.
L’assunto di fondo è che le emozioni implichino dei giudizi di valore, ovvero che, lungi dall’essere caratterizzabili come tendenze o comportamenti profondamente irrazionali, siano portatrici di informazioni importanti sul mondo che ci circonda. In particolare consisterebbero o sarebbero equivalenti a giudizi su oggetti del nostro ambiente e su altri individui con i quali siamo in relazione, giudizi in cui sarebbe espresso il significato di questi oggetti o di questi individui per il nostro benessere. In altre parole, le emozioni rivelerebbero che siamo esseri strutturalmente non autosufficienti, ma bisognosi, la cui sussistenza e prosperità dipende da cose e da altri esseri che non controlliamo pienamente o che si sottraggono del tutto al nostro controllo.
Quando parliamo di filosofia americana alcuni sembrano non avere la fiducia sufficiente per prenderla in considerazione.Ma c'è un nome su tutti che merita davvero elogi e considerazioni e questo è certamente quello di John Dewey,creatore della celebre Teoria delle emozioni nata sullo sfondo dell'annoso dibattito fra le svariate tecniche di approccio filosofico, epistemologico ed estetico,fino ad arrivare alle successive teorie di matrice scientifiche e psicoanalitiche della scienza cognitiva. Le sue concezioni spingono verso una interpretazione fortemente critica verso la tradizione moderna, e specialmente verso le forme di riduzionismo dualista ma pure antisoggettivistica e antisostanzialista. Le emozioni per Dewey nascono dalla interazione di uomo e ambiente grazie ad una dimensione organica e corporea del legame con l’ambiente,In questo modo si manifesta palese il contatto tra movimento e azione.
Gli elementi che connaturano le emozioni sono fisici e psichici e sembrano come detto il risultato esplicitato di una forte interazione, isolabili grazie ad una chiara riflessione analitica.Dewey sottolinea però che l'ipotetico presunto dualismo tra sensibilità e cognizione è sostanzialmente artificioso, poiché quando parliamo del sentimento e del carattere estetico di una relazione con l’ambiente in realtà stiamo interpretando un fascio di significati che l’ambiente stesso contiene per garantire l’esistenza e il benessere dell’organismo umano che in esso vive.Da ciò nasce quella che è definita prima forma emotiva di coscienza. Dalla Teoria dell'emozioni è sempre individuabile la forte critica a una concezione soggettivistica dell’emozione e dell’esperienza, che lungi dall’essere imputate a una soggettività privata, sono comprese in senso relazionale, quali funzioni dell’appartenenza dinamica dell’organismo umano alle situazioni naturali, sociali e culturali nel quale appare radicato e con cui interagisce.
L’assunto di fondo è che le emozioni implichino dei giudizi di valore, ovvero che, lungi dall’essere caratterizzabili come tendenze o comportamenti profondamente irrazionali, siano portatrici di informazioni importanti sul mondo che ci circonda. In particolare consisterebbero o sarebbero equivalenti a giudizi su oggetti del nostro ambiente e su altri individui con i quali siamo in relazione, giudizi in cui sarebbe espresso il significato di questi oggetti o di questi individui per il nostro benessere. In altre parole, le emozioni rivelerebbero che siamo esseri strutturalmente non autosufficienti, ma bisognosi, la cui sussistenza e prosperità dipende da cose e da altri esseri che non controlliamo pienamente o che si sottraggono del tutto al nostro controllo.
Apel e la nuova etica del discorso.
di Cristina Morelli
Linguaggio e semiotica.Un percorso filosofico particolare.
Un grande filosofo del '900 è stato senza ombra di dubbio Karl Otto Apel,filosofo tedesco che con la sua riflessione diede un fortissimo impulso alle teorie sull'etica del discorso.Punto iniziale del suo percorso filosofico è quello che lui stesso definì mutazione semiotica delle idee di Kant. Il concetto dell' a priori kantiano infatti,inteso come orizzonte trascendentale di senso e luogo in cui si forma l'esperienza umana non doveva essere concepito come struttura della mente, ma bensì come linguaggio. Detto ciò però esso non si sintetizza solo nelle varie lingue diffuse ma deve sopravvivere ad esse poichè rappresenta la stessa comunità dialogica dei soggetti parlanti. Secondo Apel è importante affermare che nessun uomo però può adoperare un linguaggio e fare esperienza senza rispettare rigidamente delle regole sociali alla base della comunicazione.
La teoria di Apel intraprende una via di natura etica infatti la comunicazione è spesso ostacolata da elementi psicologici, ideologici e sociali, quindi serve amplificarla con mezzi politici, come ad esempio la "critica dell'ideologia" che venne ideata dalla nota scuola filosofica di Francoforte e da Habermas oppure mediante la psicoanalisi.L'individuo è limitato poichè può soltanto mediare i segni e solo quando vi sia qualcosa di essenziale da condividere grazie ad un linguaggio con altri individui.Il ragionamento di Apel sottintende sempre un'origine intersoggettiva di senso.Nella metamorfosi della propria idea da soggetto a comunità si rende possibile una vera fusione definitiva dell'etica,fusione che Kant non aveva a pieno delineato.Infatti Apel sottolinea nella sua teoria che l'etica del discorso non è parossisticamente riflessiva nei confronti della coscienza, ma si erge a strumento dell'argomentazione.
Questo concetto però non impedisce comunque un margine di errore ma alla fine ci dà una proposizione che è sintesi della riflessione trascendentale e non solo di tipo analitico ma soprattutto prodotto di auto-correzione. Nel delineare i capisaldi della sua etica Apel discerne un'etica deontica del linguaggio che fa riferimento ad una comunità ideale della comunicazione, e un'etica della responsabilità che invece si riferisce ad una comunità reale e storica, retta da regole di logica e razionalità.Apel nella sua riflessione dedica anche spazio al dramma della dittatura nazional-socialista provando a spiegare come una tragedia simile sia stata possibile.Arrivando ad affermare che vi fu in quel periodo una sorta di regresso morale sviluppato anche a causa di alcune filosofie dell'800 in primis quelle dello statalismo e dell'idealismo di matrice hegeliana.
Un grande filosofo del '900 è stato senza ombra di dubbio Karl Otto Apel,filosofo tedesco che con la sua riflessione diede un fortissimo impulso alle teorie sull'etica del discorso.Punto iniziale del suo percorso filosofico è quello che lui stesso definì mutazione semiotica delle idee di Kant. Il concetto dell' a priori kantiano infatti,inteso come orizzonte trascendentale di senso e luogo in cui si forma l'esperienza umana non doveva essere concepito come struttura della mente, ma bensì come linguaggio. Detto ciò però esso non si sintetizza solo nelle varie lingue diffuse ma deve sopravvivere ad esse poichè rappresenta la stessa comunità dialogica dei soggetti parlanti. Secondo Apel è importante affermare che nessun uomo però può adoperare un linguaggio e fare esperienza senza rispettare rigidamente delle regole sociali alla base della comunicazione.
La teoria di Apel intraprende una via di natura etica infatti la comunicazione è spesso ostacolata da elementi psicologici, ideologici e sociali, quindi serve amplificarla con mezzi politici, come ad esempio la "critica dell'ideologia" che venne ideata dalla nota scuola filosofica di Francoforte e da Habermas oppure mediante la psicoanalisi.L'individuo è limitato poichè può soltanto mediare i segni e solo quando vi sia qualcosa di essenziale da condividere grazie ad un linguaggio con altri individui.Il ragionamento di Apel sottintende sempre un'origine intersoggettiva di senso.Nella metamorfosi della propria idea da soggetto a comunità si rende possibile una vera fusione definitiva dell'etica,fusione che Kant non aveva a pieno delineato.Infatti Apel sottolinea nella sua teoria che l'etica del discorso non è parossisticamente riflessiva nei confronti della coscienza, ma si erge a strumento dell'argomentazione.
Questo concetto però non impedisce comunque un margine di errore ma alla fine ci dà una proposizione che è sintesi della riflessione trascendentale e non solo di tipo analitico ma soprattutto prodotto di auto-correzione. Nel delineare i capisaldi della sua etica Apel discerne un'etica deontica del linguaggio che fa riferimento ad una comunità ideale della comunicazione, e un'etica della responsabilità che invece si riferisce ad una comunità reale e storica, retta da regole di logica e razionalità.Apel nella sua riflessione dedica anche spazio al dramma della dittatura nazional-socialista provando a spiegare come una tragedia simile sia stata possibile.Arrivando ad affermare che vi fu in quel periodo una sorta di regresso morale sviluppato anche a causa di alcune filosofie dell'800 in primis quelle dello statalismo e dell'idealismo di matrice hegeliana.
Jünger ed il suo Trattato del Ribelle.
di Cristina Morelli
Un notevole filosofo del '900 dalle idee innovative.
Ernst Jünger è un filosofo e saggista tedesco del Novecento il cui nome non dice molto a tutti eccetto gli amanti della filosofia contemporanea.Ma nella realtà fu uno dei pensatori più controversi ed influenti della sua epoca autore di un'opera dal titolo enigmatico Der Waldgang (passaggio al bosco), tradotto e pubblicato in Italia con il titolo Trattato del Ribelle.Il suo saggio filosofico si appoggia sull'antico mito islandedese del Waldgänger (letteralmente, colui che vaga nel bosco), col quale si indicava il ribelle che si dava alla fuga dalla società per condurre una nuova esistenza solitaria,libera e senza limiti civili.Il filosofo tedesco si rifà a questo mito nordico per delineare la figura del Ribelle, una sorta d’uomo che sceglie di opporsi al nichilismo orribile del nostro tempo. Secondo Jünger le teorie che mirano a dare spiegazioni logiche e razionali del mondo e le teorie tecniche-scientifiche sono l'inizio della fine della natura dell'essere umano moderno.Come ci si puà salvare da questa realtà che desertifica l’essere, o nel migliore dei casi che lo cela sotto identità artificiali? La risposta che ci elargisce Junger è nuova per il suo tempo.
Ai prodigi della tecnica e della scienza che spesso sono puro razionalismo, ostentazione volgare, ed automatismo, bisogna contrapporre il Wald( la Selva) che rappresenta lo spazio sacro in cui l’uomo incontra se stesso,dove incontra le forze primordiali della vita. Natura primordiale che la classe borghese invece nega e combatte , intimorita dalla natura elementare.Il Ribelle nel bosco può risorgere ad una esistenza più pura e più autentica; andando incontro alla morte senza timore l'individuo può vincere la paura dell’annientamento, e quindi ogni altra paura esistenziale che deriva dal timore della morte.Seguendo questa scelta l'uomo si fa essere libero,consapevole della sua natura originaria e dell’immensità della sua forza che lo mette in contatto con l'idea dell'Assoluto. La vita nel bosco non è quindi, come lascia intendere lo stesso Jünger, un specie di regresso al mondo non sviluppato,ma come anche lo stesso Nietzsche affermava il “ritorno alla natura” non è sempre un vero retrocedere ma un andare in alto verso “l’elevata, libera, e anche semplice natura e naturalità, una natura che dà libertà e gioia nell'essere individuo.
Con il Trattato del Ribelle Jünger ci disegna un’immagine della foresta (che è spesso presente sia nella mitologia che nelle fiabe europee), come luogo in cui l’uomo si erge a sovrano di sé, ritrovando il legame con quelle forze che sono superiori alle forze stesse del tempo.La Via del Bosco è quindi il viaggio che tutti gli uomini dovrebbero compiere per riscoprirsi e per cogliere in sè quell'essere selvatico ritrovando forze ed energie maschili, anche violente ma utili e decisive alla trasformazione e alla compresione della realtà moderna.Una realtà che la società di oggi,borghese ed insicura ha nascosto e sacrificato in nome del benessere materiale e del fallace progresso.
Ernst Jünger è un filosofo e saggista tedesco del Novecento il cui nome non dice molto a tutti eccetto gli amanti della filosofia contemporanea.Ma nella realtà fu uno dei pensatori più controversi ed influenti della sua epoca autore di un'opera dal titolo enigmatico Der Waldgang (passaggio al bosco), tradotto e pubblicato in Italia con il titolo Trattato del Ribelle.Il suo saggio filosofico si appoggia sull'antico mito islandedese del Waldgänger (letteralmente, colui che vaga nel bosco), col quale si indicava il ribelle che si dava alla fuga dalla società per condurre una nuova esistenza solitaria,libera e senza limiti civili.Il filosofo tedesco si rifà a questo mito nordico per delineare la figura del Ribelle, una sorta d’uomo che sceglie di opporsi al nichilismo orribile del nostro tempo. Secondo Jünger le teorie che mirano a dare spiegazioni logiche e razionali del mondo e le teorie tecniche-scientifiche sono l'inizio della fine della natura dell'essere umano moderno.Come ci si puà salvare da questa realtà che desertifica l’essere, o nel migliore dei casi che lo cela sotto identità artificiali? La risposta che ci elargisce Junger è nuova per il suo tempo.
Ai prodigi della tecnica e della scienza che spesso sono puro razionalismo, ostentazione volgare, ed automatismo, bisogna contrapporre il Wald( la Selva) che rappresenta lo spazio sacro in cui l’uomo incontra se stesso,dove incontra le forze primordiali della vita. Natura primordiale che la classe borghese invece nega e combatte , intimorita dalla natura elementare.Il Ribelle nel bosco può risorgere ad una esistenza più pura e più autentica; andando incontro alla morte senza timore l'individuo può vincere la paura dell’annientamento, e quindi ogni altra paura esistenziale che deriva dal timore della morte.Seguendo questa scelta l'uomo si fa essere libero,consapevole della sua natura originaria e dell’immensità della sua forza che lo mette in contatto con l'idea dell'Assoluto. La vita nel bosco non è quindi, come lascia intendere lo stesso Jünger, un specie di regresso al mondo non sviluppato,ma come anche lo stesso Nietzsche affermava il “ritorno alla natura” non è sempre un vero retrocedere ma un andare in alto verso “l’elevata, libera, e anche semplice natura e naturalità, una natura che dà libertà e gioia nell'essere individuo.
Con il Trattato del Ribelle Jünger ci disegna un’immagine della foresta (che è spesso presente sia nella mitologia che nelle fiabe europee), come luogo in cui l’uomo si erge a sovrano di sé, ritrovando il legame con quelle forze che sono superiori alle forze stesse del tempo.La Via del Bosco è quindi il viaggio che tutti gli uomini dovrebbero compiere per riscoprirsi e per cogliere in sè quell'essere selvatico ritrovando forze ed energie maschili, anche violente ma utili e decisive alla trasformazione e alla compresione della realtà moderna.Una realtà che la società di oggi,borghese ed insicura ha nascosto e sacrificato in nome del benessere materiale e del fallace progresso.
Il profilo ontologico dell'identità in Leibniz.
di Cristina Morelli
Monadi ed identità nel ragionamento filosofico di Leibniz.
Leibniz fu uno dei filosofi del XVII secolo dalla mente più viva e dinamica,un vero antesignano del sapere scientifico applicato alla riflessione filosofica.Centro nevralgico della sua filosofia è la sua soluzione delle problematiche metafisiche attreverso il particolare strumento ontologico delle monadi o identità.La sostanza nella realtà non può essere distinta,al contrario del pensiero cartesiano,poichè altrimenti sarebbe ente divisibile.Quindi elemento tipico della sostanza è la sua stessa forza.Questi criteri di forza sono definiti da Leibniz monadi. Le monadi rappresentano gli specifici atomi della realtà naturale,i veri elementi delle cose.Essendo elementi semplici hanno peculiarità tipiche: non hanno nessuna forma altrimenti,come detto,sarebbero divisibili; non possono essere nè prodotte né distrutte; sono specifiche identità uniche; essendo entità unica ogni monade è autosufficiente e non può esistere fuori da essa stessa.Leibniz approfondendo il suo discorso stabilisce anche varie tipologie di monadi.Egli parla di "monade nuda", la quale contiene tutte le informazioni sullo stato delle altre, ma non è elemento cosciente.
Diversa da esse è la monade della Percezione che è accompagnata dalla coscienza della realtà in cui si trova.Questo percorso filosofico porta a creare un filo diretto di continuazione fra la materia e,passando attraverso l'anima, fino all'intelletto dell'uomo.Leibniz sottolinea che anche per l'uomo esiste però un livello di inconscio che è rimodulabile sulle minime percezioni.L'azione che viene posta in essere dalle monadi viene poi articolata con la teoria dell'armonia. Le monadi infatti nella realtà si fondono in modo aggregato come veri organismi: c'è una monade centrale e poi una certa quantità di monadi intorno a dare struttura al gruppo. Ogni monade ha un legame specifico con l'altra e,poichè esse non hanno contatto con l'esterno, il mondo,secondo Leibniz sarebbe sorto per una disposizione divina che permette la congiunzione perfetta di tutte le monadi. L'armonia prestabilita ha il suo esmepio eclatante nel rapporto tra anima e corpo.Leibniz di fatti evidenzia che il regno della natura è in totale armonia con quello della grazia, cioè con l'universo delle entità spirituali e morali sotto il controllo di Dio. Dio è quindi il garante della stessa armonia prestabilita.In base a questo legame però gli spiriti vagano e imitando l'entità divina possono anche percepirne ed imitarne la perfezione cosmica.L'esistenza di Dio è per Leibniz motivata dallo stesso principio di ragion sufficiente, che diventa mezzo basilare di ogni razionalità insieme al principio di non contraddizione.
Il principio di ragion sufficiente ci porta a dire che nulla è giusto ed esiste, nessuna realtà può essere vera, senza che ci sia una ragione sufficiente alla sua stessa esistenza e natura.L'ultima delle ragione sufficiente non può che essere Dio stesso e la imperscrutabilità.Nel cosmo possono anche esistere serie infinite di mondi e realtà materiali ma è Dio che scegliendo sulla base del principio di ragion sufficiente ha ideato la realtà migliore fra tutte quelle possibili.Ma se noi viviamo nel migliore dei mondi possibili perchè allora esiste in natura il male?Dio non ha pensato al male,ma ne ha concesso l'esistenza sempre però facendo si che sia il bene ad avere la meglio; esistendo infatti tre forme di male: il male metafisico, che nasce dalla stessa imperfezione delle creature; il male fisico,cioè il dolore, che deriva la sua giustificazione dalla stessa utilità che esso ha per permettere la conservazione dell'individuo;e infine il male morale, il peccato, che nasce e prolifera dagli spazi della libertà dell'uomo.
Leibniz fu uno dei filosofi del XVII secolo dalla mente più viva e dinamica,un vero antesignano del sapere scientifico applicato alla riflessione filosofica.Centro nevralgico della sua filosofia è la sua soluzione delle problematiche metafisiche attreverso il particolare strumento ontologico delle monadi o identità.La sostanza nella realtà non può essere distinta,al contrario del pensiero cartesiano,poichè altrimenti sarebbe ente divisibile.Quindi elemento tipico della sostanza è la sua stessa forza.Questi criteri di forza sono definiti da Leibniz monadi. Le monadi rappresentano gli specifici atomi della realtà naturale,i veri elementi delle cose.Essendo elementi semplici hanno peculiarità tipiche: non hanno nessuna forma altrimenti,come detto,sarebbero divisibili; non possono essere nè prodotte né distrutte; sono specifiche identità uniche; essendo entità unica ogni monade è autosufficiente e non può esistere fuori da essa stessa.Leibniz approfondendo il suo discorso stabilisce anche varie tipologie di monadi.Egli parla di "monade nuda", la quale contiene tutte le informazioni sullo stato delle altre, ma non è elemento cosciente.
Diversa da esse è la monade della Percezione che è accompagnata dalla coscienza della realtà in cui si trova.Questo percorso filosofico porta a creare un filo diretto di continuazione fra la materia e,passando attraverso l'anima, fino all'intelletto dell'uomo.Leibniz sottolinea che anche per l'uomo esiste però un livello di inconscio che è rimodulabile sulle minime percezioni.L'azione che viene posta in essere dalle monadi viene poi articolata con la teoria dell'armonia. Le monadi infatti nella realtà si fondono in modo aggregato come veri organismi: c'è una monade centrale e poi una certa quantità di monadi intorno a dare struttura al gruppo. Ogni monade ha un legame specifico con l'altra e,poichè esse non hanno contatto con l'esterno, il mondo,secondo Leibniz sarebbe sorto per una disposizione divina che permette la congiunzione perfetta di tutte le monadi. L'armonia prestabilita ha il suo esmepio eclatante nel rapporto tra anima e corpo.Leibniz di fatti evidenzia che il regno della natura è in totale armonia con quello della grazia, cioè con l'universo delle entità spirituali e morali sotto il controllo di Dio. Dio è quindi il garante della stessa armonia prestabilita.In base a questo legame però gli spiriti vagano e imitando l'entità divina possono anche percepirne ed imitarne la perfezione cosmica.L'esistenza di Dio è per Leibniz motivata dallo stesso principio di ragion sufficiente, che diventa mezzo basilare di ogni razionalità insieme al principio di non contraddizione.
Il principio di ragion sufficiente ci porta a dire che nulla è giusto ed esiste, nessuna realtà può essere vera, senza che ci sia una ragione sufficiente alla sua stessa esistenza e natura.L'ultima delle ragione sufficiente non può che essere Dio stesso e la imperscrutabilità.Nel cosmo possono anche esistere serie infinite di mondi e realtà materiali ma è Dio che scegliendo sulla base del principio di ragion sufficiente ha ideato la realtà migliore fra tutte quelle possibili.Ma se noi viviamo nel migliore dei mondi possibili perchè allora esiste in natura il male?Dio non ha pensato al male,ma ne ha concesso l'esistenza sempre però facendo si che sia il bene ad avere la meglio; esistendo infatti tre forme di male: il male metafisico, che nasce dalla stessa imperfezione delle creature; il male fisico,cioè il dolore, che deriva la sua giustificazione dalla stessa utilità che esso ha per permettere la conservazione dell'individuo;e infine il male morale, il peccato, che nasce e prolifera dagli spazi della libertà dell'uomo.
Locke e la teoretica della conoscenza.
di Cristina Morelli
Un pensatore vero pioniere della filosofia moderna.
Lo studio degli aspetti metafisi della conoscenza è una necessità filosofica da sempre presente e fu soprattutto a partire dal Settecento che queste indicazioni furono inserite grazie principalmente all'influsso teoretico di Locke.Punti cardine della sua teoria della conoscenza erano il rifiuto della dominanza del metodo matematico e l'utilizzo di modelli gnoseologici basati sull'empirica e non sulla deduzione.La filosofia di Locke è ritenuta da molti l'inizio del pensiero filosofico del '700 e sarà poi fondamentale sia per il noto empirismo inglese sia per il sensismo francese con due personalità su tutti e cioè Leibniz e Giambattista Vico.Il percorso teoretico di Locke fonda il suo nucleo in tema di percezione dall'interiorità dell'uomo alla relazione che questi ha con il mondo esterno e connette il dilemma esistenziale con il problema delle attività e dei rapporti fra le idee. E' però innegabile che alla fine si evince un certo risultato scettico poichè nella relazione fra rappresentazione e rappresentato (l'oggetto assoluto), la realtà dell'oggetto di sicuro non deve essere negata altimenti si perde lo stesso significato oggettivo della sensazione.
E' però anche vero che tale rappresentazione viene ad essere compresa grazie agli strumenti che Locke prevede per l'attività conoscitiva.Da ciò però,secondo alcuni critici,scaturirebbe un vero paradosso da cui poi partiranno svariate correnti filosofiche nello stesso Settecento,un paradosso che per essere risolto spinge lo stesso Locke a dare maggiore attenzione non più all'oggetto assoluto ma al concetto di rappresentazione.Con Locke si arriva ad eliminare la vecchia corrispondenza fra la rappresentazione e la natura che viene ad essere rappresentata, e analizza il percorso in senso funzionalistico.Si passa poi agevolmente ad un tentativo di storicizzazione della relazione tra sensi e intelletto: la cosiddetta tabula rasa si ricollega allo stato originario di vera bestialità degli esseri umani,per poi passare alla fase della poetica e all'intelletto,in particolare alla fase razionale.
L'approccio di Lockè permetterà a filosofi come gli empiristi e i sensisti francesi e allo stesso Leibniz di dedicarsi ad altri aspetti fino ad allora non risolti.Insieme si arriva in definitiva ad un processo di totale ribaltamento del precetto stesso di soggettività agostiniana.Per Sant'Agostino infatti la soggettività risultava essere basata su un metodo introspettivo e sviluppata poi in chiave interiore.Con Locke invece la soggettività concepita passa dall'universo dell'interiorità a quello delle relazioni tra soggetto e ambiente esterno e a ciò si arriva con un'analisi sia empirica che metafisica.Verificare il metodo mediante cui l'uomo da vita alle proprie rappresentazioni vuol dire riuscire a trovare quella necessaria realtà esterna,unica ed oggettiva che è indipendente dalla sua stessa dimostrazione.Questo è il lascito principale del percorso filosofico di Locke.
Lo studio degli aspetti metafisi della conoscenza è una necessità filosofica da sempre presente e fu soprattutto a partire dal Settecento che queste indicazioni furono inserite grazie principalmente all'influsso teoretico di Locke.Punti cardine della sua teoria della conoscenza erano il rifiuto della dominanza del metodo matematico e l'utilizzo di modelli gnoseologici basati sull'empirica e non sulla deduzione.La filosofia di Locke è ritenuta da molti l'inizio del pensiero filosofico del '700 e sarà poi fondamentale sia per il noto empirismo inglese sia per il sensismo francese con due personalità su tutti e cioè Leibniz e Giambattista Vico.Il percorso teoretico di Locke fonda il suo nucleo in tema di percezione dall'interiorità dell'uomo alla relazione che questi ha con il mondo esterno e connette il dilemma esistenziale con il problema delle attività e dei rapporti fra le idee. E' però innegabile che alla fine si evince un certo risultato scettico poichè nella relazione fra rappresentazione e rappresentato (l'oggetto assoluto), la realtà dell'oggetto di sicuro non deve essere negata altimenti si perde lo stesso significato oggettivo della sensazione.
E' però anche vero che tale rappresentazione viene ad essere compresa grazie agli strumenti che Locke prevede per l'attività conoscitiva.Da ciò però,secondo alcuni critici,scaturirebbe un vero paradosso da cui poi partiranno svariate correnti filosofiche nello stesso Settecento,un paradosso che per essere risolto spinge lo stesso Locke a dare maggiore attenzione non più all'oggetto assoluto ma al concetto di rappresentazione.Con Locke si arriva ad eliminare la vecchia corrispondenza fra la rappresentazione e la natura che viene ad essere rappresentata, e analizza il percorso in senso funzionalistico.Si passa poi agevolmente ad un tentativo di storicizzazione della relazione tra sensi e intelletto: la cosiddetta tabula rasa si ricollega allo stato originario di vera bestialità degli esseri umani,per poi passare alla fase della poetica e all'intelletto,in particolare alla fase razionale.
L'approccio di Lockè permetterà a filosofi come gli empiristi e i sensisti francesi e allo stesso Leibniz di dedicarsi ad altri aspetti fino ad allora non risolti.Insieme si arriva in definitiva ad un processo di totale ribaltamento del precetto stesso di soggettività agostiniana.Per Sant'Agostino infatti la soggettività risultava essere basata su un metodo introspettivo e sviluppata poi in chiave interiore.Con Locke invece la soggettività concepita passa dall'universo dell'interiorità a quello delle relazioni tra soggetto e ambiente esterno e a ciò si arriva con un'analisi sia empirica che metafisica.Verificare il metodo mediante cui l'uomo da vita alle proprie rappresentazioni vuol dire riuscire a trovare quella necessaria realtà esterna,unica ed oggettiva che è indipendente dalla sua stessa dimostrazione.Questo è il lascito principale del percorso filosofico di Locke.
Kierkegaard e tutta l'angoscia dell'uomo.
di Cristina Morelli
Un nuovo tema si afferma nella filosofia.Il mal di vivere.
Kierkegaard è un filosofo dalla grandezza spesso sottovalutata.Il suo percorso è stato ed è di grande attualità,una riflessione profonda sull'esistenza umana incentrata sulla particolare categoria della possibilità.In due delle sue più importanti opere “Il concetto dell'angoscia” e “La malattia mortale” Kierkegaard evidenzia la sottile linea dell'inquietudine e dell'insicurezza dell'uomo provocati dalla propria condizione di incertezza al cospetto della possibilità.Il concetto kierkegaardiano di libertà è molto differente rispetto al passato proprio perchè finisce con il basarsi sulla definizione di possibilità, di scelta, di rischio, insomma con il paradosso. Quando parla di possibilità Kirkegaard si rifà ai grandi spazi di libertà all'idea di scelta e rischio ma questo provoca la paura di fallire,di perdersi,di annientarsi,il timore dell'angoscia.Lo stesso filosofo danese ci parla infatti di come la possibilità sia la più pericolosa categoria poichè in essa tutto è possibile che accada e questo rischio provoca un forte senso di angoscia nell'uomo.
L'angoscia è concettualizzata come una forte vertigine che nasce dal senso di libertà. L'individuo davanti alle possibilità di scelta ha paura poichè si trova opposto all'assoluto senso di libertà: tutto diventa possibile. Nonostante questo però l'uomo sa che potendo tutto essere possibile nulla nella realtà è reale.C'è grande rischio di errore,il timore di cadere nel nulla esistenziale; ecco che l'angoscia diventa quasi necessità una sorta di naturale circostanza riguardante l'individuo la libertà del soggetto però è influenzata dalla sua ignoranza,un grosso limite esistenziale.L'angoscia è un sentimento che collega l'uomo col suo ambiente intorno,un contesto che spesso viene visto con enorme difficoltà per colpa del universo in cui vive e della sua stessa instabilità.Se tutto sconvolge l'individuo alla fine la disperazione,la patologia più grave, avrà la meglio.Questa patologia del vivere nasce per Kierkegaard dalla relazione del singolo con se stesso e a differenza dell'angoscia, causata dalla paura della possibilità,ha origine dal timore di impossibilità.L'io si trova davanti all'alternativa di volere o no il se medesimo.Se opta per il volere si realizza fino in fondo ma finisce con lo sbattere dinanzi alla sua stessa limitatezza e con la non capacità di riuscire a volere.
Nel caso del non volere invece, l'uomo che rifiuta se stesso si ritrova in uno stato di impossibilità ancora più profonda.Comunque sia però l'individuo rischia di subire il proprio fallimento e viene colpito dalla patologia mortale,finisce con il vivere la sua stessa morte. L'unico aspetto non negativo dell'angoscia e di riflesso della disperazione è lo strumento della fede. Grazie alla fede si manifesta nella sua completezza l'esperienza della possibilità del nulla e dell'angoscia.L'essere umano grazie a Dio può trovare un sostegno e arrivare anche ad affidare a lui il suo rischio di possibilità.La fede è concepita come il mezzo esistenziale tramite il quale l'individuo supera ogni approccio di comprensione razionale della realtà, si mette nelle mani di Dio e fingendo di capire anche quello che pare assurdo rispetto alla razionalità.La fede quindi per Kierkegaard diventa puro paradosso, poichè spesso essa diventa un mondo oltre alla stessa mente umana.La verità che sorge dalla fede è un concetto soggettivo,ma di una soggettività non relativa ma basata sulla relazione tra l'uomo e Dio.
Kierkegaard è un filosofo dalla grandezza spesso sottovalutata.Il suo percorso è stato ed è di grande attualità,una riflessione profonda sull'esistenza umana incentrata sulla particolare categoria della possibilità.In due delle sue più importanti opere “Il concetto dell'angoscia” e “La malattia mortale” Kierkegaard evidenzia la sottile linea dell'inquietudine e dell'insicurezza dell'uomo provocati dalla propria condizione di incertezza al cospetto della possibilità.Il concetto kierkegaardiano di libertà è molto differente rispetto al passato proprio perchè finisce con il basarsi sulla definizione di possibilità, di scelta, di rischio, insomma con il paradosso. Quando parla di possibilità Kirkegaard si rifà ai grandi spazi di libertà all'idea di scelta e rischio ma questo provoca la paura di fallire,di perdersi,di annientarsi,il timore dell'angoscia.Lo stesso filosofo danese ci parla infatti di come la possibilità sia la più pericolosa categoria poichè in essa tutto è possibile che accada e questo rischio provoca un forte senso di angoscia nell'uomo.
L'angoscia è concettualizzata come una forte vertigine che nasce dal senso di libertà. L'individuo davanti alle possibilità di scelta ha paura poichè si trova opposto all'assoluto senso di libertà: tutto diventa possibile. Nonostante questo però l'uomo sa che potendo tutto essere possibile nulla nella realtà è reale.C'è grande rischio di errore,il timore di cadere nel nulla esistenziale; ecco che l'angoscia diventa quasi necessità una sorta di naturale circostanza riguardante l'individuo la libertà del soggetto però è influenzata dalla sua ignoranza,un grosso limite esistenziale.L'angoscia è un sentimento che collega l'uomo col suo ambiente intorno,un contesto che spesso viene visto con enorme difficoltà per colpa del universo in cui vive e della sua stessa instabilità.Se tutto sconvolge l'individuo alla fine la disperazione,la patologia più grave, avrà la meglio.Questa patologia del vivere nasce per Kierkegaard dalla relazione del singolo con se stesso e a differenza dell'angoscia, causata dalla paura della possibilità,ha origine dal timore di impossibilità.L'io si trova davanti all'alternativa di volere o no il se medesimo.Se opta per il volere si realizza fino in fondo ma finisce con lo sbattere dinanzi alla sua stessa limitatezza e con la non capacità di riuscire a volere.
Nel caso del non volere invece, l'uomo che rifiuta se stesso si ritrova in uno stato di impossibilità ancora più profonda.Comunque sia però l'individuo rischia di subire il proprio fallimento e viene colpito dalla patologia mortale,finisce con il vivere la sua stessa morte. L'unico aspetto non negativo dell'angoscia e di riflesso della disperazione è lo strumento della fede. Grazie alla fede si manifesta nella sua completezza l'esperienza della possibilità del nulla e dell'angoscia.L'essere umano grazie a Dio può trovare un sostegno e arrivare anche ad affidare a lui il suo rischio di possibilità.La fede è concepita come il mezzo esistenziale tramite il quale l'individuo supera ogni approccio di comprensione razionale della realtà, si mette nelle mani di Dio e fingendo di capire anche quello che pare assurdo rispetto alla razionalità.La fede quindi per Kierkegaard diventa puro paradosso, poichè spesso essa diventa un mondo oltre alla stessa mente umana.La verità che sorge dalla fede è un concetto soggettivo,ma di una soggettività non relativa ma basata sulla relazione tra l'uomo e Dio.
Schopenhauer ed il concetto di nolontà.
di Cristina Morelli
Un filosofo dal pensiero eterno e sempre attuale.
Il pensiero filosofico di Schopenhauer risulta essere una forma di congiunzione tra vari flussi di filosofia precedente e nello specifico da un lato il razionalismo illuministico, dal quale però si allontana per ciò che attiene all'impronta ottimistica; da un lato il puro romanticismo, senza però mai trascendere nell'idealismo hegelliano ed in fine la tradizione mistica sia del cristianesimo ma anche dei credi orientali.L'origine dell'esperienza riflessiva di Schopenhauer va sempre ricercata in Immanuel Kant, dalla cui filosofia egli riprende la contrapposizione fra fenomeno e noumeno (ossia la cosa come mi appare e la cosa come è in sé),col passare del tempo però diverso sarà il concetto a ciò collegato.Lo studio del fenomeno inteso come rappresentazione avviene nella sua principale opera,il Mondo,in particolare nel libro primo dove Schopenhauer arriva ad andare oltre i limiti dell'estetica di Kant. Se infatti per Kant i principi a priori dell'esperienza sono lo spazio e il tempo, per Schopenhauer la rappresentazione risulta essere il rapporto fra soggetto e oggetto nell'atto conoscitivo, anche prima dello spazio e del tempo. La sola verità che andrebbe rivelata aprioristicamente è che "il mondo è mia rappresentazione": questa è l'affermazione universale,comunemente valida in ogni tempo ed in ogni spazio.
La rappresentazione quindi è da lui concepita come fusione di soggetto e oggetto, e dentro questo concetto allocano spazio, tempo e causalità.Le maniere in cui l'individuo arriva a cogliere questi stretti rapporti causali tra gli oggetti esistenti nella sfera della rappresentazione sono varie e complesse; in essi però ha sede la duplice origine del principio di ragion sufficiente.Partendo da questa complessa origine del principio di ragion sufficiente,l'universo della rappresentazione diventa perfettamente determinato. Ma in questo concetto ovviamente non può completarsi la totalità del mondo: poichè accanto alla rappresentazione,che è puro fenomeno,si trova la volontà, che è la base ideologica della stessa rappresentazione.Non serve ricercare tanti tipi di volontà, ma si tratta di un'unica volontà che si oggettiva in tipologie differenti.Infatti è chiaro che in ogni individuo si sente forte la presenza di questa volontà. La volontà si concettualizza per Schopenhauer in un forte principio unitario e non razionale; e si estrinseca nella rappresentazione attraverso forme differenti, ognuna dei quali indica una sorta di idea nel significato platonico del termine,ovvero un modello eterno che si autoalimenta nella rappresentazione stessa grazie a spazio, tempo e causalità.Spesso però accade che la volontà unica, oggettivatasi nei singoli uomini, dia vita ad una pericolosa lotta perenne, in cui si scontrano i vari egoismi degli individui.
Serve quindi una liberazione da questa volontà e una prima forma di liberazione dalla volontà di vivere è l'arte: grazie ad essa il soggetto non si contrappone ad altri esseri individuati, ma si dedica alla contemplazione delle idee intese come essenze universali.La contemplazione estetica ci permette però di raggiungere una libertà solo a metà,una libertà nel momento e non certo eterna; la liberazione eterna si raggiunge solo grazie ad un percorso etico.Tutto questo perchè se l'individuo è in parte fenomeno, sottoposto quindi alle regole di causalità, non è un soggetto libero perchè essendo un noumeno è subordinato alla volontà.Nel momento in cui però il soggetto comprende questo suo stato di sottoposizione,questa sua situazione negativa,egli decide per induzione di abbandonare la volontà di vivere, la quale è per lui fonte di ogni male e dipendenza e acquisisce la nolontà,dove raggiunge la liberazione totale.La nolontà per il filosofo tedesco di articola in tre livelli eterni:la giustizia,la bontà e l'ascesi,quest'ultima vista come consapevolezza che solo con rassegnazione e sacrificio l'uomo potrà mai liberarsi dalla volontà.
Il pensiero filosofico di Schopenhauer risulta essere una forma di congiunzione tra vari flussi di filosofia precedente e nello specifico da un lato il razionalismo illuministico, dal quale però si allontana per ciò che attiene all'impronta ottimistica; da un lato il puro romanticismo, senza però mai trascendere nell'idealismo hegelliano ed in fine la tradizione mistica sia del cristianesimo ma anche dei credi orientali.L'origine dell'esperienza riflessiva di Schopenhauer va sempre ricercata in Immanuel Kant, dalla cui filosofia egli riprende la contrapposizione fra fenomeno e noumeno (ossia la cosa come mi appare e la cosa come è in sé),col passare del tempo però diverso sarà il concetto a ciò collegato.Lo studio del fenomeno inteso come rappresentazione avviene nella sua principale opera,il Mondo,in particolare nel libro primo dove Schopenhauer arriva ad andare oltre i limiti dell'estetica di Kant. Se infatti per Kant i principi a priori dell'esperienza sono lo spazio e il tempo, per Schopenhauer la rappresentazione risulta essere il rapporto fra soggetto e oggetto nell'atto conoscitivo, anche prima dello spazio e del tempo. La sola verità che andrebbe rivelata aprioristicamente è che "il mondo è mia rappresentazione": questa è l'affermazione universale,comunemente valida in ogni tempo ed in ogni spazio.
La rappresentazione quindi è da lui concepita come fusione di soggetto e oggetto, e dentro questo concetto allocano spazio, tempo e causalità.Le maniere in cui l'individuo arriva a cogliere questi stretti rapporti causali tra gli oggetti esistenti nella sfera della rappresentazione sono varie e complesse; in essi però ha sede la duplice origine del principio di ragion sufficiente.Partendo da questa complessa origine del principio di ragion sufficiente,l'universo della rappresentazione diventa perfettamente determinato. Ma in questo concetto ovviamente non può completarsi la totalità del mondo: poichè accanto alla rappresentazione,che è puro fenomeno,si trova la volontà, che è la base ideologica della stessa rappresentazione.Non serve ricercare tanti tipi di volontà, ma si tratta di un'unica volontà che si oggettiva in tipologie differenti.Infatti è chiaro che in ogni individuo si sente forte la presenza di questa volontà. La volontà si concettualizza per Schopenhauer in un forte principio unitario e non razionale; e si estrinseca nella rappresentazione attraverso forme differenti, ognuna dei quali indica una sorta di idea nel significato platonico del termine,ovvero un modello eterno che si autoalimenta nella rappresentazione stessa grazie a spazio, tempo e causalità.Spesso però accade che la volontà unica, oggettivatasi nei singoli uomini, dia vita ad una pericolosa lotta perenne, in cui si scontrano i vari egoismi degli individui.
Serve quindi una liberazione da questa volontà e una prima forma di liberazione dalla volontà di vivere è l'arte: grazie ad essa il soggetto non si contrappone ad altri esseri individuati, ma si dedica alla contemplazione delle idee intese come essenze universali.La contemplazione estetica ci permette però di raggiungere una libertà solo a metà,una libertà nel momento e non certo eterna; la liberazione eterna si raggiunge solo grazie ad un percorso etico.Tutto questo perchè se l'individuo è in parte fenomeno, sottoposto quindi alle regole di causalità, non è un soggetto libero perchè essendo un noumeno è subordinato alla volontà.Nel momento in cui però il soggetto comprende questo suo stato di sottoposizione,questa sua situazione negativa,egli decide per induzione di abbandonare la volontà di vivere, la quale è per lui fonte di ogni male e dipendenza e acquisisce la nolontà,dove raggiunge la liberazione totale.La nolontà per il filosofo tedesco di articola in tre livelli eterni:la giustizia,la bontà e l'ascesi,quest'ultima vista come consapevolezza che solo con rassegnazione e sacrificio l'uomo potrà mai liberarsi dalla volontà.
Kant e la rigida Teoria dei postulati logici.
di Cristina Morelli
Uno sguardo nel pensiero filosofico dello studioso tedesco.
La riflessione filosofica di Immanuel Kant è uno degli spunti più profondi e densi della filosofia moderna.Il suo pensiero non può certo racchiudersi in poche righe nè in poche pagine,è un viaggio nell'essere uomo che merita tempo e approfondimento.Soffermiamoci però su un particolare aspetto ovvero il principio dei postulati e la relativa Teoria della Felicità.Nella Dialettica presente nella “Critica della ragion pratica“, quindi nella seconda parte dell’opera, Kant ci parla del cosiddetto sommo bene definito anche totalità incondizionata dell’oggetto della ragion pura,bene intero e perfetto uguale all’assoluto morale, fusione completa di virtù e felicità.La felicità non deve essere vista come una causa di semplice piacere poichè si correrebbe il grosso rischio di mettere in dubbio l’incondizionatezza della legge etica.Detto questo però la virtù pure se concepita come valore supremo non rappresenta ancora il “supremo bene” verso cui si dirige la nostra stessa natura,esso al limite andrebbe concepito come addizione di virtù e felicità.
Non bisogna pensare che con il principio del sommo bene il filosofo tedesco contraddica il carattere disinteressato e autonomo della morale questo perchè per Kant non serve pensare alla felicità come motivo dell’azione ma si limita a sottolineare che c’è solo in noi il bisogno di pensare che la persona,sul piano specifico del dovere, possa essere degno della felicità.Così facendo però virtù e felicità non risultano mai essere vicine ed insieme perchè la fatica di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due attività distinte e irrimediabilmente opposte : tutto ciò perchè l’imperativo etico impone la sottomissione delle tendenze e l’umiliazione dell’egoismo.La diretta conseguenza di ciò è che la virtù e la felicità rappresentano uan sorta di antinomia etica per eccellenza, che diventa col tempo l’oggetto stesso della dialettica della ragion pura. Se infatti rammentiamo gli antichi filosofi greci una situazione del genere sembra essersi già ripresentata:ad esempio nello stoicismo abbiano la felicità nella virtù,mentre nell'epicureismo la virtù si fonde nella felicità. Kant cerca di risolvere la complessa antinomia postulando un mondo metafisico in cui riesca a concretizzarsi l’equazione virtù = felicità, nel nostro mondo irrealizzabile.
Vengono all'occorenza ideati i cosiddeti postulati,ovvero delle proposizioni teoretiche non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizione della sua stessa esistenza e pensabilità.Sone delle vere esigenze insite nella morale che vengono supposte per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che soffermandoci singolarmente su essi non riescono ad essere dimostrati.Essi sono:
- L’immortalità dell’anima / perchè solo la santità, ovvero la conformità completa della volontà di legge, rende meritevoli del sommo bene e siccome la santità non è realizzabile nel nostro concreto si + costretti ad affermare che l’uomo, aldilà del suo tempo finito dell’esistenza, abbia a disposizione in un altra dimensione non reale, un tempo infinito e quindi un progredire infinito verso la santità.
- L’esistenza di Dio / La felicità mescolata e proporzionata alla virtù ci porta al postulato dell’esistenza di Dio, ovvero il credo di una volontà santa ed onnipotente, che abbia il compito di far coincide la felicità al merito.
- Libertà / Kant infine stabilisce che il concetto di libertà (condizione stessa dell’etica) è una forma di postulato perchè egli partendo dalle basi gnoseologiche della ragion pura ritiene che il principio di autocasualità (libero arbitrio) non riesca di essere spiegato im maniera certa scientifica poichè la dimensione umana dell’esperienza si fonde sempre e comunque sul rapporto causa – effetto.Quindi partendo da ciò se ”Devi, dunque puoi” e allora allo stesso modo se c’è la morale deve esserci per forza la libertà.
La riflessione filosofica di Immanuel Kant è uno degli spunti più profondi e densi della filosofia moderna.Il suo pensiero non può certo racchiudersi in poche righe nè in poche pagine,è un viaggio nell'essere uomo che merita tempo e approfondimento.Soffermiamoci però su un particolare aspetto ovvero il principio dei postulati e la relativa Teoria della Felicità.Nella Dialettica presente nella “Critica della ragion pratica“, quindi nella seconda parte dell’opera, Kant ci parla del cosiddetto sommo bene definito anche totalità incondizionata dell’oggetto della ragion pura,bene intero e perfetto uguale all’assoluto morale, fusione completa di virtù e felicità.La felicità non deve essere vista come una causa di semplice piacere poichè si correrebbe il grosso rischio di mettere in dubbio l’incondizionatezza della legge etica.Detto questo però la virtù pure se concepita come valore supremo non rappresenta ancora il “supremo bene” verso cui si dirige la nostra stessa natura,esso al limite andrebbe concepito come addizione di virtù e felicità.
Non bisogna pensare che con il principio del sommo bene il filosofo tedesco contraddica il carattere disinteressato e autonomo della morale questo perchè per Kant non serve pensare alla felicità come motivo dell’azione ma si limita a sottolineare che c’è solo in noi il bisogno di pensare che la persona,sul piano specifico del dovere, possa essere degno della felicità.Così facendo però virtù e felicità non risultano mai essere vicine ed insieme perchè la fatica di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due attività distinte e irrimediabilmente opposte : tutto ciò perchè l’imperativo etico impone la sottomissione delle tendenze e l’umiliazione dell’egoismo.La diretta conseguenza di ciò è che la virtù e la felicità rappresentano uan sorta di antinomia etica per eccellenza, che diventa col tempo l’oggetto stesso della dialettica della ragion pura. Se infatti rammentiamo gli antichi filosofi greci una situazione del genere sembra essersi già ripresentata:ad esempio nello stoicismo abbiano la felicità nella virtù,mentre nell'epicureismo la virtù si fonde nella felicità. Kant cerca di risolvere la complessa antinomia postulando un mondo metafisico in cui riesca a concretizzarsi l’equazione virtù = felicità, nel nostro mondo irrealizzabile.
Vengono all'occorenza ideati i cosiddeti postulati,ovvero delle proposizioni teoretiche non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizione della sua stessa esistenza e pensabilità.Sone delle vere esigenze insite nella morale che vengono supposte per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che soffermandoci singolarmente su essi non riescono ad essere dimostrati.Essi sono:
- L’immortalità dell’anima / perchè solo la santità, ovvero la conformità completa della volontà di legge, rende meritevoli del sommo bene e siccome la santità non è realizzabile nel nostro concreto si + costretti ad affermare che l’uomo, aldilà del suo tempo finito dell’esistenza, abbia a disposizione in un altra dimensione non reale, un tempo infinito e quindi un progredire infinito verso la santità.
- L’esistenza di Dio / La felicità mescolata e proporzionata alla virtù ci porta al postulato dell’esistenza di Dio, ovvero il credo di una volontà santa ed onnipotente, che abbia il compito di far coincide la felicità al merito.
- Libertà / Kant infine stabilisce che il concetto di libertà (condizione stessa dell’etica) è una forma di postulato perchè egli partendo dalle basi gnoseologiche della ragion pura ritiene che il principio di autocasualità (libero arbitrio) non riesca di essere spiegato im maniera certa scientifica poichè la dimensione umana dell’esperienza si fonde sempre e comunque sul rapporto causa – effetto.Quindi partendo da ciò se ”Devi, dunque puoi” e allora allo stesso modo se c’è la morale deve esserci per forza la libertà.
Hegel e lo spiritualismo della coscienza.
di Cristina Morelli
La Teoria dell'Assoluto del filosofo tedesco padre dell'idealismo.
Hegel è stato e resta uno dei più importanti pensatori dell'era moderna.Il suo apporto,le sue riflessioni hanno aperto alla filosofia universi inesplorati e fatto chiarezza su alcuni degli aspetti più profondi,intensi e complessi dell'esistenza umana.E' certamente “Fenomenologia dello spirito” la sua opera matura in cui il filosofo tedesco illustrò il cammino che compie faticosamente la coscienza per arrivare alla sfera dell'Assoluto, la strada che intraprende il principio per giungere a se stesso, oltrepassando la complicata distinzione tra soggetto e oggetto. L'Assoluto è il protagonista del viaggio filosofico hegeliano ma è come se esso stesso non sappia bene di esserlo poichè è basilare che prenda coscienza di sé. La teoria della Fenomenologia dello spirito si divide in 3 elementi: Coscienza (tesi): in cui aspetto dominante è l'attenzione verso l'oggetto; Autocoscienza (antitesi): in cui domina l'attenzione verso il soggetto; Ragione (sintesi): nella quale si manifesta la fusione tra soggetto e oggetto. La coscienza a sua volta è costituita da 3 momenti fondamentali : Certezza sensibile: è la forma più dirette e semplice di conoscenza, la quale rappresenta il rapporto tra un soggetto particolare e un oggetto particolare, e che inoltre risulta caratterizzato da elementi come il “qui” e l'”ora”, connotazioni applicabili a qualsiasi oggetto e perciò universali e anche il suo soggetto può essere qualsiasi e perciò non è definibile particolare ma universale.
Percezione: si ha lo stesso rinvio all'io universale, un oggetto viene compreso come uno nella molteplicità delle sue qualità, ma è sempre l'io stesso che ne determina l'unità, passa poi all'Intelletto, che arriva a comprendere che ciò che conferisce unità alle molteplici determinazioni dell'oggetto è il soggetto stesso. L'oggetto quindi finisce con l'essere la coscienza stessa.Seguendo questa riflessione quindi la coscienza è diventata autocoscienza, ovvero coscienza di sé. Con l'autocoscienza l'attenzione viaggia e si concentra dall'oggetto al soggetto nei suoi rapporti con gli altri, ossia tra autocoscienze. Anche in questo momento filosofico abbiamo ben tre legami distinti: Signoria e servitù: in cui si ha un conflitto tra autocoscienze, dove ciascuna pretende di essere riconosciuta dall'altra come superiore. Del resto è sempre accaduto che chi non teme la morte si impone su colui che invece ne ha paura. Il primo diventa padrone, il secondo servo, si determina in questo modo un rapporto di schiavitù tipico del mondo antico. Poi abbiamo Stoicismo e scetticismo: lo stoicismo incensa la libertà del saggio nei confronti di ciò che lo circonda, ma in realtà rappresenta una libertà solo interiore, poiché i condizionamenti permangono. Con lo scetticismo invece si ha la negazione del mondo. Hegel nel suo pensiero afferma che lo scettico si contraddice poiché dichiara che tutto è falso ma egli stesso ha la pretesa di dire qualcosa di vero. Infine abbiamo la Coscienza infelice: essa è quella entità che non sa di essere tutta la realtà, perciò si trova spesso divisa in conflitti e opposizioni dai quali esce solo arrivando alla coscienza di essere tutto.
Un aspetto forte del pensiero hegeliano è poi la dura critica alle strutture delle chiese cristiane affermatesi dopo la morte di Gesù, poiché con esse sembrerebbe scomparire il senso profondo del messaggio religioso del maestro.Gesù ha diffuso l’amore, la fratellanza come principio ed il superamento della legge esteriore.Le chiese invece hanno costruito una religione di tipo dogmatico, cioè basata su rigidi criteri di verità oggettivamente fissati (dogmi), e imposti con leggi morali e precetti esteriori. Riflettendo sul nucleo teorico della Bibbia,Hegel analizza la metafora ebraica e nota che gli Ebrei hanno visto il diluvio come un tradimento della natura nei loro confronti, e speravano nella salvezza di Dio da sempre idealizzato come contrapposizione alla natura: il loro dogma affermava infatti che Egli è tutto, l’uomo e la natura sono niente.Da ciò la consapevolezza che gli Ebrei hanno scelto di vivere in inimicizia con la natura e in ostilità con gli altri uomini: essi affidano la loro salvezza e pace unicamente al loro di Dio di cui sono il popolo eletto. Ogni rapporto di amicizia con gli altri uomini minaccerebbe il legame di fedeltà assoluta a Dio.Perciò la convinzione che essi sono vittima del destino ovvero di quella potenza con cui la natura reagisce,ma in realtà lo stesso Gesù aveva rifiutato la scelta di un popolo che fosse nemico ed ostile con un'altro. Da qui si giunge al pensiero che la vita sia una: inimicarsi gli altri popoli significa inimicarsi dei viventi e quindi porsi contro al vita stessa. Poiché una sola vita accomuna i viventi, la stessa vita degli Ebrei si è complicato ed essi divennero il popolo errante.
Hegel è stato e resta uno dei più importanti pensatori dell'era moderna.Il suo apporto,le sue riflessioni hanno aperto alla filosofia universi inesplorati e fatto chiarezza su alcuni degli aspetti più profondi,intensi e complessi dell'esistenza umana.E' certamente “Fenomenologia dello spirito” la sua opera matura in cui il filosofo tedesco illustrò il cammino che compie faticosamente la coscienza per arrivare alla sfera dell'Assoluto, la strada che intraprende il principio per giungere a se stesso, oltrepassando la complicata distinzione tra soggetto e oggetto. L'Assoluto è il protagonista del viaggio filosofico hegeliano ma è come se esso stesso non sappia bene di esserlo poichè è basilare che prenda coscienza di sé. La teoria della Fenomenologia dello spirito si divide in 3 elementi: Coscienza (tesi): in cui aspetto dominante è l'attenzione verso l'oggetto; Autocoscienza (antitesi): in cui domina l'attenzione verso il soggetto; Ragione (sintesi): nella quale si manifesta la fusione tra soggetto e oggetto. La coscienza a sua volta è costituita da 3 momenti fondamentali : Certezza sensibile: è la forma più dirette e semplice di conoscenza, la quale rappresenta il rapporto tra un soggetto particolare e un oggetto particolare, e che inoltre risulta caratterizzato da elementi come il “qui” e l'”ora”, connotazioni applicabili a qualsiasi oggetto e perciò universali e anche il suo soggetto può essere qualsiasi e perciò non è definibile particolare ma universale.
Percezione: si ha lo stesso rinvio all'io universale, un oggetto viene compreso come uno nella molteplicità delle sue qualità, ma è sempre l'io stesso che ne determina l'unità, passa poi all'Intelletto, che arriva a comprendere che ciò che conferisce unità alle molteplici determinazioni dell'oggetto è il soggetto stesso. L'oggetto quindi finisce con l'essere la coscienza stessa.Seguendo questa riflessione quindi la coscienza è diventata autocoscienza, ovvero coscienza di sé. Con l'autocoscienza l'attenzione viaggia e si concentra dall'oggetto al soggetto nei suoi rapporti con gli altri, ossia tra autocoscienze. Anche in questo momento filosofico abbiamo ben tre legami distinti: Signoria e servitù: in cui si ha un conflitto tra autocoscienze, dove ciascuna pretende di essere riconosciuta dall'altra come superiore. Del resto è sempre accaduto che chi non teme la morte si impone su colui che invece ne ha paura. Il primo diventa padrone, il secondo servo, si determina in questo modo un rapporto di schiavitù tipico del mondo antico. Poi abbiamo Stoicismo e scetticismo: lo stoicismo incensa la libertà del saggio nei confronti di ciò che lo circonda, ma in realtà rappresenta una libertà solo interiore, poiché i condizionamenti permangono. Con lo scetticismo invece si ha la negazione del mondo. Hegel nel suo pensiero afferma che lo scettico si contraddice poiché dichiara che tutto è falso ma egli stesso ha la pretesa di dire qualcosa di vero. Infine abbiamo la Coscienza infelice: essa è quella entità che non sa di essere tutta la realtà, perciò si trova spesso divisa in conflitti e opposizioni dai quali esce solo arrivando alla coscienza di essere tutto.
Un aspetto forte del pensiero hegeliano è poi la dura critica alle strutture delle chiese cristiane affermatesi dopo la morte di Gesù, poiché con esse sembrerebbe scomparire il senso profondo del messaggio religioso del maestro.Gesù ha diffuso l’amore, la fratellanza come principio ed il superamento della legge esteriore.Le chiese invece hanno costruito una religione di tipo dogmatico, cioè basata su rigidi criteri di verità oggettivamente fissati (dogmi), e imposti con leggi morali e precetti esteriori. Riflettendo sul nucleo teorico della Bibbia,Hegel analizza la metafora ebraica e nota che gli Ebrei hanno visto il diluvio come un tradimento della natura nei loro confronti, e speravano nella salvezza di Dio da sempre idealizzato come contrapposizione alla natura: il loro dogma affermava infatti che Egli è tutto, l’uomo e la natura sono niente.Da ciò la consapevolezza che gli Ebrei hanno scelto di vivere in inimicizia con la natura e in ostilità con gli altri uomini: essi affidano la loro salvezza e pace unicamente al loro di Dio di cui sono il popolo eletto. Ogni rapporto di amicizia con gli altri uomini minaccerebbe il legame di fedeltà assoluta a Dio.Perciò la convinzione che essi sono vittima del destino ovvero di quella potenza con cui la natura reagisce,ma in realtà lo stesso Gesù aveva rifiutato la scelta di un popolo che fosse nemico ed ostile con un'altro. Da qui si giunge al pensiero che la vita sia una: inimicarsi gli altri popoli significa inimicarsi dei viventi e quindi porsi contro al vita stessa. Poiché una sola vita accomuna i viventi, la stessa vita degli Ebrei si è complicato ed essi divennero il popolo errante.
Il nulla nella filosofia classica greca.
di Cristina Morelli
Come si sviluppò in Grecia il concetto del nulla.
Quando si parla di nulla ci troviamo di fronte ad uno dei concetti piiù complessi,sfeccettati ed elusivi della filosofia.Secoli e secoli di riflessioni sul tema hanno arricchito la nozione che oggi ne abbiamo; di solito il termine nulla si contrappone a essere, e morfologicamente potrebbe essere inteso come una forma di non-essere (in seguito però vedremo che in filosofia è certamente possibile concepire una differenza tra i due termini). Già giungere ad una vera definizione di nulla potrebbe apparire un piccolo paradosso in quanto il nulla è assenza di contenuto quindi giungeremmo ad una concettualizzaizone di un qualcosa che non esiste,rischiando una evidente contraddizione logica.Dunque, invece di elaborare una definizione positiva del nulla, possiamo limitiamoci ad esaminare i problemi e i paradossi che riguardo al nulla sono stati evidenziati nei secoli dalla filosofia. Se partiamo da un breve percorso nella filosofia antica,non possiamo non iniziare, naturalmente, da colui che per primo ne parlò in relazione all'essere: Parmenide. Il problema del nulla, infatti, è metafisicamente affrontabile nel problema del non-essere. Il non-essere, semplicemente, non è, ed è un percorso logico assolutamente non percorribile, perché esso non è né pensabile (non si può pensare il nulla, poichè in tal caso si penserebbe sempre a qualcosa), né è comunicabile. Come riuscire a spiegare quindi la reale diversità dei fenomeni?
Su questo argomento un lungo dibattito è stato affrontato dai cosiddetti filosofi pluralisti. Un chiaro esempio furono gli atomisti, ad esempio, che per primi parlarono della realtà come composta di "pieno" e di "vuoto", dando in questo modo una sorta di dignità filosofica e mentale a quel non-essere che Parmenide aveva totalmente escluso.Alcuni decenni dopo il discorso e la riflessione atomistica fu ripreso da Gorgia,che sul non-essere, assunse una netta presa di posizione contro Parmenide. Per Gorgia nulla esiste, se anche qualcosa esistesse non sarebbe conoscibile e se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Il risultato di questa elugubrazione è un esplicito rafforzamento del linguaggio: infatti pure se non possiamo dire nulla di certo sulla realtà, possiamo sempre adoperare questo mezzo meraviglioso (il linguaggio), che ha una esplicita potenza retorica e pragmatica.E' importante sottolineare che anni dopo il sommo Platone combattè la posizione sofistica,criticandola aspramente e nel contempo tornò a fare i conti con Parmenide. Nella sua opera Sofista commise il famoso "parricidio" del padre Parmenide, trasmigrando filosoficamente dall'idea di un non-essere assoluto a quella di un non-essere relativo a ciò che è altro o diverso: un oggetto è tale anche perché "non-è" altri oggetti,questo era ed è infatti il principio base che si deduce dalla sua opera.
In tal modo il non-essere fu ricollocato all'interno del pensiero e dell'esperienza quotidiana della vita reale e concreta.Un passo ulteriore sull'argomento verrà poi compiuto decenni dopo con il pensiero epicureista che ritorna ad effettuare un diretto confronto con la riflessione parmenidea.Epicuro aveva concepito nei suoi scritti la realtà come composta di atomi e di vuoto. Il filosofo greco infatti affermava che nulla si genera da ciò che non è, aggiungendo poi che nulla scompare o si corrompe in ciò che non è. In un certo qual modo potremmo,senza smetita alcuna,ritenere che Epicuro si collocò,sul tema del nulla sulla stessa riflessione dei filosofi pluralisti senza mai prendere veramente in considerazione il passaggio da un essere assoluto (come ad esempio la nascita) a un non-essere assoluto (come la morte); egli parlò più prosaicamente di un vero e proprio cambiamento, ovvero ciò che non-è momentaneamente e ciò che sarà dopo.
Quando si parla di nulla ci troviamo di fronte ad uno dei concetti piiù complessi,sfeccettati ed elusivi della filosofia.Secoli e secoli di riflessioni sul tema hanno arricchito la nozione che oggi ne abbiamo; di solito il termine nulla si contrappone a essere, e morfologicamente potrebbe essere inteso come una forma di non-essere (in seguito però vedremo che in filosofia è certamente possibile concepire una differenza tra i due termini). Già giungere ad una vera definizione di nulla potrebbe apparire un piccolo paradosso in quanto il nulla è assenza di contenuto quindi giungeremmo ad una concettualizzaizone di un qualcosa che non esiste,rischiando una evidente contraddizione logica.Dunque, invece di elaborare una definizione positiva del nulla, possiamo limitiamoci ad esaminare i problemi e i paradossi che riguardo al nulla sono stati evidenziati nei secoli dalla filosofia. Se partiamo da un breve percorso nella filosofia antica,non possiamo non iniziare, naturalmente, da colui che per primo ne parlò in relazione all'essere: Parmenide. Il problema del nulla, infatti, è metafisicamente affrontabile nel problema del non-essere. Il non-essere, semplicemente, non è, ed è un percorso logico assolutamente non percorribile, perché esso non è né pensabile (non si può pensare il nulla, poichè in tal caso si penserebbe sempre a qualcosa), né è comunicabile. Come riuscire a spiegare quindi la reale diversità dei fenomeni?
Su questo argomento un lungo dibattito è stato affrontato dai cosiddetti filosofi pluralisti. Un chiaro esempio furono gli atomisti, ad esempio, che per primi parlarono della realtà come composta di "pieno" e di "vuoto", dando in questo modo una sorta di dignità filosofica e mentale a quel non-essere che Parmenide aveva totalmente escluso.Alcuni decenni dopo il discorso e la riflessione atomistica fu ripreso da Gorgia,che sul non-essere, assunse una netta presa di posizione contro Parmenide. Per Gorgia nulla esiste, se anche qualcosa esistesse non sarebbe conoscibile e se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Il risultato di questa elugubrazione è un esplicito rafforzamento del linguaggio: infatti pure se non possiamo dire nulla di certo sulla realtà, possiamo sempre adoperare questo mezzo meraviglioso (il linguaggio), che ha una esplicita potenza retorica e pragmatica.E' importante sottolineare che anni dopo il sommo Platone combattè la posizione sofistica,criticandola aspramente e nel contempo tornò a fare i conti con Parmenide. Nella sua opera Sofista commise il famoso "parricidio" del padre Parmenide, trasmigrando filosoficamente dall'idea di un non-essere assoluto a quella di un non-essere relativo a ciò che è altro o diverso: un oggetto è tale anche perché "non-è" altri oggetti,questo era ed è infatti il principio base che si deduce dalla sua opera.
In tal modo il non-essere fu ricollocato all'interno del pensiero e dell'esperienza quotidiana della vita reale e concreta.Un passo ulteriore sull'argomento verrà poi compiuto decenni dopo con il pensiero epicureista che ritorna ad effettuare un diretto confronto con la riflessione parmenidea.Epicuro aveva concepito nei suoi scritti la realtà come composta di atomi e di vuoto. Il filosofo greco infatti affermava che nulla si genera da ciò che non è, aggiungendo poi che nulla scompare o si corrompe in ciò che non è. In un certo qual modo potremmo,senza smetita alcuna,ritenere che Epicuro si collocò,sul tema del nulla sulla stessa riflessione dei filosofi pluralisti senza mai prendere veramente in considerazione il passaggio da un essere assoluto (come ad esempio la nascita) a un non-essere assoluto (come la morte); egli parlò più prosaicamente di un vero e proprio cambiamento, ovvero ciò che non-è momentaneamente e ciò che sarà dopo.
La volontà di potenza nel percorso nichilista.
di Cristina Morelli
La caduta senza fine dei valori generali moderni.
Quando parliamo di nichilismo intendiamo innanzitutto un vero processo storico, che Nietzsche riuscì a concettualizzare bene nella sua dimensione fondamentale: la crisi dei valori, che si verifica in momenti molto brevi e dalla quale si producono irrequietezza e forte incoerenza diffusa. Nel momento in cui infatti vengono meno i valori generali condivisi, capaci da soli di unire e di collegare le singole istanze della società, si manifesta in modo chiaro una parcellizzazione di valori particolari ed individuali. Il nichilismo ci conduce dritti alla fine della riflessione metafisica,la fine del viaggio filosofico che era cominciato con Socrate e Platone e con la loro contrapposizione di mondo dei valori e mondo reale, cui poi si era anche collegato il Cristianesimo. Da tale contrasto pensiero e vita, essere ed ente, se ne deduce che i valori si perdono nella loro astrattezza e che la realtà vera sfuma leggera e viene vissuta nel suo aspetto materiale, condizionabile anche dalla stessa tecnica. Non sempre però il nichilismo deve essere inteso in senso negativo, ma molto prosaicamente esso è la conclusione inevitabile di un itinerario metafisico. Chi si propone di superare il nichilismo intenderà superare la stessa metafisica. Inoltre esso secondo molti autori è un reale dato di fatto che particolarizza l’epoca in cui adesso viviamo e invade pesantemente non solo il pensiero, ma anche il vivere sociale nelle sue varie articolazioni. Come anche Nietzsche arrivò ad affermare nichilismo e volontà di potenza sono due aspetti strettamente correlati.
Quando i valori e le rappresentazioni tradizionali indeboliscono la loro consistenza, si staglia su tutto la volontà di potenza del singolo. Come è noto,il filosofo tedesco definiva questo trapasso Umwertung, intendendolo però termini positivi. Per lui si tratta di liberarsi finalmente da pseudovalori e di liberare le potenzialità creative del soggetto. La volontà di potenza è nella sua struttura di base priva di finalità, cioè di alterazioni culturali. È una forza che spinge l’ente in un eterno ritorno, è l’essere dell’ente che si manifesta eternamente senza alcun finalismo. In questo senso va compreso il percorso nichilista. Nietzsche offre una descrizione della situazione e, anche in questa circostanza , bisogna prenderne atto, senza porsi la domanda se tale situazione piaccia o meno. Il nichilismo europeo è in effetti il risultato di un complesso percorso metafisico di tipo dualista, platonico-cristiano, che ha posto le basi e i principi del pensiero occidentale. Se guardiamo altrove,ad esempio al Buddhismo, invece, ci troviamo dinanzi ad una visione advaya, non duale. Non a caso, la celebre śūnyatā buddhista è tradotta come vuoto, vacuità. Il termine “nulla” non si addice al pensiero filosofico orientale in virtù delle implicazioni logiche e metafisiche che porta con sé. È la negazione dell’essere, il lato oscuro dell’essere cui si contrappone. Nella filosofia buddista invece non esiste il nulla,non c’è contrapposizione, ma al massimo ca-ppartenenza . La forma è vuoto ed il vuoto è forma, come recita un noto e antichissimo proverbio filosofico buddista. Nel pensiero dell’Occidente invece il concetto del nulla è sempre presente ed è stato declinato in una infinità di modalità differenti. Tuttavia, non si è mai liberato delle sue valenze negative e metafisiche.
Un discorso particolare merita la Scuola di Kyōto che ha senz’altro avuto il merito di tradurre in linguaggio filosofico, il pensiero tradizionale di ascendenza buddhista. Questo si è verificato di recente perché paesi come il Giappone dovevano affrontare il problema ermeneutico del dissidio tra la modernità, in cui si è trovato coinvolto, ed il suo pensiero tradizionale. Il celebre filosofo Löwith infatti riteneva che il Giappone moderno fosse una sorta di ossimoro, perché oggettivamente il Giappone è moderno, ma allo stesso tempo non può esserlo, perché non ha vissuto il processo storico che ha creato la modernità in Europa. Partendo indissolubilmente da queste considerazioni la Scuola di Kyōto non si limita solo a fornire risposte ma diventa anche interlocutrice estremamente preziosa per il pensiero occidentale, poiché da essa ci giunge una prospettiva ontologica nuova e interna al problema. Per il pensiero orientale la vacuità esiste ma solo come parte costitutiva di una unità. Quelli che noi definiamo enti, appaiono, annichilendo il nulla originario, e riconfluiscono nel nulla, annichilendo se stessi. Secondi alcuni tutto questo sarebbe definito in modo errato perché non vi è annichilimento ma un naturale processo interno alla vacuità. Nonostante questa prospettiva non si interpreta il nulla in termini negativi, ma semplicemente è l’essere che va difeso ad oltranza. È colpa della solita rigidità della tradizione metafisica occidentale che ci obbliga ad assistere al riemergere della questione del nulla nel nichilismo in termini angoscianti. Se rimanessimo ad una visione non dualista, tutto ciò non accadrebbe.
Quando parliamo di nichilismo intendiamo innanzitutto un vero processo storico, che Nietzsche riuscì a concettualizzare bene nella sua dimensione fondamentale: la crisi dei valori, che si verifica in momenti molto brevi e dalla quale si producono irrequietezza e forte incoerenza diffusa. Nel momento in cui infatti vengono meno i valori generali condivisi, capaci da soli di unire e di collegare le singole istanze della società, si manifesta in modo chiaro una parcellizzazione di valori particolari ed individuali. Il nichilismo ci conduce dritti alla fine della riflessione metafisica,la fine del viaggio filosofico che era cominciato con Socrate e Platone e con la loro contrapposizione di mondo dei valori e mondo reale, cui poi si era anche collegato il Cristianesimo. Da tale contrasto pensiero e vita, essere ed ente, se ne deduce che i valori si perdono nella loro astrattezza e che la realtà vera sfuma leggera e viene vissuta nel suo aspetto materiale, condizionabile anche dalla stessa tecnica. Non sempre però il nichilismo deve essere inteso in senso negativo, ma molto prosaicamente esso è la conclusione inevitabile di un itinerario metafisico. Chi si propone di superare il nichilismo intenderà superare la stessa metafisica. Inoltre esso secondo molti autori è un reale dato di fatto che particolarizza l’epoca in cui adesso viviamo e invade pesantemente non solo il pensiero, ma anche il vivere sociale nelle sue varie articolazioni. Come anche Nietzsche arrivò ad affermare nichilismo e volontà di potenza sono due aspetti strettamente correlati.
Quando i valori e le rappresentazioni tradizionali indeboliscono la loro consistenza, si staglia su tutto la volontà di potenza del singolo. Come è noto,il filosofo tedesco definiva questo trapasso Umwertung, intendendolo però termini positivi. Per lui si tratta di liberarsi finalmente da pseudovalori e di liberare le potenzialità creative del soggetto. La volontà di potenza è nella sua struttura di base priva di finalità, cioè di alterazioni culturali. È una forza che spinge l’ente in un eterno ritorno, è l’essere dell’ente che si manifesta eternamente senza alcun finalismo. In questo senso va compreso il percorso nichilista. Nietzsche offre una descrizione della situazione e, anche in questa circostanza , bisogna prenderne atto, senza porsi la domanda se tale situazione piaccia o meno. Il nichilismo europeo è in effetti il risultato di un complesso percorso metafisico di tipo dualista, platonico-cristiano, che ha posto le basi e i principi del pensiero occidentale. Se guardiamo altrove,ad esempio al Buddhismo, invece, ci troviamo dinanzi ad una visione advaya, non duale. Non a caso, la celebre śūnyatā buddhista è tradotta come vuoto, vacuità. Il termine “nulla” non si addice al pensiero filosofico orientale in virtù delle implicazioni logiche e metafisiche che porta con sé. È la negazione dell’essere, il lato oscuro dell’essere cui si contrappone. Nella filosofia buddista invece non esiste il nulla,non c’è contrapposizione, ma al massimo ca-ppartenenza . La forma è vuoto ed il vuoto è forma, come recita un noto e antichissimo proverbio filosofico buddista. Nel pensiero dell’Occidente invece il concetto del nulla è sempre presente ed è stato declinato in una infinità di modalità differenti. Tuttavia, non si è mai liberato delle sue valenze negative e metafisiche.
Un discorso particolare merita la Scuola di Kyōto che ha senz’altro avuto il merito di tradurre in linguaggio filosofico, il pensiero tradizionale di ascendenza buddhista. Questo si è verificato di recente perché paesi come il Giappone dovevano affrontare il problema ermeneutico del dissidio tra la modernità, in cui si è trovato coinvolto, ed il suo pensiero tradizionale. Il celebre filosofo Löwith infatti riteneva che il Giappone moderno fosse una sorta di ossimoro, perché oggettivamente il Giappone è moderno, ma allo stesso tempo non può esserlo, perché non ha vissuto il processo storico che ha creato la modernità in Europa. Partendo indissolubilmente da queste considerazioni la Scuola di Kyōto non si limita solo a fornire risposte ma diventa anche interlocutrice estremamente preziosa per il pensiero occidentale, poiché da essa ci giunge una prospettiva ontologica nuova e interna al problema. Per il pensiero orientale la vacuità esiste ma solo come parte costitutiva di una unità. Quelli che noi definiamo enti, appaiono, annichilendo il nulla originario, e riconfluiscono nel nulla, annichilendo se stessi. Secondi alcuni tutto questo sarebbe definito in modo errato perché non vi è annichilimento ma un naturale processo interno alla vacuità. Nonostante questa prospettiva non si interpreta il nulla in termini negativi, ma semplicemente è l’essere che va difeso ad oltranza. È colpa della solita rigidità della tradizione metafisica occidentale che ci obbliga ad assistere al riemergere della questione del nulla nel nichilismo in termini angoscianti. Se rimanessimo ad una visione non dualista, tutto ciò non accadrebbe.
Russell ed il suo atomismo logico.
di Cristina Morelli
Capire il linguaggio per capire la realtà.
Bertrand Russell è,a ragione,considerato il padre del movimento analitico che con lui e con J.Moore si sviluppa a Cambridge.Nel suo pensiero si irradia quello che verrà poi definito dai posteri atomismo logico, ossia il tentativo di interpretare l'attività filosofica come strumento atto a tradurre le unità linguistiche complesse in unità semplici e basilari del discorso, allo scopo precipuo di giungere ai concetti costituenti della realtà. Intorno agli inizi degli anni cinquanta sarà l'università inglese di Oxford ad ospitare i pensatori più originali, oltre a Russell,personalità dal calibro di Ryle e Austin, che daranno vita alla filosofia del linguaggio ordinario, partendo dalla consapevolezza che il linguaggio ha una forma molto complessa, nella quale gli elementi descrittivi e logico-formali ne rappresentano solo una parte, quindi vanno analizzati molti altri tipi di discorso (etico, metafisico, teologico, giuridico). Bertrand Russell nella sua opera Principi della matematica (1903), scritta in collaborazione con il matematico e filosofo A. N. Whitehead, tentò di collegare l'intera matematica pura da un piccolissimo numero di concetti logici fondamentali ed elaborò in questa maniera la famosa teoria dei tipi, intesa come soluzione ai paradossi logici derivanti dal concetto di classe.Questa teoria parte da una precisa gerarchia di livelli logici tra gli enunciati e ammette come legittimo solo ed esclusivamente un enunciato che si riferisce a un tipo logico inferiore.
Nel 1913 Russell si dedicò poi alla sua prima opera prettamente filosofica chiamata I problemi della filosofia,qui egli concepisce la scienza, in particolare la fisica, come il modello della conoscenza certa, a cui fa da contrapposto la conoscenza vaga e contraddittoria del senso comune. La filosofia purtroppo è costretta a partire dal senso comune, ma deve reinterpretare i risultati conseguiti dalla scienza per scappare dalle trappole dello scetticismo e del solipsismo (dottrina che considera l'io del soggetto l'unica realtà esistente).Seguendo questo percorso teleologico Russell individua dei postulati (l'induzione, la causalità, l'esistenza del mondo esterno e delle menti altrui, l'affidabilità della memoria) che sono implicitamente ritenuti validi sia dalla scienza sia dal senso comune, ma di cui è impossibile una dimostrazione filosofica sicura e certa. Pure sui temi ontologici il problema di Russell è di dare un collegamento diretto gli oggetti del senso comune e a quelli della fisica. Una prima analisi compiuta egli la fa nello scritto La filosofia dell'atomismo logico, del 1918,dove è indicato che grazie all'atomismo logico se il mondo è costituito da fatti atomici, fatti cioè descritti in una proposizione atomica (non ulteriormente scomponibile).Grazie alle chiare leggi della logica si uniscono proposizioni atomiche ottenendo proposizioni complesse, che richiamano subito le strutture complesse della realtà.
I fatti atomici sono formati nella loro essenza da una sostanza neutrale primitiva, né spirituale, né materiale, che è a fondamento sia della psicologia, sia della fisica.Nel settore filosofico Russel utilizza il celebre paradosso del barbiere,una figura già usata diversamente anche nel medioevo dal filosofo Guglielmo da Ockham che aveva impiegato filosoficamente il concetto di 'rasoio' per spiegare come sia utile garantirsi il minor dispendio possibile di energia esplicativa, tagliando via, proprio come fa il barbiere con il rasoio, il superfluo. Bertrand Russell, invece, esattamente nel 1920, ideò quello che è divenuto famoso come il 'paradosso di Russell' consistente nel seguente concetto: in uno Stato dove tutti i cittadini sono rasati, esiste un solo barbiere dedicato a radere tutti gli uomini che non si radono da soli. Ma allora, alla fine,chi rade il barbiere? Analizzando l'argomento problematico con la teoria degli insiemi, è chiaro che nel paese esiste l'insieme degli uomini che si radono da soli e quello degli uomini che si fanno radere. Il barbiere si rade da solo? Non è possibile,perchè il barbiere rade tutti gli uomini che non si radono da soli! C'è qualcuno allora che lo rade? No, perchè il barbiere rade tutti gli uomini che non si radono da soli! Ecco.Dinanzi a noi si erge un chiaro paradosso. Secondo Russell, per andare oltre, bisogna correggere la nostra convinzione (errata) secondo la quale per ogni proprietà debba per forza esistere un insieme: nel caso di specie,non si forma alcun insieme coerente.
Bertrand Russell è,a ragione,considerato il padre del movimento analitico che con lui e con J.Moore si sviluppa a Cambridge.Nel suo pensiero si irradia quello che verrà poi definito dai posteri atomismo logico, ossia il tentativo di interpretare l'attività filosofica come strumento atto a tradurre le unità linguistiche complesse in unità semplici e basilari del discorso, allo scopo precipuo di giungere ai concetti costituenti della realtà. Intorno agli inizi degli anni cinquanta sarà l'università inglese di Oxford ad ospitare i pensatori più originali, oltre a Russell,personalità dal calibro di Ryle e Austin, che daranno vita alla filosofia del linguaggio ordinario, partendo dalla consapevolezza che il linguaggio ha una forma molto complessa, nella quale gli elementi descrittivi e logico-formali ne rappresentano solo una parte, quindi vanno analizzati molti altri tipi di discorso (etico, metafisico, teologico, giuridico). Bertrand Russell nella sua opera Principi della matematica (1903), scritta in collaborazione con il matematico e filosofo A. N. Whitehead, tentò di collegare l'intera matematica pura da un piccolissimo numero di concetti logici fondamentali ed elaborò in questa maniera la famosa teoria dei tipi, intesa come soluzione ai paradossi logici derivanti dal concetto di classe.Questa teoria parte da una precisa gerarchia di livelli logici tra gli enunciati e ammette come legittimo solo ed esclusivamente un enunciato che si riferisce a un tipo logico inferiore.
Nel 1913 Russell si dedicò poi alla sua prima opera prettamente filosofica chiamata I problemi della filosofia,qui egli concepisce la scienza, in particolare la fisica, come il modello della conoscenza certa, a cui fa da contrapposto la conoscenza vaga e contraddittoria del senso comune. La filosofia purtroppo è costretta a partire dal senso comune, ma deve reinterpretare i risultati conseguiti dalla scienza per scappare dalle trappole dello scetticismo e del solipsismo (dottrina che considera l'io del soggetto l'unica realtà esistente).Seguendo questo percorso teleologico Russell individua dei postulati (l'induzione, la causalità, l'esistenza del mondo esterno e delle menti altrui, l'affidabilità della memoria) che sono implicitamente ritenuti validi sia dalla scienza sia dal senso comune, ma di cui è impossibile una dimostrazione filosofica sicura e certa. Pure sui temi ontologici il problema di Russell è di dare un collegamento diretto gli oggetti del senso comune e a quelli della fisica. Una prima analisi compiuta egli la fa nello scritto La filosofia dell'atomismo logico, del 1918,dove è indicato che grazie all'atomismo logico se il mondo è costituito da fatti atomici, fatti cioè descritti in una proposizione atomica (non ulteriormente scomponibile).Grazie alle chiare leggi della logica si uniscono proposizioni atomiche ottenendo proposizioni complesse, che richiamano subito le strutture complesse della realtà.
I fatti atomici sono formati nella loro essenza da una sostanza neutrale primitiva, né spirituale, né materiale, che è a fondamento sia della psicologia, sia della fisica.Nel settore filosofico Russel utilizza il celebre paradosso del barbiere,una figura già usata diversamente anche nel medioevo dal filosofo Guglielmo da Ockham che aveva impiegato filosoficamente il concetto di 'rasoio' per spiegare come sia utile garantirsi il minor dispendio possibile di energia esplicativa, tagliando via, proprio come fa il barbiere con il rasoio, il superfluo. Bertrand Russell, invece, esattamente nel 1920, ideò quello che è divenuto famoso come il 'paradosso di Russell' consistente nel seguente concetto: in uno Stato dove tutti i cittadini sono rasati, esiste un solo barbiere dedicato a radere tutti gli uomini che non si radono da soli. Ma allora, alla fine,chi rade il barbiere? Analizzando l'argomento problematico con la teoria degli insiemi, è chiaro che nel paese esiste l'insieme degli uomini che si radono da soli e quello degli uomini che si fanno radere. Il barbiere si rade da solo? Non è possibile,perchè il barbiere rade tutti gli uomini che non si radono da soli! C'è qualcuno allora che lo rade? No, perchè il barbiere rade tutti gli uomini che non si radono da soli! Ecco.Dinanzi a noi si erge un chiaro paradosso. Secondo Russell, per andare oltre, bisogna correggere la nostra convinzione (errata) secondo la quale per ogni proprietà debba per forza esistere un insieme: nel caso di specie,non si forma alcun insieme coerente.
Popper: lo Storicismo porta al Totalitarismo.
di Cristina Morelli
La teoria della libera Società Aperta.
La critica di Karl Popper proseguì senza freni e soprattutto nella sua opera Conoscenza oggettiva , il filosofo concepì la teoria dei Tre Mondi . Una teoria scientifica deve essere inizialmente formulata oggettivamente, ossia in termini linguistici: così facendo essa fa parte di quello che Popper definì il Mondo Tre. Ovvero il mondo dei contenuti oggettivi del pensiero, un mondo indipendente dalla mente umana da cui è stato creato,cioè dalle riflessioni di coscienza del soggetto, che invece rappresentano il Mondo Due. Per aver esistenza libera ed autonoma gli oggetti del Mondo Tre sono simili alle celebri idee platoniche ma al contrario di esse sono i risultati dell'evoluzione del linguaggio umano e, quindi, psseggono sia origine storica sia caratteristiche mutevoli.Totalmente separato dai due è poi il Mondo Uno costituito dagli oggetti fisici. Popper ritiene che i tre mondi abbiano tutti un'esistenza oggettiva: essi sono irriducibili l'uno all'altro, ma possono certamente interagire tra loro. Nello specifico è il Mondo Tre che, sviluppandosi, retroagisce sugli altri due, spesso causando conseguenze imprevedibili.
Tale mondo comprende non solo le teorie, ma anche i prodotti dell'immaginazione, quelli dell'arte e i valori, i quali non sono deducibili dai fatti umani e non possono esistere senza i problemi, sia inconsci, sia nati dalla stessa mente umana. Il concetto di Io come persona è una novità che sorge subito grazie all'interazione con gli oggetti del Mondo Tre, ossia con i problemi e con i valori: esso deve quindi essere inteso come un prodotto di natura culturale e storica. Proprio in questo modo nasce il problema del rapporto tra mente e corpo . Popper,come abbiamo già detto,rifiuta il monismo materialistico, che sminuisce gli stati della mente a stati corporei ; ecco perchè possiamo dire che egli è un dualista, ma non nel senso che mente e corpo siano due elementi, bensì nel senso che tra stati o eventi mentali e stati o eventi corporei esiste un rapporto diretto.In questo colegamento tra l'io, che vive nel Mondo Tre e il cervello, inteso come abitante del Mondo Uno, è certamente l'Io a svolgere una funzione attiva di evoluzione del cervello. Le valutazioni che Popper ottiene sullo studio dei caratteri delle teorie scientifiche sono poi adoperati soprattutto durante la seconda guerra mondiale, per analizzare la scientificità delle teorie sulla storia e sulla società, che risultano essere la base filosofica delle varie forme di totalitarismo. Popper critica in maniera forte lo storicismo , che viene considerato una sorta di derivazione errata della teoria sociale primitiva della cospirazione, una vera secolarizzazione della superstizione religiosa, secondo cui tutto quel che accade è risultato dei propositi di determinati individui o gruppi. L'errore dello storicismo è, infatti, credere che la storia sia una totalità governata da leggi necessarie: Popper ci parla in questo caso di una forma di olismo (dal greco olon , "tutto").
Due sono i tipi fondamentali di storicismo, a secondo se la storia abbia dato all'uomo un regresso o un progresso necessario: al primo tipo appartiene la filosofia di Platone, al secondo quelle di Hegel e di Marx. Tratto comune di entrambi è la convinzione che le leggi della storia possano essere scoperte e usate per giungere a predizioni o a profezie utili per guidare l'azione politica. Tutto completamente errato,secondo Popper,il quale stabilisce che esiste una forte connessione tra storicismo, essenzialismo e totalitarismo.Infatti se si crede,come fa l'essenzialismo, che la verità possa essere integralmente posseduta,verità sia storica che sociale,allora la conseguenza diretta è l' autoritarismo o addirittuta il fanatismo, basato sull'idea che chi si rifiuta di riconoscere la verità e di sottomettersi ad essa vada perseguito ed isolato.A questi risultati completamente fuorvianti ci porta poi anche il pessimismo epistemologico: la sfiducia dell'uomo lo costringere al bisogno di avere un'autorità e una tradizione che lo salvino dalla sua follia e dai suoi stessi errori. Ciò però ci conduce alla creazione di tipologie di società chiusa , di tipo tribale, caratterizzata dal dominio della totalità del corpo sociale sugli individui. Ad essa, secondo Popper,va contrapposta una società aperta , caratterizzata invece dall'atteggiamento razionale del libero dialogo critico fra le persone.Il presupposto per dare vita ad un a società aperta è però la consapevolezza della stessa imperfezione della società e che nessuna società può realmente esistere senza conflitti di valore.Stando cos' le cose,per Popper lo Stato è un male necessario , ma proprio per questo, come il pensiero liberale del filosofo ci indica,ad esso non debbono essere attribuiti poteri oltre il necessario. Il vero dilemma politico dell'umanità non è il capire chi deve comandare,poichè di regola dovrebbero essere sempre i migliori del gruppo sociale a farlo,ma chiedersi come si debbano le istituzioni politiche in modo che i governanti incompetenti non possano fare troppi danni.
Come le teorie scientifiche sono controllate ed analizzate, così anche il potere deve essere controllato. In tale contesto filosofico quindi è la democrazia liberale la forma migliore, non perché la maggioranza abbia sempre ragione, ma perché si tratta del male minore, che permette di cambiare i governanti senza ricorre a rivolte o violenze come succede per le teorie che se errate vengono subito corrette e sostituite dalla libera discussione e dalla critica.Il pensiero politico di Karl Popper ci porta a ritenere la poltica come una sorta di tecnologia sociale, che ha il fine di riorganizzare globalmente e in maniera definitiva la società, ma lo scopo di affrontare i problemi specifici cercandone le soluzioni più adeguate. Le scienze sociali finiscono quindi alla fine con l'avere la funzione di individuare le conseguenze indesiderate delle nostre azioni. Il metodo più corretto da adoperare,secondo Popper, deve essere l' analisi situazionale , la quale ci permette di capire le azioni umane particolari e giungere a soluzioni relative a specifiche situazioni problematiche,il tutto partendo da precise scelte di valore.Solo così salveremo l'umanità dal baratro della barbarie.
La critica di Karl Popper proseguì senza freni e soprattutto nella sua opera Conoscenza oggettiva , il filosofo concepì la teoria dei Tre Mondi . Una teoria scientifica deve essere inizialmente formulata oggettivamente, ossia in termini linguistici: così facendo essa fa parte di quello che Popper definì il Mondo Tre. Ovvero il mondo dei contenuti oggettivi del pensiero, un mondo indipendente dalla mente umana da cui è stato creato,cioè dalle riflessioni di coscienza del soggetto, che invece rappresentano il Mondo Due. Per aver esistenza libera ed autonoma gli oggetti del Mondo Tre sono simili alle celebri idee platoniche ma al contrario di esse sono i risultati dell'evoluzione del linguaggio umano e, quindi, psseggono sia origine storica sia caratteristiche mutevoli.Totalmente separato dai due è poi il Mondo Uno costituito dagli oggetti fisici. Popper ritiene che i tre mondi abbiano tutti un'esistenza oggettiva: essi sono irriducibili l'uno all'altro, ma possono certamente interagire tra loro. Nello specifico è il Mondo Tre che, sviluppandosi, retroagisce sugli altri due, spesso causando conseguenze imprevedibili.
Tale mondo comprende non solo le teorie, ma anche i prodotti dell'immaginazione, quelli dell'arte e i valori, i quali non sono deducibili dai fatti umani e non possono esistere senza i problemi, sia inconsci, sia nati dalla stessa mente umana. Il concetto di Io come persona è una novità che sorge subito grazie all'interazione con gli oggetti del Mondo Tre, ossia con i problemi e con i valori: esso deve quindi essere inteso come un prodotto di natura culturale e storica. Proprio in questo modo nasce il problema del rapporto tra mente e corpo . Popper,come abbiamo già detto,rifiuta il monismo materialistico, che sminuisce gli stati della mente a stati corporei ; ecco perchè possiamo dire che egli è un dualista, ma non nel senso che mente e corpo siano due elementi, bensì nel senso che tra stati o eventi mentali e stati o eventi corporei esiste un rapporto diretto.In questo colegamento tra l'io, che vive nel Mondo Tre e il cervello, inteso come abitante del Mondo Uno, è certamente l'Io a svolgere una funzione attiva di evoluzione del cervello. Le valutazioni che Popper ottiene sullo studio dei caratteri delle teorie scientifiche sono poi adoperati soprattutto durante la seconda guerra mondiale, per analizzare la scientificità delle teorie sulla storia e sulla società, che risultano essere la base filosofica delle varie forme di totalitarismo. Popper critica in maniera forte lo storicismo , che viene considerato una sorta di derivazione errata della teoria sociale primitiva della cospirazione, una vera secolarizzazione della superstizione religiosa, secondo cui tutto quel che accade è risultato dei propositi di determinati individui o gruppi. L'errore dello storicismo è, infatti, credere che la storia sia una totalità governata da leggi necessarie: Popper ci parla in questo caso di una forma di olismo (dal greco olon , "tutto").
Due sono i tipi fondamentali di storicismo, a secondo se la storia abbia dato all'uomo un regresso o un progresso necessario: al primo tipo appartiene la filosofia di Platone, al secondo quelle di Hegel e di Marx. Tratto comune di entrambi è la convinzione che le leggi della storia possano essere scoperte e usate per giungere a predizioni o a profezie utili per guidare l'azione politica. Tutto completamente errato,secondo Popper,il quale stabilisce che esiste una forte connessione tra storicismo, essenzialismo e totalitarismo.Infatti se si crede,come fa l'essenzialismo, che la verità possa essere integralmente posseduta,verità sia storica che sociale,allora la conseguenza diretta è l' autoritarismo o addirittuta il fanatismo, basato sull'idea che chi si rifiuta di riconoscere la verità e di sottomettersi ad essa vada perseguito ed isolato.A questi risultati completamente fuorvianti ci porta poi anche il pessimismo epistemologico: la sfiducia dell'uomo lo costringere al bisogno di avere un'autorità e una tradizione che lo salvino dalla sua follia e dai suoi stessi errori. Ciò però ci conduce alla creazione di tipologie di società chiusa , di tipo tribale, caratterizzata dal dominio della totalità del corpo sociale sugli individui. Ad essa, secondo Popper,va contrapposta una società aperta , caratterizzata invece dall'atteggiamento razionale del libero dialogo critico fra le persone.Il presupposto per dare vita ad un a società aperta è però la consapevolezza della stessa imperfezione della società e che nessuna società può realmente esistere senza conflitti di valore.Stando cos' le cose,per Popper lo Stato è un male necessario , ma proprio per questo, come il pensiero liberale del filosofo ci indica,ad esso non debbono essere attribuiti poteri oltre il necessario. Il vero dilemma politico dell'umanità non è il capire chi deve comandare,poichè di regola dovrebbero essere sempre i migliori del gruppo sociale a farlo,ma chiedersi come si debbano le istituzioni politiche in modo che i governanti incompetenti non possano fare troppi danni.
Come le teorie scientifiche sono controllate ed analizzate, così anche il potere deve essere controllato. In tale contesto filosofico quindi è la democrazia liberale la forma migliore, non perché la maggioranza abbia sempre ragione, ma perché si tratta del male minore, che permette di cambiare i governanti senza ricorre a rivolte o violenze come succede per le teorie che se errate vengono subito corrette e sostituite dalla libera discussione e dalla critica.Il pensiero politico di Karl Popper ci porta a ritenere la poltica come una sorta di tecnologia sociale, che ha il fine di riorganizzare globalmente e in maniera definitiva la società, ma lo scopo di affrontare i problemi specifici cercandone le soluzioni più adeguate. Le scienze sociali finiscono quindi alla fine con l'avere la funzione di individuare le conseguenze indesiderate delle nostre azioni. Il metodo più corretto da adoperare,secondo Popper, deve essere l' analisi situazionale , la quale ci permette di capire le azioni umane particolari e giungere a soluzioni relative a specifiche situazioni problematiche,il tutto partendo da precise scelte di valore.Solo così salveremo l'umanità dal baratro della barbarie.
La "Terza Via" di Karl Popper.
di Cristina Morelli
Critica allo strumentalismo e al pensiero berkleyano.
Il filosofo Karl Popper scrisse nel 1969 un'opera che ben racchiude il suo pensiero,dal titolo Scienza e filosofia, che concluse la ricerca iniziata ben trentanni prima con il libro Logica della scoperta scientifica.Essa rappresenta la sintesi del suo pensiero epistemologico all’interno del lungo dibattito sui criteri di validità della scienza. L’autore ragiona sugli scopi e sulle responsabilità della scienza, dell’accrescimento del sapere scientifico e del modo in cui si costruiscono e si verificano le teorie. La sua riflessione poggia sulla scienza intesa più come processo e dinamica che come attività che muove da problemi e cerca, per risolverli, di creare teorie.Un tentativo di «spiegare il noto mediante l’ignoto». La sua opera racchiude una forte critica all’essenzialismo e allo strumentalismo ed espone la tesi secondo la quale le teorie sono congetture da sottoporre a severi controlli critici.Una tesi a sostegno dello strumentalismo venne elaborata da Berkeley che si basò sulla sua filosofia nominalistica del linguaggio, partendo direttamente dalla dinamica newtoniana. Secondo il filosofo l’espressione “forza d’attrazione” doveva per forza di cose essere un’espressione priva di significato, dal momento che nessuno sarà mai in grado di osservare una forza d’attrazione.
La cosa che si può facilmente osservare sono i movimenti, non le loro “cause” occulte. Dal punto di vista della teoria berkeleyana del linguaggio quindi ciò è utile a mostrare che la teoria di Newton non può avere alcun contenuto informativo o descrittivo. Se si applica con coerenza questa tesi si arriva ad affermare che tutti i termini disposizionali sono privi di significato. Allora secondo l’ottica strumentalistica, la discussione scientifica non può basarsi su “oggetti” quali sistemi fisici sensibilmente certi e verificabili, ma solo sui risultati di osservazioni possibili.Lo strumentalismo invece secondo Popper, non è più accettabile di quanto non lo sia l’essenzialismo. Sul tema il filosofo elabora un “terzo punto di vista” – oltre all’essenzialismo e allo strumentalismo – del tutto singolare. Il suo nuovo punto di vista parte dalla dottrina galileana, secondo cui lo scienziato tende a una descrizione vera del mondo o di qualcuno dei suoi aspetti e a una spiegazione vera dei fatti osservabili, e fonde questa dottrina con la prospettiva,che, sebbene questo rimanga lo scopo dello scienziato, quest’ultimo non può mai arrivare a dimostrare con certezza se le sue scoperte sono vere.Qualche volta può stabilire con ragionevole certezza che una teoria è falsa, o il suo grado di falsificabilità.
Il suo “terzo punto di vista” afferma che le teorie scientifiche sono vere e proprie congetture: tentativi di indovinare altamente informativi riguardanti il mondo, i quali, nonostante non siano verificabili possono essere sottoposti a severi controlli critici.Seguendo allora tale ragionamento, Popper si chiede in modo esplicito se «non dovremmo chiamare reali solo quegli strati di cose che sono descritti da asserzioni vere, e non da congetture che possono rivelarsi false». Solo ponendo il controllo su una congettura, e riuscendo a falsificarla, è possibile notare chiaramente che c’era una realtà alternativa, qualcosa con cui essa poteva collidere. Le falsificazioni permettono di stabilire dei punti di contatto con la realtà. E l’ultima e migliore teoria è sempre un tentativo di incorporare tutte le falsificazioni che siano mai state trovate in un determinato campo d’indagine, spiegandole in termini semplici, cioè controllabili. - continua.
Il filosofo Karl Popper scrisse nel 1969 un'opera che ben racchiude il suo pensiero,dal titolo Scienza e filosofia, che concluse la ricerca iniziata ben trentanni prima con il libro Logica della scoperta scientifica.Essa rappresenta la sintesi del suo pensiero epistemologico all’interno del lungo dibattito sui criteri di validità della scienza. L’autore ragiona sugli scopi e sulle responsabilità della scienza, dell’accrescimento del sapere scientifico e del modo in cui si costruiscono e si verificano le teorie. La sua riflessione poggia sulla scienza intesa più come processo e dinamica che come attività che muove da problemi e cerca, per risolverli, di creare teorie.Un tentativo di «spiegare il noto mediante l’ignoto». La sua opera racchiude una forte critica all’essenzialismo e allo strumentalismo ed espone la tesi secondo la quale le teorie sono congetture da sottoporre a severi controlli critici.Una tesi a sostegno dello strumentalismo venne elaborata da Berkeley che si basò sulla sua filosofia nominalistica del linguaggio, partendo direttamente dalla dinamica newtoniana. Secondo il filosofo l’espressione “forza d’attrazione” doveva per forza di cose essere un’espressione priva di significato, dal momento che nessuno sarà mai in grado di osservare una forza d’attrazione.
La cosa che si può facilmente osservare sono i movimenti, non le loro “cause” occulte. Dal punto di vista della teoria berkeleyana del linguaggio quindi ciò è utile a mostrare che la teoria di Newton non può avere alcun contenuto informativo o descrittivo. Se si applica con coerenza questa tesi si arriva ad affermare che tutti i termini disposizionali sono privi di significato. Allora secondo l’ottica strumentalistica, la discussione scientifica non può basarsi su “oggetti” quali sistemi fisici sensibilmente certi e verificabili, ma solo sui risultati di osservazioni possibili.Lo strumentalismo invece secondo Popper, non è più accettabile di quanto non lo sia l’essenzialismo. Sul tema il filosofo elabora un “terzo punto di vista” – oltre all’essenzialismo e allo strumentalismo – del tutto singolare. Il suo nuovo punto di vista parte dalla dottrina galileana, secondo cui lo scienziato tende a una descrizione vera del mondo o di qualcuno dei suoi aspetti e a una spiegazione vera dei fatti osservabili, e fonde questa dottrina con la prospettiva,che, sebbene questo rimanga lo scopo dello scienziato, quest’ultimo non può mai arrivare a dimostrare con certezza se le sue scoperte sono vere.Qualche volta può stabilire con ragionevole certezza che una teoria è falsa, o il suo grado di falsificabilità.
Il suo “terzo punto di vista” afferma che le teorie scientifiche sono vere e proprie congetture: tentativi di indovinare altamente informativi riguardanti il mondo, i quali, nonostante non siano verificabili possono essere sottoposti a severi controlli critici.Seguendo allora tale ragionamento, Popper si chiede in modo esplicito se «non dovremmo chiamare reali solo quegli strati di cose che sono descritti da asserzioni vere, e non da congetture che possono rivelarsi false». Solo ponendo il controllo su una congettura, e riuscendo a falsificarla, è possibile notare chiaramente che c’era una realtà alternativa, qualcosa con cui essa poteva collidere. Le falsificazioni permettono di stabilire dei punti di contatto con la realtà. E l’ultima e migliore teoria è sempre un tentativo di incorporare tutte le falsificazioni che siano mai state trovate in un determinato campo d’indagine, spiegandole in termini semplici, cioè controllabili. - continua.
Nichilismo - Realismo e fine delle tradizioni.
di Cristina Morelli
Cadono i miti e nasce la filosofia contemporanea.
Nella nostra epoca attuale ormai è la tecnica che si è eretta come nuova padrona del mondo. Questa sorta di guida si è consolidata velocemente grazie alla consapevolezza che il ruolo di guida per l’umanità non può essere svolto dalla tradizione, sia con riferimento alle religioni che alla politica.Ma chi è in grado di permettere ciò?Di sicuro non può farlo la tecnica stessa né tantomeno la scienza in senso stretto. La forza della filosofia ha la capacità di mostrare ciò. Essa ci chiarisce in modo netto quelli che sono i limiti assoluti,quei limiti dinanzi ai quali si ferma proprio la tradizione. Mostra cioè che non possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze della tradizione. Ecco spiegato il motivo per cui la filosofia ha un ruolo fondamentale per l’umanità. Grazie ad essa siamo in grado di carpire quella che molti autori definiscono l’essenza del nostro tempo,l’elemento che condiziona e modella le menti dei pensatori moderni. Questa essenza è la forma più chiara della Follia estrema che contraddistingue,secondo molti, la vita dell'uomo,la cosiddetta Follia del nichilismo.L’essere umano fin da subito avverte l’esistenza di ostacoli che confinano e restringono la sua volontà. E arriva facilmente a credere che l’intero mondo esiste e sopravvive indipendentemente dalla sua coscienza. Questo è il criterio su cui poggia ogni tipologia di pensiero realista. La deduzione di ciò è che se l'uomo è inteso come singolo individuo, allora anche l'«idealismo» è una faccia diversa di realismo.
Di contro a ciò abbiamo che quindi il mito e il pensiero filosofico della tradizione definiscono gli ostacoli e i limiti di cui sopra come una forma superiore, più potente di Volontà, in grado di governare la materia che compone le cose o addirittura in grado di creare le varie sfaccettature e capace di produrre ogni aspetto del mondo, come si evince anche nel pensiero dell'idealismo classico che ha in Hegel l’apice maggiore.Per il filosofo tedesco infatti la Volontà divina è cosciente ma non sta lontano dal soggetto, anzi gli è unita. Simile a Cristo, l'uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo nasce e si sviluppa non grazie all’uomo singolo, ma all'Uomo-Dio. Spulciando gli scritti del neo-hegeliano Gentile questo argomento è basato nel modo più rigoroso, ma soprattutto per ciò che attiene il dominio del realismo sull'idealismo,la tecno-scienza si delinea in un modo o nell’altro come puro realismo» (inteso come ipotesi di lavoro o tesi acriticamente accettata).Il realismo filosofico parte come concetto iniziale sull’idea che la filosofia non riesca a progredire in maniera distaccata dalla scienza. Ciò provoca come diretta conseguenza il fatto che la centralità della scienza nel mondo moderno produce il dominio del realismo rispetto a ogni forma di filosofia.
Markus Gabriel ritiene che la categoria dei realisti è molto ampia e trae la sua origine direttamente da Parmenide in person. Infatti, secondo le sue parole, Parmenide sosteneva che l’essere fosse indipendente dall'ambiente umano.Oggi la filosofia contemporanea ha evoluto e sgrezzato il pensiero parmenideo e si sostiene che ciò che veniva detto riferendosi all’essere andrebbe invece detto per gli enti: di ogni ente va detto che è eterno, e quindi è eterno anche ogni «ambiente» e ovviamente anche l'«ambiente umano». Chi lo nega abbraccia a pieno la grande Follia estrema del nichilismo, che identifica e unisce l'ente al niente. Nessun ente può essere stato o diventare un niente. La morale di questo ragionamento è che se «realismo» vuol dire che certi enti potrebbero esistere anche nel caso in cui non esistesse l'uomo, il realismo allora è un vero tipo di nichilismo come l'idealismo. L'uomo infatti non potrebbe esistere se non esistesse il suo preciso ambiente.Azzardando una conclusione non definitiva si può affermare che la realtà è parzialmente contraddittoria ovvero che il principio di non contraddizione non è in grado di regolare tutta la realtà poiché gli essere umani continuano a contraddirsi. Ma bisogna sempre ricordarsi di distinguere il contraddirsi, che comunque esiste dal contenuto contraddittorio del contraddirsi, che al contrario è l'impossibile. L'esistenza del contraddirsi non determina un parziale dominio del principio di non contraddizione, che comunque è sempre lontanissimo dal presentarsi come un sapere assolutamente intoccabile, ma diventa tratto distintivo del pensiero nichilista.
Nella nostra epoca attuale ormai è la tecnica che si è eretta come nuova padrona del mondo. Questa sorta di guida si è consolidata velocemente grazie alla consapevolezza che il ruolo di guida per l’umanità non può essere svolto dalla tradizione, sia con riferimento alle religioni che alla politica.Ma chi è in grado di permettere ciò?Di sicuro non può farlo la tecnica stessa né tantomeno la scienza in senso stretto. La forza della filosofia ha la capacità di mostrare ciò. Essa ci chiarisce in modo netto quelli che sono i limiti assoluti,quei limiti dinanzi ai quali si ferma proprio la tradizione. Mostra cioè che non possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze della tradizione. Ecco spiegato il motivo per cui la filosofia ha un ruolo fondamentale per l’umanità. Grazie ad essa siamo in grado di carpire quella che molti autori definiscono l’essenza del nostro tempo,l’elemento che condiziona e modella le menti dei pensatori moderni. Questa essenza è la forma più chiara della Follia estrema che contraddistingue,secondo molti, la vita dell'uomo,la cosiddetta Follia del nichilismo.L’essere umano fin da subito avverte l’esistenza di ostacoli che confinano e restringono la sua volontà. E arriva facilmente a credere che l’intero mondo esiste e sopravvive indipendentemente dalla sua coscienza. Questo è il criterio su cui poggia ogni tipologia di pensiero realista. La deduzione di ciò è che se l'uomo è inteso come singolo individuo, allora anche l'«idealismo» è una faccia diversa di realismo.
Di contro a ciò abbiamo che quindi il mito e il pensiero filosofico della tradizione definiscono gli ostacoli e i limiti di cui sopra come una forma superiore, più potente di Volontà, in grado di governare la materia che compone le cose o addirittura in grado di creare le varie sfaccettature e capace di produrre ogni aspetto del mondo, come si evince anche nel pensiero dell'idealismo classico che ha in Hegel l’apice maggiore.Per il filosofo tedesco infatti la Volontà divina è cosciente ma non sta lontano dal soggetto, anzi gli è unita. Simile a Cristo, l'uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo nasce e si sviluppa non grazie all’uomo singolo, ma all'Uomo-Dio. Spulciando gli scritti del neo-hegeliano Gentile questo argomento è basato nel modo più rigoroso, ma soprattutto per ciò che attiene il dominio del realismo sull'idealismo,la tecno-scienza si delinea in un modo o nell’altro come puro realismo» (inteso come ipotesi di lavoro o tesi acriticamente accettata).Il realismo filosofico parte come concetto iniziale sull’idea che la filosofia non riesca a progredire in maniera distaccata dalla scienza. Ciò provoca come diretta conseguenza il fatto che la centralità della scienza nel mondo moderno produce il dominio del realismo rispetto a ogni forma di filosofia.
Markus Gabriel ritiene che la categoria dei realisti è molto ampia e trae la sua origine direttamente da Parmenide in person. Infatti, secondo le sue parole, Parmenide sosteneva che l’essere fosse indipendente dall'ambiente umano.Oggi la filosofia contemporanea ha evoluto e sgrezzato il pensiero parmenideo e si sostiene che ciò che veniva detto riferendosi all’essere andrebbe invece detto per gli enti: di ogni ente va detto che è eterno, e quindi è eterno anche ogni «ambiente» e ovviamente anche l'«ambiente umano». Chi lo nega abbraccia a pieno la grande Follia estrema del nichilismo, che identifica e unisce l'ente al niente. Nessun ente può essere stato o diventare un niente. La morale di questo ragionamento è che se «realismo» vuol dire che certi enti potrebbero esistere anche nel caso in cui non esistesse l'uomo, il realismo allora è un vero tipo di nichilismo come l'idealismo. L'uomo infatti non potrebbe esistere se non esistesse il suo preciso ambiente.Azzardando una conclusione non definitiva si può affermare che la realtà è parzialmente contraddittoria ovvero che il principio di non contraddizione non è in grado di regolare tutta la realtà poiché gli essere umani continuano a contraddirsi. Ma bisogna sempre ricordarsi di distinguere il contraddirsi, che comunque esiste dal contenuto contraddittorio del contraddirsi, che al contrario è l'impossibile. L'esistenza del contraddirsi non determina un parziale dominio del principio di non contraddizione, che comunque è sempre lontanissimo dal presentarsi come un sapere assolutamente intoccabile, ma diventa tratto distintivo del pensiero nichilista.
Crisi della modernità e crisi dell'Uomo.
di Cristina Morelli
Siamo nell'era del postmodernismo.Perché?
La caduta del muro di Berlino e con il totale collasso del regime sovietico accaduto da lì a pochi anni si può affermare tranquillamente che si sia verificata la fine delle ideologie e la fine delle annose battaglie ideologiche che aveva caratterizzato per lunghi decenni l’intero novecento. Ma la fine delle ideologie era stata in certi aspetti avvertita anche in alcuni periodi intorno alla metà del ‘900;ad esempio è intorno al 1962 che Daniel Bell parlò di società postindustriale e poco dopo lo stesso Dahrendorf di società postcapitalistica, o addirittura come nel caso di George Lichtheim si iniziò a delineare una sorta di ordine postborghese. Fu solo nel 1978 che il F. Lyotard teorizzava la postmodernità come nuova era basata sulla molteplicità dei discorsi e dei linguaggi in contrasto con l’uniformità moderna. Semplificando al massimo , possiamo definire "postmoderna" l'incredulità nei confronti delle narrazioni,questa è la base del suo percorso riflessivo.Solo pochi anni dopo l’italiano G. Vattimo riteneva che nella crisi dell’idea di progresso, fosse rintracciabile sia nelle arti, che nelle scienze e nella filosofia, il criterio guida emblema della fine della modernità. La postmodernità quindi da quasi tutti i pensatori dell’epoca veniva descritta come una sorta di "condizione di crisi. La crisi aggredisce le poche certe verità della della modernità, nel momento del tramonto delle sue idee caratterizzanti. Si eclissano i ragionamenti assoluti e tutti i discorsi che in maniera errata crediamo essere universali. Scompaiono le autorità morali e politiche, i valori di riferimento e le direttive sociali tradizionali.
In un ambiente di tale portata, l’espressione fine delle ideologie fa riferimento all’oscurantismo che affligge tutte le visioni globali, ideate nel passato come modelli di sapere.Nello specifico, il termine ideologia si espande e va a toccare anche il sapere scientifico, che nella modernità è sorto e ha preso forma e concretezza. Un modello di sapienza elevato, strutturato nella fiducia dell’essere umano per le sue potenzialità,ha ispirato e alimentato tanto il sapere etico-politico, quanto il sapere scientifico. Ha dato linfa tanto alla visione della storia, quanto lo scopo teorico della scienza di creare un quadro di certezze assolute ed imprenscindibiliLa conseguenza di questi ragionamenti è che oggi al trionfo del nichilismo sembra connettersi un pensiero che dobbiamo rimarcare del "dopo". Teoreticamente parlando ci troviamo nell’era del dopo filosofia, del dopo virtù, del dopo obiettività, del dopo ideologie. E nella morte del modello di sapienza il quale era stato il fondamento della modernità un qualcosa di veramente importante è successo. E’ venuta meno, non tanto, o soltanto, una individuale visione ideologica, ma la precisa fonte umanistica a base di tutte le ideologie. Quindi se nel ‘900 abbiamo vissuto la crisi generalizzata non solo delle filosofie, ma di tutti i progetti totali di sviluppo dell'umanità, un esempio classico era appunto la filosofia hegeliana, il nazionalismo, il marxismo, il liberalismo sia economico che socio-politico. Ma non è tutto,adesso col termine postmoderno non indichiamo tanto la crisi di una visione della storia o del mondo, ma si critica nello specifico la crisi di una visione dell’uomo. Si paventa insomma con esso una vera sfiducia nell’individuo e nelle sue capacità di capire e di agire. Si tratta di sfiducia verso tutti i progetti che si basavano sulle qualità e sulle doti pregiudiziali e positive nelle opere dell’uomo.
Svanita questa fondamentale fiducia, si è determinata la crisi nei diversi ambiti: nell’etica, nella politica, nelle istituzioni, nella storia. E infatti molti autori contemporanei parlano di crisi del soggetto e di crisi della ragione, e, forse in modo un po’ drammatico, di crisi dell’uomo. Tutto ciò perché la modernità non nasce solamente da un modello di sapere o di visione progressiva della storia, come sostenevano sia Lyotard che Vattimo. Ciò che da alla modernità è innanzitutto una certa idea di uomo, che inizia a costituirsi con l’Umanesimo e con il Rinascimento e che poi si afferma pienamente con l’Illuminismo. Una vera matrice antropologica della libertà e dell’autosufficienza della ragione, potremmo definirla, che si installa sull’uomo inteso come soggetto, come ragione, come libertà. La modernità è caratterizzata dall’idea di un soggetto forte, portatore di una ragione forte e di entità morali emancipatrici, che cioè risultano capaci di trasformare il mondo civile.Al contrario l’epoca della crisi, la postmodernità, va ad abbracciare un soggettivismo relativistico, negazione totale di ogni fondamento ed di ogni valore. L’uomo non è più in grado di donare ordine al mondo né di guidare con fermezza la storia. Il mondo diventa sempre più complesso e complicato, anzi in alcuni casi davvero incomprensibile e sembra sfidare l’uomo e la sua ragione, mettendo a repentaglio le sue stesse sicurezze. Le dinamiche storiche si accelerano e si complicano. Il ritmo dell’esistenza stessa diviene veloce e sempre più frenetico. La storia va rapida. Corrono gli uomini. Corre la massa di dati e di informazioni su internet. Ma la questione centrale è un’altra,manca chi indichi la direzione e manca una vera direzione. continua.
La caduta del muro di Berlino e con il totale collasso del regime sovietico accaduto da lì a pochi anni si può affermare tranquillamente che si sia verificata la fine delle ideologie e la fine delle annose battaglie ideologiche che aveva caratterizzato per lunghi decenni l’intero novecento. Ma la fine delle ideologie era stata in certi aspetti avvertita anche in alcuni periodi intorno alla metà del ‘900;ad esempio è intorno al 1962 che Daniel Bell parlò di società postindustriale e poco dopo lo stesso Dahrendorf di società postcapitalistica, o addirittura come nel caso di George Lichtheim si iniziò a delineare una sorta di ordine postborghese. Fu solo nel 1978 che il F. Lyotard teorizzava la postmodernità come nuova era basata sulla molteplicità dei discorsi e dei linguaggi in contrasto con l’uniformità moderna. Semplificando al massimo , possiamo definire "postmoderna" l'incredulità nei confronti delle narrazioni,questa è la base del suo percorso riflessivo.Solo pochi anni dopo l’italiano G. Vattimo riteneva che nella crisi dell’idea di progresso, fosse rintracciabile sia nelle arti, che nelle scienze e nella filosofia, il criterio guida emblema della fine della modernità. La postmodernità quindi da quasi tutti i pensatori dell’epoca veniva descritta come una sorta di "condizione di crisi. La crisi aggredisce le poche certe verità della della modernità, nel momento del tramonto delle sue idee caratterizzanti. Si eclissano i ragionamenti assoluti e tutti i discorsi che in maniera errata crediamo essere universali. Scompaiono le autorità morali e politiche, i valori di riferimento e le direttive sociali tradizionali.
In un ambiente di tale portata, l’espressione fine delle ideologie fa riferimento all’oscurantismo che affligge tutte le visioni globali, ideate nel passato come modelli di sapere.Nello specifico, il termine ideologia si espande e va a toccare anche il sapere scientifico, che nella modernità è sorto e ha preso forma e concretezza. Un modello di sapienza elevato, strutturato nella fiducia dell’essere umano per le sue potenzialità,ha ispirato e alimentato tanto il sapere etico-politico, quanto il sapere scientifico. Ha dato linfa tanto alla visione della storia, quanto lo scopo teorico della scienza di creare un quadro di certezze assolute ed imprenscindibiliLa conseguenza di questi ragionamenti è che oggi al trionfo del nichilismo sembra connettersi un pensiero che dobbiamo rimarcare del "dopo". Teoreticamente parlando ci troviamo nell’era del dopo filosofia, del dopo virtù, del dopo obiettività, del dopo ideologie. E nella morte del modello di sapienza il quale era stato il fondamento della modernità un qualcosa di veramente importante è successo. E’ venuta meno, non tanto, o soltanto, una individuale visione ideologica, ma la precisa fonte umanistica a base di tutte le ideologie. Quindi se nel ‘900 abbiamo vissuto la crisi generalizzata non solo delle filosofie, ma di tutti i progetti totali di sviluppo dell'umanità, un esempio classico era appunto la filosofia hegeliana, il nazionalismo, il marxismo, il liberalismo sia economico che socio-politico. Ma non è tutto,adesso col termine postmoderno non indichiamo tanto la crisi di una visione della storia o del mondo, ma si critica nello specifico la crisi di una visione dell’uomo. Si paventa insomma con esso una vera sfiducia nell’individuo e nelle sue capacità di capire e di agire. Si tratta di sfiducia verso tutti i progetti che si basavano sulle qualità e sulle doti pregiudiziali e positive nelle opere dell’uomo.
Svanita questa fondamentale fiducia, si è determinata la crisi nei diversi ambiti: nell’etica, nella politica, nelle istituzioni, nella storia. E infatti molti autori contemporanei parlano di crisi del soggetto e di crisi della ragione, e, forse in modo un po’ drammatico, di crisi dell’uomo. Tutto ciò perché la modernità non nasce solamente da un modello di sapere o di visione progressiva della storia, come sostenevano sia Lyotard che Vattimo. Ciò che da alla modernità è innanzitutto una certa idea di uomo, che inizia a costituirsi con l’Umanesimo e con il Rinascimento e che poi si afferma pienamente con l’Illuminismo. Una vera matrice antropologica della libertà e dell’autosufficienza della ragione, potremmo definirla, che si installa sull’uomo inteso come soggetto, come ragione, come libertà. La modernità è caratterizzata dall’idea di un soggetto forte, portatore di una ragione forte e di entità morali emancipatrici, che cioè risultano capaci di trasformare il mondo civile.Al contrario l’epoca della crisi, la postmodernità, va ad abbracciare un soggettivismo relativistico, negazione totale di ogni fondamento ed di ogni valore. L’uomo non è più in grado di donare ordine al mondo né di guidare con fermezza la storia. Il mondo diventa sempre più complesso e complicato, anzi in alcuni casi davvero incomprensibile e sembra sfidare l’uomo e la sua ragione, mettendo a repentaglio le sue stesse sicurezze. Le dinamiche storiche si accelerano e si complicano. Il ritmo dell’esistenza stessa diviene veloce e sempre più frenetico. La storia va rapida. Corrono gli uomini. Corre la massa di dati e di informazioni su internet. Ma la questione centrale è un’altra,manca chi indichi la direzione e manca una vera direzione. continua.