Libri
LA SPOSA GIOVANE di A.Baricco
di Valeria Piras
Nuovo libro per il padre del romanzo postmoderno italiano.
Alessandro Baricco torna nelle librerie col suo nuovo ed atteso romanzo dal titolo La Sposa Giovane.In questa sua nuova opera lo scrittore si applica neI narrare un universo nuovo,ambientato in un tempo lontano ma incentrato tutto su storie e personaggi in cui ognuno di noi può sempre riconoscersi.In questo romanzo Baricco si applica e ci dona una prosa densa e ricca di fuochi d'artificio; i maligni direbbero solo per distrarre da una storia semplice alla base in realtà negli anni la scrittura di Baricco si tramutata e si è fatta prosa quasi poetica per tecnica e iperboli sempre costanti.In questo romanzo non esistono personaggi semplici e non hanno neppure un nome,sono il Padre, la Madre, il Figlio, la Figlia, lo Zio. E la Sposa giovane. Il luogo in cui vivono è del pari indeterminato, come lo è l’epoca storica: tra fine ‘800 e inizio ‘900, si deduce dal resoconto di due prodezze seduttive della Madre giovane.
Il Figlio, che ha vent’anni, e la Sposa giovane, che ne ha diciotto, devono sposarsi, sono già fidanzati da tre anni ma lei è stata in Argentina al seguito del padre, lui è in Inghilterra a sorvegliare le fortune tessili dell’azienda di famiglia. Tornerà, dovrebbe tornare, lo aspettano come si attende Godot.Nella Famiglia si temono la notte (tutti i membri sono morti al buio), i libri (c’è già tutto nella vita), le tristezze e tutto ciò che sfugga a un cerimoniale minuzioso quanto insignificante che “tiene in ordine il mondo”. Come le colazioni in pigiama che durano fino al pomeriggio, con o senza ospiti. In questa atmosfera da Alice senza meraviglie, la Sposa giovane è iniziata alla vita e all’arte della seduzione. Baricco, appunto, si applica. c’è una costruzione del sublime in odore di arte: i personaggi senza nome suonano più profondi, possiedono un’aura maggiore di quelli con un nome e un luogo, così come un manichino senza volto rende “metafisica” una piazza di De Chirico.
Volete mettere se questa stramba Famiglia di industriali tessili si chiamasse, mettiamo, Loro Piana, e il luogo Biella? Lo stile di Baricco (che ha un suo tono inconfondibile, un suo fraseggio riconoscibile), pure ammirevole,riesce sempre a sedurre il lettore, è senz’altro invita a rileggere il libro.Con Baricco si assiste ad una sorta di nuovo stile post-moderno, con tonalità surrealiste, con sfumature di realismo magico, di prevertismi e sudamericanismi.Una specie di rinascita della tecnica descrittiva alla Salinger e che tale rinascita sia spinta da uno scrittore italiano di successo non può che renderci orgogliosi.
Alessandro Baricco torna nelle librerie col suo nuovo ed atteso romanzo dal titolo La Sposa Giovane.In questa sua nuova opera lo scrittore si applica neI narrare un universo nuovo,ambientato in un tempo lontano ma incentrato tutto su storie e personaggi in cui ognuno di noi può sempre riconoscersi.In questo romanzo Baricco si applica e ci dona una prosa densa e ricca di fuochi d'artificio; i maligni direbbero solo per distrarre da una storia semplice alla base in realtà negli anni la scrittura di Baricco si tramutata e si è fatta prosa quasi poetica per tecnica e iperboli sempre costanti.In questo romanzo non esistono personaggi semplici e non hanno neppure un nome,sono il Padre, la Madre, il Figlio, la Figlia, lo Zio. E la Sposa giovane. Il luogo in cui vivono è del pari indeterminato, come lo è l’epoca storica: tra fine ‘800 e inizio ‘900, si deduce dal resoconto di due prodezze seduttive della Madre giovane.
Il Figlio, che ha vent’anni, e la Sposa giovane, che ne ha diciotto, devono sposarsi, sono già fidanzati da tre anni ma lei è stata in Argentina al seguito del padre, lui è in Inghilterra a sorvegliare le fortune tessili dell’azienda di famiglia. Tornerà, dovrebbe tornare, lo aspettano come si attende Godot.Nella Famiglia si temono la notte (tutti i membri sono morti al buio), i libri (c’è già tutto nella vita), le tristezze e tutto ciò che sfugga a un cerimoniale minuzioso quanto insignificante che “tiene in ordine il mondo”. Come le colazioni in pigiama che durano fino al pomeriggio, con o senza ospiti. In questa atmosfera da Alice senza meraviglie, la Sposa giovane è iniziata alla vita e all’arte della seduzione. Baricco, appunto, si applica. c’è una costruzione del sublime in odore di arte: i personaggi senza nome suonano più profondi, possiedono un’aura maggiore di quelli con un nome e un luogo, così come un manichino senza volto rende “metafisica” una piazza di De Chirico.
Volete mettere se questa stramba Famiglia di industriali tessili si chiamasse, mettiamo, Loro Piana, e il luogo Biella? Lo stile di Baricco (che ha un suo tono inconfondibile, un suo fraseggio riconoscibile), pure ammirevole,riesce sempre a sedurre il lettore, è senz’altro invita a rileggere il libro.Con Baricco si assiste ad una sorta di nuovo stile post-moderno, con tonalità surrealiste, con sfumature di realismo magico, di prevertismi e sudamericanismi.Una specie di rinascita della tecnica descrittiva alla Salinger e che tale rinascita sia spinta da uno scrittore italiano di successo non può che renderci orgogliosi.
SOLO ANDATA di Erri De Luca
di Valeria Piras
La dura poesia di Erri De Luca su un tema complicato e spesso abusato.
Si intitola Solo Andata l’ultima raccolta di poesie di Erri De Luca, uscita di recente per Feltrinelli editore.Si tratta di una vera odissea infernale di migranti africani verso l’Europa, percorrendo deserti e rive della Libia, per giungere poi sulle "carrette del mare" nell'isola di Lampedusa, a sud della Sicilia. Una raccolta che parla del concetto di erranza, di sradicamento, di disperazione, di sfruttamento, di stranezza, di minacce e di morte. Poesie splendide che si materializzano con la bellezza del verbo di Erri De Luca, la sua lucidità politica e perfetta conoscenza del fenomeno migratorio: spietata geografia umana e fisica che si fa canto poetico e disperato. Con le sue poesie De Luca mette in parola le realtà profonde ma rimosse delle migrazioni,come in una specie di Iliade crudele e moderna, questo canto tragico esce dalla stretta sfera della poesia per raggiungere l’universalità di un linguaggio capace di dire l’indicibile orrore: corpi traditi, zuppi, sfiniti, morte salata del mare, sete che spinge a leccare l’ultima goccia di ruggine sulla carretta di legno, sguardi inanimati dove passa il groviglio delle nube.
Negli stessi giorni di uscita del libro i politici europei riuniti in Lussemburgo, sancivano le questioni di migrazioni in cooperazione con la Libia. Hanno parlato di pattuglie marittime comune, di motovedette , di salvataggio in mare, di formazione di poliziotti, di documenti falsificati, di diritto d’asilo e di rimpatrio. C'è stata grande divisione sul rispetto dei diritti umani e sul rispetto delle politiche di rimpatrio. "Sola andata" ripercorre il viaggio di un gruppo di emigranti clandestini dall’Africa ai "porti del nord", descrive bene i cori dell’antica tragedia, narrando gli avvenimenti e insieme commentandoli con trasporto poetico accompagnando con partecipazione anche quando il punto di vista è solo quello del testimone. La scrittura è asciutta e secca, scabra, e nulla concede alla retorica lacrimosa cui queste vicende spesso si prestano, né ai piaceri del verso, che è soprattutto cadenza, perfetta nel "dare ritmo" al dramma di questo viaggio senza tempo.
Dai versi di De Luca emergono netti gli stato d’animo, i ricordi, i fatti di attualità e anche le riflessioni di carattere politico o sociale. Con questa raccolta Erri De Luca tocca i vertici espressivi avvicinandosi alla splendida epica di Amos Oz che sul tema migrazione spesso è riuscito a mettere a fuoco, con un’immagine o un’espressione non scontata, la realtà cui allude.De Luca ci mostra in maniera pulita e senza filtri la valenza poetica anche là dove la materia appare più refrattaria a essere riscattata. Un libro di poesie bello che farà discutere, che coinvolgerà i lettori. Molti critici hanno inoltre parlato di una precisa svolta nella scrittura di Erri De Luca e forse la verità è davvero questa. Splendido Erri,come sempre.
Si intitola Solo Andata l’ultima raccolta di poesie di Erri De Luca, uscita di recente per Feltrinelli editore.Si tratta di una vera odissea infernale di migranti africani verso l’Europa, percorrendo deserti e rive della Libia, per giungere poi sulle "carrette del mare" nell'isola di Lampedusa, a sud della Sicilia. Una raccolta che parla del concetto di erranza, di sradicamento, di disperazione, di sfruttamento, di stranezza, di minacce e di morte. Poesie splendide che si materializzano con la bellezza del verbo di Erri De Luca, la sua lucidità politica e perfetta conoscenza del fenomeno migratorio: spietata geografia umana e fisica che si fa canto poetico e disperato. Con le sue poesie De Luca mette in parola le realtà profonde ma rimosse delle migrazioni,come in una specie di Iliade crudele e moderna, questo canto tragico esce dalla stretta sfera della poesia per raggiungere l’universalità di un linguaggio capace di dire l’indicibile orrore: corpi traditi, zuppi, sfiniti, morte salata del mare, sete che spinge a leccare l’ultima goccia di ruggine sulla carretta di legno, sguardi inanimati dove passa il groviglio delle nube.
Negli stessi giorni di uscita del libro i politici europei riuniti in Lussemburgo, sancivano le questioni di migrazioni in cooperazione con la Libia. Hanno parlato di pattuglie marittime comune, di motovedette , di salvataggio in mare, di formazione di poliziotti, di documenti falsificati, di diritto d’asilo e di rimpatrio. C'è stata grande divisione sul rispetto dei diritti umani e sul rispetto delle politiche di rimpatrio. "Sola andata" ripercorre il viaggio di un gruppo di emigranti clandestini dall’Africa ai "porti del nord", descrive bene i cori dell’antica tragedia, narrando gli avvenimenti e insieme commentandoli con trasporto poetico accompagnando con partecipazione anche quando il punto di vista è solo quello del testimone. La scrittura è asciutta e secca, scabra, e nulla concede alla retorica lacrimosa cui queste vicende spesso si prestano, né ai piaceri del verso, che è soprattutto cadenza, perfetta nel "dare ritmo" al dramma di questo viaggio senza tempo.
Dai versi di De Luca emergono netti gli stato d’animo, i ricordi, i fatti di attualità e anche le riflessioni di carattere politico o sociale. Con questa raccolta Erri De Luca tocca i vertici espressivi avvicinandosi alla splendida epica di Amos Oz che sul tema migrazione spesso è riuscito a mettere a fuoco, con un’immagine o un’espressione non scontata, la realtà cui allude.De Luca ci mostra in maniera pulita e senza filtri la valenza poetica anche là dove la materia appare più refrattaria a essere riscattata. Un libro di poesie bello che farà discutere, che coinvolgerà i lettori. Molti critici hanno inoltre parlato di una precisa svolta nella scrittura di Erri De Luca e forse la verità è davvero questa. Splendido Erri,come sempre.
IL PADRE INFEDELE di Antonio Scurati
di Valeria Piras
Un libro che ipnotizza e spiazza dalla prima all'ultima pagina.
Il nuovo romanzo di Antonio Scurati è un'opera splendida,che narra di come il giorno più bello della vita possa in realtà schiudere le porte degli inferi. Un vortice di tenerezza, dedizione e incondizionato amore arrivano ad accompagnare verso l'annientamento. Come in una promessa geneticamente scellerata, paternità e infedeltà nutrono la radice della nostra specie: "L'uomo è veracemente due" diceva il dottor Henry Jeckill nel romanzo di Stevenson. Fin dai tempi di Platone, la dualità della condizione umana è il rebus che in cent'anni la psicanalisi si è arrovellata invano a capire.Padri e madri di questo occidente, quarantenni satolli di vita ma ossessionati dal tempo che passa, anagraficamente incongrui all'esordio genitoriale. Antonio Scurati vi battezza con un libro-confessione a un tempo feroce e consolatorio, luciferino e amletico, dissacrante, disturbante, divertente: Il padre infedele . Non fedifrago o traditore, o meglio non semplicemente questo. Glauco Revelli, chef in carriera e padre novello, è il maschio ontologicamente infedele.
Testimone e mallevadore della violenza insita nel parto, quindi bonificatore della nascita dalla mostruosa, leopardiana antinomia, il padre si guarda allo specchio soddisfatto. Ma l'ebbrezza dura un istante. In quella triade appena composta che non può dirsi ancora una famiglia, scopre ben presto di aver perduto la sua identità. Finita la breve stagione di tormento ed estasi votata a un amore che pareva soprannaturale, l'arrivo dell'amata primogenita schiude una stagione malinconica di ribellione repressa. Impreparato al rifiuto coniugale della moglie caduta in depressione, il padre soccombe a una condizione esistenziale di ontologica insicurezza, mescolando totem e tabù in un demoniaco orizzonte di fantasie erotiche serializzate e stereotipate.Nel diario di Glauco Revelli sgorga un flusso di coscienza dominato dal senso di spossessamento e inganno. I pensieri onirici in fase di veglia si mescolano al senso di colpa surrettiziamente indotto dalla società dei consumi. È l'effetto collaterale della paternità terziarizzata. Voi, la generazione boom padrona di un mondo ricostruito attraverso il sudore dei padri, voi che avete barattato la socialità per la carriera, voi che avete acchiappato l'ultimo treno verso l'atavico rito della riproduzione: come potete permettervi di non sentirvi felici?
"Quando la bufala è una cosa seria": il padre infedele è un cuoco, cioè il rappresentante di una nuova generazione di artisti nell'epoca del divismo minore di massa. Scurati ci invita con gusto al banchetto paradigmatico del kitsch metropolitano, plasmato dalle mode, dai social talk e dal passa parola. Food design e lesbismo di ripiego, bebè testimonial e bio-eco mamme, maschi cacciatori e aguzzini del Fate la nanna. Fra un mohito e un negroni, nel retrobottega di quella che fu una trattoria storica milanese tramano gli adepti della nuova rivoluzione antropologica: macchè politica, macchè cultura, brindiamo alla leadership della gastronomia. Io, lei, noi tutti. Se l'infelicità è lo scandalo della società del benessere, come sostare dentro l'insormontabile dualismo? Come rimanere predatori senza uccidere la preda? È possibile, cioè, sopravvivere e continuare ad amarsi? Sulla soglia di questa domanda Antonio Scurati abbandona Glauco Revelli e chiude con una dolce reverie della figlia Anita, ormai adulta, sullo sfondo della periferia milanese. Una voce fuori campo che parla dal fondo del tempo, è come se ripetesse "non sei il solo, non sei il primo, non sarai l'ultimo".
Il nuovo romanzo di Antonio Scurati è un'opera splendida,che narra di come il giorno più bello della vita possa in realtà schiudere le porte degli inferi. Un vortice di tenerezza, dedizione e incondizionato amore arrivano ad accompagnare verso l'annientamento. Come in una promessa geneticamente scellerata, paternità e infedeltà nutrono la radice della nostra specie: "L'uomo è veracemente due" diceva il dottor Henry Jeckill nel romanzo di Stevenson. Fin dai tempi di Platone, la dualità della condizione umana è il rebus che in cent'anni la psicanalisi si è arrovellata invano a capire.Padri e madri di questo occidente, quarantenni satolli di vita ma ossessionati dal tempo che passa, anagraficamente incongrui all'esordio genitoriale. Antonio Scurati vi battezza con un libro-confessione a un tempo feroce e consolatorio, luciferino e amletico, dissacrante, disturbante, divertente: Il padre infedele . Non fedifrago o traditore, o meglio non semplicemente questo. Glauco Revelli, chef in carriera e padre novello, è il maschio ontologicamente infedele.
Testimone e mallevadore della violenza insita nel parto, quindi bonificatore della nascita dalla mostruosa, leopardiana antinomia, il padre si guarda allo specchio soddisfatto. Ma l'ebbrezza dura un istante. In quella triade appena composta che non può dirsi ancora una famiglia, scopre ben presto di aver perduto la sua identità. Finita la breve stagione di tormento ed estasi votata a un amore che pareva soprannaturale, l'arrivo dell'amata primogenita schiude una stagione malinconica di ribellione repressa. Impreparato al rifiuto coniugale della moglie caduta in depressione, il padre soccombe a una condizione esistenziale di ontologica insicurezza, mescolando totem e tabù in un demoniaco orizzonte di fantasie erotiche serializzate e stereotipate.Nel diario di Glauco Revelli sgorga un flusso di coscienza dominato dal senso di spossessamento e inganno. I pensieri onirici in fase di veglia si mescolano al senso di colpa surrettiziamente indotto dalla società dei consumi. È l'effetto collaterale della paternità terziarizzata. Voi, la generazione boom padrona di un mondo ricostruito attraverso il sudore dei padri, voi che avete barattato la socialità per la carriera, voi che avete acchiappato l'ultimo treno verso l'atavico rito della riproduzione: come potete permettervi di non sentirvi felici?
"Quando la bufala è una cosa seria": il padre infedele è un cuoco, cioè il rappresentante di una nuova generazione di artisti nell'epoca del divismo minore di massa. Scurati ci invita con gusto al banchetto paradigmatico del kitsch metropolitano, plasmato dalle mode, dai social talk e dal passa parola. Food design e lesbismo di ripiego, bebè testimonial e bio-eco mamme, maschi cacciatori e aguzzini del Fate la nanna. Fra un mohito e un negroni, nel retrobottega di quella che fu una trattoria storica milanese tramano gli adepti della nuova rivoluzione antropologica: macchè politica, macchè cultura, brindiamo alla leadership della gastronomia. Io, lei, noi tutti. Se l'infelicità è lo scandalo della società del benessere, come sostare dentro l'insormontabile dualismo? Come rimanere predatori senza uccidere la preda? È possibile, cioè, sopravvivere e continuare ad amarsi? Sulla soglia di questa domanda Antonio Scurati abbandona Glauco Revelli e chiude con una dolce reverie della figlia Anita, ormai adulta, sullo sfondo della periferia milanese. Una voce fuori campo che parla dal fondo del tempo, è come se ripetesse "non sei il solo, non sei il primo, non sarai l'ultimo".
GLI SDRAIATI di Michele Serra
di Valeria Piras
Scoprire i nostri figli e anche un pò noi stessi.
Che il lavoro del genitore fosse un mestiere impossibile lo si sapeva già da tempo ma negli ultimi tempi fra crisi,angosce e nuove tecnologie la vicenda si ancora di più complicata.E' da queste notizie che parte la storia del libro Gli sdraiati,il nuovo, imperdibile, capolavoro di Michele Serra che apre il suo cuore e ci narra la sua avventura attuale di padre. Nella nostra società l'argomento della paternità è diventato un argomento davvero egemonico, questo poichè sottolinea l'angoscia diffusa non solo nelle famiglie ma nella società stessa.Perchè la figura del padre ha subito una diminutio così forte della sua qualità autoritaria e disciplinare?Può ancora svolgere un ruolo autoritario degno di nota? Può la parola di un padre servire ancora per consigliare ed essere il mezzo con cui chiudere ogni discorso avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi,sul bene e sul male,sulla vita e sulla morte?
Il padre narrato da Serra è una figura che non cela la sua fragilità interiore, una sorta di schizofrenica incarnazione dell'autorità che varia paurosamente tra la voglia di rimproverare e quella di consigliare.Questo nuovo padre si trova daventi non più una prole impaurita nè con figli ribelli e rivoluzionari che lo contestano.I figli di oggi preferiscono stare nelle loro stanze,leggere o usare il pc piuttosto che andare a lavorare nei campi con i padri.Una cosa che in passato era inimmaginabile. Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli.
Michele Serra la sintetizza parlando del passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: definisce i ragazzi di oggi gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, che scelgono la tv alla natura, che non amano le bandiere dell'Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso».Sono i nuovi consumisti perfetti e questo non è né bene, né male; è una mutazione, «è l'evoluzione della specie.Gli Sdraiati è un libro molto tenero dove la tipica ironia e la forza satirica di Michele Serra spesso cede il passo ad attimi struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura.Riesce in modo perfetto a raccontare con stupore la scoperta dell'abitudine del figlio ipertecnologico e la scoperta di come l'età dell'innocenza none siste più,accompagnandoci in un universo nuovo dove meglio capire i nostri figli e anche noi stessi.
Che il lavoro del genitore fosse un mestiere impossibile lo si sapeva già da tempo ma negli ultimi tempi fra crisi,angosce e nuove tecnologie la vicenda si ancora di più complicata.E' da queste notizie che parte la storia del libro Gli sdraiati,il nuovo, imperdibile, capolavoro di Michele Serra che apre il suo cuore e ci narra la sua avventura attuale di padre. Nella nostra società l'argomento della paternità è diventato un argomento davvero egemonico, questo poichè sottolinea l'angoscia diffusa non solo nelle famiglie ma nella società stessa.Perchè la figura del padre ha subito una diminutio così forte della sua qualità autoritaria e disciplinare?Può ancora svolgere un ruolo autoritario degno di nota? Può la parola di un padre servire ancora per consigliare ed essere il mezzo con cui chiudere ogni discorso avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi,sul bene e sul male,sulla vita e sulla morte?
Il padre narrato da Serra è una figura che non cela la sua fragilità interiore, una sorta di schizofrenica incarnazione dell'autorità che varia paurosamente tra la voglia di rimproverare e quella di consigliare.Questo nuovo padre si trova daventi non più una prole impaurita nè con figli ribelli e rivoluzionari che lo contestano.I figli di oggi preferiscono stare nelle loro stanze,leggere o usare il pc piuttosto che andare a lavorare nei campi con i padri.Una cosa che in passato era inimmaginabile. Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli.
Michele Serra la sintetizza parlando del passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: definisce i ragazzi di oggi gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, che scelgono la tv alla natura, che non amano le bandiere dell'Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso».Sono i nuovi consumisti perfetti e questo non è né bene, né male; è una mutazione, «è l'evoluzione della specie.Gli Sdraiati è un libro molto tenero dove la tipica ironia e la forza satirica di Michele Serra spesso cede il passo ad attimi struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura.Riesce in modo perfetto a raccontare con stupore la scoperta dell'abitudine del figlio ipertecnologico e la scoperta di come l'età dell'innocenza none siste più,accompagnandoci in un universo nuovo dove meglio capire i nostri figli e anche noi stessi.
ADULTERO di Paulo Coelho
di Valeria Piras
Un romanzo intenso sulla ricerca della felicità.
Si intitola Adulterio, il nuovo romanzo uscito dalla sapiente penne di Paulo Coelho in libreria dal 20 giugno scorso. La trama è nata da una vera ispirazione giunta dai suoi followers su twitter e racconta la storia di un amore in crisi che termina quasi inevitabilmente nel tradimento, che però la protagonista vive con inquietudine e profonda sofferenza.Adulterio narra bene l'esistenza di una donna, Linda, e del suo lungo percorso interiore dopo aver preso coscienza del fatto che la felicità che vive è in realtà solo apparente.
Linda è giovane, bella, ha un matrimonio stabile e duraturo è una professionista affermata che crede profondamente nel suo lavoro. Vive in Svizzera con il marito, un uomo ricco di ammirazione e affetto per lei che la riempie di attenzioni, e due figli fantastici. E’ insomma una donna serena ed appagata, o almeno così appare agli occhi di tutti.Si tratta di un tema vecchio come il mondo quello affrontato da Coelho nel suo ultimo intenso romanzo: una specie di bel reportage sull’inquietudine umana fatto di amore, sesso, depressione e riscatto. Un argomento che l’autore ha affrontato grazie anche al prezioso consiglio dei suoi oltre 9 milioni di follower consultati online.
Linda simboleggia una sorta di ritratto di un comportamento che a volte tendiamo a sottovalutare, come ha spiegato lo stesso scrittore, è quel genere di persona che ha a pochi centimetri tutto ciò che serve per essere felice ma non riesce a esserlo. Ed è proprio analizzando questa intima contraddizione che si sviluppa l’intreccio del romanzo. Un’opera scritta in modo delicato e travolgente, Adulterio, com’è nello stile di Coelho che con i suoi romanzi è riuscito a ben descrivere l'intensa inquietudine dei nostri tempi, raccontando storie di vita quotidiana con quell'eleganza di stile e quella sensibilità che da sempre lo definiscono uno dei romanzieri più letti ed elogiati della letteratura contemporanea.
Si intitola Adulterio, il nuovo romanzo uscito dalla sapiente penne di Paulo Coelho in libreria dal 20 giugno scorso. La trama è nata da una vera ispirazione giunta dai suoi followers su twitter e racconta la storia di un amore in crisi che termina quasi inevitabilmente nel tradimento, che però la protagonista vive con inquietudine e profonda sofferenza.Adulterio narra bene l'esistenza di una donna, Linda, e del suo lungo percorso interiore dopo aver preso coscienza del fatto che la felicità che vive è in realtà solo apparente.
Linda è giovane, bella, ha un matrimonio stabile e duraturo è una professionista affermata che crede profondamente nel suo lavoro. Vive in Svizzera con il marito, un uomo ricco di ammirazione e affetto per lei che la riempie di attenzioni, e due figli fantastici. E’ insomma una donna serena ed appagata, o almeno così appare agli occhi di tutti.Si tratta di un tema vecchio come il mondo quello affrontato da Coelho nel suo ultimo intenso romanzo: una specie di bel reportage sull’inquietudine umana fatto di amore, sesso, depressione e riscatto. Un argomento che l’autore ha affrontato grazie anche al prezioso consiglio dei suoi oltre 9 milioni di follower consultati online.
Linda simboleggia una sorta di ritratto di un comportamento che a volte tendiamo a sottovalutare, come ha spiegato lo stesso scrittore, è quel genere di persona che ha a pochi centimetri tutto ciò che serve per essere felice ma non riesce a esserlo. Ed è proprio analizzando questa intima contraddizione che si sviluppa l’intreccio del romanzo. Un’opera scritta in modo delicato e travolgente, Adulterio, com’è nello stile di Coelho che con i suoi romanzi è riuscito a ben descrivere l'intensa inquietudine dei nostri tempi, raccontando storie di vita quotidiana con quell'eleganza di stile e quella sensibilità che da sempre lo definiscono uno dei romanzieri più letti ed elogiati della letteratura contemporanea.
IL NERO E L'ARGENTO di Paolo Giordano
di Valeria Piras
I percorsi dell'amore tra normalità e dubbi nascosti.
Paolo Giordano dopo ben due capolavori campioni di incassi come “La solitudine dei numeri primi”, Premio Strega, e “Il corpo umano” entrambi editi dalla casa editrice Mondadori, cambia non solo editore ma anche agente.Il suo nuovo romanzo si chiama Il Nero e l'Argento e con esso l'autore affronta un tema delicato come l' amore giovanile, di una coppia che è felice ma allo stesso tempo ha paura di scoprire nella quotidianità e nel tempo l’insinuarsi dell’abbandono.I protagonisti sono Nora e il marito, nucleo centrale del libro, alla fine arriverà il momento di fare i conti con il futuro, con il tempo che insinua dubbi e trascorrendo porta alla perdita.I legami di relazione necessitano di essere definiti, delimitati, riconosciuti altrimenti si rischia di perdersi nell’immenso spazio, e propio questo senso di disperzione che avvolge i due giovani innamorati,soprattutto quando una matura e affascinante donna entra nelle loro vite.
La signora prima si avvicina come semplice domestica, poi diventa il loro faro, la bussola, la testimone di quel rapporto.Paolo Giordano in questo suo ultimo libro “Il nero e l’argento” riesce benissimo a raccontare l’amore e il rapporto attraverso i gesti, le inclinazioni, i momenti di contrasto, narrando la quotidianità per dimostrare come spesso il pericolo sia nascosto dietro l’angolo.Così può capitare che quello che sembra essere solo un’inversione di rotta, un piccolo insuccesso si andrà ad affiancare agli altri e sommandosi rovineranno irrimediabilmente il rapporto.“Il nero e l’argento” di Paolo Giordano è un romanzo che comincia dal punto di vista esterno, ma si addentra poi nel cuore dei personaggi per mostrarne la fragilità e la mancanza di equilibrio stabile. Il nero per Paolo Giordano è una specie di materia liquida e densa che scorre nel sistema linfatico, un fiume di catrame insolubile che inquina l'umore.
È il simbolo della malinconia, che la natura si è divertita a travasare nel corpo solare e luminoso dello scrittore. Ossrvando Giordano con la sua immagine di ragazzi dolce ed inquieto con i suoi occhi azzurri, i capelli e la barba biondi finalmente si comprende come ha potuto, a 25 anni, raccontare con la precisione di un entomologo il dolore di Alice e di Mattia nella Solitudine dei numeri primi, il suo esordio che fu un successo planetario.
Paolo Giordano dopo ben due capolavori campioni di incassi come “La solitudine dei numeri primi”, Premio Strega, e “Il corpo umano” entrambi editi dalla casa editrice Mondadori, cambia non solo editore ma anche agente.Il suo nuovo romanzo si chiama Il Nero e l'Argento e con esso l'autore affronta un tema delicato come l' amore giovanile, di una coppia che è felice ma allo stesso tempo ha paura di scoprire nella quotidianità e nel tempo l’insinuarsi dell’abbandono.I protagonisti sono Nora e il marito, nucleo centrale del libro, alla fine arriverà il momento di fare i conti con il futuro, con il tempo che insinua dubbi e trascorrendo porta alla perdita.I legami di relazione necessitano di essere definiti, delimitati, riconosciuti altrimenti si rischia di perdersi nell’immenso spazio, e propio questo senso di disperzione che avvolge i due giovani innamorati,soprattutto quando una matura e affascinante donna entra nelle loro vite.
La signora prima si avvicina come semplice domestica, poi diventa il loro faro, la bussola, la testimone di quel rapporto.Paolo Giordano in questo suo ultimo libro “Il nero e l’argento” riesce benissimo a raccontare l’amore e il rapporto attraverso i gesti, le inclinazioni, i momenti di contrasto, narrando la quotidianità per dimostrare come spesso il pericolo sia nascosto dietro l’angolo.Così può capitare che quello che sembra essere solo un’inversione di rotta, un piccolo insuccesso si andrà ad affiancare agli altri e sommandosi rovineranno irrimediabilmente il rapporto.“Il nero e l’argento” di Paolo Giordano è un romanzo che comincia dal punto di vista esterno, ma si addentra poi nel cuore dei personaggi per mostrarne la fragilità e la mancanza di equilibrio stabile. Il nero per Paolo Giordano è una specie di materia liquida e densa che scorre nel sistema linfatico, un fiume di catrame insolubile che inquina l'umore.
È il simbolo della malinconia, che la natura si è divertita a travasare nel corpo solare e luminoso dello scrittore. Ossrvando Giordano con la sua immagine di ragazzi dolce ed inquieto con i suoi occhi azzurri, i capelli e la barba biondi finalmente si comprende come ha potuto, a 25 anni, raccontare con la precisione di un entomologo il dolore di Alice e di Mattia nella Solitudine dei numeri primi, il suo esordio che fu un successo planetario.
LA MOGLIE MAGICA di S.C.Modignani
di Valeria Piras
L'ennesimo best seller di una scrittrice profonda ed attualissima.
Il nome di Sveva Casati Modignani, pseudonimo di Bice Cairati,è un nome notevole nella letteratura italiana contemporanea,vanta ben sette bestsellers tradotti in venti Paesi che per mesi sono rimasti ai vertici della classifica vendite.La Moglie Magica” è il suo ultimo romanzo ed è la storia a lieto fine di una ragazza costretta a dover combattere con una pessimo marito,manesco e problematico. Mariangela, chiamata da tutti Magia, è una donna che a soli vent'anni abbandona la sua terra amata,un borgo di montanari per la caotica Milano. Qui va ad abitare con Paolo in un appartamento di lusso di Via Eustachi dove sogna di poter, finalmente, vivere l’esistenza elegante che lui le ha prospettato.Mariangela è bella, giovane ed allegra e ben presto riesce a farsi voler bene da tutti i vicini. La sua vita familiare però non sta seguendo i suoi sogni infatti, Paolo si è dimostrato una persona manesca,ombrosa e piena di livore. Il suo stato d’animo, perennemente agitato e scontroso, cozza con quello di Magia e alla lunga il loro rapporto si sfilaccia anche a causa delle violenze fisiche alle quali Paolo la sottopone.
Magia sopporta anche se stenta a capire come lui possa essere così ostile e contrario all’amore che lei riserva ai loro figli.Lentamente anche Magia si trasforma , perde il sorriso e la carica di vitalità si riduce; il suo cambiamento è così palese che viene notato persino dalle persone che la circondano che però si ritrovano impossibilitati ad agire. Dopo quattordici anni di amore malato lei stessa stenta a riconoscersi nella donna triste e sottomessa che è diventata e nella quale è quasi impossibile rintracciare il suo carattere giocoso ed allegro.Magia si ritrova in un limbo dal quale è molto difficile uscire e che la porterà anche a tentare di farla finita.
Sentendosi sola e disperata, individua nel suicido l’unica alternativa per liberarsi da un uomo che l’ha illusa e l’ha portata via con l’inganno di una vita migliore.La situazione cambia improvvisamente: un giorno, in seguito all’ennesima angheria, Magia decide che quel martirio deve finire e che non vuole più sopportare gli atteggiamenti violenti di Paolo.Il coraggio di riprendersi la sua vita le viene anche dai loro figli che vuole salvare dalla sofferenza e dalle nevrosi del marito. Magia decide di andare via e viene aiutata anche da un tocco imprevedibile di mistero.“La moglie magica” è la storia della rinascita di una donna che riesce a liberarsi dalle pastoie imposte da un marito violento che nasconde le sue debolezze dietro soprusi ed angherie.
Il nome di Sveva Casati Modignani, pseudonimo di Bice Cairati,è un nome notevole nella letteratura italiana contemporanea,vanta ben sette bestsellers tradotti in venti Paesi che per mesi sono rimasti ai vertici della classifica vendite.La Moglie Magica” è il suo ultimo romanzo ed è la storia a lieto fine di una ragazza costretta a dover combattere con una pessimo marito,manesco e problematico. Mariangela, chiamata da tutti Magia, è una donna che a soli vent'anni abbandona la sua terra amata,un borgo di montanari per la caotica Milano. Qui va ad abitare con Paolo in un appartamento di lusso di Via Eustachi dove sogna di poter, finalmente, vivere l’esistenza elegante che lui le ha prospettato.Mariangela è bella, giovane ed allegra e ben presto riesce a farsi voler bene da tutti i vicini. La sua vita familiare però non sta seguendo i suoi sogni infatti, Paolo si è dimostrato una persona manesca,ombrosa e piena di livore. Il suo stato d’animo, perennemente agitato e scontroso, cozza con quello di Magia e alla lunga il loro rapporto si sfilaccia anche a causa delle violenze fisiche alle quali Paolo la sottopone.
Magia sopporta anche se stenta a capire come lui possa essere così ostile e contrario all’amore che lei riserva ai loro figli.Lentamente anche Magia si trasforma , perde il sorriso e la carica di vitalità si riduce; il suo cambiamento è così palese che viene notato persino dalle persone che la circondano che però si ritrovano impossibilitati ad agire. Dopo quattordici anni di amore malato lei stessa stenta a riconoscersi nella donna triste e sottomessa che è diventata e nella quale è quasi impossibile rintracciare il suo carattere giocoso ed allegro.Magia si ritrova in un limbo dal quale è molto difficile uscire e che la porterà anche a tentare di farla finita.
Sentendosi sola e disperata, individua nel suicido l’unica alternativa per liberarsi da un uomo che l’ha illusa e l’ha portata via con l’inganno di una vita migliore.La situazione cambia improvvisamente: un giorno, in seguito all’ennesima angheria, Magia decide che quel martirio deve finire e che non vuole più sopportare gli atteggiamenti violenti di Paolo.Il coraggio di riprendersi la sua vita le viene anche dai loro figli che vuole salvare dalla sofferenza e dalle nevrosi del marito. Magia decide di andare via e viene aiutata anche da un tocco imprevedibile di mistero.“La moglie magica” è la storia della rinascita di una donna che riesce a liberarsi dalle pastoie imposte da un marito violento che nasconde le sue debolezze dietro soprusi ed angherie.
LA STRADA VERSO CASA di Fabio Volo
di Valeria Piras
La maturazione definitiva del Fabio Volo scrittore.
La Strada Verso Casa è il nuovo attesissimo romanzo di Fabio Volo,scrittore,attore,conduttore e chi ne ha più ne metta. E’ la storia di due fratelli che allontanatisi si riavvicinano per forza maggiore e tornano a capirsi di nuovo. Sono custodi di emozioni e di un inconfessabile segreto di famiglia nascosto da sempre dentro di loro. Il romanzo narra anche di una lunga e tormentata storia d'amore che vive per decenni e che è densa di eventi belli e brutti. Infine racconta il dolore che spacca il cuore per una perdita importante e i momenti di felicità che nascono a sorpresa. La scrittura di Fabio Volo ha sempre mantenuto una sorta di venatura filosofica che traspare e dà emozioni quotidiane e naturali,quasi istintive, metafore che semplificano registri e schemi complessi in modo perfetto con sottile ironia e spesso anche amara consapevolezza che dona ai suoi romanzi un forte senso agrodolce. Il romanzo a detta dell’autore è semi-autobiografico,eventi come il rapporto col fratello,la malattia dl padre sono tutti elementi veri in cui Volo mette se stesso e si sente.
La storia è sentita e forte,ricca di sentimenti anche se in alcuni momenti si fa pesante quasi schiacciante per la ricchezza di emozioni controverse e contenute nelle pagine. Emblematico il rapporto col fratello,si vogliono bene, sanno di volersene, ma non lo mostrano,semplicemente perché non ce né bisogno alcuno. Il modo in cui vengono descritte le attenzioni al padre e l’intera vicenda ha il sentore dolce/amaro delle famiglie divise ma che desiderano essere unite perché ne avrebbero bisogno. Volo ci narra tutti i sintomi di un' amore incondizionato verso quell’universo familiare che,anche se sfumato nel tempo,prova a ricomporsi.Come detto la famiglia porta dentro di se un segreto inconfessabile, seppellito per anni che alla fine viene fuori in modo quasi naturale. Alcuni critici hanno evidenziato la necessità di inserire nel romanzo capitoli più leggeri da un punto di vista emozionale per non stressare emotivamente il lettore,per smorzare un po' l'intero dramma. Forse è vero che Volo non dà respiro a chi legge,getta nelle pagine tutti i suoi sentimenti forti senza curarsi dell’impatto,ma forse è un pregio di sincerità.
Un racconto non studiato ma spontaneo. E’ vero che il libro tratta comunque di cose già sentite nella storia bibliografica di Volo,amori,dolori,tradimenti,drammi familiari,sono cose che già sono state lette in alcuni degli stessi romanzi dello scrittore ma un forte impulso drammatico non si era mai visto come adesso. Fermo restando che il bisogno di una ventata di novità è comunque utile. La scrittura lineare e semplice,senza complessità strutturali,argomenti chiari e facilmente individuabili nella vita di ognuno di noi,un sano approccio ironico e anche filosofico all’esistenza umana,sono i pregi da sempre del Fabio Volo scrittore. Sono i motivi che fanno della Strada Verso Casa un romanzo da leggere.
La Strada Verso Casa è il nuovo attesissimo romanzo di Fabio Volo,scrittore,attore,conduttore e chi ne ha più ne metta. E’ la storia di due fratelli che allontanatisi si riavvicinano per forza maggiore e tornano a capirsi di nuovo. Sono custodi di emozioni e di un inconfessabile segreto di famiglia nascosto da sempre dentro di loro. Il romanzo narra anche di una lunga e tormentata storia d'amore che vive per decenni e che è densa di eventi belli e brutti. Infine racconta il dolore che spacca il cuore per una perdita importante e i momenti di felicità che nascono a sorpresa. La scrittura di Fabio Volo ha sempre mantenuto una sorta di venatura filosofica che traspare e dà emozioni quotidiane e naturali,quasi istintive, metafore che semplificano registri e schemi complessi in modo perfetto con sottile ironia e spesso anche amara consapevolezza che dona ai suoi romanzi un forte senso agrodolce. Il romanzo a detta dell’autore è semi-autobiografico,eventi come il rapporto col fratello,la malattia dl padre sono tutti elementi veri in cui Volo mette se stesso e si sente.
La storia è sentita e forte,ricca di sentimenti anche se in alcuni momenti si fa pesante quasi schiacciante per la ricchezza di emozioni controverse e contenute nelle pagine. Emblematico il rapporto col fratello,si vogliono bene, sanno di volersene, ma non lo mostrano,semplicemente perché non ce né bisogno alcuno. Il modo in cui vengono descritte le attenzioni al padre e l’intera vicenda ha il sentore dolce/amaro delle famiglie divise ma che desiderano essere unite perché ne avrebbero bisogno. Volo ci narra tutti i sintomi di un' amore incondizionato verso quell’universo familiare che,anche se sfumato nel tempo,prova a ricomporsi.Come detto la famiglia porta dentro di se un segreto inconfessabile, seppellito per anni che alla fine viene fuori in modo quasi naturale. Alcuni critici hanno evidenziato la necessità di inserire nel romanzo capitoli più leggeri da un punto di vista emozionale per non stressare emotivamente il lettore,per smorzare un po' l'intero dramma. Forse è vero che Volo non dà respiro a chi legge,getta nelle pagine tutti i suoi sentimenti forti senza curarsi dell’impatto,ma forse è un pregio di sincerità.
Un racconto non studiato ma spontaneo. E’ vero che il libro tratta comunque di cose già sentite nella storia bibliografica di Volo,amori,dolori,tradimenti,drammi familiari,sono cose che già sono state lette in alcuni degli stessi romanzi dello scrittore ma un forte impulso drammatico non si era mai visto come adesso. Fermo restando che il bisogno di una ventata di novità è comunque utile. La scrittura lineare e semplice,senza complessità strutturali,argomenti chiari e facilmente individuabili nella vita di ognuno di noi,un sano approccio ironico e anche filosofico all’esistenza umana,sono i pregi da sempre del Fabio Volo scrittore. Sono i motivi che fanno della Strada Verso Casa un romanzo da leggere.
IO CHE AMO SOLO TE di Luca Bianchini
di Chiara Ciccone
Una delle rivelazioni della stagione letteraria.
Io che amo solo te di Luca Bianchini è un libro che parla d'amore, che arriva e torna quando tu non te lo aspetti e ti porta solo dove decide lui. Questo libro è ambientato a Polignano a Mare un paesino bianco e arroccato in uno dei magici angoli della Puglia dove esistono ancora antichi valori.In questi tre giorni in cui si svolge la storia i personaggi saranno accompagnati dal vento del maestrale caratteristico di questi luoghi.
Ninella ha quinquant'anni e un amore impossibile che non ha mai potuto vivere Don Mimi. Il destino però ha in serbo per lei un regalo: sua figlia Chiara si fidanza con Damiano figlio di Don Mimi e i due decidono di sposarsi. Questo matrimonio diventa l'evento dell'anno a Polignano e gli occhi sono puntati non sui due sposi ma sui loro genitori. Ninella è la piu bella sarta del paese e da quando è rimasta vedova si è chiusa in casa a cucire guardando il suo mare, mentre Don Mimi nasconde il desiderio di riavere a se quella donna. Tutto questo si svolge sotto la supervisione della “First Lady” come la chiamano a Polignano la futura suocera di Chiara e moglie di Don Mimi.
E' lei che organizza e gestisce il matrimonio dalla scelta del bouchet semicascante, alla disposizione dei tavoli con i nomi dei venti, insomma una festa che tutti voglio sia indimenticabile. Ma tutto puo succedere e in un attimo la situazione puo degenerare e la situazione puo precipitare nel caos grazie a un susseguirsi di colpi di scena: il fratello dello sposo gay che si presenta con una finta, una quindicenne che vuole perdere cinque chili e la verginità in tre giorni e un truccatore che obbliga la sposa a non piangere per non rovinare il trucco.
Io che amo solo te di Luca Bianchini è un libro che parla d'amore, che arriva e torna quando tu non te lo aspetti e ti porta solo dove decide lui. Questo libro è ambientato a Polignano a Mare un paesino bianco e arroccato in uno dei magici angoli della Puglia dove esistono ancora antichi valori.In questi tre giorni in cui si svolge la storia i personaggi saranno accompagnati dal vento del maestrale caratteristico di questi luoghi.
Ninella ha quinquant'anni e un amore impossibile che non ha mai potuto vivere Don Mimi. Il destino però ha in serbo per lei un regalo: sua figlia Chiara si fidanza con Damiano figlio di Don Mimi e i due decidono di sposarsi. Questo matrimonio diventa l'evento dell'anno a Polignano e gli occhi sono puntati non sui due sposi ma sui loro genitori. Ninella è la piu bella sarta del paese e da quando è rimasta vedova si è chiusa in casa a cucire guardando il suo mare, mentre Don Mimi nasconde il desiderio di riavere a se quella donna. Tutto questo si svolge sotto la supervisione della “First Lady” come la chiamano a Polignano la futura suocera di Chiara e moglie di Don Mimi.
E' lei che organizza e gestisce il matrimonio dalla scelta del bouchet semicascante, alla disposizione dei tavoli con i nomi dei venti, insomma una festa che tutti voglio sia indimenticabile. Ma tutto puo succedere e in un attimo la situazione puo degenerare e la situazione puo precipitare nel caos grazie a un susseguirsi di colpi di scena: il fratello dello sposo gay che si presenta con una finta, una quindicenne che vuole perdere cinque chili e la verginità in tre giorni e un truccatore che obbliga la sposa a non piangere per non rovinare il trucco.
INFERNO di Dan Brown
L'Americano sfiora l'eresia.Ma alla fine convince ed appassiona.
Dan Brown lo conoscono tutti, è lo scrittore americano che con il suo Codice da Vinci e relativi diritti per il film ha realizzato guadagni pari a 100 milioni di dollari,tanto da vivere di rendita ab eternum.Ma l'americano ama scrivere e dopo il suo capolavoro ha dato alla vita altri romanzi tutti lontanissimi per vendite e qualità al precedente.Ora,in questo 2013,ci riprova con un'opera che appare accattivante e promettente,Inferno e il titolo e la faccia in profilo di Dante Alighieri non lascia spazio a dubbi.Il libro ha esordito benissimo nelle vendite,già in testa con 600 mila copie. Superbe sono anche le misure di controspionaggio messe in atto dagli editori di tutto il mondo per combattere l’eventuale fuga di notizie riguardanti il suo libro: bozze spedite in aereo, mai via e-mail, libri distribuiti in pacchi tracciati, traduttori chiusi in bunker senza telefonino e wi-fi, obbligati al silenzio e con navigazione limitata su Internet.
Il tema che Brown ha scelto per intrigare i suoi affezionatissimi lettori è molto particolare: come lascia intuire il titolo, la trama si va a inoltrare nei gironi dell’Inferno di Dante partendo, com’è logico per un romanzo di cotanto scrittore, da un’immagine da interpretare. Anzi, sono due, questa volta, centellinate rispettivamente nel prologo e nel primo capitolo: un’ombra, quella di Dante, che vaga nella Firenze del passato, e una donna velata, che si staglia sulla riva di un fiume di sangue, fra cadaveri putrefatti e miasmi di morte. È una scelta “eretica” o, meglio, che corre il rischio di beccarsi un cartellino per lesa maestà: Brown va a scomodare addirittura il Sommo Poeta. Lo fa, però, con deferenza. Nell’anticipazione del libro Brown ha detto: «Avevo studiato l’Inferno a scuola» dice «ma è solo recentemente, facendo ricerche a Firenze, che ho iniziato ad apprezzare la sua grande influenza sul mondo moderno. Penso che sia interessante che la gente impari a comprendere il mondo in cui vive. Che vedano, ad esempio, la Chiesa o le grandi opere d’arte con una lente diversa, come attraverso gli occhi di un vero e proprio specialista, qual è il protagonista Robert Langdon».Del resto, la tentazione di usare Dante come un serbatoio di simboli era troppo grande, per quella capacità di raccontare epoche, storie e personaggi con immagini fulminanti e indelebili.Perciò di Dante prevalgono qui le immagini spaventose, come quell’uomo che nel prologo si perde in una selva oscura di insicurezze o quella signora velata che si affaccia su un fiume: un corso d’acqua che, più dell’Arno, ricorda lo Stige.
Dan Brown, insomma, non si allontana molto da se stesso. Squadra che vince non si cambia, mormoreranno i maligni. Quindi la magia non può mancare. Così, ecco un giochetto numerico sul giorno di uscita: la data di oggi, 14/5/2013 è l’anagramma numerico di 3,1415, valore approssimato di pi greco, usato da Dante per misurare una bolgia e rapportato, in modo molto sottile, al problema della quadratura del cerchio.
Potevano poi mancare i passaggi segreti? No, certamente. Dan Brown li sfrutta a piene mani, li disegna nella Firenze che fu, ripescandoli dal passato. A cominciare dall’antico corridoio vasariano, che collega Palazzo Pitti con Palazzo Vecchio, passando sopra la Galleria degli Uffizi e sopra il Ponte Vecchio. Il camminamento diventa uno scenario ideale, nella fertile immaginazione di Brown, per accompagnare all’inferno gente disperata. E, per i lettori, un modo per inventare scappatoie dalla banalità e per inventarsi una via di fuga anche nella calma più totale. C’è, poi, la questione della chiesa. Dopo “Il Codice Da Vinci”, la Catholic League ha già messo le mani avanti. Ma, dal momento che andrà presumibilmente a toccare questioni che hanno molto a che fare con la fede e con il peccato, nonché con i religiosi messi da Dante all’inferno senza troppi complimenti, c’è da scommettere che non sarà molto gradito in ambienti ecclesiastici.
Il tutto si svolge a Firenze, e non è un dettaglio. La città si riscopre capitale del Male. Riscopre: perché già Hannibal The Cannibal, il personaggio di Thomas Harris, interpretato da Anthony Hopkins nel film di Ridley Scott, si era nascosto sotto le ingenue spoglie del direttore di una biblioteca. Eppure, era il Male. Ora il cuore oscuro della città torna a pulsare: talmente sordo e affascinante da trascinarsi dietro un ritorno turistico di tutto rispetto, visti soprattutto i precedenti. Parigi, tanto per fare un esempio, ha avuto l’onere e l’onore di ospitare “Il Codice Da Vinci”, ma è stata ampiamente ripagata da decine di pacchetti turistici che hanno avuto come trama proprio quella storia di misteri e di simboli. A Firenze potrebbe succedere la stessa cosa: con comitive di americani stregate dal Rinascimento, dal Chianti, dalle colline e dalla sagacia di Robert Langdon, of course. Il personaggio principale cambia pochissimo: ha la sua immancabile aura demodé, con maglioni a collo alto, si cura l’insonnia con tazze di latte e cioccolato e, da grande studioso di simboli qual è, vive in un mondo di immagini. Come quella, terrificante, della donna velata. Altro non è che una visione in un letto di ospedale: criptica e orrenda, ma almeno utile, visto che gli fa incontrare un’altra “bella e intelligente”. Sempre che Lucifero non ci metta la coda.
Dan Brown lo conoscono tutti, è lo scrittore americano che con il suo Codice da Vinci e relativi diritti per il film ha realizzato guadagni pari a 100 milioni di dollari,tanto da vivere di rendita ab eternum.Ma l'americano ama scrivere e dopo il suo capolavoro ha dato alla vita altri romanzi tutti lontanissimi per vendite e qualità al precedente.Ora,in questo 2013,ci riprova con un'opera che appare accattivante e promettente,Inferno e il titolo e la faccia in profilo di Dante Alighieri non lascia spazio a dubbi.Il libro ha esordito benissimo nelle vendite,già in testa con 600 mila copie. Superbe sono anche le misure di controspionaggio messe in atto dagli editori di tutto il mondo per combattere l’eventuale fuga di notizie riguardanti il suo libro: bozze spedite in aereo, mai via e-mail, libri distribuiti in pacchi tracciati, traduttori chiusi in bunker senza telefonino e wi-fi, obbligati al silenzio e con navigazione limitata su Internet.
Il tema che Brown ha scelto per intrigare i suoi affezionatissimi lettori è molto particolare: come lascia intuire il titolo, la trama si va a inoltrare nei gironi dell’Inferno di Dante partendo, com’è logico per un romanzo di cotanto scrittore, da un’immagine da interpretare. Anzi, sono due, questa volta, centellinate rispettivamente nel prologo e nel primo capitolo: un’ombra, quella di Dante, che vaga nella Firenze del passato, e una donna velata, che si staglia sulla riva di un fiume di sangue, fra cadaveri putrefatti e miasmi di morte. È una scelta “eretica” o, meglio, che corre il rischio di beccarsi un cartellino per lesa maestà: Brown va a scomodare addirittura il Sommo Poeta. Lo fa, però, con deferenza. Nell’anticipazione del libro Brown ha detto: «Avevo studiato l’Inferno a scuola» dice «ma è solo recentemente, facendo ricerche a Firenze, che ho iniziato ad apprezzare la sua grande influenza sul mondo moderno. Penso che sia interessante che la gente impari a comprendere il mondo in cui vive. Che vedano, ad esempio, la Chiesa o le grandi opere d’arte con una lente diversa, come attraverso gli occhi di un vero e proprio specialista, qual è il protagonista Robert Langdon».Del resto, la tentazione di usare Dante come un serbatoio di simboli era troppo grande, per quella capacità di raccontare epoche, storie e personaggi con immagini fulminanti e indelebili.Perciò di Dante prevalgono qui le immagini spaventose, come quell’uomo che nel prologo si perde in una selva oscura di insicurezze o quella signora velata che si affaccia su un fiume: un corso d’acqua che, più dell’Arno, ricorda lo Stige.
Dan Brown, insomma, non si allontana molto da se stesso. Squadra che vince non si cambia, mormoreranno i maligni. Quindi la magia non può mancare. Così, ecco un giochetto numerico sul giorno di uscita: la data di oggi, 14/5/2013 è l’anagramma numerico di 3,1415, valore approssimato di pi greco, usato da Dante per misurare una bolgia e rapportato, in modo molto sottile, al problema della quadratura del cerchio.
Potevano poi mancare i passaggi segreti? No, certamente. Dan Brown li sfrutta a piene mani, li disegna nella Firenze che fu, ripescandoli dal passato. A cominciare dall’antico corridoio vasariano, che collega Palazzo Pitti con Palazzo Vecchio, passando sopra la Galleria degli Uffizi e sopra il Ponte Vecchio. Il camminamento diventa uno scenario ideale, nella fertile immaginazione di Brown, per accompagnare all’inferno gente disperata. E, per i lettori, un modo per inventare scappatoie dalla banalità e per inventarsi una via di fuga anche nella calma più totale. C’è, poi, la questione della chiesa. Dopo “Il Codice Da Vinci”, la Catholic League ha già messo le mani avanti. Ma, dal momento che andrà presumibilmente a toccare questioni che hanno molto a che fare con la fede e con il peccato, nonché con i religiosi messi da Dante all’inferno senza troppi complimenti, c’è da scommettere che non sarà molto gradito in ambienti ecclesiastici.
Il tutto si svolge a Firenze, e non è un dettaglio. La città si riscopre capitale del Male. Riscopre: perché già Hannibal The Cannibal, il personaggio di Thomas Harris, interpretato da Anthony Hopkins nel film di Ridley Scott, si era nascosto sotto le ingenue spoglie del direttore di una biblioteca. Eppure, era il Male. Ora il cuore oscuro della città torna a pulsare: talmente sordo e affascinante da trascinarsi dietro un ritorno turistico di tutto rispetto, visti soprattutto i precedenti. Parigi, tanto per fare un esempio, ha avuto l’onere e l’onore di ospitare “Il Codice Da Vinci”, ma è stata ampiamente ripagata da decine di pacchetti turistici che hanno avuto come trama proprio quella storia di misteri e di simboli. A Firenze potrebbe succedere la stessa cosa: con comitive di americani stregate dal Rinascimento, dal Chianti, dalle colline e dalla sagacia di Robert Langdon, of course. Il personaggio principale cambia pochissimo: ha la sua immancabile aura demodé, con maglioni a collo alto, si cura l’insonnia con tazze di latte e cioccolato e, da grande studioso di simboli qual è, vive in un mondo di immagini. Come quella, terrificante, della donna velata. Altro non è che una visione in un letto di ospedale: criptica e orrenda, ma almeno utile, visto che gli fa incontrare un’altra “bella e intelligente”. Sempre che Lucifero non ci metta la coda.
ZERO ZERO ZERO di Roberto Saviano
Un viaggio simbolico di denuncia nel lucroso traffico di droga.
Zero Zero Zero è il titolo del nuovo libro di Roberto Saviano.E' un'opera che narra in modo schietto e feroce il traffico di cocaina a livello mondiale,quello che lo stesso autore definisce uno dei business più redditizzi del globo.Il libro,come accadde con Gomorra è una via di mezzo tra l'inchiesta ed il romanzo ed esce in un momento di grande instabilità sociale e politica come in parte accadde nel periodo di uscita del primo celebre libro di Saviano.Come all'ora l'autore invitò con la sua scrittura i lettori a fare un vero bagno nella vita reale e criminale del nostro territorio,in parte accade anche con la sua nuova opera.Il grande merito di Gomorra fu certamente quello di scoperchiare un silente problema,quello della camorra casalese,di toccare il lettore con le sue tragiche storie e invitarlo in questo modo a reagire,anche solo emotivamente.Alla base dei suoi romanzi Saviano mette sembre il suo IO narrante,un io che però non è lirico ma intimo e confessionale un io che ritroviamo anche in Zero Zero Zero.Questo ‘io’ senza dubbio ci sembra una leva base del successo di Gomorra, che facendo identificare e solidarizzare il pubblico con il protagonista ha lentamente staccato la figura di Saviano dalla sua vita di laureato in filosofia e lo ha trasformato non solo in uno scrittore di successo, ma in una figura testimoniale, cosa il cui peso sarebbe difficile da portare per chiunque, e la cui immagine è assai difficile da gestire, a livello mediatico. Se si aggiunge, per di più, la nota condizione di segregazione di Saviano, si riesce a contestualizzare bene le premesse che hanno portato alla stesura di Zero Zero Zero.
Il testo riprende la formula di Gomorra, mescolando lunghi (a volte lunghissimi) stralci di cronaca in cui si susseguono una quantità di nomi e fatti che il lettore italiano forse avrà difficoltà a seguire, per la lontananza del contesto: in pagine e pagine l’autore ripercorre la storia dei cartelli mafiosi colombiani e messicani, ricostruendo con uno stile scarno a metà fra il verbale di polizia e la cronaca giornalistica i fatti di potere che hanno portato al controllo della cocaina in America Latina, spostandosi poi in Calabria e in Russia, portando avanti la tesi principale per cui la cocaina è la merce più duttile e remunerativa del mondo.La suggestione dal romanzo americano è una cosa che si può sottolineare. Saviano sembra mutuare da autori come Don de Lillo questo fascino per il penetrare della merce nell’immaginario: quasi al centro del libro c’è una specie di poesia-elenco di tutti i nomi della cocaina, vista come una sorta di Mab quean post-post moderna. Il dettato scelto per le parti meno cronachistiche e più esplicitamente finzionali di questo composito testo è spesso esplicito e forse fastidiosamente assertivo. Si avverte con nettezza il rapporto nevrotico dell’autore con la scrittura: non per nulla il libro inizia con un elenco (ben recitato da Toni Servillo di recente) di cinque pagine di possibili addicted da cocaina.La natura emergenziale,cioé legata alle circostanze contingenti, in cui era uscito Gomorra è, del resto, all’origine dello stesso processo simbolico che ha portato lo scrittore ad un ruolo mediatico complesso e che, probabilmente, ha sostanzialmente ostacolato il suo percorso letterario. Il momento di Reale traumatico rappresentato dall’evento-Gomorra ha causato tutta una serie di conseguenze sul suo autore-personaggio che, inserendosi come protagonista nel libro, ha legato la sua vita e la sua immagine al meccanismo simbolico da lui stesso innescato.
E così diventa, anche lui, protagonista (e in un certo senso un po' vittima) del processo mediatico causato da Gomorra, rendendo forse più difficile quella rielaborazione delle proprie capacità necessaria ad uno scrittore per poter crescere.Zero Zero Zero avrà successo nella misura in cui riuscirà, nei suoi intenti di denuncia, a ricreare le premesse del primo testo, cosa non impossibile ma difficile, dato che ciò che è accaduto la prima volta è stato esattamente l’inverso: Saviano-autore è stato trascinato da Saviano-personaggio in un processo simbolico più grande, quello dello scambio mediatico e sociale, che gli ha cambiato la vita, rendendo più complesso per l’autore dominare, oltre che la sua vita quotidiana, la sua immagine mediatica, anche le sue attitudini letterarie.Forse la cosa migliore da fare per l’autore sarebbe evitare di dare alla sua figura un tale peso simbolico, esponendo così i suoi indiscutibili grandi meriti al ricatto di dover replicare ostinatamente un effetto estetico che, come accade con ogni libro, è sempre unico.
Zero Zero Zero è il titolo del nuovo libro di Roberto Saviano.E' un'opera che narra in modo schietto e feroce il traffico di cocaina a livello mondiale,quello che lo stesso autore definisce uno dei business più redditizzi del globo.Il libro,come accadde con Gomorra è una via di mezzo tra l'inchiesta ed il romanzo ed esce in un momento di grande instabilità sociale e politica come in parte accadde nel periodo di uscita del primo celebre libro di Saviano.Come all'ora l'autore invitò con la sua scrittura i lettori a fare un vero bagno nella vita reale e criminale del nostro territorio,in parte accade anche con la sua nuova opera.Il grande merito di Gomorra fu certamente quello di scoperchiare un silente problema,quello della camorra casalese,di toccare il lettore con le sue tragiche storie e invitarlo in questo modo a reagire,anche solo emotivamente.Alla base dei suoi romanzi Saviano mette sembre il suo IO narrante,un io che però non è lirico ma intimo e confessionale un io che ritroviamo anche in Zero Zero Zero.Questo ‘io’ senza dubbio ci sembra una leva base del successo di Gomorra, che facendo identificare e solidarizzare il pubblico con il protagonista ha lentamente staccato la figura di Saviano dalla sua vita di laureato in filosofia e lo ha trasformato non solo in uno scrittore di successo, ma in una figura testimoniale, cosa il cui peso sarebbe difficile da portare per chiunque, e la cui immagine è assai difficile da gestire, a livello mediatico. Se si aggiunge, per di più, la nota condizione di segregazione di Saviano, si riesce a contestualizzare bene le premesse che hanno portato alla stesura di Zero Zero Zero.
Il testo riprende la formula di Gomorra, mescolando lunghi (a volte lunghissimi) stralci di cronaca in cui si susseguono una quantità di nomi e fatti che il lettore italiano forse avrà difficoltà a seguire, per la lontananza del contesto: in pagine e pagine l’autore ripercorre la storia dei cartelli mafiosi colombiani e messicani, ricostruendo con uno stile scarno a metà fra il verbale di polizia e la cronaca giornalistica i fatti di potere che hanno portato al controllo della cocaina in America Latina, spostandosi poi in Calabria e in Russia, portando avanti la tesi principale per cui la cocaina è la merce più duttile e remunerativa del mondo.La suggestione dal romanzo americano è una cosa che si può sottolineare. Saviano sembra mutuare da autori come Don de Lillo questo fascino per il penetrare della merce nell’immaginario: quasi al centro del libro c’è una specie di poesia-elenco di tutti i nomi della cocaina, vista come una sorta di Mab quean post-post moderna. Il dettato scelto per le parti meno cronachistiche e più esplicitamente finzionali di questo composito testo è spesso esplicito e forse fastidiosamente assertivo. Si avverte con nettezza il rapporto nevrotico dell’autore con la scrittura: non per nulla il libro inizia con un elenco (ben recitato da Toni Servillo di recente) di cinque pagine di possibili addicted da cocaina.La natura emergenziale,cioé legata alle circostanze contingenti, in cui era uscito Gomorra è, del resto, all’origine dello stesso processo simbolico che ha portato lo scrittore ad un ruolo mediatico complesso e che, probabilmente, ha sostanzialmente ostacolato il suo percorso letterario. Il momento di Reale traumatico rappresentato dall’evento-Gomorra ha causato tutta una serie di conseguenze sul suo autore-personaggio che, inserendosi come protagonista nel libro, ha legato la sua vita e la sua immagine al meccanismo simbolico da lui stesso innescato.
E così diventa, anche lui, protagonista (e in un certo senso un po' vittima) del processo mediatico causato da Gomorra, rendendo forse più difficile quella rielaborazione delle proprie capacità necessaria ad uno scrittore per poter crescere.Zero Zero Zero avrà successo nella misura in cui riuscirà, nei suoi intenti di denuncia, a ricreare le premesse del primo testo, cosa non impossibile ma difficile, dato che ciò che è accaduto la prima volta è stato esattamente l’inverso: Saviano-autore è stato trascinato da Saviano-personaggio in un processo simbolico più grande, quello dello scambio mediatico e sociale, che gli ha cambiato la vita, rendendo più complesso per l’autore dominare, oltre che la sua vita quotidiana, la sua immagine mediatica, anche le sue attitudini letterarie.Forse la cosa migliore da fare per l’autore sarebbe evitare di dare alla sua figura un tale peso simbolico, esponendo così i suoi indiscutibili grandi meriti al ricatto di dover replicare ostinatamente un effetto estetico che, come accade con ogni libro, è sempre unico.
N E V E di Orhan Pamuk
La neve copre tutto.Anche le paure.
Neve è il romanzo capolavoro del premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk.Un'opera intensa e profonda che alla lettura diretta da una vera idea di sazietà.Una vera soddisfazione per l'animo potremmo dire.Non a caso alcuni critici hanno creduto di vedere in Neve una sorta di “Il Nome della Rosa” in chiave islamica.Umberto Eco ne sarebbe contento.Il motivo è semplice: come Eco, anche Pamuk è riuscito a trasformare il suo romanzo in un perfetto puzzle in grado di bilanciare un intreccio ben costruito, una fabula coinvolgente, un contesto storico e politico ben narrato e un’eccellente scrittura.In un intreccio che mischia passato e presente, Neve racconta il viaggio di ritorno del poeta Ka nella città turca Kars, dopo un periodo di esilio in Germania.
Ka torna a casa durante un’intensa nevicata che ha paralizzato la città, deciso a indagare e raccontare la storia di alcune ragazze che, obbligate a togliersi il velo, hanno preferito togliersi la vita.Se gli articoli sono il pretesto del viaggio, il viaggio diventa il pretesto per un incontro tra il poeta, le sue radici, la donna amata e la situazione politico-culturale del suo paese. Qui, lo scontro tra sostenitori e contrari al velo, alimentato dalle diverse opinioni sulla cultura occidentale (chi la vuole imitare e imporre, chi la critica), sfocia in tre giorni di rivoluzione. E Ka, suo malgrado, ne è coinvolto.La penna di Pamuk seziona come un chirurgo le idee delle opposte fazioni, addentrandosi all’interno delle motivazioni che spingono all’azione i due gruppi. Lo scrittore però, proprio come Ka, rimane spettatore oggettivo delle vicende.
E al lettore lascia un’occasione di riflessione che sfocia nel dubbio se imporre il velo e obbligare a non metterlo non sia la stessa costrizione, come ricorda anche la filosofa Michela Marzano nel suo ““Sii bella e stai zitta”.Le donne, in questo senso, diventano le co-protagoniste del libro. Come oggetto delle contestazioni e, una in particolare, come fulcro dell’amore del protagonista e come elemento che determinerà tutta la storia narrata durante e dopo i tre giorni di assedio.Ma sono co-protagoniste solo perché non riescono a rubare la scena al vero elemento dominante del romanzo: la neve. Come la neve che avvolge tutto e cancella i contorni alle cose, contribuendo allo smarrimento delle persone, così il periodo politico turco è confuso, e le posizioni non trovano un senso per dialogare. E l’esagono stilizzato di un fiocco di neve è la struttura con cui Ka decide di costruire il suo nuovo libro di poesie, ispirato dagli eventi che lo circondano.E come la neve avvolge Kars, così questo libro avvolge il lettore.
Neve è il romanzo capolavoro del premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk.Un'opera intensa e profonda che alla lettura diretta da una vera idea di sazietà.Una vera soddisfazione per l'animo potremmo dire.Non a caso alcuni critici hanno creduto di vedere in Neve una sorta di “Il Nome della Rosa” in chiave islamica.Umberto Eco ne sarebbe contento.Il motivo è semplice: come Eco, anche Pamuk è riuscito a trasformare il suo romanzo in un perfetto puzzle in grado di bilanciare un intreccio ben costruito, una fabula coinvolgente, un contesto storico e politico ben narrato e un’eccellente scrittura.In un intreccio che mischia passato e presente, Neve racconta il viaggio di ritorno del poeta Ka nella città turca Kars, dopo un periodo di esilio in Germania.
Ka torna a casa durante un’intensa nevicata che ha paralizzato la città, deciso a indagare e raccontare la storia di alcune ragazze che, obbligate a togliersi il velo, hanno preferito togliersi la vita.Se gli articoli sono il pretesto del viaggio, il viaggio diventa il pretesto per un incontro tra il poeta, le sue radici, la donna amata e la situazione politico-culturale del suo paese. Qui, lo scontro tra sostenitori e contrari al velo, alimentato dalle diverse opinioni sulla cultura occidentale (chi la vuole imitare e imporre, chi la critica), sfocia in tre giorni di rivoluzione. E Ka, suo malgrado, ne è coinvolto.La penna di Pamuk seziona come un chirurgo le idee delle opposte fazioni, addentrandosi all’interno delle motivazioni che spingono all’azione i due gruppi. Lo scrittore però, proprio come Ka, rimane spettatore oggettivo delle vicende.
E al lettore lascia un’occasione di riflessione che sfocia nel dubbio se imporre il velo e obbligare a non metterlo non sia la stessa costrizione, come ricorda anche la filosofa Michela Marzano nel suo ““Sii bella e stai zitta”.Le donne, in questo senso, diventano le co-protagoniste del libro. Come oggetto delle contestazioni e, una in particolare, come fulcro dell’amore del protagonista e come elemento che determinerà tutta la storia narrata durante e dopo i tre giorni di assedio.Ma sono co-protagoniste solo perché non riescono a rubare la scena al vero elemento dominante del romanzo: la neve. Come la neve che avvolge tutto e cancella i contorni alle cose, contribuendo allo smarrimento delle persone, così il periodo politico turco è confuso, e le posizioni non trovano un senso per dialogare. E l’esagono stilizzato di un fiocco di neve è la struttura con cui Ka decide di costruire il suo nuovo libro di poesie, ispirato dagli eventi che lo circondano.E come la neve avvolge Kars, così questo libro avvolge il lettore.
IL QUINTO FIGLIO di Doris Lessing
Una claustrofobica favola al contraio.
Il commento di questo romanzo può ben iniziare dalle parole della stessa Lessing che affermava a riguardo: "Questo libro l'ho creato due volte,la prima opera era edulclorata e meno cupa.Ma poi mi sono detta che la realtà è spesso davvero ben peggiore di così come la stavo raccontando.Così l'ho completamente scritto daccapo estremizzando il dolore e l'intima paura dei protagonisti" . Così Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007, presenta uno dei suoi capolavori: “Il quinto figlio” . Un romanzo scorrevole e fluido nello stile, ma particolarmente impegnativo per la delicata tematica trattata. Il bene e il male entrano costantemente in gioco e il confine è veramente sottile. Harriet e David, una coppia come tante, sogna di trovare la felicità all’interno della propria famiglia, il loro desiderio li porta ad avere una grande casa e a mettere al mondo quattro splendidi figli, ma per loro non è ancora abbastanza. E infatti, il quinto figlio non tarda ad arrivare. Presto però la gravidanza si rivela essere molto difficile, diversa da quelle precedenti e qualcosa non va per il verso giusto. Il bambino nasce prematuro. Da subito si capisce che Ben, questo il nome del nuovo arrivato, è uno diverso: il suo comportamento e il suo aspetto primitivo lo fanno somigliare sempre di più ad una creatura del male. Presto i genitori, incapaci di accettare il tragico imprevisto, si ritroveranno ad dover affrontare una dura scelta. Gli equilibri familiari iniziano a sfaldarsi, nulla sarà più come prima. La Lessing riesce a scrivere con grande maestria un libro cruento senza sprecare una solagoccia di sangue,senza ricorrere alla descrizioni di scene violente o feroci.
La scrittrice ci invita a conoscere la parte nascosta che c’è in ognuno di noi, esortandoci ad affrontare le cose anche quando sono più problematiche del previsto. Una riflessione insolita sulla diversità e sul contesto sociale che ci circonda.Esplici spesso i richiami all'autismo e al dramma interiore dell'ignoto che arriva da dentro. Questa l'idea della Lessing. Cosa succederebbe se venisse al mondo una creatura fuori dal tempo? Quali sarebbero le reazioni del mondo circostante? La volonta' dell'autrice non è quella di descrivere la vita di una persona "anormale", come potrebbe intendersi ad una prima rapida occhiata, ma quella di mostrare come un'indole cattiva risulti fuori luogo in un contesto sociale comune, ma invece si troverebbe a proprio agio in un contesto completamente differente, dove sono la rabbia e la cattiveria a dettare legge. Quante volte questo succede nella vita reale, quante volte si sente parlare di gioventu' difficile che trova il proprio posto soltanto in situazioni aberranti. La Lessing attraverso I protagonisti del suo libro mostra tutto questo, rendendo evidente la disgregazione di un situazione familiare tranquilla, quasi accusando la madre Harriet della colpa di aver messo al mondo un figlio diverso dagli altri, dicendoci che non tutto quello che vorremmo sara' come ce lo aspettiamo, portando fino alle conseguenze estreme del rifiuto e dell'abbandono.La prima parte della vicenda scorre molto rapida per volonta' dell'autrice e nel giro di poche righe ci si trova ad affrontare salti temporali anche di diversi anni. All'inizio la cosa puo' spiazzare, ma è tutto funzionale al nodo centrale dell'intreccio narrativo, cioe' la nascita del quinto figlio. Inutile è discutere sullo stile della Lessing.
Basti dire che ha ricevuto come detto il premio Nobel per la letteratura nel 2007.In conclusione si può dire che questo è davvero un gran bel libro, ma non consigliato a tutti,poichè facilmente qualcuno potrebbe rimanere turbato/a da un racconto così claustrofobico incentrato sulla dolorosa nascita di una nuova vita.
Il commento di questo romanzo può ben iniziare dalle parole della stessa Lessing che affermava a riguardo: "Questo libro l'ho creato due volte,la prima opera era edulclorata e meno cupa.Ma poi mi sono detta che la realtà è spesso davvero ben peggiore di così come la stavo raccontando.Così l'ho completamente scritto daccapo estremizzando il dolore e l'intima paura dei protagonisti" . Così Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007, presenta uno dei suoi capolavori: “Il quinto figlio” . Un romanzo scorrevole e fluido nello stile, ma particolarmente impegnativo per la delicata tematica trattata. Il bene e il male entrano costantemente in gioco e il confine è veramente sottile. Harriet e David, una coppia come tante, sogna di trovare la felicità all’interno della propria famiglia, il loro desiderio li porta ad avere una grande casa e a mettere al mondo quattro splendidi figli, ma per loro non è ancora abbastanza. E infatti, il quinto figlio non tarda ad arrivare. Presto però la gravidanza si rivela essere molto difficile, diversa da quelle precedenti e qualcosa non va per il verso giusto. Il bambino nasce prematuro. Da subito si capisce che Ben, questo il nome del nuovo arrivato, è uno diverso: il suo comportamento e il suo aspetto primitivo lo fanno somigliare sempre di più ad una creatura del male. Presto i genitori, incapaci di accettare il tragico imprevisto, si ritroveranno ad dover affrontare una dura scelta. Gli equilibri familiari iniziano a sfaldarsi, nulla sarà più come prima. La Lessing riesce a scrivere con grande maestria un libro cruento senza sprecare una solagoccia di sangue,senza ricorrere alla descrizioni di scene violente o feroci.
La scrittrice ci invita a conoscere la parte nascosta che c’è in ognuno di noi, esortandoci ad affrontare le cose anche quando sono più problematiche del previsto. Una riflessione insolita sulla diversità e sul contesto sociale che ci circonda.Esplici spesso i richiami all'autismo e al dramma interiore dell'ignoto che arriva da dentro. Questa l'idea della Lessing. Cosa succederebbe se venisse al mondo una creatura fuori dal tempo? Quali sarebbero le reazioni del mondo circostante? La volonta' dell'autrice non è quella di descrivere la vita di una persona "anormale", come potrebbe intendersi ad una prima rapida occhiata, ma quella di mostrare come un'indole cattiva risulti fuori luogo in un contesto sociale comune, ma invece si troverebbe a proprio agio in un contesto completamente differente, dove sono la rabbia e la cattiveria a dettare legge. Quante volte questo succede nella vita reale, quante volte si sente parlare di gioventu' difficile che trova il proprio posto soltanto in situazioni aberranti. La Lessing attraverso I protagonisti del suo libro mostra tutto questo, rendendo evidente la disgregazione di un situazione familiare tranquilla, quasi accusando la madre Harriet della colpa di aver messo al mondo un figlio diverso dagli altri, dicendoci che non tutto quello che vorremmo sara' come ce lo aspettiamo, portando fino alle conseguenze estreme del rifiuto e dell'abbandono.La prima parte della vicenda scorre molto rapida per volonta' dell'autrice e nel giro di poche righe ci si trova ad affrontare salti temporali anche di diversi anni. All'inizio la cosa puo' spiazzare, ma è tutto funzionale al nodo centrale dell'intreccio narrativo, cioe' la nascita del quinto figlio. Inutile è discutere sullo stile della Lessing.
Basti dire che ha ricevuto come detto il premio Nobel per la letteratura nel 2007.In conclusione si può dire che questo è davvero un gran bel libro, ma non consigliato a tutti,poichè facilmente qualcuno potrebbe rimanere turbato/a da un racconto così claustrofobico incentrato sulla dolorosa nascita di una nuova vita.
L'ISOLA SOTTO IL MARE di Isabel Allende
Una danza epica e frenetica verso la libertà.
Ci sono romanzi che una volta letti ci restano nella mente.Ricordiamo ancora nomi,luoghi e personaggi.Ci chiediamo che fine avranno fatto e quale sorte abbiano seguitato.Quando accade ciò significa che la magia del romanza ha funzionato ancora una volta,facendo diventare concreta,nel nostro cuore la storia raccontata.Proprio ciò accade con questo splendido romanzo di Isabel Allende, L’isola sotto il mare, un libro tanto dolente e intimo quanto Paula, anche se per motivi diversi, perchè è un libro che ci riporta ai tempi in cui la ricchezza dei bianchi si fondava sullo schiavismo, legittimato da assurde teorie sull’inferiorità della gente di colore, equiparata agli animali. Ma è anche un libro che racconta la lotta dei neri per la libertà e che ci parla d’amore, di fughe e di doppie vite, di cocottes e di incesto, di bambini bianchi e di altri bambini la cui pelle viene scrutata e definita in base a sfumature di color cioccolato, o miele, o caramello.Isabel Allende torna ad affascinarci con un ennesimo capolavoro letterario dal titolo “L’isola sotto il mare”. Un titolo che evoca un viaggio geograficamente distante e lontano nel tempo e, contemporaneamente, la profondità travolgente di uno stile, quello della Allende, estremamente ricco.
Un libro epico e surreale, intenso e descrittivo, visionario e fantastico, storico e realista. “L’isola sotto il mare” piace e appassiona: non soltanto per la storia in sé perfettamente romanzata e intrecciata agli eventi storici coloniali di Haiti e alla battaglia abolizionista della schiavitù, ma per i suoi personaggi semplici e immaginifici. Quando, giovane, Toulouse Valmorain arriva dalla Francia a Saint Domingue, gli abitanti dell’isola sono già scomparsi, sterminati dai conquistadores e migliaia di schiavi nativi africani, deportati sull’isola, sono costretti a lavorare in condizioni disumane nelle piantagioni di canna da zucchero. La protagonista Tetè impegna la sua vita alla ricerca della libertà, accetta compromessi e privazioni pur di sentirsi una donna libera. Le umiliazioni e i dolori sembrano non scalfirla piuttosto rafforzarla e, da eroina, conduce la sua battaglia per la libertà abbracciando a sé i suoi grandi amori, i figli nati dalla violenza e il figlio acquisito e cresciuto come sangue del suo sangue. Per loro sacrifica tutto e la sua stessa vita assume un’importanza secondaria di fronte alla necessità di mettere in salvo le sue creature. La sua passione per la libertà e per l’amore si impossessa di lei e la trasforma: l’amore la travolge e la scombussola, la riempie e la illumina. Il suo giovane amante, Gambo, vivrà in lei e, nel suo riflesso e nelle sue parole, assume una dimensione eroica e romantica. Tetè è profonda, vera e intelligente, accetta la vita ma non la subisce, affronta le tragicità senza disperazione ma con fervore, con desiderio costante di libertà. Il suo prendersi cura delle cose, delle persone, dei figli manifesta un animo amorevole ma pur sempre risoluto. Valmorain, al suo confronto, appare come un personaggio mediocre e a tratti piccolo, la sua cattiveria è frutto di meschinità e arroganza, timoroso e influenzabile, approfittatore e ingrato. Tetè diventerà la sua vittima prediletta, non soltanto perché sarà la sua schiava per vent’anni, ma perché Tetè rappresenta l’amore e la carnalità di cui egli non potrà mai godere, rifiutato dal suo figlio più amato, Maurice, legato sentimentalmente ora a donne sfuggenti – Violette per un verso e Eugenia per altro – ora a una donna invadente e capricciosa – Hortense. Nonostante Tetè sia la sua schiava il suo spirito sarà sempre più libero dell’animo, corrotto e insoddisfatto, di Toulouse Valmorain.
L’impeto della Rivoluzione Francese travolge Saint Domingue e Haiti insorge contro i soprusi e lo schiavismo. La guerra civile dilania Saint Domingue, semina morte e costringe i coloni ad abbandonare le piantagioni. Eppure il rapporto incestuoso di Maurice e Rosette è quello più corrispondente ai canoni dell’amore sentimentale, è comprensibile e inevitabile: una vera e propria tragedia d’amore. Isabel Allende trascina il lettore senza sosta pagina dopo pagina, non rallenta nemmeno per un attimo la narrazione incalzante alternando pagine dense di intrighi e vicende militari a pagine cariche di eros e passioni; piuttosto tende a sorprendere con continui colpi di scena. “L’isola sotto il mare” è una poesia in omaggio alla libertà e ai sentimenti più profondi dell’umanità, contro ogni discriminazione e contro ogni sopruso, ai principi di eguaglianza e di dignità umana; è un vento fresco che spegne le fiamme dello schiavismo e della segregazione razziale; è una danza frenetica e appassionata; è una storia attuale.
Ci sono romanzi che una volta letti ci restano nella mente.Ricordiamo ancora nomi,luoghi e personaggi.Ci chiediamo che fine avranno fatto e quale sorte abbiano seguitato.Quando accade ciò significa che la magia del romanza ha funzionato ancora una volta,facendo diventare concreta,nel nostro cuore la storia raccontata.Proprio ciò accade con questo splendido romanzo di Isabel Allende, L’isola sotto il mare, un libro tanto dolente e intimo quanto Paula, anche se per motivi diversi, perchè è un libro che ci riporta ai tempi in cui la ricchezza dei bianchi si fondava sullo schiavismo, legittimato da assurde teorie sull’inferiorità della gente di colore, equiparata agli animali. Ma è anche un libro che racconta la lotta dei neri per la libertà e che ci parla d’amore, di fughe e di doppie vite, di cocottes e di incesto, di bambini bianchi e di altri bambini la cui pelle viene scrutata e definita in base a sfumature di color cioccolato, o miele, o caramello.Isabel Allende torna ad affascinarci con un ennesimo capolavoro letterario dal titolo “L’isola sotto il mare”. Un titolo che evoca un viaggio geograficamente distante e lontano nel tempo e, contemporaneamente, la profondità travolgente di uno stile, quello della Allende, estremamente ricco.
Un libro epico e surreale, intenso e descrittivo, visionario e fantastico, storico e realista. “L’isola sotto il mare” piace e appassiona: non soltanto per la storia in sé perfettamente romanzata e intrecciata agli eventi storici coloniali di Haiti e alla battaglia abolizionista della schiavitù, ma per i suoi personaggi semplici e immaginifici. Quando, giovane, Toulouse Valmorain arriva dalla Francia a Saint Domingue, gli abitanti dell’isola sono già scomparsi, sterminati dai conquistadores e migliaia di schiavi nativi africani, deportati sull’isola, sono costretti a lavorare in condizioni disumane nelle piantagioni di canna da zucchero. La protagonista Tetè impegna la sua vita alla ricerca della libertà, accetta compromessi e privazioni pur di sentirsi una donna libera. Le umiliazioni e i dolori sembrano non scalfirla piuttosto rafforzarla e, da eroina, conduce la sua battaglia per la libertà abbracciando a sé i suoi grandi amori, i figli nati dalla violenza e il figlio acquisito e cresciuto come sangue del suo sangue. Per loro sacrifica tutto e la sua stessa vita assume un’importanza secondaria di fronte alla necessità di mettere in salvo le sue creature. La sua passione per la libertà e per l’amore si impossessa di lei e la trasforma: l’amore la travolge e la scombussola, la riempie e la illumina. Il suo giovane amante, Gambo, vivrà in lei e, nel suo riflesso e nelle sue parole, assume una dimensione eroica e romantica. Tetè è profonda, vera e intelligente, accetta la vita ma non la subisce, affronta le tragicità senza disperazione ma con fervore, con desiderio costante di libertà. Il suo prendersi cura delle cose, delle persone, dei figli manifesta un animo amorevole ma pur sempre risoluto. Valmorain, al suo confronto, appare come un personaggio mediocre e a tratti piccolo, la sua cattiveria è frutto di meschinità e arroganza, timoroso e influenzabile, approfittatore e ingrato. Tetè diventerà la sua vittima prediletta, non soltanto perché sarà la sua schiava per vent’anni, ma perché Tetè rappresenta l’amore e la carnalità di cui egli non potrà mai godere, rifiutato dal suo figlio più amato, Maurice, legato sentimentalmente ora a donne sfuggenti – Violette per un verso e Eugenia per altro – ora a una donna invadente e capricciosa – Hortense. Nonostante Tetè sia la sua schiava il suo spirito sarà sempre più libero dell’animo, corrotto e insoddisfatto, di Toulouse Valmorain.
L’impeto della Rivoluzione Francese travolge Saint Domingue e Haiti insorge contro i soprusi e lo schiavismo. La guerra civile dilania Saint Domingue, semina morte e costringe i coloni ad abbandonare le piantagioni. Eppure il rapporto incestuoso di Maurice e Rosette è quello più corrispondente ai canoni dell’amore sentimentale, è comprensibile e inevitabile: una vera e propria tragedia d’amore. Isabel Allende trascina il lettore senza sosta pagina dopo pagina, non rallenta nemmeno per un attimo la narrazione incalzante alternando pagine dense di intrighi e vicende militari a pagine cariche di eros e passioni; piuttosto tende a sorprendere con continui colpi di scena. “L’isola sotto il mare” è una poesia in omaggio alla libertà e ai sentimenti più profondi dell’umanità, contro ogni discriminazione e contro ogni sopruso, ai principi di eguaglianza e di dignità umana; è un vento fresco che spegne le fiamme dello schiavismo e della segregazione razziale; è una danza frenetica e appassionata; è una storia attuale.
STORIA DI UN CORPO di Daniel Pennac
Uno sguardo interiore sull'uomo e la sua esistenza.
La traduzione italiana di Journal d’un Corps sarebbe Diario di un corpo e non Storia e forse renderebbe meglio anche il senso intimo di questa ultima opera del grande scrittore francese Daniel Pennac.Il romanzo infatti non narra del corpo, non lo attraversa, piuttosto lo utilizza per quello che è: forma e quindi contenitore di storie, racconti, avvenimenti. La voce narrante, un francese nato negli anni ‘30, decide di lasciare alla propria figlia Lison il diario della propria vita, raccontata dal punto di vista del corpo. Dall’infanzia, alla maturità fino all’agonia, le vicende del protagonista vengono sempre presentate partendo da come il corpo le vive e in alcuni casi le sopporta.Libro profondamente intimo, Storia di un corpo racconta il quotidiano universale, quello che colpisce la carne e le ossa di chiunque, un’autobiografia di un secolo e delle sue abitudini.
Quello che emerge è anche il corpo del Novecento, quello che esce da una guerra e poi da una lotta di liberazione e che infine entra prepotentemente per la prima volta nella modernità, vivendola e facendola.Le pagine sono disseminate di oggetti di cui il corpo fa uso, come di abitudini a cui esso si adatta, la forma dipende dallo spazio circostante, dalla sua complessità e vivibilità. Dolore e piacere si alternano in continuazione in un equilibrio che ogni volta sembra dettato più da casualità che da una qualche abilità: vivere è più che altro un’occasione, sembra suggerirci Daniel Pennac; l’esattezza non ci appartiene e qualcosa lo lasciamo sempre per strada.La direzione indica, dopo la crescita e la maturità, la decadenza. L’ultimo paragrafo intitolato l’Agonia sembra appartenere a una sorta di limbo: lontana e irraggiungibile da un letto ormai di morte, la vita è solo memoria. L’agonia è anche lo sdoppiamento di un diario che s’intreccia ripercorrendo con una diversa percezione le stesse pagine: prima ricordo di un giorno e ora di una vita.
Abilissimo è qui l’autore in questa sorta di rimpianto del proprio racconto, quasi a denunciare la sua impossibilità di raccontare pienamente la morte che così come la nascita appartiene a un’altra storia, non percepibile.Il corpo abbandona la vetrina e si mette allo specchio. Riconoscerlo e comprenderlo è capire la realtà circostante; sono brevi quadri, ritratti rapidi di giornate qualunque, eventi che segneranno il destino di un narratore inconsapevole e privo di discernimento che avanza al buio verso il proprio inesorabile destino. Ed è nell’ovvietà che ci s’identifica, nel fatto minimo dentro cui è possibile scorgere una traiettoria non sempre ipotizzata. La vita come complicazione esponenziale di banalità, dolori atroci e sconfitte brucianti, mentre le rare vittorie non durano che il tempo di una giornata, subito subissate da nuove incombenze.Daniel Pennac interpreta un tempo fragile e ricco di timori con il più evidente degli argomenti umanistici, il corpo. L’uomo e la sua fisicità, un’esistenza a termine, ma irriducibile. Il protagonista cresce e invecchia fino ad un’agonia che non gli lascia più alcuna forza di scrivere. Non esiste il finale perché non esistono le energie per scriverlo o nemmeno per immaginarlo. Significherebbe pensare senza il proprio corpo, significherebbe annullarsi. Un dolore inaccettabile. L’autore ci ha lasciati soli con il racconto di un corpo che potrebbe essere il nostro. Si tratta solo di leggere con attenzione e ascoltarsi con cura.
La traduzione italiana di Journal d’un Corps sarebbe Diario di un corpo e non Storia e forse renderebbe meglio anche il senso intimo di questa ultima opera del grande scrittore francese Daniel Pennac.Il romanzo infatti non narra del corpo, non lo attraversa, piuttosto lo utilizza per quello che è: forma e quindi contenitore di storie, racconti, avvenimenti. La voce narrante, un francese nato negli anni ‘30, decide di lasciare alla propria figlia Lison il diario della propria vita, raccontata dal punto di vista del corpo. Dall’infanzia, alla maturità fino all’agonia, le vicende del protagonista vengono sempre presentate partendo da come il corpo le vive e in alcuni casi le sopporta.Libro profondamente intimo, Storia di un corpo racconta il quotidiano universale, quello che colpisce la carne e le ossa di chiunque, un’autobiografia di un secolo e delle sue abitudini.
Quello che emerge è anche il corpo del Novecento, quello che esce da una guerra e poi da una lotta di liberazione e che infine entra prepotentemente per la prima volta nella modernità, vivendola e facendola.Le pagine sono disseminate di oggetti di cui il corpo fa uso, come di abitudini a cui esso si adatta, la forma dipende dallo spazio circostante, dalla sua complessità e vivibilità. Dolore e piacere si alternano in continuazione in un equilibrio che ogni volta sembra dettato più da casualità che da una qualche abilità: vivere è più che altro un’occasione, sembra suggerirci Daniel Pennac; l’esattezza non ci appartiene e qualcosa lo lasciamo sempre per strada.La direzione indica, dopo la crescita e la maturità, la decadenza. L’ultimo paragrafo intitolato l’Agonia sembra appartenere a una sorta di limbo: lontana e irraggiungibile da un letto ormai di morte, la vita è solo memoria. L’agonia è anche lo sdoppiamento di un diario che s’intreccia ripercorrendo con una diversa percezione le stesse pagine: prima ricordo di un giorno e ora di una vita.
Abilissimo è qui l’autore in questa sorta di rimpianto del proprio racconto, quasi a denunciare la sua impossibilità di raccontare pienamente la morte che così come la nascita appartiene a un’altra storia, non percepibile.Il corpo abbandona la vetrina e si mette allo specchio. Riconoscerlo e comprenderlo è capire la realtà circostante; sono brevi quadri, ritratti rapidi di giornate qualunque, eventi che segneranno il destino di un narratore inconsapevole e privo di discernimento che avanza al buio verso il proprio inesorabile destino. Ed è nell’ovvietà che ci s’identifica, nel fatto minimo dentro cui è possibile scorgere una traiettoria non sempre ipotizzata. La vita come complicazione esponenziale di banalità, dolori atroci e sconfitte brucianti, mentre le rare vittorie non durano che il tempo di una giornata, subito subissate da nuove incombenze.Daniel Pennac interpreta un tempo fragile e ricco di timori con il più evidente degli argomenti umanistici, il corpo. L’uomo e la sua fisicità, un’esistenza a termine, ma irriducibile. Il protagonista cresce e invecchia fino ad un’agonia che non gli lascia più alcuna forza di scrivere. Non esiste il finale perché non esistono le energie per scriverlo o nemmeno per immaginarlo. Significherebbe pensare senza il proprio corpo, significherebbe annullarsi. Un dolore inaccettabile. L’autore ci ha lasciati soli con il racconto di un corpo che potrebbe essere il nostro. Si tratta solo di leggere con attenzione e ascoltarsi con cura.
BIANCA COME IL LATTE E ROSSA COME IL SANGUE di Alessandro D'Avenia
di MariaGrazia Giordano
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Sedici anni di filosofia.
Leo è un adolescente come molti: ama conversare coi coetanei, il calcetto, le corse in motorino e vive sempre insieme con il suo iPod. Le giornate trascorse a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno. Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande. Bianca come il latte, rossa come il sangue non è solo un romanzo di formazione, non è solo il racconto di un anno di scuola, è un testo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo - ora scanzonato e brillante, ora più intimo e tormentato -, racconta cosa succede nel momento in cui nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza e lo sgomento, e il mondo degli adulti sembra non aver nulla da dire. Difficile entrare nella mente e nelle parole di un ragazzo di poco più di sedici anni, difficile e pericoloso perché l'insidia di falsificare i pensieri e le emozioni è sempre dietro l'angolo.
Il romanzo di Alessandro D'Avenia, giovane professore di liceo, sembrerebbe un classico romanzo di formazione. Leo, il protagonista narratore, nelle prime pagine del libro è dominato dal bianco, cioè dall'assenza. Assenza di interessi, di motivazioni, di capacità di riflessione, solo una criniera selvaggia di capelli, la sua forza, crede. Frequenta la prima liceo classico, ma non c'è materia o argomento che lo interessi, l'unica cosa che sappia suscitare in lui un barlume di vitalità è il gioco del calcio e il suo motorino senza freni. Certo ha due amici, Niko e Silvia, su cui sa di poter contare, con cui parla di calcio e di scuola. C'è solo un piccolo fuoco che dentro di lui sta crescendo, qualcosa di rosso, nel bianco desolato della sua vita: è la figura di Beatrice, i suoi capelli rossi, il piacere di guardarla, anche senza parlarle, senza che lei sappia neppure il suo nome e il suo interesse. La scuola, i professori, i genitori: che noia! che bianco!Ma un giorno entra in classe un supplente speciale, parla di sogni, sa incrinare, giorno dopo giorno, le barriere che Leo frappone fra sé e tutto ciò che lo spinge a riflettere, a cercare, a sperare di scoprire chi sia davvero.E anche il pensiero di Beatrice si fa sempre più importante, diventa il suo sogno, la sua speranza. Ma la vita fa crescere anche attraverso il dolore e la perdita, attraverso le sconfitte e i tradimenti e Leo, grazie al supplente, il Sognatore, a suo padre (con cui riuscirà a costruire un rapporto adulto), a Silvia, che diventa ogni giorno più importante nella sua vita, alla fine lo sa. D'Avenia sa costruire un romanzo commovente e dolce, senza retorica, in cui eventi drammatici portano alla scoperta della propria essenza e in cui l'iniziazione alla vita avviene attraverso la morte.
Altro elemento interessante è la scoperta di quanto sia importante fidarsi di chi ci circonda, aprirsi agli amici e ai familiari. I genitori possono uscire dagli schemi che un adolescente si è costruito, sono persone che amano, che hanno trasgredito e vissuto la loro parte di ribellione, che ancora sanno amare e amarsi e in questo sanno capire il percorso di un figlio. In qualche modo nel libro c'è anche un messaggio agli adulti: perché il supplente Sognatore e i genitori di Leo contribuiscono in modo sostanziale a fargli superare gli inevitabili ostacoli che la vita propone? Ascoltandolo, mettendolo nelle condizioni di parlare, di confidarsi, ascoltandolo e non giudicandolo, senza per altro mai cedere al proprio ruolo.L'amicizia con il professore non gli impedisce di interrogarlo con severità, la fuga da scuola verrà punita dai genitori, ma sapendo anche mediare, ascoltando le sue buone ragioni, trattandolo insomma da persona, perché ognuno deve essere se stesso e svolgere il proprio ruolo nella vita, ma non deve mai dimenticare il proprio sogno.
Leo è un adolescente come molti: ama conversare coi coetanei, il calcetto, le corse in motorino e vive sempre insieme con il suo iPod. Le giornate trascorse a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno. Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande. Bianca come il latte, rossa come il sangue non è solo un romanzo di formazione, non è solo il racconto di un anno di scuola, è un testo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo - ora scanzonato e brillante, ora più intimo e tormentato -, racconta cosa succede nel momento in cui nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza e lo sgomento, e il mondo degli adulti sembra non aver nulla da dire. Difficile entrare nella mente e nelle parole di un ragazzo di poco più di sedici anni, difficile e pericoloso perché l'insidia di falsificare i pensieri e le emozioni è sempre dietro l'angolo.
Il romanzo di Alessandro D'Avenia, giovane professore di liceo, sembrerebbe un classico romanzo di formazione. Leo, il protagonista narratore, nelle prime pagine del libro è dominato dal bianco, cioè dall'assenza. Assenza di interessi, di motivazioni, di capacità di riflessione, solo una criniera selvaggia di capelli, la sua forza, crede. Frequenta la prima liceo classico, ma non c'è materia o argomento che lo interessi, l'unica cosa che sappia suscitare in lui un barlume di vitalità è il gioco del calcio e il suo motorino senza freni. Certo ha due amici, Niko e Silvia, su cui sa di poter contare, con cui parla di calcio e di scuola. C'è solo un piccolo fuoco che dentro di lui sta crescendo, qualcosa di rosso, nel bianco desolato della sua vita: è la figura di Beatrice, i suoi capelli rossi, il piacere di guardarla, anche senza parlarle, senza che lei sappia neppure il suo nome e il suo interesse. La scuola, i professori, i genitori: che noia! che bianco!Ma un giorno entra in classe un supplente speciale, parla di sogni, sa incrinare, giorno dopo giorno, le barriere che Leo frappone fra sé e tutto ciò che lo spinge a riflettere, a cercare, a sperare di scoprire chi sia davvero.E anche il pensiero di Beatrice si fa sempre più importante, diventa il suo sogno, la sua speranza. Ma la vita fa crescere anche attraverso il dolore e la perdita, attraverso le sconfitte e i tradimenti e Leo, grazie al supplente, il Sognatore, a suo padre (con cui riuscirà a costruire un rapporto adulto), a Silvia, che diventa ogni giorno più importante nella sua vita, alla fine lo sa. D'Avenia sa costruire un romanzo commovente e dolce, senza retorica, in cui eventi drammatici portano alla scoperta della propria essenza e in cui l'iniziazione alla vita avviene attraverso la morte.
Altro elemento interessante è la scoperta di quanto sia importante fidarsi di chi ci circonda, aprirsi agli amici e ai familiari. I genitori possono uscire dagli schemi che un adolescente si è costruito, sono persone che amano, che hanno trasgredito e vissuto la loro parte di ribellione, che ancora sanno amare e amarsi e in questo sanno capire il percorso di un figlio. In qualche modo nel libro c'è anche un messaggio agli adulti: perché il supplente Sognatore e i genitori di Leo contribuiscono in modo sostanziale a fargli superare gli inevitabili ostacoli che la vita propone? Ascoltandolo, mettendolo nelle condizioni di parlare, di confidarsi, ascoltandolo e non giudicandolo, senza per altro mai cedere al proprio ruolo.L'amicizia con il professore non gli impedisce di interrogarlo con severità, la fuga da scuola verrà punita dai genitori, ma sapendo anche mediare, ascoltando le sue buone ragioni, trattandolo insomma da persona, perché ognuno deve essere se stesso e svolgere il proprio ruolo nella vita, ma non deve mai dimenticare il proprio sogno.
IL CORPO UMANO di Paolo Giordano
Un romanzo di guerra che non parla di guerra.Ma di uomini.
Il corpo va di moda. Almeno nei romanzi degli ultimi mesi.Nelle librerie italiane, infatti, due tra i più bravi scrittori sembrano essersi dato un vero appuntamento a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro per uscire con un romanzo dal titolo estremamente “fisico”. Storia di un corpo di Daniel Pennac (Feltrinelli) e Il corpo umano di Paolo Giordano (Mondadori). Per Giordano questo secondo romanzo era una prova importante. Dopo l’esordio fulminante di cinque anni fa con La solitudine dei numeri primi, che ha venduto oltre due milioni di copie in tutto il mondo, il ragazzo prodigio, oggi quasi trentenne, doveva dimostrare di non essere una meteora, bensì un astro capace di splendere a lungo nel cielo della letteratura. E per quanto mi riguarda, ci è riuscito.
Il corpo umano è un ritratto minuzioso delle relazioni personali in un contesto peculiare: quello di una base militare in un avamposto sperduto nel deserto del Gulistan, nel sud dell’Afghanistan. I soldati protagonisti del romanzo sono tutti venti-trentenni alle prese con un’esperienza più grande di loro che lascerà segni profondi, che tutti tenteranno disperatamente di cancellare. L’incipit è illuminante.Chi non ama le storie di guerra, non tema: Il corpo umano è sì un romanzo ambientato in un contesto ostile, ma non narra di trincee, armi e battaglie. La violenza, le poche volte in cui compare, è sempre un mezzo per interrogarsi sui rapporti umani, sui valori, sui legami familiari e la loro influenza sulla vita adulta, un tema molto caro a Giordano, che scava nel passato e nell’intimità dei suoi personaggi fino a dar loro un’identità così precisa che il lettore, in alcune pagine particolarmente ben riuscite, finisce catapultato in Afghanistan, soldato tra i soldati.Lo sforzo di documentazione, frutto di una visita reale dell’autore alla fob (Forward Operating Base) Ice, in cui si svolge la maggior parte della vicenda, è ben visibile nelle accurate descrizioni delle routine che governano la vita militare, ma la vera abilità dell’autore si rivela nel dar voce ai tormenti, ai dubbi e alle emozioni che attraversano la mente e il cuore dei giovani soldati.
Il plotone, guidato dal maresciallo Antonio René, uomo angosciato da pesanti responsabilità militari e private, è composto da un gruppo di personalità stereotipate, ma cariche di umanità.C’è il tenente medico Egitto che preferisce affrontare le brutture della guerra pur di fuggire a quelle dei ricordi di famiglia, contrassegnati da un difficile rapporto con i genitori e la sorella Marianna.Tra gli antipatici spicca Cederna, il soldato coraggioso ma egoista e spaccone.Poi, Ietri, il ventenne timido e ingenuo che cerca nell’esercito un modo di affrancarsi dal legame con una madre troppo apprensiva.Ci sono anche le donne, ma su un piano diverso, quasi mai protagoniste dell’azione, ma sempre decisive nello scatenare sentimenti. Ci sono quelle in divisa che condividono la vita del campo e quelle sognate, a casa, ad aspettare il ritorno dei loro mariti, fidanzati, fratelli, amanti.E, infine, c’è la vita che deve ricominciare al termine della missione, una vita che ognuno ricostruisce come può, cercando di allontanare da sé quelle immagini e sensazioni in cui il corpo è sempre protagonista. Forse è l’ultima parte del romanzo l’unica a mostrare qualche segno di amarezza e sconforto perché, dopo pagine di straordinaria intensità emotiva, è difficile congedarsi raccontando l’esistenza che torna a scorrere sui binari di una normalità più sperata e sognata che realmente raggiunta.
la REDAZIONE
FAI BEI SOGNI di Massimo Gramellini
Romanzo di formazione in salsa italiana.Acuto e sorprendente.
Può un'intera esistenza girare attorno all'assenza della voce della mamma che ti sussurra serena: "Fai bei sogni"?
Quando si deve descrivere un libro come questo è difficile trovare le parole giuste. È un diario, un'autobiografia, un racconto personale, privato.Ed è quindi difficilissimo scegliere il modo migliore per fare da tramite, da ponte tra questo discorso intimo e chi lo leggerà.Le parole più appropriate le ha usate certamente l'autore stesso presentando il libro nella trasmissione che lo vede abituale collaboratore: Che tempo che fa.
Una storia come questa non poteva esistere, a mio parere, in nessun altro luogo d'Italia se non Torino. Noi torinesi siamo così, nel ben e nel male: riservati, pudichi, determinati a nascondere a noi stessi e agli altri la nostra anima. Diamo in qualche modo per scontato che ciò che ci accade nel privato sia veramente solo una questione personale, priva di interesse per altri. Andando a vivere altrove si comprende che la condivisione della sofferenza, della disgrazia, del dolore, degli errori, della vergogna è qualcosa che può aiutare a vivere meglio. Ma noi no, non lo capiamo perché non siamo educati a farlo, anzi, da sempre sappiamo che agli altri non dobbiamo mostrare il lato debole. Così come, per contro, non vogliamo che venga mostrato a noi. Non sapremmo cosa dire, nella migliore delle ipotesi qualche frase di circostanza, se non un completo silenzio da scambiare per indifferenza e che invece è disagio, inadeguatezza.E così è stato nella famiglia di Massimo Gramellini (per altro di origini romagnole, la torinesità è contagiosa): un completo silenzio, mascherato con una bugia in qualche modo consolatoria.
Nessuno ha detto la verità circa la morte della madre a un bimbo di 9 anni e nessuno ha pensato fosse opportuno rivelarla allo stesso bambino diventato adulto.
Nessuno - incredibile a dirsi - nella sua famiglia ha mai ripreso l'argomento. Se qualcuno si sarà domandato a distanza di tanti anni quanto Massimo sapesse, non si è certo preso la briga di chiederlo a lui direttamente. E così lui stesso, tormentato sin dal giorno in cui rimane orfano di madre - e a qual punto tormentato lo scoprirete leggendo - da sensi di colpa, depressione, vergogna, carenze affettive (un peso da portare sulle spalle per una vita intera), solo casualmente e per iniziativa della Madrina, una persona che l'ha amato da sempre ma non ha potuto stargli vicino quanto avrebbe voluto, apre gli occhi su una realtà rimossa.Questo è il racconto di quella rimozione, di ciò che lui ha cercato di fare per colmare quel vuoto dell'animo, di come invece quel buco nero sia sempre rimasto e solo col tempo lui stesso ne abbia avuto consapevolezza.E qui viene fuori il torinese che si apre al mondo: attraverso il suo lavoro di giornalista - scelto dopo il tentativo fallimentare di compiacere il padre, unico pilastro cui appoggiarsi, ma anche unico capro espiatorio di ogni inquietudine - e alcune esperienze drammatiche come quella di inviato nei giorni peggiori di Sarajevo, Gramellini riesce a uscire dalla sua cecità esistenziale. I suoi occhi si aprono alla verità già molto prima di conoscerla anche grazie a un'altra donna, la moglie Elisa. Ma lo scoprirete passo dopo passo in queste pagine.
la REDAZIONE
IL RUMORE DEI BACI A VUOTO di Luciano LigabuePolaroid cupa di ordinari problemi e ordinaria disperazione
Il rocker Luciano Ligabue,ormai nell'empireo della musica italiana,sembra ormai essere ben instradato su di una doppia carriera di musicista e scrittore, con qualche incursione nella regia cinematografica.Siamo infatti giunti alla sua quarta prova come scrittore, dopo il romanzo “La neve se ne frega”, la raccolta di racconti “Fuori e dentro il borgo” e l’antologia di poesie “Lettere d’amore nel frigo”. Stavolta si tratta nuovamente di racconti.Tredici storie, tredici drammi della vita quotidiana, piccoli o enormi, solo fastidiosi o vere e proprie tragedie della vita o anche solo dell’anima, separazioni fisiche o mentali, vite che arrivano al capolinea o raggiungono una svolta, rapporti che resistono o naufragano miseramente sotto i colpi del destino, o, più banalmente, di una semplice, futile casualità.Molto cupa, ai confini con il noir, l’atmosfera che pervade questi racconti. Ligabue ha indubbiamente percorso un cammino fatto di cambiamenti personali e professionali, e sembra essersi lasciato alle spalle la dolce semplicità, in fondo sempre pervasa di positività, di “La neve se ne frega” per aprire una nuova fase molto più intimista e meno ottimista, nella quale esplora il lato oscuro della vita e dei sentimenti.Nascono così la storia di un uomo disposto a tutto per salvare il cane della moglie, e quella di un altro tormentato dai sensi di colpa per avere causato un danno a un gatto; quella di una lettera scritta a un medico per richiamarlo all’umanità del dolore, e al rispetto che merita, e quella di una donna anziana che svela un terribile segreto senza un vero scopo; quella di una vacanza resa un incubo dalla compagna di viaggio sbagliata, e quella di un rapporto messo a dura prova dalla verità a ogni costo; la descrizione di un giorno qualunque di un giovane medico tormentato dalle più svariate manie, e quella, forse la più bella e significativa di tutte, di un rapimento che sembra non avere un senso, ma che alla fine ne acquista uno incredibile, importantissimo, pregno di disperazione.Sono flash, polaroid di vita vissuta, briciole di ordinari problemi e di ordinaria disperazione. Su tutti i personaggi sembra aleggiare lo spettro dell’ineluttabilità di un destino al quale conviene rassegnarsi, perché è stato scatenato dal caso ma preparato dal proprio comportamento in qualche modo irresponsabile. La vita scorre su questi volti e su queste esistenze che vi si dibattono dentro senza mai realmente trovare una via d’uscita, forse senza neppure cercarla con vero impegno. Raramente queste storie hanno una vera fine, spesso sono interrotte, sfumate, lasciate in sospeso come a promettere un futuro sviluppo che, però, non sembra lasciare spazio a molte speranze. Si ricomincia da capo raccogliendo i cocci di quello che era e che in un attimo si è disintegrato, forse se ne colgono gli aspetti negativi e tutto sommato si scuotono le spalle, andando avanti con una certa serenità. Forse quello che era non era neppure importante o meraviglioso come sembrava.“L’amore conta”, canta Ligabue, e lo scrive anche sulla copertina del libro. Sì, l’amore conta, fino al punto di cambiare o distruggere la vita, di scatenare disastri irreparabili. Ma l’amore che più conta, per questi protagonisti, è quello per sé stessi e per la vita, che dà loro la forza per stringere i denti e andare avanti. Non con ottimismo, ne’ con vera rassegnazione, ma con determinazione. VOTO 7 |
IL LIBRO NERO DEL COMUNISMO di Stephan CourtoisIl Partito Comunista,fonte di tragedie e miserie.
Il Libro Nero Del Comunismo ad opera di un nutrito gruppo di storici guidati dal francese Stephan Courtois, è un libro destinato a segnare un avvenimento fondamentale nella ricerca storica e nell'informazione sul comunismo come fenomeno storico dalle ben precise radici ideologiche. Nessun cittadino dovrebbe ignorare questa fondamentale presenza bibliografica, a memento perpetuo della più grande tragedia della storia, del più abbietto crimine che sia mai stato compiuto contro l'umanità,considerando il numero di vittime. Il libro oltre al merito di aver ricostruito in modo (sempre) ben documentato ciò che è avvenuto in questo secolo nei paesi in cui erano in vigore regimi comunisti, ha anche quello di aver provocato negli ambienti della sinistra italiana un momento di riflessione amara. Forse è molto difficile sfuggire all'uso prettamente strumentale dei contenuti di questa ricerca o a "ennesime richieste di abiura del passato", e proprio questa può essere la difficoltà nell'avvicinarsi alla lettura del libro, soprattutto dopo aver affrontato il primo, introduttivo capitolo scritto da Stéphane Courtois, che funge da cornice all'intero contesto e che ha suscitato polemiche anche all'interno del gruppo di lavoro.I due importanti storici francesi quali sono Nicolas Werth e Jean-Louis Margolin hanno curato le sezioni dedicate all'URSS il primo e alla Cina e ai comunismi asiatici il secondo. La lunga, coinvolgente recensione di Rossana Rossanda, apparsa su "il manifesto" del 25 febbraio, valuta i capitoli dedicati all'URSS tra i più documentati e quindi tra i più interessanti anche grazie all'apertura degli archivi sovietici e alla loro consultazione da parte dell'autore.I dati offerti, che possono apparire sconvolgenti, erano in realtà per lo più noti, anzi da questa pubblicazione certi numeri che erano stati fatti per approssimazione (e spesso non ingenuamente), vengono notevolmente ridimensionati. Ma è proprio il vedere accostati tutti i crimini compiuti dai regimi comunisti e ancor più le conclusioni a cui la ricerca giunge che provocano forti turbamenti. Il comunismo è stato autore di un "genocidio di classe" che ha provocato un numero di morti maggiore del "genocidio di razza". Perché allora c'è stato "l'occultamento della dimensione criminale del comunismo"?Per Courtois sono tre le principali ragioni: l'attaccamento all'idea stessa di rivoluzione, la partecipazione dei sovietici alla vittoria sul nazismo e un'idea forte e vitale di antifascismo che vigilava perché i crimini nazisti non si ripetessero e che non accettava il pensiero che colpe analoghe potessero venire imputate al fronte avverso.In base a un simile cieco meccanicismo la storia, per i comunisti, si sviluppa necessariamente lungo un cammino prestabilito: il destino dell'inevitabile paradiso finale (approdo fatalista di una religione senza dio, priva di ogni spessore spirituale), che è la società comunista senza Stato, senza proprietà privata e senza conflitti, non è una conquista ma una prigione. Niente Stato, niente proprietà privata, niente conflitti solo perché i cervelli (dei sopravvissuti alle persecuzioni e alle stragi) saranno perfettamente omologati e resi incapaci di pensieri originali, di dissidenza: l'avvento del comunismo è la tomba della libertà.Approfondendo con analisi storiche puntuali, con il ricorso a documenti scottanti e spesso raccapriccianti, gli autori del Libro Nero guidano il lettore in un sorta di «viaggio allucinante» nella storia del comunismo: e così veniamo fatti spettatori della realizzazione pratica di un pensiero criminale.L'inferno è sceso sulla terra: dovunque il comunismo si sia affermato come struttura politica e di potere ha portato morte e paura, miseria e sopraffazione. La ricetta di un'ideologia antiumana non poteva non realizzarsi come crimine di fatto. Il più assurdo, il più atroce che l'uomo potesse compiere a danno dei suoi simili.Per questo motivo il Libro Nero dovrebbe figurare nelle biblioteche degli italiani accanto alla Bibbia: utile, anche se scioccante, sarebbe il confronto impietoso fra un messaggio d'amore e una strategia dell'odio realizzata attraverso la più delirante delle malvagità. VOTO 8 |
UN SOGNO DI RAGAZZA di F.Scott FitzgeraldRiedizione di un capolavoro dimenticato. Quello che facciamo con la nuova scoperta editoriale Donzelli è un salto indietro nell’America degli anni ‘20, come ha fatto recentemente Woody Allen nel suo film parigino ”Midnight in Paris”, quando ci ha raccontato, tra le altre celebrità letterarie evocate, la fascinosa coppia Scott e Zelda Fitzgerald. Un sogno di ragazzaè un racconto del grande autore dell’Età del Jazz, uscito nel 1922 e poi quasi dimenticato, e ora pubblicato in un delizioso piccolo volume corredato dalle illustrazioni della pittrice Martha Rich, che ci descrivono la protagonista del racconto, Yanci Bowman, con efficacia pari a quella di cui è capace lo stesso Fitzgerald.Yanci è una ventenne bella, ricca, viziata, un po’ languida, un po’ svenevole, un po’ indolente, alla ricerca di un marito ricco e delusa per il mancato incontro con il principe del Galles, dicono i pettegoli della sonnacchiosa cittadina del Midwest dove vive con il padre, un gentiluomo dall’aria aristocratica ma troppo dedito all’alcool. Quando arriva in città per caso Scott Kimberly, giovane scapolo newyorkese di buona nascita e con un buon patrimonio familiare a disposizione, i due vengono presentati e ballano... lei ha un vestito giallo e un’aria vagamente annoiata e si rivolge a lui dicendo banalità, guardandosi intorno con l’aria di chi ne ha abbastanza di ciò che la circonda, pensando che è arrivato il momento di pensare al matrimonio. Scott sembra ammirare i suoi occhi blu, la sua conversazione disinvolta e a tratti infantile, ne è certamente affascinato, ma ne percepisce già la finzione? Le cose in effetti precipitano: il padre di Yanci muore improvvisamente e la ragazza si accorge con disperazione di essere sul lastrico, decidendo di spendere a New York i pochissimi contanti, ultimo regalo del padre. Scesa grandiosamente al Ritz, luogo simbolo per una provinciale come lei, calcola di chiamare il giovane Scott e progetta di conquistarlo definitivamente con le sue abili strategie. La discesa verso il baratro della bugiarda e fragile Yanci ci viene descritta da Fitzgerald con l’autorevolezza del grande narratore: molto efficace la scena in cui, con gli ultimi dollari rimasti, la ragazza vuole comprare un paio di guanti lunghi per far scena sulla sua preda, l’ignaro Scott, e si accorge di aver perso l’ultima banconota... “E piangendo come una bambina uscì dal negozio”. Finale a sorpresa per questo intelligente spaccato sociologico che ci racconta molto del Sogno americano, termine che ricorre nel titolo italiano “Un sogno di ragazza”, che è stato preferito all’originale “The popular girl” proprio per sottolineare ai lettori italiani quanto quel sogno abbia impregnato di sé l’intera storia della letteratura e della società statunitense. Yanci Bowman sembra ricalcare tutti gli stereotipi di quel genere di personaggi in cui si è incarnata la “lost generation” e tuttavia, pur nella brevità del racconto fitzgeraldiano, ci rappresenta con efficacia un pezzo incantevole di storia del costume americano. L’autore immaginava di vedere la sua protagonista in un film: ce lo auguriamo anche noi. VOTO 7.5 |
DIZIONARIO DELLE COSE PERDUTE di
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LA CASA SOPRA I PORTICI di Carlo Verdone
Una biografia appassionata,malinconia e risate.
Dopo essere giunto al cinema con il film Posti in piedi in paradiso, Carlo Verdone approda anche in tutte le librerie con La casa sopra i portici. Si tratta, in particolare, di un romanzo biografico in cui l’apprezzato attore e regista italiano decide di condividere con i suoi fan i ricordi del suo passato, quelli che raccontano i giorni in cui ha vissuto nella casa paterna, La casa sopra i portici, appunto.Chi ha già avuto modo di leggere La casa sopra i portici di Carlo Verdone ne è rimasto entusiasta: lo stile narrativo fluido e suadente dell’autore, riesce a coinvolgere il lettore sin dalle prime pagine. Il libro, inoltre, si legge d’un fiato e regala ai lettori emozioni intense.Con l’ironia tipica che lo caratterizza, Carlo Verdone racconta ai suoi lettori, per esempio, gli eventi più importanti che nel corso della sua infanzia e della sua adolescenza sono stati organizzati tra le mura della sua casa paterna: feste, incontri con registi famosi come Federico Fellini e Alberto Sordi, incursioni di personaggi unici, come Gregory Markopoulos e tanti altri.Ne La casa sopra i portici, comunque, Carlo Verdone si sofferma anche sull’aspetto più intimo e umano, quello riguardante i sentimenti e il rapporto con i suoi familiari: i genitori e i fratelli, per esempio. C’è ampio spazio per le emozioni, quindi, tra le pagine del romanzo biografico di Carlo Verdone; anche perché l’attore sceglie di non tenere nascosto nulla e di parlare anche dei momenti dolorosi, dei primi amori e di tutte quelle esperienze ed emozioni che lo hanno reso l’uomo che è.La casa sopra i portici, in particolare, è il romanzo ideale per tutti gli appassionati di Carlo Verdone; un libro in cui l’autore sceglie di mettere a nudo il suo spirito aprendo ai lettori la porta dei ricordi della sua casa sopra i portici.Per dovere di cronaca bisogna ricordare che questo non è l’esordio letterario di Carlo Verdone, già approdato sugli scaffali nel 1999 con Fatti Coatti (o quasi), anche quella una sorta di biografia scritta a quattro mani con Marco Giusti. La casa sopra i portici torna a scandagliare quindi nel passato di uno dei personaggi più amati e riconosciuti del cinema (ma anche della televisione) nostrana, senza pretese di stile ma con una scrittura lineare e coinvolgente che i suoi fan non tarderanno a riconoscere.Si parte come prevedibile dalla giovinezza, dove i grandi eventi sono scanditi e accompagnati dalla casa paterna, in qualche modo grande protagonista dell’intera storia. Dall’incontro con Vittorio De Sica al rapporto con i genitori e i fratelli, dalle prime esperienze sentimentali ai drammi famigliari. C’è spazio per l’ironia ma anche per i toni più malinconici, come in tanti suoi film di successo.E a proposito di film, non poteva certo mancare il cinema in questo libro. Dai primi passi al Centro Sperimentale sotto la guida di Roberto Rossellini al racconto dei suoi film, ricco di retroscena e aneddoti inediti.Grande spazio viene dedicato anche alle amicizie che hanno segnato la vita di Carlo Verdone, da Sergio Leone a Federico Fellini passando per Massimo Troisi. Non manca neanche la musica, secondo grande amore dell’attore: i primi concerti di Beatles e The Who, gli incontri con David Bowie, David Gilmour e Led Zeppelin. Un ritratto intimo e divertente che farà la gioia di quanti adorano il regista romano VOTO 6.5 |
DELL' AMORE E ALTRI DEMONI di G. G.MarquezUna storia sospesa tra sogno e dolore.
Sullo sfondo il mare dei Caraibi, dove il cristianesimo si scontra con le lingue e i riti religiosi yoruba degli schiavi, ai tempi dell'Inquisizione del Santo Uffizio. L'amore e l'odio, nelle loro variegate declinazioni, si manifestano e si confondono con la follia, il dolore, la speranza, la rabbia (come stato emotivo, ma anche come malattia trasmessa dai cani infetti), dilaniando la mente e il corpo dei protagonisti. I sintomi vengono interpretati dal vescovo e dalla badessa delle Sepolte Vive come sintomi satanici e si preparano le indagini per gli esorcismi. I confini sbiadiscono, la ragione può anche essere una gabbia per la mente (lo dice il medico ateo Abrenuncio!). L'amore nella sua forma più pura è un vero e proprio demone, che non può essere scacciato e solo la morte renderà conforto alle povere anime.Sierva Maria de Todos los Angeles, una dodicenne indemoniata (o presunta tale) e Cayetano Delaura, l’esorcista che dovrebbe liberarla dalla possessione, vivono una singolare, grottesca, drammatica storia d’amore sullo sfondo di una città di mare, in un’epoca e un luogo indefiniti dell’America centrale dei secoli scorsi (XVIII o XIX secolo?).Basterebbero queste poche indicazioni della trama per riconoscervi immediatamente alcuni elementi fondamentali della narrativa dell’autore, incentrata, fin dall’esordio con Cent’anni di solitudine, sulla rappresentazione di un mondo fantastico e onirico, estremo, irrazionale e contraddittorio, fatalista e rassegnato, oscurantista ma anche in qualche modo nostalgicamente rievocato e rimpianto, che diviene sintesi di una cultura e dell’anima della società centro e sud americana, con il suo singolare misto di tradizioni, di razze, di religioni e di lingue che la caratterizzano. Pur non avendo un posto oggettivamente indiividuabile né nella geografia né nella storia del subcontinente, le città, i personaggi e le vicende dei romanzi di Marquez ne colgono le costanti e lo spirito più di mille trattati di sociologia, dando vita a un microcosmo parallelo e metastorico per definire il quale la critica ha coniato la fortunata etichetta di realismo magico.L’apporto che Dell’amore e di altri demoni dà al dispiegarsi di questo universo narrativo è virato al grottesco e al macabro con maggior intensità rispetto alla restante produzione dell’autore. Non una storia corale ed epocale come in Cent’anni di solitudine, non una “normale” vicenda d’amore eccezionale come in L’amore ai tempi del colera, non un teorema fatalista sviluppato fino alle sue estreme conseguenze come in Cronaca di una morte annunciata: ciò che prevale in questo romanzo è la ricerca sistematica del paradosso stridente, che si manifesta già nel titolo (l’associazione dell’amore alla dannazione, un vero e proprio topos della letteratura di tutti i tempi, qui declinato nella sua variante magico-realistica) e si incarna innanzitutto nella coppia dei protagonisti, che intrecciano un amore impossibile sopra l’abisso delle loro opposizioni (bambina-adulto, indemoniata-esorcista, paganità-cristinità, carnalità-spiritualità), per poi ritrovarsi moltiplicato in pressoché tutti gli elementi (primari o marginali che siano) della trama: dalla figura del marchese padre di Sierva Maria a quella di Bernarda, moglie di lui e madre della bambina, dalla personalità del vescovo, guida spirituale e protettore prima, severo persecutore poi di Delaura, alle torve e degeneri monache del convento di clausura dove l’indemoniata viene rinchiusa, per arrivare fino alle comparse dei servi, degli amanti, dei medici che ruotano attorno ai personaggi principali e fanno loro da contorno: tutti sono caratterizzati dal coincidere nella loro personalità e nella loro condotta di connotazioni opposte e antitetiche, quasi l'ostentazione della contraddittorietà fosse il programma che l'autore si è proposto. Ne esce un quadro fosco e polarizzato sugli estremi, che sembra configurarsi come maniera (nel senso che il termine ha come categoria estetica) rispetto all'ispirazione e alla restante opera dell'autore, cosicché la rigogliosità, l'abbondanza e la bizzarra originalità delle invenzioni narrative finiscono per essere apprezzabili più nei dettagli a margine della storia che nelle figure dei protagonisti.La storia il soggetto, le parole i suoi colori, Marquez non scrive, Marquez dipinge nelle menti dei lettori i sogni che la sua mente partorisce.Maestro di prosa, in questo racconto Marquez dimostra una proprietà di linguaggio (grazie anche all'ottima traduzione)e una vena poetica particolrmente spiccate, non lascia nulla al caso e la sua capacità di essere dettagliato con pochi termini lo porta veramente nel olimpo.Il racconto di per se è ai confini della realta,burattinaio della dimensione onirica, si muove tra sogno e realtà lasciando il lettore avvolto in una cappa di mistero e curiosità.Resta comunque un testo intenso, e affascinante e ricco di piacevolezze linguistiche che si mischiano hai contenuti del testo come lo zucchero nell' acqua .Nulla più si può dire su un testo che sia per lunghezza che per linguagigo e trama trovo ineguagliabileLa storia lascia il segno, tra clausura, amori platonici,feroci demoni, vizzi, e inquisizione porta alla fine del romanzo pronto a ricominciarlo in qualsiasi momento. VOTO 8 |
IO,IBRA di David Lagercrantz "Puoi togliere un ragazzo dal ghetto,ma non il ghetto da un ragazzo".
Zlatan Ibrahimović è indubbiamente uno dei protagonisti più discussi del calcio internazionale. Cresciuto calcisticamente nell'Ajax, in Olanda, arrivò in Italia alla Juve e da lì passò prima all'Inter (vincendo lo scudetto col suo allenatore, José Mourinho) e poi finì al Barcellona in Spagna,in un affare dalle cifre esorbitanti che comprendeva anche il cartellino di Eto'o.In ogni squadra ogni anno sistematicamente ha vinto il Campionato trascinando i suoi.Ma alla corte di Guardiola, inserito in una delle squadre più forti del mondo, Ibra,nonostante 16 gol in 29 presenze,non si adattò affatto. Non tanto per il poco spazio in campo, quanto per quello concesso alla sua strabordante personalità. Insomma litigò aspramente con Guardiola e poi, d'accordo con il suo procuratore Mino Raiola, mise in atto un'astuta strategia per essere ceduto e tornare in Italia, più precisamente al Milan. Il suo "Io, Ibra" è un'autobiografia scritta a quattro mani con lo scrittore svedese David Lagercrantz, in cui è lampante come l'esistenza di Ibra sia stata molto influenzata dal dolore e dalla condizione di odio sociale in cui erano costretti a vivere quelli del suo quartiere.Ibracadabra ripercorre molti aneddoti della sua sfavillante carriera, prestandosi volentieri ad attacchi e critiche verso molti addetti ai lavori che ha incontrato lungo il suo cammino. Nel libro Ibrahimovic non risparmia gli attacchi all'ex allenatore Guardiola,al quale dice di avergli urlato contro nello spogliatoio:"Sei senza coglioni",o di averlo minacciato di picchiare in pubblico se non lo avesse lasciato andare al Milan;all'ex compagno di nazionale Ljungberg accusato di pensare più a vendere slip con la sua pubblicità che ad impegnarsi sul campo;alle corse in auto a 300 all'ora per Amsterdam;alla sbronza con Trezeguet dopo lo scudetto con la Juventus;al rapporto con Capello che gli mostrava i video di Van Basten dicendo:"Impara da lui";alle critiche allo spogliatoio dell'Inter accusato di essere troppo diviso fra clan;alla serenità ritrovata grazie al Milan,che giura essere la sua ultima maglia. Sembra essere un campione viziato che ce l'ha con tutti, la punta del Milan, ma poi nel libro si scopre che il suo passato non è stato tenero con lui. Lo stesso Ibra però sottolinea il messaggio del libro rivolto soprattutto ai ragazzi:"Se vi sentite strani,diversi e non inseriti in un contesto o in un ambiete,non siete voi quelli sbagliati.Significa che siete speciali".Ha infatti passato l'infanzia nella periferia di Malmoe,dove viveva in un quartiere dormitorio detto Rosengraad pieno di immigrati provenienti da tutta Europa e dove tutti i giorni faceva i conti con le critiche di quelli che lo circondavano. In "Io, Ibra" riporta la frase "puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma mai il ghetto dal ragazzo", scritta su uno striscione posto sopra un tunnel che lo svedese percorreva tornando verso casa ogni giorno. Insomma non è stato sempre tutto facile per Ibra, anzi è un campione che si è fatto da sè, a colpi di genio sul campo e, perché no, di astuzia e antipatia fuori dal campo. E se non sarà mai un campione di simpatia, è almeno da riconoscergli di essere un campione con la palla tra i piedi. Anche quest'anno il suo contributo nel Milan si sta rivelando fondamentale, e se la squadra ha cominciato a rimontare posizioni in classifica dopo un inizio un pò incerto lo si deve soprattutto a lui, a Zlatan Ibrahimovic, che col suo tasso tecnico e il suo fisico potente riesce spesso a trovare la giocata vincente. Se non per il gol, almeno per l'assist in grado di liberare il compagno davanti al portiere, come nell'ultima partita con il Catania. Spesso è sufficiente averlo in campo, per far sì che i compagni si sentano più sicuri di sé, potendo contare su una vera e propria arma letale d'attacco, se non addirittura di un arsenale. La sua importanza è innanzitutto un fattore psicologico a favore dei compagni e a svantaggio dei difensori avversari, che sanno che dovranno fare gli straordinari per ostacolare il campione svedese. Se è vero che nessuno ama particolarmente Ibrahimovic, i tanti italiani che sognano di essere allenatori di una squadra di calcio lo vorrebbero nel loro undici titolare. Forza fisica e tecnica sopraffina, con un senso del goal che hanno in pochi. Ma come fa ad essere così forte e così completo? Forse leggendo "Io, Ibra" si potrà scoprire il suo segreto. |
I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI di Erri De Luca Poesia in prosa.
Il nuovo librodello scrittore napoletano Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi, edito dalla casa editrice Feltrinelli,può definirsi,non senza un briciolo di compiacimento,un romanzo di formazione, testimonianza delle esperienze vissute e della nostalgia dei ricordi del passato. E’ un racconto molto emozionante, che induce il lettore a confrontarsi con le esperienze del passato, ricordando un altro romanzo di formazione, Il giorno prima della felicità , dello stesso De Luca. La memoria riconduce lo scrittore all’età di dieci anni, periodo che segna il passaggio dall’età dell’infanzia a quella adulta, quando non si è più bambini ma non si è ancora maturi per affrontare la realtà con tutti i suoi piccoli e grandi ostacoli. Il protagonista della storia, nel quale ritroviamo le caratteristiche dell’autore adulto, si prepara ad affrontare esperienze nuove e a scoprire emozioni e sensazioni. Egli, vivendo in un paesino di mare, lontano dalla vita frenetica di città, può apprezzare giorno dopo giorno le cose semplici, come il profumo del mare o la leggera brezza della sera. La sua è una vita tranquilla che non gli impone di crescere prima del tempo; il ragazzino ama pescare e trascorre molte della sue giornate a leggere in spiaggia. La serenità della sua esistenza di bambino viene, un giorno, turbata dalla scoperta del significato dell’amore. Quell’amore che, fino a quel momento, era stato qualcosa di indefinito, diventa un sentimento reale e intenso che è bello da vivere, ma che, molto spesso, fa anche stare male. Il nostro protagonista incontra una ragazzina, con la sua stessa passione per la lettura; da qui nascerà un amore che lo farà soffrire e, al tempo stesso, lo farà crescere mostrandogli il vero aspetto della realtà, della quotidianetà piena di problematiche e ingiustizie. I pesci non chiudono gli occhi è il racconto dei ricordi di un bambino narrati con la maturità dell’adulto; ricordi d’amore, di giochi, di rabbia, di tristezza, di amarezza. Esperienze di un ragazzino che, come un pesce, non chiudeva gli occhi mentre, emozionato, dava il suo primo bacio e che lo hanno reso uomo. Erri De Luca, con il suo nuovo romanzo malinconico ma gradevole e delicato, quasi poetico, ci affascina e ci meraviglia; la sua scrittura semplice ma efficace, conquista il lettore che si lascia trasportare dalle emozioni del protagonista del libro. La precisa descrizione della psicologia infantile induce ad una attenta riflessione sui ricordi del passato per scoprire i valori della vita e affrontare il futuro con forza e speranza. |
HANNO TUTTI RAGIONE di Paolo Sorrentino Capolavoro "rock-letterario".
Provocatorio, torrenziale e satirico, sconnesso e prepotente, Hanno tutti ragione (Feltrinelli, 320 pp., euro 18) è l’esordio letterario del regista Paolo Sorrentino, partenopeo classe 1970, padre del divertissement anti-andreottiano e tarantiniano Il Divo e dell’elegiaco Le conseguenze dell’amore. Penalizzato dalla copertina più respingente di tutti i tempi, forse più adatta a rappresentare esteticamente l’eventuale opera prima di Garrone (arriverà: qualche anno fa Giordana, pochi mesi fa i diari di Zurlini, adesso Sorrentino…), il romanzo è stato omaggiato e benedetto dal vecchio santo patrono dei casi letterari italiani: già supremo artefice delle fortune di Avoledo (oneste e sensate) e Faletti (del tutto equivoche), Antonio D’Orrico ha così pontificato, nel febbraio scorso, sulle colonne del Corriere della Sera: “Paolo Sorrentino ha inventato Tony Pagoda, un eroe del nostro tempo, il più grande personaggio della letteratura italiana contemporanea”. Cominciamo subito col dire che tutto è fuorchè un eroe, il Tony Pagoda: semmai è un’icona infelice, drogata, viziosa e infausta, paradigmatica d’una miseria culturale depressiva e deprimente. E che se questo è “il più grande personaggio” della nostra letteratura italiana, allora c’è qualcosa che è sfuggito a papa D’Orrico: almeno Il gregario di Paolo Mascheri, almeno Actarus di Claudio Morici, almeno Il nemico di Emanuele Tonon, sempre restando sul livello dei narratori nati negli anni Settanta. D’Orrico ha scritto che questo romanzo è bello come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana o La cognizione del dolore di Gadda e Viaggio al termine della notte di Céline. Sospettiamo che la lunga distanza temporale che separa il pontefice dei casi letterari dalle prime letture di quei romanzi abbia determinato un entusiasmo un po’ eccessivo. Il concetto, forse, poteva essere questo: Hanno tutti ragione è massimalista e scorretto, e in questo senso si può considerare derivativo rispetto al paradigma céliniano; linguisticamente, si concede qualche licenza (ma senza eccedere, e senza averne coscienza letteraria) che può considerarsi derivativa rispetto all’espressionismo italiano. Da qui a stabilire parallelismi tra l’ingegnere milanese e il regista partenopeo (LFC può riposare in pace) ce ne vuole. Ci vuole, soprattutto, una grande fiducia nella scarsa lucidità dei lettori italiani. Ci vuole, aggiungiamo, un pizzico di pressappochismo, più pubblicitario che critico letterario. Hanno tutti ragione è un romanzo disorientante perchè si tratta dell’opera prima di un outsider. Come tutte le opere prime, ha poderosi difetti e affascinanti tratti distintivi. È narrativa sconnessa, slabbrata, povera di struttura, a metà strada tra un canovaccio evoluto e una smania di giudizio della realtà, spesso sbrodolona, masaniella e populista. È narrativa solo apparentemente popolana, per lessico e vicende raccontate; c’è qualche pretesa d’affermare una personalità autoriale che Sorrentino potrà guadagnare nel tempo, come scrittore. Come regista, mi sembra pacifico, le cose sono ben diverse. E meno male. Incontriamo, allora, questo favoloso avatar plasmato da D’Orrico. Ecce Tony Pagoda da Vico Speranzella. Attaccato alla vita come una sanguisuga, ha avuto talento e discreta fortuna, come cantante da night. È un furbo, convinto che la furbizia sia un’arte. Molto napoletano, in questo senso, molto viscerale. È un cinico, che giura che la vita l’abbia inventata un sadico, “fatto di coca tagliata malissimo”. Ma è uno che non vuole appassire. Crede che l’arte di tirare avanti passi per il sentiero supremo della distrazione. E sa sopportare la nausea, perché nella nausea ci sta a meraviglia. Adesso ha 44 anni “carichi e feroci” e si sente “fradicio di sè stesso”. È un cocainomane (da vent’anni) con chiari complessi di inferiorità nei confronti di Frank Sinatra. E qualche nostalgia per l’Italia. Torna a Napoli, dagli States, ma la musica non cambia: complice un amore perduto (male, nel male), Beatrice, si tormenta e si sprona con “cocaina, vino, birra, superalcolici, cocktail, aperitivi, sigarette, grassi animali e vegetali”. Il rapporto con sua moglie è un po’ peggiorato (“Quindici anni fa si scopava da bufali. Ora è un oggetto d’arredamento”; “Un involtino di angoscia mi è diventata questa donna”). Divorzio. Brasile. A spegnersi, dalle parti di Manaus, a imparare qualcosa da un mammasantissima scampato a tutto quanto. Per diciotto anni. Poco prima del capodanno del 2000, l’Italia torna a chiamarlo. Arriva un suo ammiratore, ex craxiano, ora deputato della Repubblica. Si chiama Fabio, è pieno di soldi e di malinconia. Domanda una serata in Corsica e stop. Paga un miliardo più del dovuto. Promette un sacco di donne. Tony non sa niente di quel che è successo negli ultimi vent’anni, i suoi vecchi amici racconteranno qualcosa. Dai cellulari a Ikea, passando per la fine della vecchia repubblica, l’avvento dei computer e via dicendo. E poi finisce a Roma, ben salariato da Fabio. Passano due anni. L’Italia è “anarchia spregiudicata ai limiti del regime sudamericano”, e il vecchio Fabio confonde la sua vecchiaia con quella di questa nazione. Succede. La sua ultima ossessione è per la parola “figo”. Vedrete come. Qualche ulteriore osservazione. Le prime battute del libro sembrano avere più di un debito di riconoscenza nei confronti dell’incipit di Wrong di Andrea Consonni, apparso nel 2003: mentre lo scrittore lombardo giocava sul concetto “non me ne frega un cazzo”, seguito da una valanga di cose e di persone per le quali non aveva interesse, il regista napoletano punta su un più educato – ma non meno torrenziale – “non sopporto”. In entrambi i casi, una potenziale fonte di ispirazione comune è la famosa scena dello specchio della Venticinquesima ora di Spike Lee (2000), film tratto dal (bel) romanzo omonimo di David Benioff. Ricordate? È il monologo del “fuck”. Siamo da quelle parti. Decisamente. E adesso scopriamo come scrive il regista Sorrentino. Perchè è stravagante e irregolare la lingua letteraria del narratore di questo romanzo. A partire dagli aggettivi. Come scrive a un tratto, raccontando della seduzione, vuole essi siano “spiazzanti e convincenti, iperbolici e precisi”. Ecco allora che Tony è uno “ieratico” e speranzoso di carattere; ha amici “limitrofi” alla sua esistenza, mentre i musicisti sono “defenestrati” dalle loro abitudini, e lui si “ubica” su un palco; e poi il silenzio si fa “fragile. Esistenziale”; memorabili le lacrime “stanziali”, almeno quanto la vita di coppia di due amanti “ierofanici” e “ossidionali”. Buona invece la coatta “entrata giaguara”, gli accademici come “risma che sa proferire”, “sifilitici dell’intelletto”. Questo Pagoda ha qualche frustrazione universitaria alle spalle: “Il docente universitario – scrive – è sempre vigliacco. I libri la sua trincea. La pubblicazione il suo moschetto. Ma dentro non c’è niente”. Chissà, prima di cantare nei night forse studiava al DAMS. Concludiamo con qualche curiosità. Errori cronologici non mancano; nel 1980, Carl Lewis è considerato già “campione del salto in lungo”: peccato abbia conquistato i primi titoli nel 1983. Il film Innamorarsi, con De Niro e la Streep, è considerato già uscito con quattro anni di anticipo. Si vede che nel cinema certe cose si sanno un sacco di tempo prima; oppure – diciamo così – che stanno nell’aria. Proprio come certi casi letterari. E questo è quanto. VOTO 8 |
IL CIMITERO DI PRAGA di Umbero EcoTra anti-semitismo e falsi protocolli,l' ennesimo best-seller di Eco.
Erudito e pop, bieco e appassionante, a trent'anni dall'uscita de Il nome della rosa il sesto romanzo di Umberto Eco ci trascina nel gorgo irrazionale della modernità fino a rivelarci come possa esserne scaturito un progetto di sterminio totale. Mi ha colpito la fluidità con cui la trama scorre attraverso cinquecento pagine di intrighi spionistici. Al lettore stavolta Eco risparmia certi sforzi interpretativi cui ci aveva costretti in passato, chiede solo di lasciarsi condurre nel ritmo incalzante dei colpi di scena, riuscendo nell'impresa di far apparire naturale, scorrevole, una monumentale ricostruzione storica del morbo cospirazionista. Si compiace, a un certo punto, il falsario Simonino Simonini, protagonista sconvolgente e unico personaggio di fantasia de Il cimitero di Praga.«Non c'è che parlare di qualcosa per farlo esistere». Ed è per questo che il semiologo deve farsi scrittore, e lo scrittore "leggero" si conquista la credibilità dello storico. Basta che Simonini, divenuto esperto fabbricatore di dossier, dopo un apprendistato di falsi testamenti e smercio di ostie consacrate per messe sataniche, inventi nel 1898 il verbale di un raduno cospirativo notturno di rabbini fra le lapidi del cimitero israelitico di Praga - a scopo di lucro, naturalmente, distillandovi la sua avversione per gli ebrei - e subito un mondo intero che non aspettava altro vi si aggrapperà nel credersi vittima di un subdolo progetto di dominazione giudaica. È successo davvero, come ci insegna la rapida propagazione, tra plagi e compravendite, dei Protocolli dei Savi di Sion in parallelo ai pogrom che anticiparono la soluzione finale nazista.Tutti noi abbiamo una strega o un orco delle favole che ha ingombrato i nostri incubi da bambini. A Simonino è toccato lo spregevole ebreo Mordechai, nascosto nel ghetto di Torino dopo aver perpetrato un omicidio rituale. Che paura i racconti del nonno sull'ebreaccio. Suscita invece l'ammirazione del nipote che il capitano sabaudo Giovan Battista Simonini abbia segnalato per lettera il pericolo ebraico all'abate Barruel (circostanza, questa, storicamente provata) contribuendo a innescare la catena di Sant'Antonio dei futuri complotti. Divenuto adolescente, il nostro Simonino viene irriso da una bella ragazza del ghetto torinese abolito nel 1848 da re Carlo Alberto, e di certo ciò non giova al suo futuro rapporto con il sesso femminile. Da allora in poi riverserà solo sul cibo, parossisticamente, la sua energia sensuale. Possiamo noi immedesimarci in un tale figuro, addirittura provare ambigua simpatia nei suoi confronti? Le manie e i pregiudizi di Simonini ci sono familiari perché hanno pervaso la mentalità corrente, si confondono con la parte cattiva di noi stessi. Detesteremo la sua spregiudicatezza di calligrafo disposto al falso contro chiunque faccia comodo al potente di turno (i gesuiti, i massoni, i repubblicani) e l'indifferenza al prossimo che ne farà un pluriomicida; ma proveremo commiserazione per la sua infelicità psicotica. Umberto Eco si diverte, e ci diverte, facendolo incontrare a Parigi con un giovane dottore ebreo, Sigmund Freud, dispensatore di consigli terapeutici a base di ipnosi e cocaina, ignaro di rivolgersi a uno spione la cui personalità è ormai schizoide (lo perseguita come suo temibile alter ego l'abate Dalla Piccola); afflitta da smemoratezza, ma non da sensi di colpa. A quel punto Simonini è già un rottame d'uomo. Ha prestato i suoi bassi servigi a Cavour, infiltrandosi nella spedizione dei Mille in Sicilia per neutralizzare lo spirito repubblicano di Garibaldi. Ha tradito una nobile camicia rossa come Ippolito Nievo. Ha profittato di Alexandre Dumas e succhiato le prime fantasie complottiste dai suoi romanzi, come dai feuilleton di Emile Sue. È in grado di profittare nel doppio gioco di ogni servizio segreto bisognoso di prove contro il "nemico occulto" del momento, intrufolandosi nelle fogne di Parigi e nei salotti letterari, alternando la gastronomia più raffinata al vomito. Mai sazio del denaro, perennemente impaurito, attraverserà i regimi e i moti popolari come la Comune del 1871, le sette religiose o massoniche, i servizi piemontesi, francesi, prussiani, russi, con totale indifferenza. Sempre confidando, però, di mettere a frutto la sua fobia antiebraica: custodisce come un tesoro la formidabile invenzione del raduno al cimitero di Praga. Possibile che fra i tanti intrighi riguardanti i gesuiti e i massoni, le potenze belligeranti che si scambiano false informazioni, l'avvisaglia della cospirazione comunista orchestrata non a caso da un ebreo di nome Marx, non si trovi nessuno interessato a prendersela con il popolo maledetto, desideroso solo - come gli spiegava il nonno - di conquistare il mondo?Ne incontrerà fin troppi, di suoi simili, edificatori più o meno consapevoli dell'antisemitismo moderno. Da Maurice Joly a Hermann Goedsche, fino al celebre Edouard Drumont, passando per il socialista Alphonse Toussenel. Simonino Simonini ci accompagna così nella conoscenza di un passaggio cruciale dell'Ottocento, quando l'ebreo smette di essere soltanto un deicida reietto, meritevole quindi della discriminazione che subisce da secoli; per diventare un essere temibile, vuoi come incarnazione della finanza cosmopolita, vuoi come rivoluzionario sovversivo. Un ottimo saggio di Michele Batini (Il socialismo degli imbecilli, Bollati Boringhieri), di recente pubblicazione, ci aiuta ad apprezzare il rigore storico del romanzo di Eco, in cui questi figuri assumono vivida fisionomia. Grazie anche alle illustrazioni didascaliche che l'autore ha recuperato nella sua collezione privata. Si rubano l'un l'altro il materiale, razzolano nel fango e ne traggono guadagni, ben felici di incendiare anime sprovvedute. Consegnando all'agente russo Golovinskij l'ultimo falso, che finirà dritto nei Protocolli dei Savi di Sion, Simonini si compiace di mettere in bocca a un rabbino la profezia devastante: «Determineremo una crisi economica universale con tutti i mezzi clandestini possibili coll'aiuto dell'oro, che è nelle nostre mani». Fomenta la prossima soluzione finale, dopo aver già compilato di suo pugno le lettere costate l'esilio all'Isola del Diavolo del capitano Alfred Dreyfus. A cosa serve tutto questo? Glielo aveva spiegato di persona Rakowsky, un responsabile dell'Ochrana, cioè i servizi segreti dello zar: «La divina provvidenza ce li ha dati, usiamoli, perdio, e preghiamo perché ci sia sempre qualche ebreo da temere e da odiare». Incapace di nutrire sentimenti diversi da «un ombroso amor di sé», Simonino Simonini, «maestro del riciclo», impersona un'ossessione che ad ogni pagina Eco ci aiuta a riconoscere attualissima. Magari rivolta ad altre minoranze, dopo lo sterminio degli ebrei, ma sempre la stessa.Non stupisce che nella postilla al suo romanzo, un'opera destinata a diventare un classico, Umberto Eco si corregga: «Ripensandoci bene, anche Simonino Simonini, benché effetto di un collage, per cui gli sono state attribuite cose fatte in realtà da persone diverse, è in qualche modo esistito. Anzi, a dirla tutta, egli è ancora tra noi». VOTO 8 |