QUID IURIS?
a cura di Rossana De Lucia
I reati di pericolo.Facciamo chiarezza.
di Rossana De Lucia
Una fattispecie di reati molto particolare ma molto diffusa.
Molto spesso sentiamo parlare della particolare categoria dei REATI DI PERICOLO. Di cosa si tratta e che caratteristiche hanno tali reati penali? Iniziamo col dire che una specifica condotta umana si qualifica come reato se lede o pone in pericolo il bene giuridico che la norma penale tende a proteggere. L'omicidio ad esempio è reato perché esiste una determinata norma che protegge la vita dei membri della comunità.
Quindi se una condotta offende il bene giuridico protetto dalla norma diventa reato penale.Il bene protetto dalla norma può essere offeso o tramite una effettiva lesione oppure mediante una sua messa in pericolo del bene cioè attraverso una lesione potenziale ma non concreta.Queste differenze ci fanno capire che i reati penali quindi si dividono in reati di danno in cui il bene giuridico viene leso e reati di pericolo in cui il bene viene potenzialmente minacciato. La categoria dei reati di pericolo è attualmente in continua espansione, la complessità e dinamicità delle relazioni umane infatti rende sempre florida e cangiante questa tipologia di potenziali lesioni.
I reati di pericolo, dal punto di vista meramente sistematico, possono distinguersi in tre categorie: 1) i reati di pericolo concreto: il pericolo deve esistere effetivamente e provato “di volta in volta” dall’Accusa affinchè il Giudice condanni l’incolpato. La difesa in tali casi dovrà indirizzarsi a contrastare l’accusa provando il difetto di concretezza del pericolo lamentato. 2) i reati di pericolo astratto: il pericolo si considera esistente a priori preso atto della natura del reato (ad esempio, il delitto di incendio di cosa altrui) ma l’accusato potrà difendersi provando al Giudice che – in quella precisa fattispecie che lo ha visto coinvolto – tale pericolo (che solitamente si realizza) non si è verificato. 3) i reati di pericolo presunto: in tale ipotesi l’esistenza del pericolo è “giuridicamente certa” e l’incolpato non potrà difendersi tentando di dimostrarne l’inesistenza ma, semmai, puntando a modificare/confutare altri aspetti della condotta/reato (è il caso, ad esempio, della detenzione illegale di armi: in tale caso l’ordinamento ritiene comunque pericolosa e, quindi, illegale la condotta e l’imputato non potrà difendersi provando di saper maneggiare le armi detenute senza permesso). In tutti e tre i casi, pur trattandosi di reati di pericolo, bisogna sottolineare che il Legislatore non è venuto meno al c.d. principio di offensività e le condotte non sono punite in quanto tali ma, comuque, poichè potenzialmente lesive di beni giuridici rilevanti e tali da realizzare un pericolo concreto anche secondo la comune esperienza.
Molto spesso sentiamo parlare della particolare categoria dei REATI DI PERICOLO. Di cosa si tratta e che caratteristiche hanno tali reati penali? Iniziamo col dire che una specifica condotta umana si qualifica come reato se lede o pone in pericolo il bene giuridico che la norma penale tende a proteggere. L'omicidio ad esempio è reato perché esiste una determinata norma che protegge la vita dei membri della comunità.
Quindi se una condotta offende il bene giuridico protetto dalla norma diventa reato penale.Il bene protetto dalla norma può essere offeso o tramite una effettiva lesione oppure mediante una sua messa in pericolo del bene cioè attraverso una lesione potenziale ma non concreta.Queste differenze ci fanno capire che i reati penali quindi si dividono in reati di danno in cui il bene giuridico viene leso e reati di pericolo in cui il bene viene potenzialmente minacciato. La categoria dei reati di pericolo è attualmente in continua espansione, la complessità e dinamicità delle relazioni umane infatti rende sempre florida e cangiante questa tipologia di potenziali lesioni.
I reati di pericolo, dal punto di vista meramente sistematico, possono distinguersi in tre categorie: 1) i reati di pericolo concreto: il pericolo deve esistere effetivamente e provato “di volta in volta” dall’Accusa affinchè il Giudice condanni l’incolpato. La difesa in tali casi dovrà indirizzarsi a contrastare l’accusa provando il difetto di concretezza del pericolo lamentato. 2) i reati di pericolo astratto: il pericolo si considera esistente a priori preso atto della natura del reato (ad esempio, il delitto di incendio di cosa altrui) ma l’accusato potrà difendersi provando al Giudice che – in quella precisa fattispecie che lo ha visto coinvolto – tale pericolo (che solitamente si realizza) non si è verificato. 3) i reati di pericolo presunto: in tale ipotesi l’esistenza del pericolo è “giuridicamente certa” e l’incolpato non potrà difendersi tentando di dimostrarne l’inesistenza ma, semmai, puntando a modificare/confutare altri aspetti della condotta/reato (è il caso, ad esempio, della detenzione illegale di armi: in tale caso l’ordinamento ritiene comunque pericolosa e, quindi, illegale la condotta e l’imputato non potrà difendersi provando di saper maneggiare le armi detenute senza permesso). In tutti e tre i casi, pur trattandosi di reati di pericolo, bisogna sottolineare che il Legislatore non è venuto meno al c.d. principio di offensività e le condotte non sono punite in quanto tali ma, comuque, poichè potenzialmente lesive di beni giuridici rilevanti e tali da realizzare un pericolo concreto anche secondo la comune esperienza.
Class Action. Struttura e funzionalità.
di Rossana De Lucia
Un' azione civile veloce e snella per aiutare il cittadino.
Ormai sono circa otto anni che il nostro ordinamento giuridico mette a disposizione di consumatori e non uno strumento ulteriore per far valere in giudizio i propri diritti: la class action o azione di classe, che è regolata dall'articolo 140-bis del Codice del Consumo.Capita molte volte che i consumatori rinunciano a far valere i propri diritti in giudizio, soprattutto qualora abbiano subito un danno di modesta entità, perché temono le spese da sostenere, e soprattutto la durata eccessiva della causa. Ogni volta che i diritti di una pluralità di consumatori sono stati lesi in modo identico dal comportamento di una impresa, i consumatori possono ora tentare la strada dell'azione collettiva, eventualmente dando il mandato ad un'associazione di tutela dei consumatori: un unico procedimento snello che impegna un unico tribunale, invece che tante azioni individuali separate, davanti a tanti giudici diversi.
L'azione è divenuta adoperabile il 1° gennaio 2010 ma può essere promossa soltanto contro illeciti commessi successivamente al 15 agosto 2009. Nello specifico trovano tutela con tale azione i seguenti diritti lesi: a) i diritti contrattuali, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati mediante moduli o formulari predisposti, che sono propri di una pluralità di consumatori e utenti i quali si trovano nei confronti di una stessa impresa in una situazione identica. b) i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale. c) i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Il giudice competente è generalmente il Tribunale del capoluogo della Regione dove ha sede l'impresa. Le uniche eccezioni riguardano le regioni di Marche, Umbria, Abruzzo e Molise per le quali è competente il Tribunale di Roma e per la Basilicata e la Calabria per le quali è competente il Tribunale di Napoli.
L'azione di classe deve superare un primo ostacolo ovvero l'esame di ammissibilità. Il Tribunale dichiara inammissibile la domanda quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi; quando i diritti individuali tutelabili non sono identici. Se il Tribunale giudica la domanda ammissibile, esso fissa i termini e le modalità della più opportuna pubblicità dell'azione, a spese del promotore, in modo che gli altri appartenenti alla classe ne possano venire al corrente e possano aderire. Se accoglie la domanda, il Tribunale condanna l'impresa e liquida le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all'azione oppure stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme. La sentenza ha efficacia e vincola non solo le parti in senso stretto, il proponente e l'impresa, ma produce i suoi effetti anche nei confronti degli aderenti.
Ormai sono circa otto anni che il nostro ordinamento giuridico mette a disposizione di consumatori e non uno strumento ulteriore per far valere in giudizio i propri diritti: la class action o azione di classe, che è regolata dall'articolo 140-bis del Codice del Consumo.Capita molte volte che i consumatori rinunciano a far valere i propri diritti in giudizio, soprattutto qualora abbiano subito un danno di modesta entità, perché temono le spese da sostenere, e soprattutto la durata eccessiva della causa. Ogni volta che i diritti di una pluralità di consumatori sono stati lesi in modo identico dal comportamento di una impresa, i consumatori possono ora tentare la strada dell'azione collettiva, eventualmente dando il mandato ad un'associazione di tutela dei consumatori: un unico procedimento snello che impegna un unico tribunale, invece che tante azioni individuali separate, davanti a tanti giudici diversi.
L'azione è divenuta adoperabile il 1° gennaio 2010 ma può essere promossa soltanto contro illeciti commessi successivamente al 15 agosto 2009. Nello specifico trovano tutela con tale azione i seguenti diritti lesi: a) i diritti contrattuali, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati mediante moduli o formulari predisposti, che sono propri di una pluralità di consumatori e utenti i quali si trovano nei confronti di una stessa impresa in una situazione identica. b) i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale. c) i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Il giudice competente è generalmente il Tribunale del capoluogo della Regione dove ha sede l'impresa. Le uniche eccezioni riguardano le regioni di Marche, Umbria, Abruzzo e Molise per le quali è competente il Tribunale di Roma e per la Basilicata e la Calabria per le quali è competente il Tribunale di Napoli.
L'azione di classe deve superare un primo ostacolo ovvero l'esame di ammissibilità. Il Tribunale dichiara inammissibile la domanda quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi; quando i diritti individuali tutelabili non sono identici. Se il Tribunale giudica la domanda ammissibile, esso fissa i termini e le modalità della più opportuna pubblicità dell'azione, a spese del promotore, in modo che gli altri appartenenti alla classe ne possano venire al corrente e possano aderire. Se accoglie la domanda, il Tribunale condanna l'impresa e liquida le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all'azione oppure stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme. La sentenza ha efficacia e vincola non solo le parti in senso stretto, il proponente e l'impresa, ma produce i suoi effetti anche nei confronti degli aderenti.
Legittima difesa.Un'arma a doppio taglio.
di Rossana De Lucia
Difendere legittimamente un proprio diritto non significa diritto di vendetta.
Oggi parliamo di un istituto del mondo giuridico penale molto noto, la legittima difesa (disciplinata dall'art. 52 del codice penale). Si tratta di una sorta di "autotutela" che l'ordinamento giuridico italiano consente nel caso in cui insorga un pericolo imminente (per sé o per altri) da cui è necessario difendersi e non ci sia la possibilità di rivolgersi all'autorità pubblica per ragioni di tempo e di luogo. Con ogni probabilità il legislatore ha voluto tenere conto di un'esigenza del tutto naturale che è legata all'istinto di reagire quando si viene aggrediti. Non bisogna però confondere la legittima difesa con la vendetta perché quest'ultima è una reazione che avviene dopo che la lesione è stata già provocata, al contrario possiamo parlare di legittima difesa quando si reagisce a una aggressione e tale reazione rappresenta l'unico rimedio possibile nell'immediato per evitare una offesa ingiusta.
I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un lato dall'insorgenza del pericolo (generalmente determinato da un'aggressione ingiusta) e da una reazione difensiva: l'aggressione ingiusta deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, può sfociare nella lesione di un diritto proprio o altrui (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge; la reazione legittima deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e deve sussistere comunque una proporzione tra difesa ed offesa. L'offesa ingiusta si concreta in una minaccia o in un'omissione contraria alle regole del diritto; la reazione difensiva si configura quale necessaria quando la difesa si risolve nell'unica scelta possibile, in base alle condizioni in cui si verifica l'offesa e alle reali alternative di salvaguardia a disposizione dell'aggredito; proporzionata è la difesa valutata non più in base al rapporto tra i mezzi disponibili e quelli effettivamente usati, ma alla stregua dei beni in gioco e dei disvalori delle condotte poste in essere.
Si parla di eccesso colposo di legittima difesa a fronte di una reazione di difesa eccessiva: non c'è volontà di commettere un reato ma viene meno il requisito della proporzionalità tra difesa ed offesa configurandosi un'errata valutazione colposa della reazione difensiva. La norma di riferimento nell'articolo 55 c.p. L'onere della prova incombe sul soggetto che ha difeso il diritto proprio o altrui e che dovrà indicare i fatti e le circostanze dai quali si evince l'esistenza della scriminante. La valutazione è rimessa al libero convincimento del giudice che terrà conto di un ragionevole complesso di circostanze oggettive: l'esistenza di un pericolo attuale o di un'offesa ingiusta; i mezzi di reazione a disposizione dell'aggredito e il modo in cui ne ha fatto uso; il contemperamento tra l'importanza del bene minacciato dall'aggressore e del bene leso da chi reagisce.
Oggi parliamo di un istituto del mondo giuridico penale molto noto, la legittima difesa (disciplinata dall'art. 52 del codice penale). Si tratta di una sorta di "autotutela" che l'ordinamento giuridico italiano consente nel caso in cui insorga un pericolo imminente (per sé o per altri) da cui è necessario difendersi e non ci sia la possibilità di rivolgersi all'autorità pubblica per ragioni di tempo e di luogo. Con ogni probabilità il legislatore ha voluto tenere conto di un'esigenza del tutto naturale che è legata all'istinto di reagire quando si viene aggrediti. Non bisogna però confondere la legittima difesa con la vendetta perché quest'ultima è una reazione che avviene dopo che la lesione è stata già provocata, al contrario possiamo parlare di legittima difesa quando si reagisce a una aggressione e tale reazione rappresenta l'unico rimedio possibile nell'immediato per evitare una offesa ingiusta.
I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un lato dall'insorgenza del pericolo (generalmente determinato da un'aggressione ingiusta) e da una reazione difensiva: l'aggressione ingiusta deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, può sfociare nella lesione di un diritto proprio o altrui (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge; la reazione legittima deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e deve sussistere comunque una proporzione tra difesa ed offesa. L'offesa ingiusta si concreta in una minaccia o in un'omissione contraria alle regole del diritto; la reazione difensiva si configura quale necessaria quando la difesa si risolve nell'unica scelta possibile, in base alle condizioni in cui si verifica l'offesa e alle reali alternative di salvaguardia a disposizione dell'aggredito; proporzionata è la difesa valutata non più in base al rapporto tra i mezzi disponibili e quelli effettivamente usati, ma alla stregua dei beni in gioco e dei disvalori delle condotte poste in essere.
Si parla di eccesso colposo di legittima difesa a fronte di una reazione di difesa eccessiva: non c'è volontà di commettere un reato ma viene meno il requisito della proporzionalità tra difesa ed offesa configurandosi un'errata valutazione colposa della reazione difensiva. La norma di riferimento nell'articolo 55 c.p. L'onere della prova incombe sul soggetto che ha difeso il diritto proprio o altrui e che dovrà indicare i fatti e le circostanze dai quali si evince l'esistenza della scriminante. La valutazione è rimessa al libero convincimento del giudice che terrà conto di un ragionevole complesso di circostanze oggettive: l'esistenza di un pericolo attuale o di un'offesa ingiusta; i mezzi di reazione a disposizione dell'aggredito e il modo in cui ne ha fatto uso; il contemperamento tra l'importanza del bene minacciato dall'aggressore e del bene leso da chi reagisce.
Reati ambientali.Ecco una legge seria.
di Rossana De Lucia
Maggiore sensibilità in Italia sul tema ambientale.
Il nostro paese finalmente si è dotato di una rigida normativa a tutela dell'ambiente.La Legge 22 maggio 2015, n. 68 ha introdotto una grande riforma sul tema dei reati ambientali con l’obiettivo di garantire un netto salto di qualità nella protezione della salute e dei beni naturali. Il provvedimento introduce nel codice penale un nuovo titolo dedicato ai “Delitti contro l’ambiente” all'interno del quale sono previste le nuove fattispecie di: inquinamento ambientale; disastro ambientale; traffico ed abbandono di materiale radioattivo; impedimento di controllo; omessa bonifica. Inquinamento ambientale e disastro ambientale rappresentano i cardini del sistema e risultano puniti rispettivamente con pene detentive che vanno da un minimo di 2 ad un massimo di 6 anni l’inquinamento, mentre il disastro sanziona la condotta tipica con la reclusione da 5 a 15 anni.
Prevista inoltre la pena accessoria della incapacità di contrattare con la P.a. per le fattispecie di: inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico ed abbandono di materiale radioattivo, impedimento di controllo e traffico illecito di rifiuti (quest’ultimo già previsto all'interno del Codice dell’Ambiente). Si interviene anche sui termini prescrizionali i quali subiscono un allungamento in relazione all'aggravarsi della fattispecie. Introdotta la confisca obbligatoria, anche per equivalente, delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto del reato o che servirono a commetterlo, anche per il delitto di traffico illecito di rifiuti. Per taluni illeciti quali il disastro ambientale, l’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e per l’ipotesi aggravata di associazione per delinquere, la nuova legge introduce anche la confisca quale misura di prevenzione dei valori ingiustificati o sproporzionati rispetto al proprio reddito.
Significativo infine l’intervento in tema di ravvedimento operoso. Quest’ultimo, originariamente previsto come causa di non punibilità, ad oggi opera come circostanza di attenuazione della pena - dalla metà a due terzi, ovvero da un terzo alla metà - in favore di chi, rispettivamente, prima della dichiarazione di apertura di apertura del dibattimento di primo grado, eviti che l'attività illecita sia portata a conseguenze ulteriori, provveda alla messa in sicurezza, alla bonifica o al ripristino dello stato dei luoghi; ovvero collabori concretamente con l'Autorità di Polizia o Giudiziaria alla ricostruzione dei fatti e all'individuazione dei colpevoli.
Il nostro paese finalmente si è dotato di una rigida normativa a tutela dell'ambiente.La Legge 22 maggio 2015, n. 68 ha introdotto una grande riforma sul tema dei reati ambientali con l’obiettivo di garantire un netto salto di qualità nella protezione della salute e dei beni naturali. Il provvedimento introduce nel codice penale un nuovo titolo dedicato ai “Delitti contro l’ambiente” all'interno del quale sono previste le nuove fattispecie di: inquinamento ambientale; disastro ambientale; traffico ed abbandono di materiale radioattivo; impedimento di controllo; omessa bonifica. Inquinamento ambientale e disastro ambientale rappresentano i cardini del sistema e risultano puniti rispettivamente con pene detentive che vanno da un minimo di 2 ad un massimo di 6 anni l’inquinamento, mentre il disastro sanziona la condotta tipica con la reclusione da 5 a 15 anni.
Prevista inoltre la pena accessoria della incapacità di contrattare con la P.a. per le fattispecie di: inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico ed abbandono di materiale radioattivo, impedimento di controllo e traffico illecito di rifiuti (quest’ultimo già previsto all'interno del Codice dell’Ambiente). Si interviene anche sui termini prescrizionali i quali subiscono un allungamento in relazione all'aggravarsi della fattispecie. Introdotta la confisca obbligatoria, anche per equivalente, delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto del reato o che servirono a commetterlo, anche per il delitto di traffico illecito di rifiuti. Per taluni illeciti quali il disastro ambientale, l’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e per l’ipotesi aggravata di associazione per delinquere, la nuova legge introduce anche la confisca quale misura di prevenzione dei valori ingiustificati o sproporzionati rispetto al proprio reddito.
Significativo infine l’intervento in tema di ravvedimento operoso. Quest’ultimo, originariamente previsto come causa di non punibilità, ad oggi opera come circostanza di attenuazione della pena - dalla metà a due terzi, ovvero da un terzo alla metà - in favore di chi, rispettivamente, prima della dichiarazione di apertura di apertura del dibattimento di primo grado, eviti che l'attività illecita sia portata a conseguenze ulteriori, provveda alla messa in sicurezza, alla bonifica o al ripristino dello stato dei luoghi; ovvero collabori concretamente con l'Autorità di Polizia o Giudiziaria alla ricostruzione dei fatti e all'individuazione dei colpevoli.
Frode alimentare.Facciamo chiarezza.
di Rossana De Lucia
Un reato penale di grande impatto sulla salute di tutti.
Quando parliamo di industria alimentare bisogna tenere in considerazione quattro attività di importanza reciproca ovvero l’attività primaria, come l’agricoltura e l’allevamento, da cui prendono origine le materie prime; l’attività industriale la quale assiste la produzione della materia prima; l’attività dei processi di trasformazione e trattamento e, infine, quella della distribuzione ed erogazione. Il rischio principale che può concretizzarsi ai danni dei consumatori consiste nell’ “adulterazione”, che si sostanzia nella modifica della composizione analitica del prodotto, nella “sofisticazione”, cioè l’aggiunta di sostanze estranee all’alimento, come ad esempio l’aggiunta di metanolo nel vino, nonché nella “contraffazione” che si concreta nella sostituzione di una sostanza alimentare con un’altra, con conseguente inganno del consumatore.
Nell’ordinamento giuridico italiano esiste una serie di norme, di rango nazionale e comunitario, le quali sono poste a tutela degli interessi collettivi in materia di salubrità alimentare, assicurando i consumatori contro frodi e pericoli e, quindi, ponendo l’attenzione sulla produzione e gli scambi delle sostanze alimentari, sulla genuinità dei prodotti alimentari e sulla trasparenza della loro composizione. Importante ricordare inoltre il Regolamento comunitario n. 178 del 2002, in vigore dal 1° gennaio 2005, che disciplina la c.d. “rintracciabilità”, e più precisamente la possibilità di ricostruire l’iter di un prodotto alimentare dalla produzione alla commercializzazione nella finalità di arrestare la catena di produzione e distribuzione qualora si riveli dannoso ovvero rischioso per la salute.
Due direttive comunitarie hanno disciplinato prescrizioni igieniche per qualunque settore alimentare e per qualsiasi prodotto, introducendo per tutte le imprese alimentari le procedure di autocontrollo secondo il metodo HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point), nonché hanno affidato agli organi istituzionali il compito di vigilare che le aziende introducano sul mercato prodotti sicuri per la salute degli utenti. La normativa ha designato anche organi deputati al controllo, quali il Ministero della Salute, le Regioni e Province autonome, le ASL e i NAS, per assicurare la conformità dei prodotti alle norme, difendere gli interessi dei consumatori e garantire gli scambi commerciali.
Quando parliamo di industria alimentare bisogna tenere in considerazione quattro attività di importanza reciproca ovvero l’attività primaria, come l’agricoltura e l’allevamento, da cui prendono origine le materie prime; l’attività industriale la quale assiste la produzione della materia prima; l’attività dei processi di trasformazione e trattamento e, infine, quella della distribuzione ed erogazione. Il rischio principale che può concretizzarsi ai danni dei consumatori consiste nell’ “adulterazione”, che si sostanzia nella modifica della composizione analitica del prodotto, nella “sofisticazione”, cioè l’aggiunta di sostanze estranee all’alimento, come ad esempio l’aggiunta di metanolo nel vino, nonché nella “contraffazione” che si concreta nella sostituzione di una sostanza alimentare con un’altra, con conseguente inganno del consumatore.
Nell’ordinamento giuridico italiano esiste una serie di norme, di rango nazionale e comunitario, le quali sono poste a tutela degli interessi collettivi in materia di salubrità alimentare, assicurando i consumatori contro frodi e pericoli e, quindi, ponendo l’attenzione sulla produzione e gli scambi delle sostanze alimentari, sulla genuinità dei prodotti alimentari e sulla trasparenza della loro composizione. Importante ricordare inoltre il Regolamento comunitario n. 178 del 2002, in vigore dal 1° gennaio 2005, che disciplina la c.d. “rintracciabilità”, e più precisamente la possibilità di ricostruire l’iter di un prodotto alimentare dalla produzione alla commercializzazione nella finalità di arrestare la catena di produzione e distribuzione qualora si riveli dannoso ovvero rischioso per la salute.
Due direttive comunitarie hanno disciplinato prescrizioni igieniche per qualunque settore alimentare e per qualsiasi prodotto, introducendo per tutte le imprese alimentari le procedure di autocontrollo secondo il metodo HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point), nonché hanno affidato agli organi istituzionali il compito di vigilare che le aziende introducano sul mercato prodotti sicuri per la salute degli utenti. La normativa ha designato anche organi deputati al controllo, quali il Ministero della Salute, le Regioni e Province autonome, le ASL e i NAS, per assicurare la conformità dei prodotti alle norme, difendere gli interessi dei consumatori e garantire gli scambi commerciali.
Le SRL - Caratteristiche e struttura.
di Rossana De Lucia
Una forma societaria più dinamica e semplce.
La Società a Responsabilità Limitata nasce per dare la possibilità di creare una forma molto più semplice e snella di società di capitali rispetto alla S.p.a. e, di regola, di dimensioni minori.Bastano infatti come afferma l'art. 2463 comma 2 n. 4 del c.c. diecimila euro per poter creare il capitale sociale iniziale per costituirla contro i cinquantamila euro della società per azioni.La recente riforma ha profondamente inciso sulla S.r.l. che cessa di presentarsi come una piccola società per azioni. Essa infatti ora si tramuta in una sorta di società personale che, pur godendo del beneficio della responsabilità limitata, può essere sottratta alle rigidità di disciplina richieste per la società per azioni.Queste novità normative non devono spingerci a credereche la S.r.l. non sia più una società di capitali e sia divenuta una società di persone, perché per la normativa applicabile (pensiamo alle norme sullo scioglimento delle società di capitali applicabili anche alle S.r.l.) e per il regime della responsabilità dei soci rimane pur sempre una società di capitali.
La S.r.l. è società di capitali, quindi, ma nella quale la legge da un' importanza maggiore alle persone dei soci rispetto alle altre società di capitali.Questa tipologia di società ha senza dubbio una disciplina meno rigida rispetto alla S.p.a. ma a prima vista potebbe sembrarci una frase non veritiera poiché vi ritroviamo gli organi della S.p.a. ( escluso il collegio sindacale che è obbligatorio solo nei casi previsti dall'art. 2477) con funzioni analoghe.In realtà nella S.r.l. è concessa una notevole autonomia statutaria che può in gran parte derogare la disciplina legislativa.In primo luogo non esiste la rigida ripartizione di competenze tra l'organo amministrativo e l'assemblea. I soci potrebbero, quindi, riservarsi alcuni compiti che ineriscono alla gestione della società, e, secondo la dottrina dominante, potrebbero anche non avere dei veri e propri amministratori, affidando così l'amministrazione della società ai soci sul modello delle società di persone, ma questo però solo se lo statuto lo preveda.D'altro canto l'atto costitutivo potrebbe anche prevedere, oltre che un allargamento, una limitazione delle tradizionali competenze dei soci, pur nel rispetto del limite stabilito dall'art. 2479 c.c.
Un'altra importante semplificazione rispetto alla S.p.a. riguarda il metodo collegiale.Questo può essere derogato dall'atto costitutivo. Si può stabilire, infatti, che le decisioni dei soci siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto, senza convocazione dell'assemblea, anche se per alcune decisioni ( ad es. la modifica dell'atto costitutivo e dell'oggetto sociale) sarà necessario convocare comunque l'assemblea.Infine nella S.r.l. l'art. 2473 c.c. prevede le ipotesi in cui è possibile il recesso da parte del socio.Oltre queste ipotesi il recesso è sempre consentito se la società sia a tempo indeterminato, ma con un preavviso di almeno sei mesi, salvo che l'atto costitutivo non preveda un preavviso più lungo ma, comunque, non superiore ad un anno.Perfezionato il recesso, al socio spetterà la liquidazione della sua quota; questa sarà liquidata in riferimento al valore di mercato che aveva al momento in cui è stato esercitato il recesso. Tale valore sarà, di regola, determinato dagli amministratori, ma in caso di disaccordo con il socio, sarà necessario nominare un perito da parte del presidente del tribunale.La liquidazione avverrà entro sei mesi dalla data della comunicazione del recesso alla società, ma la quota non potrà essere acquistata dalla società, che non può compiere operazioni sulle proprie quote, ma dagli altri soci e, solo se tutti i soci vi consentano, da estranei alla società.
La Società a Responsabilità Limitata nasce per dare la possibilità di creare una forma molto più semplice e snella di società di capitali rispetto alla S.p.a. e, di regola, di dimensioni minori.Bastano infatti come afferma l'art. 2463 comma 2 n. 4 del c.c. diecimila euro per poter creare il capitale sociale iniziale per costituirla contro i cinquantamila euro della società per azioni.La recente riforma ha profondamente inciso sulla S.r.l. che cessa di presentarsi come una piccola società per azioni. Essa infatti ora si tramuta in una sorta di società personale che, pur godendo del beneficio della responsabilità limitata, può essere sottratta alle rigidità di disciplina richieste per la società per azioni.Queste novità normative non devono spingerci a credereche la S.r.l. non sia più una società di capitali e sia divenuta una società di persone, perché per la normativa applicabile (pensiamo alle norme sullo scioglimento delle società di capitali applicabili anche alle S.r.l.) e per il regime della responsabilità dei soci rimane pur sempre una società di capitali.
La S.r.l. è società di capitali, quindi, ma nella quale la legge da un' importanza maggiore alle persone dei soci rispetto alle altre società di capitali.Questa tipologia di società ha senza dubbio una disciplina meno rigida rispetto alla S.p.a. ma a prima vista potebbe sembrarci una frase non veritiera poiché vi ritroviamo gli organi della S.p.a. ( escluso il collegio sindacale che è obbligatorio solo nei casi previsti dall'art. 2477) con funzioni analoghe.In realtà nella S.r.l. è concessa una notevole autonomia statutaria che può in gran parte derogare la disciplina legislativa.In primo luogo non esiste la rigida ripartizione di competenze tra l'organo amministrativo e l'assemblea. I soci potrebbero, quindi, riservarsi alcuni compiti che ineriscono alla gestione della società, e, secondo la dottrina dominante, potrebbero anche non avere dei veri e propri amministratori, affidando così l'amministrazione della società ai soci sul modello delle società di persone, ma questo però solo se lo statuto lo preveda.D'altro canto l'atto costitutivo potrebbe anche prevedere, oltre che un allargamento, una limitazione delle tradizionali competenze dei soci, pur nel rispetto del limite stabilito dall'art. 2479 c.c.
Un'altra importante semplificazione rispetto alla S.p.a. riguarda il metodo collegiale.Questo può essere derogato dall'atto costitutivo. Si può stabilire, infatti, che le decisioni dei soci siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto, senza convocazione dell'assemblea, anche se per alcune decisioni ( ad es. la modifica dell'atto costitutivo e dell'oggetto sociale) sarà necessario convocare comunque l'assemblea.Infine nella S.r.l. l'art. 2473 c.c. prevede le ipotesi in cui è possibile il recesso da parte del socio.Oltre queste ipotesi il recesso è sempre consentito se la società sia a tempo indeterminato, ma con un preavviso di almeno sei mesi, salvo che l'atto costitutivo non preveda un preavviso più lungo ma, comunque, non superiore ad un anno.Perfezionato il recesso, al socio spetterà la liquidazione della sua quota; questa sarà liquidata in riferimento al valore di mercato che aveva al momento in cui è stato esercitato il recesso. Tale valore sarà, di regola, determinato dagli amministratori, ma in caso di disaccordo con il socio, sarà necessario nominare un perito da parte del presidente del tribunale.La liquidazione avverrà entro sei mesi dalla data della comunicazione del recesso alla società, ma la quota non potrà essere acquistata dalla società, che non può compiere operazioni sulle proprie quote, ma dagli altri soci e, solo se tutti i soci vi consentano, da estranei alla società.
Decreto ingiuntivo.Rapidità ed efficacia.
di Rossana De Lucia
Soddisfare il proprio credito in modo veloce è possibile.
Tizio ha stipulato un contrato con Caio ma non ha mai ricevuto in cambio della sua prestazione la somma di denaro pattuita.Come fare per vedere realizzato il suo diritto e imporre a Caio il pagamento delle sue spettanze senza infilarsi nelle lungaggini di un processo civile troppo formale e burocratico?
La legge mette a disposizione del creditore l'istituto del decreto ingiuntivo disciplinato dall'art. 633 del c.p.c.In particolare è necessario, per poter utilizzare tale strumento, che il creditore possegga un diritto di credito inesausto, necessariamente fungibile, esigibile e costituente una somma. Il credito inoltre deve essere certo e determinato. Questo non significa che possano essere richieste soltanto somme di denaro, potendo essere richiesta qualsiasi prestazione di dare purché certa, accertabile ed esigibile. Inoltre deve essere prodotta nel ricorso prova certa e scritta del credito vantato. La prova, non essendoci contraddittorio, non sarà comunque prova legale e sarà oggetto di libero apprezzamento del giudice. Si richiede la prova scritta perché il carattere sommario e spedito del procedimento necessitano un'alta probabilità di quanto si chiede.Il decreto ingiuntivo non e' una sentenza ne' va confuso con essa.
E' solo un potente strumento di riscossione che il creditore puo' ottenere ed utilizzare solo per far valere diritti (riscossione o consegna di una cosa) opportunamente documentati. Tutte le questioni collegate a tale credito possono essere prese in considerazione dal giudice solo in sede di opposizione al decreto, quindi nella causa di opposizione che terminera' con l'emissione di una sentenza.La richiesta di ingiunzione va presentata presso il tribunale o l'ufficio del giudice di pace competenti per territorio e per valore. Ricordiamo, in proposito, che il giudice di pace e' competente per ricorsi in materia civile fino a 5.000 euro.Se il giudice rigetta la domanda -ritenendola insufficientemente giustificata- lo comunica al ricorrente tramite cancelliere, richiedendogli di presentare ulteriori prove, in assenza delle quali -cosi' come se non si ritira il ricorso o se la domanda non e' accoglibile- il giudice respingera' la domanda con decreto motivato.L'opposizione puo' essere fatta nello stesso ufficio da cui proviene il decreto, presentando atto di citazione da notificare al domicilio della controparte tramite ufficiale giudiziario che, a sua volta, deve notificare l'avviso dell'opposizione al cancelliere, perche' lo annoti sull'originale del decreto.
Cio' entro il termine fissato nel decreto, che di solito e' di 40 giorni.Se l'opposizione viene rigettata con sentenza passata in giudicato -o provvisoriamente esecutiva il decreto acquista efficacia esecutiva.Il Regolamento n.1896/2006 ha introdotto l'ingiunzione di pagamento europea, che si puo' applicare a tutte le controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale. Sono esclusi i settori fiscale, doganale, amministrativo, della sicurezza sociale, del regime patrimoniale tra coniugi, i testamenti, le successioni, i fallimenti e i concordati.La domanda (su modulo allegato al regolamento) va presentata nelle modalita' (anche telematiche) previste dallo Stato di presentazione. Per l'Italia, gli organi competenti sono gli stessi del decreto ingiuntivo (Giudice di pace o Tribunale).
Tizio ha stipulato un contrato con Caio ma non ha mai ricevuto in cambio della sua prestazione la somma di denaro pattuita.Come fare per vedere realizzato il suo diritto e imporre a Caio il pagamento delle sue spettanze senza infilarsi nelle lungaggini di un processo civile troppo formale e burocratico?
La legge mette a disposizione del creditore l'istituto del decreto ingiuntivo disciplinato dall'art. 633 del c.p.c.In particolare è necessario, per poter utilizzare tale strumento, che il creditore possegga un diritto di credito inesausto, necessariamente fungibile, esigibile e costituente una somma. Il credito inoltre deve essere certo e determinato. Questo non significa che possano essere richieste soltanto somme di denaro, potendo essere richiesta qualsiasi prestazione di dare purché certa, accertabile ed esigibile. Inoltre deve essere prodotta nel ricorso prova certa e scritta del credito vantato. La prova, non essendoci contraddittorio, non sarà comunque prova legale e sarà oggetto di libero apprezzamento del giudice. Si richiede la prova scritta perché il carattere sommario e spedito del procedimento necessitano un'alta probabilità di quanto si chiede.Il decreto ingiuntivo non e' una sentenza ne' va confuso con essa.
E' solo un potente strumento di riscossione che il creditore puo' ottenere ed utilizzare solo per far valere diritti (riscossione o consegna di una cosa) opportunamente documentati. Tutte le questioni collegate a tale credito possono essere prese in considerazione dal giudice solo in sede di opposizione al decreto, quindi nella causa di opposizione che terminera' con l'emissione di una sentenza.La richiesta di ingiunzione va presentata presso il tribunale o l'ufficio del giudice di pace competenti per territorio e per valore. Ricordiamo, in proposito, che il giudice di pace e' competente per ricorsi in materia civile fino a 5.000 euro.Se il giudice rigetta la domanda -ritenendola insufficientemente giustificata- lo comunica al ricorrente tramite cancelliere, richiedendogli di presentare ulteriori prove, in assenza delle quali -cosi' come se non si ritira il ricorso o se la domanda non e' accoglibile- il giudice respingera' la domanda con decreto motivato.L'opposizione puo' essere fatta nello stesso ufficio da cui proviene il decreto, presentando atto di citazione da notificare al domicilio della controparte tramite ufficiale giudiziario che, a sua volta, deve notificare l'avviso dell'opposizione al cancelliere, perche' lo annoti sull'originale del decreto.
Cio' entro il termine fissato nel decreto, che di solito e' di 40 giorni.Se l'opposizione viene rigettata con sentenza passata in giudicato -o provvisoriamente esecutiva il decreto acquista efficacia esecutiva.Il Regolamento n.1896/2006 ha introdotto l'ingiunzione di pagamento europea, che si puo' applicare a tutte le controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale. Sono esclusi i settori fiscale, doganale, amministrativo, della sicurezza sociale, del regime patrimoniale tra coniugi, i testamenti, le successioni, i fallimenti e i concordati.La domanda (su modulo allegato al regolamento) va presentata nelle modalita' (anche telematiche) previste dallo Stato di presentazione. Per l'Italia, gli organi competenti sono gli stessi del decreto ingiuntivo (Giudice di pace o Tribunale).
La Responsabilità contrattuale nel diritto.
di Rossana De Lucia
Percorso teorico nel complesso mondo della responsabilità giuridica.
CARATTERISTICHE - L'ordinamento giuridico italiano prevede due tipologie diverse di responsabilità civile: una di definita contrattuale che sorge dalla violazione di un obbligo di contratto (art. 1218 c.c.), un'altra extracontrattuale o detta anche aquiliana per violazione del famoso principio del neminem laedere (art. 2043 c.c.). Gran parte della dottrina attuale spesso ritiene che esistano zone di collegamento e fusione fra i due tipi di responsabilità,ovvero si parla di una configurabilità e di un concorso delle due responsabilità.Ma in realtà le due forme differiscono in ordine a diversi profili (capacità del soggetto agente; onere della prova; termine di prescrizione) essendo fondate su presupposti diversi. A differenza della responsabilità aquiliana che non prevede alla sua base alcun rapporto di tipo obbligatorio (negoziale o legale), tra danneggiato o danneggiante, ma soltanto la violazione del generale dovere del neminem laedere, quella contrattuale nasce proprio dalla violazione di uno specifico dovere, proveniente da un preesistente vincolo obbligatorio rimasto inadempiuto.
ONERE DELLA PROVA - Basandoci su principi generali la responsabilità contrattuale è disciplinata dall'art. 1218 c.c., il quale dispone espressamente che "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il suo ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile". La norma, mira direttamente a garantire la tutela sostanziale della posizione creditoria, ma va incontro a dei temperamenti, frutto del coordinamento, in primis, con la disposizione di cui all'art. 1176 c.c. in materia di diligenza nell'adempimento dell'obbligazione, in conseguenza della quale, il debitore che, nonostante abbia agito con la diligenza richiesta, non abbia potuto adempiere all'obbligazione, sarà comunque esonerato dalla responsabilità risarcitoria.Nella responsabilità contrattuale, in ragione di una "ingiustizia" del danno in re ipsa, causato dall'inadempimento (da parte del debitore di una prestazione alla quale si era precedentemente vincolato) sanzionato a prescindere dalla verifica della sussistenza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa, si assiste ad una inversione dell'onere probatorio.Ovvero il creditore deve dimostrare solo l'esistenza del suo diritto mentre è onere del debitore dimostrare la sua non responsabilità sull'inadempimento.
IL RISARCIMENTO DEL DANNO - L'art. 1223 c.c., descrive il risarcimento del danno dovuto all'inadempimento o al ritardo e comprende sia la perdita subita dal creditore (danno emergente) che il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (nesso di causalità tra l'inadempimento e il danno). Diversamente dalla responsabilità extracontrattuale in cui ad essere risarcibili sono tutti i danni, prevedibili o non prevedibili, nella responsabilità contrattuale, ove l'inadempimento o il ritardo non abbiano natura dolosa, il risarcimento è limitato al solo danno prevedibile al tempo in cui è sorta l'obbligazione (art. 1225 c.c.). A differenza del risarcimento del danno da illecito extracontrattuale soggetto alla prescrizione breve di cui all'art. 2947 c.c., all'illecito contrattuale si applica l'art. 2946 c.c. che prevede il termine ordinario di decorrenza decennale, tranne alcuneforme contrattuali che invece possono anche stabilire periodi di prescrizione diversi ma mai superiore al termine di dieci anni.
CARATTERISTICHE - L'ordinamento giuridico italiano prevede due tipologie diverse di responsabilità civile: una di definita contrattuale che sorge dalla violazione di un obbligo di contratto (art. 1218 c.c.), un'altra extracontrattuale o detta anche aquiliana per violazione del famoso principio del neminem laedere (art. 2043 c.c.). Gran parte della dottrina attuale spesso ritiene che esistano zone di collegamento e fusione fra i due tipi di responsabilità,ovvero si parla di una configurabilità e di un concorso delle due responsabilità.Ma in realtà le due forme differiscono in ordine a diversi profili (capacità del soggetto agente; onere della prova; termine di prescrizione) essendo fondate su presupposti diversi. A differenza della responsabilità aquiliana che non prevede alla sua base alcun rapporto di tipo obbligatorio (negoziale o legale), tra danneggiato o danneggiante, ma soltanto la violazione del generale dovere del neminem laedere, quella contrattuale nasce proprio dalla violazione di uno specifico dovere, proveniente da un preesistente vincolo obbligatorio rimasto inadempiuto.
ONERE DELLA PROVA - Basandoci su principi generali la responsabilità contrattuale è disciplinata dall'art. 1218 c.c., il quale dispone espressamente che "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il suo ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile". La norma, mira direttamente a garantire la tutela sostanziale della posizione creditoria, ma va incontro a dei temperamenti, frutto del coordinamento, in primis, con la disposizione di cui all'art. 1176 c.c. in materia di diligenza nell'adempimento dell'obbligazione, in conseguenza della quale, il debitore che, nonostante abbia agito con la diligenza richiesta, non abbia potuto adempiere all'obbligazione, sarà comunque esonerato dalla responsabilità risarcitoria.Nella responsabilità contrattuale, in ragione di una "ingiustizia" del danno in re ipsa, causato dall'inadempimento (da parte del debitore di una prestazione alla quale si era precedentemente vincolato) sanzionato a prescindere dalla verifica della sussistenza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa, si assiste ad una inversione dell'onere probatorio.Ovvero il creditore deve dimostrare solo l'esistenza del suo diritto mentre è onere del debitore dimostrare la sua non responsabilità sull'inadempimento.
IL RISARCIMENTO DEL DANNO - L'art. 1223 c.c., descrive il risarcimento del danno dovuto all'inadempimento o al ritardo e comprende sia la perdita subita dal creditore (danno emergente) che il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (nesso di causalità tra l'inadempimento e il danno). Diversamente dalla responsabilità extracontrattuale in cui ad essere risarcibili sono tutti i danni, prevedibili o non prevedibili, nella responsabilità contrattuale, ove l'inadempimento o il ritardo non abbiano natura dolosa, il risarcimento è limitato al solo danno prevedibile al tempo in cui è sorta l'obbligazione (art. 1225 c.c.). A differenza del risarcimento del danno da illecito extracontrattuale soggetto alla prescrizione breve di cui all'art. 2947 c.c., all'illecito contrattuale si applica l'art. 2946 c.c. che prevede il termine ordinario di decorrenza decennale, tranne alcuneforme contrattuali che invece possono anche stabilire periodi di prescrizione diversi ma mai superiore al termine di dieci anni.
Il Diritto di Proprietà.Caratteri e limitazioni.
di Rossana De Lucia
Peculiarità di un diritto antichissimo ma sempre attuale.
Il diritto di proprietà è uno dei più importanti diritti della sfera giuridica civile e soddisfa il basilare bisogno dell'uomo di avere spazi liberi in cui essere se stesso. Questo spazio è fatto di luoghi e di cose dove viene esercitato il proprio dominio senza entrare in contatto con altri soggetti senza dividere nulla con essi.Nell'antichità il dominus aveva diritto di proprietà assoluta su luoghi,cose e anche persone altre volte in una forma più attenuata dai vincoli imposti da ordinamenti giuridici evoluti.La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e renderla accessibile a tutti.La proprietà privata però può essere, nei casi espressamente previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.La legge stabilisce le norme e i limiti della successione legittima e testamentaria e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità. La proprietà non può certo definirsi una forma di sovranità sui beni, ma è un diritto che deve con armonia collimare col contesto sociale e non contrastare con esso. Per il proprietario vi saranno, quindi, non solo diritti e facoltà ma anche espressi doveri, che tramuteranno il diritto di proprietà non solo in qualcosa di utile per il proprietario, ma anche per la società. Questa è la cosiddetta funzione sociale della proprietà prevista dalla stessa Costituzione che riconosce e determina la funzione del diritto di proprietà, ma è importante ricordare che è pur sempre l'art. 832 del codice civile che ne definisce il contenuto.
LIMITI DELLA PROPRIETA' - Nella definizione dell'art. 832 si deduce che le facoltà attraverso le quali si esplica il diritto di proprietà sono fondamentalmente illimitate.Per tale ragione la legge indica solo i limiti del diritto di proprietà, piuttosto che elencarne le facoltà, con l'ovvia conseguenza che il proprietario può fare del suo diritto e della cosa che ne è oggetto ciò che vuole, ma questa illimitata signoria del suo volere trova il confine nei limiti imposti dalla legge. Questi limiti sono previsti sia nel codice civile che nelle leggi speciali, e spesso comprimono in maniera rilevante il diritto di proprietà (basti ricordare i divieti di edificare in zone di interesse paesaggistico o archeologico). Focalizzandoci sui soli limiti che emergono dal codice civile,le limitazioni cui va incontro il proprietario, soprattutto il proprietario di immobili o fondi, sono fondamentalmente di due categorie:limiti imposti per ragioni di pubblico interesse; limiti imposti per salvaguardare i concorrenti diritti di altri soggetti privati.
TUTELA DELLA PROPRIETA' - Il diritto alla proprietà può essere poi oggetto di lesioni per cui il codice civile prevede diversi tipi di azione a seconda della turbativa subita dal proprietario, azioni lunghe e complicate che, pur garantendo la definitività del provvedimento del giudice, proprio per la loro complessità spesso finiscono con il non essere a garantire rapidamente le ragioni del proprietario.Il legislatore si è accorto del problema e ha previsto accanto alle azioni a difesa della proprietà, altre azioni che tutelano non tanto la proprietà, ma quella minore situazione chiamata possesso (art. 1140), che è una situazione di fatto che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale.Come è semplice capire però le azioni a tutela del possesso possono fornire solo una tutela temporanea, perché bisognerà pur sempre accertare se il possesso sia conforme alla situazione giuridica che presuppone. Tenendo bene a mente quanto detto sopra, distinguiamo due tipi di azioni:azioni possessorie (assicurano una tutela rapida al possessore ma provvisoria perché si potrà poi accertare se il possesso sia giustificato anche nella titolarità di un diritto reale); azioni petitorie (sono le azioni a difesa della proprietà, lunghe e complesse, assicurano un accertamento definitivo della posizione del proprietario).
Il diritto di proprietà è uno dei più importanti diritti della sfera giuridica civile e soddisfa il basilare bisogno dell'uomo di avere spazi liberi in cui essere se stesso. Questo spazio è fatto di luoghi e di cose dove viene esercitato il proprio dominio senza entrare in contatto con altri soggetti senza dividere nulla con essi.Nell'antichità il dominus aveva diritto di proprietà assoluta su luoghi,cose e anche persone altre volte in una forma più attenuata dai vincoli imposti da ordinamenti giuridici evoluti.La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e renderla accessibile a tutti.La proprietà privata però può essere, nei casi espressamente previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.La legge stabilisce le norme e i limiti della successione legittima e testamentaria e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità. La proprietà non può certo definirsi una forma di sovranità sui beni, ma è un diritto che deve con armonia collimare col contesto sociale e non contrastare con esso. Per il proprietario vi saranno, quindi, non solo diritti e facoltà ma anche espressi doveri, che tramuteranno il diritto di proprietà non solo in qualcosa di utile per il proprietario, ma anche per la società. Questa è la cosiddetta funzione sociale della proprietà prevista dalla stessa Costituzione che riconosce e determina la funzione del diritto di proprietà, ma è importante ricordare che è pur sempre l'art. 832 del codice civile che ne definisce il contenuto.
LIMITI DELLA PROPRIETA' - Nella definizione dell'art. 832 si deduce che le facoltà attraverso le quali si esplica il diritto di proprietà sono fondamentalmente illimitate.Per tale ragione la legge indica solo i limiti del diritto di proprietà, piuttosto che elencarne le facoltà, con l'ovvia conseguenza che il proprietario può fare del suo diritto e della cosa che ne è oggetto ciò che vuole, ma questa illimitata signoria del suo volere trova il confine nei limiti imposti dalla legge. Questi limiti sono previsti sia nel codice civile che nelle leggi speciali, e spesso comprimono in maniera rilevante il diritto di proprietà (basti ricordare i divieti di edificare in zone di interesse paesaggistico o archeologico). Focalizzandoci sui soli limiti che emergono dal codice civile,le limitazioni cui va incontro il proprietario, soprattutto il proprietario di immobili o fondi, sono fondamentalmente di due categorie:limiti imposti per ragioni di pubblico interesse; limiti imposti per salvaguardare i concorrenti diritti di altri soggetti privati.
TUTELA DELLA PROPRIETA' - Il diritto alla proprietà può essere poi oggetto di lesioni per cui il codice civile prevede diversi tipi di azione a seconda della turbativa subita dal proprietario, azioni lunghe e complicate che, pur garantendo la definitività del provvedimento del giudice, proprio per la loro complessità spesso finiscono con il non essere a garantire rapidamente le ragioni del proprietario.Il legislatore si è accorto del problema e ha previsto accanto alle azioni a difesa della proprietà, altre azioni che tutelano non tanto la proprietà, ma quella minore situazione chiamata possesso (art. 1140), che è una situazione di fatto che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale.Come è semplice capire però le azioni a tutela del possesso possono fornire solo una tutela temporanea, perché bisognerà pur sempre accertare se il possesso sia conforme alla situazione giuridica che presuppone. Tenendo bene a mente quanto detto sopra, distinguiamo due tipi di azioni:azioni possessorie (assicurano una tutela rapida al possessore ma provvisoria perché si potrà poi accertare se il possesso sia giustificato anche nella titolarità di un diritto reale); azioni petitorie (sono le azioni a difesa della proprietà, lunghe e complesse, assicurano un accertamento definitivo della posizione del proprietario).
Il socio occulto nell'ordinamento italiano.
di Rossana De Lucia
Un fenomeno particolare ma molto diffuso nel traffico giuridico.
Spesso si sente parlare della figura del socio occulto.Ma di cosa si tratta e soprattutto quale è il profilo giuridico di questa particolarissima figura?Il socio occulto è un soggetto che partecipa ad una società senza apparire formalmente. La partecipazione del socio occulto si fonda di solito su accordi segreti, mediante intestazione fittizia di quote o azioni ad altri soggetti. Se l’attività è svolta da una società dl fatto e la società occulta è costituita da due soli soci, all’esterno apparirà un unico imprenditore che agisce in nome e per conto proprio. In questa fattispecie specifica però la responsabilità per le obbligazioni sociali è allargata anche al socio occulto (anche se lo stesso non ha partecipato direttamente all’attività sociale) e soprattutto il fallimento può essere a lui esteso. Le medesime norme giuridiche vanno applicate con riferimento ai soci occulti di società di persone regolarmente costituite, i quali, una volta dimostrata la loro qualità, sono considerati sullo stesso livello di qualsiasi altro compartecipe alla società.
Discorso in parte molto diverso va invece fatto per il socio occulto di società di capitali regolarmente costituite, il quale per legge non può essere chiamato a rispondere delle obbligazioni sociali, tranne nei casi in cui come afferma l’art. 2362 c.c. non si dimostri che egli sia in realtà l’unico socio della società.La giurisprudenza è piuttosto ferma nel ritenere che data la rigida separazione del patrimonio della società da quello dei soci, al socio occulto di società di capitali non debba essere esteso il fallimento della società. Il fallimento ha infatti come sappiamo, un'efficacia estensiva non solo nei confronti dei soci ma anche nei confronti di quelli che ufficialmente non risultano far pare della società e che in realtà sono dei veri propri soci, in quanto concretamente svolgono questo ruolo e hanno funzioni tipiche della figura del socio, come partecipare alla divisione degli utili o effettuare conferimenti. Comunque sia è il tribunale che deve verificare l'esistenza del rapporto sociale e anche il ruolo del socio occulto, se cioè questi è limitatamente o illimitatamente responsabile. Tornando al fallimento è utile sottolineare che esso ha un'efficacia estensiva non solo nei confronti dei soci che appaiono essere tali, ma anche nei confronti di quelli che ufficialmente non risultano far pare della società, ma, in realtà sono dei veri propri soci.In effetti il nuovo art. 147 della legge fallimentare modificato nel 2006 afferma che: se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi.
Un discorso a parte merita invece il caso della società apparente poiché qui potrebbe accadere che l'apparenza possa prevalere sulla realtà rendendo possibile il fallimento di una società che, in realtà, potrebbe anche non esistere.Nello specifico della società occulta accade invece esattamente l'opposto.La scoperta della stessa porterà al fallimento della società occulta e di tutti i soci illimitatamente responsabili e gli effetti del fallimento cominceranno a decorrere dalla data della sentenza pronunciata nei confronti del solo imprenditore.Originariamente tale fattispecie non era presente nell’art.147 l.f., ma la riforma del 2006 ha deciso espressamente di configurare tale ipotesi al comma 5.In dottrina infine si dibatte molto se l’art.147 l.f. possa essere applicato anche all'ipotesi del cosiddetto imprenditore occulto, cioè al caso di chi si serva di un prestanome per gestire la società;la dottrina è fondamentalmente contraria poiché ritiene molto diverse le situazioni essendo l'imprenditore occulto una figura molto diversa dal socio occulto,mentre la giurisprudenza,mossa da esigenze di certezza del diritto,invece ha spesso fatto rientrare questa fattispecie nell'art. 147forse eccedendo nella sua interpretazione estensiva della norma.
Spesso si sente parlare della figura del socio occulto.Ma di cosa si tratta e soprattutto quale è il profilo giuridico di questa particolarissima figura?Il socio occulto è un soggetto che partecipa ad una società senza apparire formalmente. La partecipazione del socio occulto si fonda di solito su accordi segreti, mediante intestazione fittizia di quote o azioni ad altri soggetti. Se l’attività è svolta da una società dl fatto e la società occulta è costituita da due soli soci, all’esterno apparirà un unico imprenditore che agisce in nome e per conto proprio. In questa fattispecie specifica però la responsabilità per le obbligazioni sociali è allargata anche al socio occulto (anche se lo stesso non ha partecipato direttamente all’attività sociale) e soprattutto il fallimento può essere a lui esteso. Le medesime norme giuridiche vanno applicate con riferimento ai soci occulti di società di persone regolarmente costituite, i quali, una volta dimostrata la loro qualità, sono considerati sullo stesso livello di qualsiasi altro compartecipe alla società.
Discorso in parte molto diverso va invece fatto per il socio occulto di società di capitali regolarmente costituite, il quale per legge non può essere chiamato a rispondere delle obbligazioni sociali, tranne nei casi in cui come afferma l’art. 2362 c.c. non si dimostri che egli sia in realtà l’unico socio della società.La giurisprudenza è piuttosto ferma nel ritenere che data la rigida separazione del patrimonio della società da quello dei soci, al socio occulto di società di capitali non debba essere esteso il fallimento della società. Il fallimento ha infatti come sappiamo, un'efficacia estensiva non solo nei confronti dei soci ma anche nei confronti di quelli che ufficialmente non risultano far pare della società e che in realtà sono dei veri propri soci, in quanto concretamente svolgono questo ruolo e hanno funzioni tipiche della figura del socio, come partecipare alla divisione degli utili o effettuare conferimenti. Comunque sia è il tribunale che deve verificare l'esistenza del rapporto sociale e anche il ruolo del socio occulto, se cioè questi è limitatamente o illimitatamente responsabile. Tornando al fallimento è utile sottolineare che esso ha un'efficacia estensiva non solo nei confronti dei soci che appaiono essere tali, ma anche nei confronti di quelli che ufficialmente non risultano far pare della società, ma, in realtà sono dei veri propri soci.In effetti il nuovo art. 147 della legge fallimentare modificato nel 2006 afferma che: se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi.
Un discorso a parte merita invece il caso della società apparente poiché qui potrebbe accadere che l'apparenza possa prevalere sulla realtà rendendo possibile il fallimento di una società che, in realtà, potrebbe anche non esistere.Nello specifico della società occulta accade invece esattamente l'opposto.La scoperta della stessa porterà al fallimento della società occulta e di tutti i soci illimitatamente responsabili e gli effetti del fallimento cominceranno a decorrere dalla data della sentenza pronunciata nei confronti del solo imprenditore.Originariamente tale fattispecie non era presente nell’art.147 l.f., ma la riforma del 2006 ha deciso espressamente di configurare tale ipotesi al comma 5.In dottrina infine si dibatte molto se l’art.147 l.f. possa essere applicato anche all'ipotesi del cosiddetto imprenditore occulto, cioè al caso di chi si serva di un prestanome per gestire la società;la dottrina è fondamentalmente contraria poiché ritiene molto diverse le situazioni essendo l'imprenditore occulto una figura molto diversa dal socio occulto,mentre la giurisprudenza,mossa da esigenze di certezza del diritto,invece ha spesso fatto rientrare questa fattispecie nell'art. 147forse eccedendo nella sua interpretazione estensiva della norma.
Recedere da un contratto di locazione.
di Rossana De Lucia
Un tema giuridicamente complesso ma di grande utilità.
Quando parliamo di case in affitto, uno dei più frequenti problemi per le parti è quello inerente il caso di recesso anticipato prima della naturale scadenza.Questo poichè può succedere che il conduttore individui un affitto migliore o che il locatore opti per un inquilino piuttosto che un altro.In che modalità e quando è possibile il recesso anticipato dal contratto di locazione ad uso abitativo? Quid Iuris? Per prima cosa serve parlare della durata della locazione.La durata minima della locazione a canone libero non può essere inferiore a 4 anni, trascorsi tali anni il contratto si rinnova automaticamente per un periodo di altri 4 anni (ecco perchè di solito la si definisce “locazione 4+4”).Passato il periodo del 4+4 si può avere un nuovo rinnovo tacito del contratto se nessuna delle parti apre una nuova aprocedura per il rinnovo a nuove condizioni o chiede la disdetta del contratto.Le parti hanno ampia libertà nello scegliere una durata superiore del contratto (anziché 4+4) fino a un massimo che però non può superare i 2 anni successivi alla morte del conduttore.Il recesso dell’inquilino.Il contratto può stabilire che il conduttore, possa recedere dalla locazione in qualsiasi momento. Se tale clausola, invece, non è inserita appositamente, il conduttore può recedere solo in alcuni casi come i gravi motivi e, comunque, fornendo un preavviso di almeno 6 mesi (notizia da comunicare con raccomandata a.r. con indicazione delle motivazioni).
I gravi motivi per il recesso dell’inquilino. Il tema dei “gravi motivi” è molto discusso in materia, deve pèrò trattarsi di fatti non solo estranei alla volontà del conduttore, ma anche non prevedibili e sopraggiunti alla nascita giuridica del rapporto, che hanno la conseguenza di rendere pregiudizievole la persistenza per il conduttore. Ovviamente, tali motivi non possono essere collegati alla soggettiva ed unilaterale valutazione del conduttore riguardo all'opportunità o meno di locazione.Una “giusta causa” è ad esempio anche un trasferimento, un motivo di salute, l’abbandono degli studi universitari, il licenziamento del conduttore dal posto di lavoro, oppure l'esistenza di alcuni ambienti dell’appartamento locato con notevoli fenomeni di umidità e di condensa in misura che la salubrità del contesto ne venga compromessa.Il recesso del locatore.Il locatore, invece, non può recedere senza motivi dal contratto e una clausola contrattuale che imponga ciò è da ritenersi nulla.L'unica cosa che egli può è negare il rinnovo del contratto alla prima scadenza (cioè dopo i primi 4 anni). In questa precisa ipotesi ciò è possibile solo: a) quando il locatore decida di utilizzare l’immobile ad uso proprio: il locatore , persona fisica, può evitare che vi sia la rinnovazione tacita del contratto se ha intenzione di destinare l’immobile ad abitazione oppure ad attività commerciale, artigianale o professionale propria o del coniuge (anche se legalmente separato), dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado di parentela.
c) quando il conduttore abbia un altro alloggio libero ed idoneo nello stesso comune;d) quando l’immobile sia collocato in un edificio gravemente danneggiato che necessiti di ristrutturazione o di interventi per dare stabilità; e) quando l’immobile è parte di uno stabile che necessiti di integrale ristrutturazione, ovvero si intenda operare la demolizione o la radicale trasformazione per realizzare nuove costruzioni, ovvero, trattandosi di immobile sito all’ultimo piano, il proprietario voglia compiere sopraelevazioni a norma di legge e per eseguirle sia indispensabile per ragioni tecniche lo sgombero dell’immobile stesso;f) quando il conduttore non occupi continuativamente l’immobile senza giustificato motivo;g) quando il locatore intenda vendere l’immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. In questa situazione però al conduttore è riconosciuto un vero diritto di prelazione.
Quando parliamo di case in affitto, uno dei più frequenti problemi per le parti è quello inerente il caso di recesso anticipato prima della naturale scadenza.Questo poichè può succedere che il conduttore individui un affitto migliore o che il locatore opti per un inquilino piuttosto che un altro.In che modalità e quando è possibile il recesso anticipato dal contratto di locazione ad uso abitativo? Quid Iuris? Per prima cosa serve parlare della durata della locazione.La durata minima della locazione a canone libero non può essere inferiore a 4 anni, trascorsi tali anni il contratto si rinnova automaticamente per un periodo di altri 4 anni (ecco perchè di solito la si definisce “locazione 4+4”).Passato il periodo del 4+4 si può avere un nuovo rinnovo tacito del contratto se nessuna delle parti apre una nuova aprocedura per il rinnovo a nuove condizioni o chiede la disdetta del contratto.Le parti hanno ampia libertà nello scegliere una durata superiore del contratto (anziché 4+4) fino a un massimo che però non può superare i 2 anni successivi alla morte del conduttore.Il recesso dell’inquilino.Il contratto può stabilire che il conduttore, possa recedere dalla locazione in qualsiasi momento. Se tale clausola, invece, non è inserita appositamente, il conduttore può recedere solo in alcuni casi come i gravi motivi e, comunque, fornendo un preavviso di almeno 6 mesi (notizia da comunicare con raccomandata a.r. con indicazione delle motivazioni).
I gravi motivi per il recesso dell’inquilino. Il tema dei “gravi motivi” è molto discusso in materia, deve pèrò trattarsi di fatti non solo estranei alla volontà del conduttore, ma anche non prevedibili e sopraggiunti alla nascita giuridica del rapporto, che hanno la conseguenza di rendere pregiudizievole la persistenza per il conduttore. Ovviamente, tali motivi non possono essere collegati alla soggettiva ed unilaterale valutazione del conduttore riguardo all'opportunità o meno di locazione.Una “giusta causa” è ad esempio anche un trasferimento, un motivo di salute, l’abbandono degli studi universitari, il licenziamento del conduttore dal posto di lavoro, oppure l'esistenza di alcuni ambienti dell’appartamento locato con notevoli fenomeni di umidità e di condensa in misura che la salubrità del contesto ne venga compromessa.Il recesso del locatore.Il locatore, invece, non può recedere senza motivi dal contratto e una clausola contrattuale che imponga ciò è da ritenersi nulla.L'unica cosa che egli può è negare il rinnovo del contratto alla prima scadenza (cioè dopo i primi 4 anni). In questa precisa ipotesi ciò è possibile solo: a) quando il locatore decida di utilizzare l’immobile ad uso proprio: il locatore , persona fisica, può evitare che vi sia la rinnovazione tacita del contratto se ha intenzione di destinare l’immobile ad abitazione oppure ad attività commerciale, artigianale o professionale propria o del coniuge (anche se legalmente separato), dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado di parentela.
c) quando il conduttore abbia un altro alloggio libero ed idoneo nello stesso comune;d) quando l’immobile sia collocato in un edificio gravemente danneggiato che necessiti di ristrutturazione o di interventi per dare stabilità; e) quando l’immobile è parte di uno stabile che necessiti di integrale ristrutturazione, ovvero si intenda operare la demolizione o la radicale trasformazione per realizzare nuove costruzioni, ovvero, trattandosi di immobile sito all’ultimo piano, il proprietario voglia compiere sopraelevazioni a norma di legge e per eseguirle sia indispensabile per ragioni tecniche lo sgombero dell’immobile stesso;f) quando il conduttore non occupi continuativamente l’immobile senza giustificato motivo;g) quando il locatore intenda vendere l’immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. In questa situazione però al conduttore è riconosciuto un vero diritto di prelazione.
Come difendersi dall'ingiusto licenziamento.
di Rossana De Lucia
La disciplina della legge in tema di licenziamento.
Caio è un lavoratore dipendente presso l'azienda di Tizio.Dopo anni di rapporto continuativo di lavoro viene licenziato.Quali sono i rimedi e le obiezioni che Caio può porre in essere,quali i soggetti a cui rivolgersi e in che modo verificare se il suo licenziamento sia stato legittimo o illegittimo.Quid Iuris?
I dettami della Legge n. 108/1990 affermano che il licenziamento di un lavoratore deve essere giustificato e comunicato al lavoratore per forma scritta.La giustificazione del licenziamento e quindi la sua legittimità si ha solo allorchè il datore indichi per iscritto i motivi dello stesso. Se nella lettera specifica i motivi non sono indicati l'atto non è valido ed il lavoratore ha il diritto di chiederla entro quindici giorni dalla comunicazione del licenziamento stesso.Una volta ricevuta la richiesta del lavoratore, il datore ha sette giorni a disposizione per comunicare i motivi.Quindi per legge il datore che ha intenzione di licenziare un dipendente deve comunicargli un preavviso di licenziamento dando a questi la possibilità materiale di cercare un'altra occupazione.Il periodo minimo del preavviso è previsto e varia in base ai Contratti Collettivi Nazionali per ogni livello di inquadramento. Tale periodo può anche essere modificato in meius dalla trattativa individuale in sede di assunzione.
Se su questo tipo di argomento non viene indicato nulla nel contratto individuale, la legge prevede che vada applicato il termine minimo previsto dal CCNL di categoria.Se nell'atto di licenziare il datore non rispetta il termine previsto dalla legge, il licenziante sarà tenuto a versare una indennità di mancato preavviso, pari alle mensilità previste.Il licenziamento inoltre deve non solo essere basato su motivazioni ma devone essere giuste cause o giustificati motivi (che come detto vanno sempre indicati per iscritto), altrimenti è da ritenersi illegittimo anche se intimato in violazione della prescritta procedura, o se contrario a norme imperative.Ad esempio è nullo nei casi di lavoratrice madre, nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento del primo anno di vita del bambino;oppure è invalido se avviene a causa di appartenenza ad un sindacato o partecipazione ad uno sciopero, o per motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di sesso, di lingua e nazionalità.
Quando un lavoratore ritiene illegittimo il proprio licenziamento, può impugnarlo nel termine di sessanta giorni dalla sua notifica o dalla comunicazione dei motivi, se successiva.Il termine di sessanta giorni è fondamentale e se non rispettato produce la decadenza del diritto. Passati i sessanta giorni il lavoratore perde la possibilità di richiedere al Giudice del lavoro la verifica della illegittimità del licenziamento ed il risarcimento danni collegato.L'impugnazione del licenziamento va fatta in forma scritta.E' utile ed opportuno inviare al datore una raccomandata con ricevuta di ritorno al fine di sottolineare il rispetto del termine d'impugnazione. Una volta impugnato tempestivamente il licenziamento, il lavoratore ha 270 giorni di tempo per depositare il proprio ricorso al Tribunale del lavoro.Questo termine di 270 giorni è una vera novità introdotta dall'art. 3 della nuova Legge n. 183/2010. Se tale ricorso non viene presentato entro questi 270 giorni, l'impugnazione del licenziamento vede perdere la sua efficacia.Le parti coinvolte possono per legge, in alternativa al processo,decidere di affidare la decisi
Caio è un lavoratore dipendente presso l'azienda di Tizio.Dopo anni di rapporto continuativo di lavoro viene licenziato.Quali sono i rimedi e le obiezioni che Caio può porre in essere,quali i soggetti a cui rivolgersi e in che modo verificare se il suo licenziamento sia stato legittimo o illegittimo.Quid Iuris?
I dettami della Legge n. 108/1990 affermano che il licenziamento di un lavoratore deve essere giustificato e comunicato al lavoratore per forma scritta.La giustificazione del licenziamento e quindi la sua legittimità si ha solo allorchè il datore indichi per iscritto i motivi dello stesso. Se nella lettera specifica i motivi non sono indicati l'atto non è valido ed il lavoratore ha il diritto di chiederla entro quindici giorni dalla comunicazione del licenziamento stesso.Una volta ricevuta la richiesta del lavoratore, il datore ha sette giorni a disposizione per comunicare i motivi.Quindi per legge il datore che ha intenzione di licenziare un dipendente deve comunicargli un preavviso di licenziamento dando a questi la possibilità materiale di cercare un'altra occupazione.Il periodo minimo del preavviso è previsto e varia in base ai Contratti Collettivi Nazionali per ogni livello di inquadramento. Tale periodo può anche essere modificato in meius dalla trattativa individuale in sede di assunzione.
Se su questo tipo di argomento non viene indicato nulla nel contratto individuale, la legge prevede che vada applicato il termine minimo previsto dal CCNL di categoria.Se nell'atto di licenziare il datore non rispetta il termine previsto dalla legge, il licenziante sarà tenuto a versare una indennità di mancato preavviso, pari alle mensilità previste.Il licenziamento inoltre deve non solo essere basato su motivazioni ma devone essere giuste cause o giustificati motivi (che come detto vanno sempre indicati per iscritto), altrimenti è da ritenersi illegittimo anche se intimato in violazione della prescritta procedura, o se contrario a norme imperative.Ad esempio è nullo nei casi di lavoratrice madre, nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento del primo anno di vita del bambino;oppure è invalido se avviene a causa di appartenenza ad un sindacato o partecipazione ad uno sciopero, o per motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di sesso, di lingua e nazionalità.
Quando un lavoratore ritiene illegittimo il proprio licenziamento, può impugnarlo nel termine di sessanta giorni dalla sua notifica o dalla comunicazione dei motivi, se successiva.Il termine di sessanta giorni è fondamentale e se non rispettato produce la decadenza del diritto. Passati i sessanta giorni il lavoratore perde la possibilità di richiedere al Giudice del lavoro la verifica della illegittimità del licenziamento ed il risarcimento danni collegato.L'impugnazione del licenziamento va fatta in forma scritta.E' utile ed opportuno inviare al datore una raccomandata con ricevuta di ritorno al fine di sottolineare il rispetto del termine d'impugnazione. Una volta impugnato tempestivamente il licenziamento, il lavoratore ha 270 giorni di tempo per depositare il proprio ricorso al Tribunale del lavoro.Questo termine di 270 giorni è una vera novità introdotta dall'art. 3 della nuova Legge n. 183/2010. Se tale ricorso non viene presentato entro questi 270 giorni, l'impugnazione del licenziamento vede perdere la sua efficacia.Le parti coinvolte possono per legge, in alternativa al processo,decidere di affidare la decisi
Tutela della privacy.Natura e rimedi giuridici.
di Rossana De Lucia
Proteggere la propria riservatezza.La legge adesso lo permette.
Caio si è iscritto in un sito senza acconsentire al trattamento dei propri dati personali.Il sito in questione però non solo ha adoperato i propri dati ma li ha utilizzati per finalità di ricerca e pubblicità senza avere alcuna autorizzazione.Come può Caio tutelare la sua privacy e quali strumenti giuridici la legge gli mette a disposizione per ottenere anche un eventuale risarcimento dei danni subiti.? Quid Iuris.
L'ordinamento e la dottrina civilistica definiscono con il termine "diritti della personalità", una gamma di circostanze proprie del singolo soggetto, che hanno nelle loro peculiarità il fatto di essere indisponibili ed irrinunciabili e che risultano essere strettamente collegati a ciascun individuo permettendogli di acquisire il suo status non solo nella comunità sociale ma soprattutto la sua identità di persona,un'identità da tutelare e garantire qualora venisse lesa.Nonostante una previsione giuridica precisa la dottrina però non ha ideato un orientamento unitario dei diritti della personalità ma bensì un approccio di tipo pluralistico.Negli ultimi decenni poi il notevole sviluppo tecnologico ed informatico ha ampliato i casi di lesione e violazione di suddetti diritti, il pericolo di circostanze è aumentato in modo esponenziale e quindi la tutela dei diritti riconducibili alla sfera privata o della riservatezza si è fatta maggiore e più profonda.
Anche se con un colpevole ritardo il nostro legislatore si è adeguato agli altri Paesi europei, ed è riuscito a dare applicazione ad una disciplina specifica indirizzata alla risoluzione di queste problematiche, unendo in un unico testo normativo sia la vecchia legge del 1996 si l'attuale normativa del decreto legislativo n. 196/2003, definendo il testo unico in materia di trattamento di dati personali.Questa disciplina giuridica prermette al soggetto il diritto di accedere alle informazioni che lo riguardano,compreso il potere di cancellare i dati sensibili e di opporsi al loro utilizzo senza permesso alcuno.Nella terza parte del codice civile inoltre troviamo la specifica legittimazione a tali diritti con la previsione di un vero elenco degli strumenti di tutela offerti dalla legge al singolo, e che vanno individuati nel reclamo, nella segnalazione e nel ricorso.A questa tipologia di strumenti vanno poi integrati i mezzi di tutela successiva che si concretizzano essenzialmente nell'azione di risarcimento del danno.
Sulla base dell'art. 2050 del codice civile è basilare sottolineare che colui che viene accusato di aver violato la privacy di un soggetto ha l'onere di provare la sua innocenza ma non si tratta della classica prova dell’assenza di colpa ma secondo molti giuristi sarebbe la prova del fortuito, cioè la prova dell’assenza del nesso di causalità.La dottrina per tale motivo collega il tutto all'articolo 11 del testo unico che espone le tecniche di trattamento dei dati personali.Tale norma però comunque non risolve alcuni problemi relativi alla plurioffensività dell’illecito civile che creano confusione anche al giudice nella quantificazione e nella liquidazione del danno qualora fosse accertato.
Caio si è iscritto in un sito senza acconsentire al trattamento dei propri dati personali.Il sito in questione però non solo ha adoperato i propri dati ma li ha utilizzati per finalità di ricerca e pubblicità senza avere alcuna autorizzazione.Come può Caio tutelare la sua privacy e quali strumenti giuridici la legge gli mette a disposizione per ottenere anche un eventuale risarcimento dei danni subiti.? Quid Iuris.
L'ordinamento e la dottrina civilistica definiscono con il termine "diritti della personalità", una gamma di circostanze proprie del singolo soggetto, che hanno nelle loro peculiarità il fatto di essere indisponibili ed irrinunciabili e che risultano essere strettamente collegati a ciascun individuo permettendogli di acquisire il suo status non solo nella comunità sociale ma soprattutto la sua identità di persona,un'identità da tutelare e garantire qualora venisse lesa.Nonostante una previsione giuridica precisa la dottrina però non ha ideato un orientamento unitario dei diritti della personalità ma bensì un approccio di tipo pluralistico.Negli ultimi decenni poi il notevole sviluppo tecnologico ed informatico ha ampliato i casi di lesione e violazione di suddetti diritti, il pericolo di circostanze è aumentato in modo esponenziale e quindi la tutela dei diritti riconducibili alla sfera privata o della riservatezza si è fatta maggiore e più profonda.
Anche se con un colpevole ritardo il nostro legislatore si è adeguato agli altri Paesi europei, ed è riuscito a dare applicazione ad una disciplina specifica indirizzata alla risoluzione di queste problematiche, unendo in un unico testo normativo sia la vecchia legge del 1996 si l'attuale normativa del decreto legislativo n. 196/2003, definendo il testo unico in materia di trattamento di dati personali.Questa disciplina giuridica prermette al soggetto il diritto di accedere alle informazioni che lo riguardano,compreso il potere di cancellare i dati sensibili e di opporsi al loro utilizzo senza permesso alcuno.Nella terza parte del codice civile inoltre troviamo la specifica legittimazione a tali diritti con la previsione di un vero elenco degli strumenti di tutela offerti dalla legge al singolo, e che vanno individuati nel reclamo, nella segnalazione e nel ricorso.A questa tipologia di strumenti vanno poi integrati i mezzi di tutela successiva che si concretizzano essenzialmente nell'azione di risarcimento del danno.
Sulla base dell'art. 2050 del codice civile è basilare sottolineare che colui che viene accusato di aver violato la privacy di un soggetto ha l'onere di provare la sua innocenza ma non si tratta della classica prova dell’assenza di colpa ma secondo molti giuristi sarebbe la prova del fortuito, cioè la prova dell’assenza del nesso di causalità.La dottrina per tale motivo collega il tutto all'articolo 11 del testo unico che espone le tecniche di trattamento dei dati personali.Tale norma però comunque non risolve alcuni problemi relativi alla plurioffensività dell’illecito civile che creano confusione anche al giudice nella quantificazione e nella liquidazione del danno qualora fosse accertato.
Accesso agli atti amministrativi.Le regole.
di Rossa De Lucia
Un riconoscimento giuridico importante e necessario.
Tizio è parte interessata di uno specifico procedimento amministrativo. Ricevuta notifica dall’ente competente sull’esistenza di suddetto procedimento chiede di prendere visione degli atti amministrativi prodotti dalla pubblica autorità a lui riguardanti. E’ legittimo il suo diritto di accesso e in che modalità può da questi essere esercitato? Quid Iuris? Il diritto di accesso agli atti amministrativi è un esplicito diritto che la legge riconosce al cittadino per regolare i rapporti con la Pubblica amministrazione, con il chiaro scopo di garantire sempre il principio di trasparenza.Questa previsione giuridica è stata inserita nel nostro ordinamento dalla legge n. 241 del 1990 e poi regolato in maniera attuativa dal regolamento per l'accesso, n. 352 del 1992 completamente abrogato e poi sostituito dal regolamento n. 184 del 2006. Questa tipologia di diritto nel nostro ordinamento è sempre stata ancorata all'esistenza o meno di una posizione legittima a carico del cittadino,la legge del 1990 infatti parlava all'epoca di situazione giuridicamente rilevante.Sulla base della nuova previsione normativa il diritto di accesso agli atti amministrativi spetta ai soggetti interessati o meglio a quei cittadini privati, anche titolari di interessi diffusi che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale nel procedimento amministrativo a sua volta configurato come situazione giuridica tutelata dalla legge.Una situazione giuridica che tramite l'accesso agli atti il soggetto può meglio proteggere e tutelare.
Andando ad analizzare meglio la fattispecie in esame notiamo che oggetto del diritto d'accesso è il documento amministrativo che nella legge originaria è definito come la rappresentazione grafica, fotografica, elettromagnetica o qualunque altra specie del contenuto di atti formati dalle pubbliche amministrazioni o usati nell'attività amministrativa. Tali atti devono però avere nei confronti dle cittadino un legame strumentale concepito in maniera concreta poichè il documento richiesto deve ergersi a mezzo utile per difendere l'interesse giuridicamente rilevante ma non certo come prova diretta della lesione dell'interesse stesso. In tema di esercizio del diritto d accesso la legge afferma che è inammissibile la richiesta di accesso agli atti della P.A. qualora questa sia caratterizzata da formulazione generalizzata che non indichi atti o provvedimenti, ma la semplice attività compiuta all'interno del procedimento amministrativo.Questo soprattutto perchè l'Amministrazione non avrebbe nei suoi scopi l'attività di ricerca e catalogazione di tali atti.
Un argomento molto importante è poi quello attinente ai limiti di esercizio di suddetto diritto. L’art. 24 del regolamento n.184 afferma che sono esclusi dal diritto di accesso tutti gli atti amministrativi coperti da segreto di Stato o coperti da segreto o divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge o dal regolamento governativo di attuazione. Aldilà di queste circostanze tipizzate dal legislatore,il comma 6 dell’art. 24 continene il principio in base al quale il diritto di accesso può venire escluso qualora sia necessario per proteggere: la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; la politica monetaria e valutaria; l'ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, giuridiche ed associazioni in particolare interessi di natura sanitaria, finanziaria, industriale e commerciale. La legge infine riconosce alla P.A. un potere discrezionale, che le fonti secondarie come i regolamenti possono in vario modo disciplinare e che viene generalmente definito potere di differire l'accesso ai documenti richiesti, o meglio il potere di negare al cittadino l’accesso agli atti per un periodo di tempo determinato,di norma non superiore a sei mesi.
Tizio è parte interessata di uno specifico procedimento amministrativo. Ricevuta notifica dall’ente competente sull’esistenza di suddetto procedimento chiede di prendere visione degli atti amministrativi prodotti dalla pubblica autorità a lui riguardanti. E’ legittimo il suo diritto di accesso e in che modalità può da questi essere esercitato? Quid Iuris? Il diritto di accesso agli atti amministrativi è un esplicito diritto che la legge riconosce al cittadino per regolare i rapporti con la Pubblica amministrazione, con il chiaro scopo di garantire sempre il principio di trasparenza.Questa previsione giuridica è stata inserita nel nostro ordinamento dalla legge n. 241 del 1990 e poi regolato in maniera attuativa dal regolamento per l'accesso, n. 352 del 1992 completamente abrogato e poi sostituito dal regolamento n. 184 del 2006. Questa tipologia di diritto nel nostro ordinamento è sempre stata ancorata all'esistenza o meno di una posizione legittima a carico del cittadino,la legge del 1990 infatti parlava all'epoca di situazione giuridicamente rilevante.Sulla base della nuova previsione normativa il diritto di accesso agli atti amministrativi spetta ai soggetti interessati o meglio a quei cittadini privati, anche titolari di interessi diffusi che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale nel procedimento amministrativo a sua volta configurato come situazione giuridica tutelata dalla legge.Una situazione giuridica che tramite l'accesso agli atti il soggetto può meglio proteggere e tutelare.
Andando ad analizzare meglio la fattispecie in esame notiamo che oggetto del diritto d'accesso è il documento amministrativo che nella legge originaria è definito come la rappresentazione grafica, fotografica, elettromagnetica o qualunque altra specie del contenuto di atti formati dalle pubbliche amministrazioni o usati nell'attività amministrativa. Tali atti devono però avere nei confronti dle cittadino un legame strumentale concepito in maniera concreta poichè il documento richiesto deve ergersi a mezzo utile per difendere l'interesse giuridicamente rilevante ma non certo come prova diretta della lesione dell'interesse stesso. In tema di esercizio del diritto d accesso la legge afferma che è inammissibile la richiesta di accesso agli atti della P.A. qualora questa sia caratterizzata da formulazione generalizzata che non indichi atti o provvedimenti, ma la semplice attività compiuta all'interno del procedimento amministrativo.Questo soprattutto perchè l'Amministrazione non avrebbe nei suoi scopi l'attività di ricerca e catalogazione di tali atti.
Un argomento molto importante è poi quello attinente ai limiti di esercizio di suddetto diritto. L’art. 24 del regolamento n.184 afferma che sono esclusi dal diritto di accesso tutti gli atti amministrativi coperti da segreto di Stato o coperti da segreto o divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge o dal regolamento governativo di attuazione. Aldilà di queste circostanze tipizzate dal legislatore,il comma 6 dell’art. 24 continene il principio in base al quale il diritto di accesso può venire escluso qualora sia necessario per proteggere: la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; la politica monetaria e valutaria; l'ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, giuridiche ed associazioni in particolare interessi di natura sanitaria, finanziaria, industriale e commerciale. La legge infine riconosce alla P.A. un potere discrezionale, che le fonti secondarie come i regolamenti possono in vario modo disciplinare e che viene generalmente definito potere di differire l'accesso ai documenti richiesti, o meglio il potere di negare al cittadino l’accesso agli atti per un periodo di tempo determinato,di norma non superiore a sei mesi.
Figli legittimi e naturali.Basta differenze.
di Rossana De Lucia
Fine di secolari discriminazioni nel rapporto coi figli.
Tizio è nato e cresciuti senza padre. Raggiunta una certa età chiede ed ottiene il riconoscimento di paternità nei confronti di Caio diventandone figlio naturale. Caio è a sua volta sposato e padre di figli legittimi nati dalla sua vera moglie. Qual è la posizione del figlio naturale rispetto ai legittimi e quali sono i suoi diritti complessivi?Quid Iuris.
Si definiscono figli naturali i figli cioè nati fuori dal matrimonio,in passato il codice civile operava una grave e pericolosa disuguaglianza rispetto ai figli legittimi soprattutto per motivi di origine religiosa e per assurde finalità di ordine sociale e morale legate al tradizionale concetto di famiglia sancita dal matrimonio. Oggi il legislatore ha rivoluzionato questa circostanza e con la legge n. 219 del 2012 ha stabilito l’uguaglianza totale tra figli legittimi (cioè nati all’interno del matrimonio) e figli naturali. La legge è formata da sei principali articoli e modifica il codice civile eliminando le sgradevoli distinzioni tra status di figlio legittimo e di figlio naturale. Ma vediamo precisamente cosa cambia. In Italia in base ai dati Istat del 2013 sono quasi 100 mila i figli naturali nati al di fuori del matrimonio,una percentuale del 20% davvero notevole. Quando si parla di parentela si intende il vincolo tra persone – afferma la legge - che discendono dal medesimo stipite, tale discendenza è la stessa sia che il rapporto di filiazione abbia origine all'interno del matrimonio, sia qualora derivi fuori dall’istituto matrimoniale, sia nell’ipotesi in cui il figlio è adottato.
Dalla legge quindi è esplicito il riconoscimento di parentela ai figli naturali ,parentela che viene a crearsi non solo col padre ma con tutti i parenti di questi. Questo sta ad indicare che in caso di decesso dei genitori il figlio naturale per legge verrà affidato ai nonni e non invece affidato in adozione. Questa uguaglianza creata dalla legge n. 219 ha importanti risvolti anche a livello ereditario. Il codice civile infatti all’art. 537 parla della cosiddetta “Riserva a favore dei figli legittimi e naturali”, prima della riforma al terzo comma di suddetto articolo si evinceva che “i figli legittimi possono soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano”. Ora tale iniqua norma è stata completamente abrogata e in casi eriditari l’equiparazione fra legittimi e naturali è completa. Ponendo l’accento sul procedimento di riconoscimento la legge dichiara che il figlio “nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto” dalla madre e dal padre “anche se già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento” e il riconoscimento “può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente”. Viene inoltra abbassata anche l’età necessaria ( da 16 a 14 anni) affinchè il riconoscimento del figlio naturale non produce effetto senza il suo assenso e l’età al di sotto della quale il riconoscimento non può avere effetto senza il riconoscimento dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento. Sempre delicata è poi la casistica dei figli incestuosi. La nuova legge prevede la possibilità del riconoscimento, solo dopo autorizzazione del giudice, e solo avendo riguardo all’interesse del figlio.
Per ciò che riguarda la gamma dei diritti dei figli il legislatore ha stabilito che il figlio naturale ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore (che ha compiuto gli anni 12, e anche di età inferiore ove capace di discernimento) ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. La legge inoltre affida una serie di deleghe al governo per completare tramite regolamenti attuativi una serie di situazioni per meglio disciplinare la materia della filiazione. Regolamenti che attualmente sono al vaglio della preposta Commissione sui diritti della famiglia. Uno dei decreti attuativi avrà ad oggetto la particolare materia della disciplina delle successioni e delle donazioni, ai fini dell'eredità . I decreti governativi disciplineranno anche le procedure per provare la filiazione, la presunzione di paternità del marito e le azioni di riconoscimento e disconoscimento dei figli. L’attuale legge insomma che regola la condizione di filiazione è un importante e storico risultato in materia di diritti civili, eliminando molte norme odiose esistenti nel codice che violavano palesemente i diritti dei figli naturali sulla base di un puro ed anacronistico senso morale. La nuova legge elimina dai figli gli aggettivi, legittimi o naturali, ma sancisce che i figli sono tutti uguali. È una vera conquista di civiltà giuridica. La speranza è che si tratti solamente di un primo passo mirante ad eliminare le discriminazioni che esistono ancora nel nostro ordinamento nel complesso universo del diritto di famiglia.
Tizio è nato e cresciuti senza padre. Raggiunta una certa età chiede ed ottiene il riconoscimento di paternità nei confronti di Caio diventandone figlio naturale. Caio è a sua volta sposato e padre di figli legittimi nati dalla sua vera moglie. Qual è la posizione del figlio naturale rispetto ai legittimi e quali sono i suoi diritti complessivi?Quid Iuris.
Si definiscono figli naturali i figli cioè nati fuori dal matrimonio,in passato il codice civile operava una grave e pericolosa disuguaglianza rispetto ai figli legittimi soprattutto per motivi di origine religiosa e per assurde finalità di ordine sociale e morale legate al tradizionale concetto di famiglia sancita dal matrimonio. Oggi il legislatore ha rivoluzionato questa circostanza e con la legge n. 219 del 2012 ha stabilito l’uguaglianza totale tra figli legittimi (cioè nati all’interno del matrimonio) e figli naturali. La legge è formata da sei principali articoli e modifica il codice civile eliminando le sgradevoli distinzioni tra status di figlio legittimo e di figlio naturale. Ma vediamo precisamente cosa cambia. In Italia in base ai dati Istat del 2013 sono quasi 100 mila i figli naturali nati al di fuori del matrimonio,una percentuale del 20% davvero notevole. Quando si parla di parentela si intende il vincolo tra persone – afferma la legge - che discendono dal medesimo stipite, tale discendenza è la stessa sia che il rapporto di filiazione abbia origine all'interno del matrimonio, sia qualora derivi fuori dall’istituto matrimoniale, sia nell’ipotesi in cui il figlio è adottato.
Dalla legge quindi è esplicito il riconoscimento di parentela ai figli naturali ,parentela che viene a crearsi non solo col padre ma con tutti i parenti di questi. Questo sta ad indicare che in caso di decesso dei genitori il figlio naturale per legge verrà affidato ai nonni e non invece affidato in adozione. Questa uguaglianza creata dalla legge n. 219 ha importanti risvolti anche a livello ereditario. Il codice civile infatti all’art. 537 parla della cosiddetta “Riserva a favore dei figli legittimi e naturali”, prima della riforma al terzo comma di suddetto articolo si evinceva che “i figli legittimi possono soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano”. Ora tale iniqua norma è stata completamente abrogata e in casi eriditari l’equiparazione fra legittimi e naturali è completa. Ponendo l’accento sul procedimento di riconoscimento la legge dichiara che il figlio “nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto” dalla madre e dal padre “anche se già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento” e il riconoscimento “può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente”. Viene inoltra abbassata anche l’età necessaria ( da 16 a 14 anni) affinchè il riconoscimento del figlio naturale non produce effetto senza il suo assenso e l’età al di sotto della quale il riconoscimento non può avere effetto senza il riconoscimento dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento. Sempre delicata è poi la casistica dei figli incestuosi. La nuova legge prevede la possibilità del riconoscimento, solo dopo autorizzazione del giudice, e solo avendo riguardo all’interesse del figlio.
Per ciò che riguarda la gamma dei diritti dei figli il legislatore ha stabilito che il figlio naturale ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore (che ha compiuto gli anni 12, e anche di età inferiore ove capace di discernimento) ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. La legge inoltre affida una serie di deleghe al governo per completare tramite regolamenti attuativi una serie di situazioni per meglio disciplinare la materia della filiazione. Regolamenti che attualmente sono al vaglio della preposta Commissione sui diritti della famiglia. Uno dei decreti attuativi avrà ad oggetto la particolare materia della disciplina delle successioni e delle donazioni, ai fini dell'eredità . I decreti governativi disciplineranno anche le procedure per provare la filiazione, la presunzione di paternità del marito e le azioni di riconoscimento e disconoscimento dei figli. L’attuale legge insomma che regola la condizione di filiazione è un importante e storico risultato in materia di diritti civili, eliminando molte norme odiose esistenti nel codice che violavano palesemente i diritti dei figli naturali sulla base di un puro ed anacronistico senso morale. La nuova legge elimina dai figli gli aggettivi, legittimi o naturali, ma sancisce che i figli sono tutti uguali. È una vera conquista di civiltà giuridica. La speranza è che si tratti solamente di un primo passo mirante ad eliminare le discriminazioni che esistono ancora nel nostro ordinamento nel complesso universo del diritto di famiglia.
Il divorzio. Cause e regole da ricordare.
di Rossana De Lucia
Motivi e procedure di un istituto importante.
Tizia e Caio dopo anni di matrimonio felice non riescono a risolvere la loro crisi di coppia e dopo inutili tentativi di ricongiungimento decidono di divorziare. In che modo regolarsi e quali sono le procedure e gli schemi giuridici previsti dalla legge per soddisfare l’ultima volontà dei coniugi e dare applicazioni ad un istituto tanto importante quanto rivoluzionario. Quid Iuris?
Il divorzio è un particolare istituto giuridico mediante il quale si ottiene lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quando la comunione spirituale e materiale che ha unito i coniugi in matrimonio sia venuta meno per svariati fattori e non può più essere ricomposta. Lo scioglimento si manifesta se tra le parti sia stato contratto matrimonio con rito civile mentre la cessazione degli effetti civili quando invece sia avvenuto matrimonio concordatario. Cominciando dall’elencare le procedure esistenti possiamo delineare due diversi percorsi a secondo che vi sia o meno il consenso tra i coniugi: A) il divorzio congiunto si ha allorchè tra i coniugi vi sia accordo su tutte le condizioni, in questa fattispecie il ricorso formale è depositato congiuntamente da entrambi i coniugi; B) il divorzio giudiziale invece si ha quando non vi sia accordo sulle condizioni, nella fattispecie in essere il ricorso formale può essere depositato anche da un solo coniuge. Il divorzio non va confuso con l’istituto della separazione legale poiché questa situazione è totalmente diversa e con essa comunque i coniugi non mettono fine al rapporto matrimoniale, ma semplicemente ne producono una momentanea sospensione degli effetti in attesa o di una riconciliazione o di un provvedimento giudiziale di divorzio.
Giuridicamente due sono le componenti necessarie affinchè il divorzio possa essere legittimamente richiesto e sono il venir meno dell'affectio coniugalis, ovvero quella comunione morale e spirituale che nasce dal matrimonio e la fine della coabitazione tra marito e moglie. Il nostro codice civile disciplina l’istituto del divorzio tramite l’art. 149, mentre le norme basilari cui dare applicazione sono in primis la celebre legge n. 898/1970 con la quale fu introdotto l'istituto in Italia e la legge n. 74/1987 che introdusse decisive modifiche alla disciplina precedente. Proprio nella legge 898/1970 all’art. 3 individuiamo le cause tassative che autorizzano i coniugi a divorziare ed in particolare si tratta di ipotesi in cui uno dei coniugi abbia attentato alla vita o alla salute dell'altro coniuge o della prole, o si sia reso protagonista di reati contrari alla morale della famiglia. Detto ciò però, dalle fattispecie materiali e reali ci accorgiamo che la causa statisticamente maggiore che conduce al divorzio è la separazione legale dei coniugi protratta ininterrottamente per almeno tre anni a partire dalla prima udienza di comparizione dei coniugi innanzi al tribunale nel corso della procedura di separazione. La decorrenza dei tre anni non tiene conto della separazione di fatto, ma solo della separazione formale sancita con decreto di omologazione dal Tribunale ordinario competente per territorio. Facendo maggiore chiarezza quindi possiamo dire che il divorzio viene richiesto: in caso di separazione giudiziale, in caso di passaggio in giudicato della sentenza del giudice, in caso di separazione consensuale, dopo l’omologazione del decreto emesso dal giudice, in caso di separazione di fatto.
Nei primi due casi però è importante ricordare che devono essere trascorsi almeno tre anni dalla comparizione delle parti davanti al Tribunale nel procedimento di separazione e la proposizione della formale domanda di divorzio. Una volta emessa sentenza di divorzio, marito e moglie cambiano il loro status di coniugi e quindi tornano celibi potendo anche subito contrarre nuove nozze. La donna inoltre perde in anagrafe il cognome del marito. Inoltre dopo il divorzio, svaniscono i diritti e i doveri collegati al matrimonio ovvero quelli sanciti dagli art. 51, 143, 149 c.c., e si scioglie anche la comunione legale dei beni ai sensi dell'art. 191 c.c. si estingue infine la destinazione del fondo patrimoniale ex art. 171 c.c. e qualora fosse esistente anche la partecipazione dell'ex coniuge all'impresa familiare ex art. 230 bis c.c. Nella sentenza di divorzio, qualora sia oggetto del petitum dei ricorrenti, il giudice può anche decidere su altre questioni importanti come le questioni patrimoniali, l’assegnazione dell'abitazione familiare, il versamento dell’assegno di mantenimento e l’affidamento della prole. In quest’ultimo caso è in discussione il d.d.l. 957 che dovrebbe rivoluzionare la disciplina precedente imponendo per legge l’affido condiviso dei figli ad entrambi i genitori,senza preferenza per madre o padre, garantendo in tal modo un equo rispetto dei diritti rivendicati da ambo i genitori,soprattutto i diritti del padre spesso sacrificati e lesi a vantaggio dei diritti della madre.
Tizia e Caio dopo anni di matrimonio felice non riescono a risolvere la loro crisi di coppia e dopo inutili tentativi di ricongiungimento decidono di divorziare. In che modo regolarsi e quali sono le procedure e gli schemi giuridici previsti dalla legge per soddisfare l’ultima volontà dei coniugi e dare applicazioni ad un istituto tanto importante quanto rivoluzionario. Quid Iuris?
Il divorzio è un particolare istituto giuridico mediante il quale si ottiene lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quando la comunione spirituale e materiale che ha unito i coniugi in matrimonio sia venuta meno per svariati fattori e non può più essere ricomposta. Lo scioglimento si manifesta se tra le parti sia stato contratto matrimonio con rito civile mentre la cessazione degli effetti civili quando invece sia avvenuto matrimonio concordatario. Cominciando dall’elencare le procedure esistenti possiamo delineare due diversi percorsi a secondo che vi sia o meno il consenso tra i coniugi: A) il divorzio congiunto si ha allorchè tra i coniugi vi sia accordo su tutte le condizioni, in questa fattispecie il ricorso formale è depositato congiuntamente da entrambi i coniugi; B) il divorzio giudiziale invece si ha quando non vi sia accordo sulle condizioni, nella fattispecie in essere il ricorso formale può essere depositato anche da un solo coniuge. Il divorzio non va confuso con l’istituto della separazione legale poiché questa situazione è totalmente diversa e con essa comunque i coniugi non mettono fine al rapporto matrimoniale, ma semplicemente ne producono una momentanea sospensione degli effetti in attesa o di una riconciliazione o di un provvedimento giudiziale di divorzio.
Giuridicamente due sono le componenti necessarie affinchè il divorzio possa essere legittimamente richiesto e sono il venir meno dell'affectio coniugalis, ovvero quella comunione morale e spirituale che nasce dal matrimonio e la fine della coabitazione tra marito e moglie. Il nostro codice civile disciplina l’istituto del divorzio tramite l’art. 149, mentre le norme basilari cui dare applicazione sono in primis la celebre legge n. 898/1970 con la quale fu introdotto l'istituto in Italia e la legge n. 74/1987 che introdusse decisive modifiche alla disciplina precedente. Proprio nella legge 898/1970 all’art. 3 individuiamo le cause tassative che autorizzano i coniugi a divorziare ed in particolare si tratta di ipotesi in cui uno dei coniugi abbia attentato alla vita o alla salute dell'altro coniuge o della prole, o si sia reso protagonista di reati contrari alla morale della famiglia. Detto ciò però, dalle fattispecie materiali e reali ci accorgiamo che la causa statisticamente maggiore che conduce al divorzio è la separazione legale dei coniugi protratta ininterrottamente per almeno tre anni a partire dalla prima udienza di comparizione dei coniugi innanzi al tribunale nel corso della procedura di separazione. La decorrenza dei tre anni non tiene conto della separazione di fatto, ma solo della separazione formale sancita con decreto di omologazione dal Tribunale ordinario competente per territorio. Facendo maggiore chiarezza quindi possiamo dire che il divorzio viene richiesto: in caso di separazione giudiziale, in caso di passaggio in giudicato della sentenza del giudice, in caso di separazione consensuale, dopo l’omologazione del decreto emesso dal giudice, in caso di separazione di fatto.
Nei primi due casi però è importante ricordare che devono essere trascorsi almeno tre anni dalla comparizione delle parti davanti al Tribunale nel procedimento di separazione e la proposizione della formale domanda di divorzio. Una volta emessa sentenza di divorzio, marito e moglie cambiano il loro status di coniugi e quindi tornano celibi potendo anche subito contrarre nuove nozze. La donna inoltre perde in anagrafe il cognome del marito. Inoltre dopo il divorzio, svaniscono i diritti e i doveri collegati al matrimonio ovvero quelli sanciti dagli art. 51, 143, 149 c.c., e si scioglie anche la comunione legale dei beni ai sensi dell'art. 191 c.c. si estingue infine la destinazione del fondo patrimoniale ex art. 171 c.c. e qualora fosse esistente anche la partecipazione dell'ex coniuge all'impresa familiare ex art. 230 bis c.c. Nella sentenza di divorzio, qualora sia oggetto del petitum dei ricorrenti, il giudice può anche decidere su altre questioni importanti come le questioni patrimoniali, l’assegnazione dell'abitazione familiare, il versamento dell’assegno di mantenimento e l’affidamento della prole. In quest’ultimo caso è in discussione il d.d.l. 957 che dovrebbe rivoluzionare la disciplina precedente imponendo per legge l’affido condiviso dei figli ad entrambi i genitori,senza preferenza per madre o padre, garantendo in tal modo un equo rispetto dei diritti rivendicati da ambo i genitori,soprattutto i diritti del padre spesso sacrificati e lesi a vantaggio dei diritti della madre.
Vicini troppo rumorosi.Come comportarsi?
di Rossana De Lucia
Rumori non tollerabili.Metodi e procedure per difendersi.
Tizio vive in una zona trafficata e ogni giorno è costretto a subire le immissioni rumorose di Caio,suo vicino di casa.Come deve comportarsi nei suoi confronti e soprattutto quando è che i rumori prodotti raggiungono il vero limite e possono quindi autorizzare Tizio ad agire legalmente contro Caio? Quid Iuris?
Le immissioni rumorose sono alcuni dei motivi di maggiore lite condominiale in Italia.Ovviamente bisogna fare precise valutazioni e molti distinguo.La lista di rumori molesti e fastidiosi è molto ampia e articolata ma la previsione legislativa riguarda solo ed esclusivamente i cosiddetti rumori che superano i limiti della “tollerabilità”. E' basilare richiamare l'applicazione dell' art.844 c.c. che indica bene in quali situazioni il rumore è da considerarsi oltre la soglia della normale tollerabilità. Infatti molto spesso esistono situazioni in cui un rumore può essere normalmente sopportato, e poi vi sono casi precisi invece in cui diviene intollerabile. La tollerabilità è un criterio molto sottile che va dedotta anche facendo riferimento al “rumore di fondo” , ossia i suoni tipici e normali che si riferiscono ad una determinata zona.Uno stesso rumore può infatti dal medesimo giudice essere ritenuto tollerabile in una zona molto trafficata e insopportabile in una zona residenziale isolata. Il tema delle immissioni è di competenza materiale del Giudice di Pace, e salvo ripensamenti tra poco anche della mediazione civile. Questo è indubbiamente un vero vantaggio per il soggetto che decide di agire con causa civile perché la procedura sarò ovviamente più celere rispetto al Tribunale ordinario.
Solo se la circostanza è molto grave allora si può richiedere un intervento d'urgenza , con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., che rappresenta un vero ricorso cautelare d’urgenza che conduce direttamente al Tribunale.In questo caso allora la richiesta dovrà essere inoltrata da un legale che prima del ricorso dovrà anche valutare la sussistenza dei requisiti richiesti dal codice civile. La legge prevede anche una sorta di approccio di tipo penale poichè l'art. 674 cod. pen. prevede espressamente che "chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro trecento". La fattispecie qui prevista quindi è uno dei casi specifici in cui va inoltrata denucia di querela e non prevede di conseguenza l'obbligo di assistenza legale ma è preferibile ricorre ad un perito che possa elaborare una relazione sulla natura delle immissioni.Infine la legge ammette anche un approccio pubblico-amministrativo quando le immissioni assumono rilevanza per la salute pubblica.
Questa circostanza ammette accanto ad una causa civile o penale l’intervento delle Autorità pubbliche competenti al controllo delle condizioni di salubrità degli edifici e dei luoghi; queste autorità sono in primis l’Azienda Sanitaria Locale e poi l'Ufficio tecnico del Comune di competenza.Il procedimento amministrativo si attiva presentando un esposto ben documentato dalla relazione di un tecnico, con l'esplicita richiesta di intervento. E' importante ricordare che dall'anno prossimo sarà recepita la norma comunitaria Uni 11367, che obbligherà chi affitta o vende una casa, ad avere una specifica “certificazione acustica” e quindi ogni acquirente potrà essere al corrente delle caratteristiche acustiche inerenti l’immobile sulla base di una particolareggiata classificazione acustica degli edifici.
Tizio vive in una zona trafficata e ogni giorno è costretto a subire le immissioni rumorose di Caio,suo vicino di casa.Come deve comportarsi nei suoi confronti e soprattutto quando è che i rumori prodotti raggiungono il vero limite e possono quindi autorizzare Tizio ad agire legalmente contro Caio? Quid Iuris?
Le immissioni rumorose sono alcuni dei motivi di maggiore lite condominiale in Italia.Ovviamente bisogna fare precise valutazioni e molti distinguo.La lista di rumori molesti e fastidiosi è molto ampia e articolata ma la previsione legislativa riguarda solo ed esclusivamente i cosiddetti rumori che superano i limiti della “tollerabilità”. E' basilare richiamare l'applicazione dell' art.844 c.c. che indica bene in quali situazioni il rumore è da considerarsi oltre la soglia della normale tollerabilità. Infatti molto spesso esistono situazioni in cui un rumore può essere normalmente sopportato, e poi vi sono casi precisi invece in cui diviene intollerabile. La tollerabilità è un criterio molto sottile che va dedotta anche facendo riferimento al “rumore di fondo” , ossia i suoni tipici e normali che si riferiscono ad una determinata zona.Uno stesso rumore può infatti dal medesimo giudice essere ritenuto tollerabile in una zona molto trafficata e insopportabile in una zona residenziale isolata. Il tema delle immissioni è di competenza materiale del Giudice di Pace, e salvo ripensamenti tra poco anche della mediazione civile. Questo è indubbiamente un vero vantaggio per il soggetto che decide di agire con causa civile perché la procedura sarò ovviamente più celere rispetto al Tribunale ordinario.
Solo se la circostanza è molto grave allora si può richiedere un intervento d'urgenza , con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., che rappresenta un vero ricorso cautelare d’urgenza che conduce direttamente al Tribunale.In questo caso allora la richiesta dovrà essere inoltrata da un legale che prima del ricorso dovrà anche valutare la sussistenza dei requisiti richiesti dal codice civile. La legge prevede anche una sorta di approccio di tipo penale poichè l'art. 674 cod. pen. prevede espressamente che "chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro trecento". La fattispecie qui prevista quindi è uno dei casi specifici in cui va inoltrata denucia di querela e non prevede di conseguenza l'obbligo di assistenza legale ma è preferibile ricorre ad un perito che possa elaborare una relazione sulla natura delle immissioni.Infine la legge ammette anche un approccio pubblico-amministrativo quando le immissioni assumono rilevanza per la salute pubblica.
Questa circostanza ammette accanto ad una causa civile o penale l’intervento delle Autorità pubbliche competenti al controllo delle condizioni di salubrità degli edifici e dei luoghi; queste autorità sono in primis l’Azienda Sanitaria Locale e poi l'Ufficio tecnico del Comune di competenza.Il procedimento amministrativo si attiva presentando un esposto ben documentato dalla relazione di un tecnico, con l'esplicita richiesta di intervento. E' importante ricordare che dall'anno prossimo sarà recepita la norma comunitaria Uni 11367, che obbligherà chi affitta o vende una casa, ad avere una specifica “certificazione acustica” e quindi ogni acquirente potrà essere al corrente delle caratteristiche acustiche inerenti l’immobile sulla base di una particolareggiata classificazione acustica degli edifici.
Quali sono i veri diritti del consumatore?
di Rossana De Lucia
Finalmente regole e norme chiare per difendere il consumatore.
Tizio acquista da Caio un bene di consumo, ma dopo pochi mesi il prodotto comprato dà segni di malfunzionamento. Cosa può fare Tizio per risolvere il suo problema e quali tipi di diritti può rivendicare nei confronti di Caio.Quid iuris?
CODICE DEL CONSUMO – La ratio esplicita è quella di offrire al consumatore maggiori diritti,garanzie e forme di tutela. Ma,ad oggi però, il contenuto del corpus normativo che regola la garanzia dei prodotti di consumo è ancora largamente e erroneamente misconosciuta dagli utenti, malgrado sia in vigore già da diversi anni. E’il Codice del Consumo il corpus che incorpora le numerosissime disposizioni, altrimenti distribuite in altrettante e svariate leggi sparse qua e la, e che si preoccupa di regolamentare molte altre questioni, fra cui : la corretta informazione al consumatore, gli acquisti a distanza o da televendita, i servizi finanziari collegati all’acquisto, la sicurezza dei prodotti.
GARANZIA – E‘ La garanzia cd “LEGALE” quella che il Codice del Consumo riconosce al rivenditore, ovvero a colui che ha stretto con l’acquirente il contratto di compravendita. Mentre una forma di garanzia che tutela il consumatore da eventuali difetti di produzione è la garanzia “convenzionale”; e non è affatto un obbligo per il produttore prevederla. Di fatto queste due forme di garanzia si sommano; ed è bene sottolineare che Il concetto di “difetto” è stato sostituito con quello più ampio di non conformità del bene-prodotto. Quindi un prodotto difettoso è da considerarsi non conforme. Ma anche il concetto di non conformità assume una ampiezza interpretativa tale da ricomprendervi persino le ipotesi in cui il prodotto non faccia qualcosa che è stata invece promessa dal rivenditore. Quando la non conformità del bene alle qualità promesse emerge,allora il rivenditore è tenuto a ripristinare la conformità dovuta.
RIMEDI – Spetta al consumatore la scelta del rimedio (seppur nel rispetto di alcuni limiti)da richiedere;optando O per la riparazione O per la sostituzione con un prodotto nuovo. I limiti riguardano soprattutto l’onerosità della soluzione optata: infatti il consumatore non può scegliere una soluzione che risulti eccessivamente onerosa per il venditore rispetto ad un’altra, che altrimenti prevarrebbe. Per intenderci, se il consumatore non soddisfatto opta per la riparazione, ma questa non è eseguibile o lo è ma il costo della riparazione,eccessivamente oneroso, è simile a quello della sostituzione … in tal caso il consumatore può chiedere di avere un prodotto del tutto nuovo(quindi optare per la sostituzione). In alcuni casi la riparazione non è neppure valutata, perché la non conformità non dipende da un guasto (riparabile) ma,ad esempio, da una funzione promessa ma che l’apparecchio,però, non svolge: in questi casi la soluzione sarà la sostituzione con altro modello, con caratteristiche almeno pari.,sempre se possibile. Nel caso in cui invece nè la riparazione né la sostituzione siano fattibili o siano da considerarsi eccessivamente onerose, la garanzia riconosciuta al consumatore è quella di domandare un’adeguata riduzione del prezzo o addirittura la rescissione del contratto di compravendita, con restituzione del prodotto e relativo rimborso di quanto pagato per l’acquisto.
TEMPI - Sui tempi “utili” in cui il rivenditore deve provvedere a risolvere il “problema”,il legislatore ha dato un’indicazione di massima, tutt’altro che precisa: il Codice del Consumo,infatti, impone che il difetto di conformità venga rimediato dal rivenditore in tempi “congrui”che dipendono,ovviamente,anche dall’ entità del problema. Precisando nulla di più.
E se il rivenditore si rifiutasse di riconoscere la garanzia di legge?Ad esempio,contro le intenzioni del cliente, invitandolo a ricorrere al centro assistenza?In tal caso il consumatore potrà rivolgersi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Infine non va confusa la garanzia con la responsabilità del danno derivante da prodotto difettoso non è soggetto al limite temporale dei due anni e vale indefinitamente, fatte salve alcune condizioni regolamentate dall’articolo 118 c.c.
Tizio acquista da Caio un bene di consumo, ma dopo pochi mesi il prodotto comprato dà segni di malfunzionamento. Cosa può fare Tizio per risolvere il suo problema e quali tipi di diritti può rivendicare nei confronti di Caio.Quid iuris?
CODICE DEL CONSUMO – La ratio esplicita è quella di offrire al consumatore maggiori diritti,garanzie e forme di tutela. Ma,ad oggi però, il contenuto del corpus normativo che regola la garanzia dei prodotti di consumo è ancora largamente e erroneamente misconosciuta dagli utenti, malgrado sia in vigore già da diversi anni. E’il Codice del Consumo il corpus che incorpora le numerosissime disposizioni, altrimenti distribuite in altrettante e svariate leggi sparse qua e la, e che si preoccupa di regolamentare molte altre questioni, fra cui : la corretta informazione al consumatore, gli acquisti a distanza o da televendita, i servizi finanziari collegati all’acquisto, la sicurezza dei prodotti.
GARANZIA – E‘ La garanzia cd “LEGALE” quella che il Codice del Consumo riconosce al rivenditore, ovvero a colui che ha stretto con l’acquirente il contratto di compravendita. Mentre una forma di garanzia che tutela il consumatore da eventuali difetti di produzione è la garanzia “convenzionale”; e non è affatto un obbligo per il produttore prevederla. Di fatto queste due forme di garanzia si sommano; ed è bene sottolineare che Il concetto di “difetto” è stato sostituito con quello più ampio di non conformità del bene-prodotto. Quindi un prodotto difettoso è da considerarsi non conforme. Ma anche il concetto di non conformità assume una ampiezza interpretativa tale da ricomprendervi persino le ipotesi in cui il prodotto non faccia qualcosa che è stata invece promessa dal rivenditore. Quando la non conformità del bene alle qualità promesse emerge,allora il rivenditore è tenuto a ripristinare la conformità dovuta.
RIMEDI – Spetta al consumatore la scelta del rimedio (seppur nel rispetto di alcuni limiti)da richiedere;optando O per la riparazione O per la sostituzione con un prodotto nuovo. I limiti riguardano soprattutto l’onerosità della soluzione optata: infatti il consumatore non può scegliere una soluzione che risulti eccessivamente onerosa per il venditore rispetto ad un’altra, che altrimenti prevarrebbe. Per intenderci, se il consumatore non soddisfatto opta per la riparazione, ma questa non è eseguibile o lo è ma il costo della riparazione,eccessivamente oneroso, è simile a quello della sostituzione … in tal caso il consumatore può chiedere di avere un prodotto del tutto nuovo(quindi optare per la sostituzione). In alcuni casi la riparazione non è neppure valutata, perché la non conformità non dipende da un guasto (riparabile) ma,ad esempio, da una funzione promessa ma che l’apparecchio,però, non svolge: in questi casi la soluzione sarà la sostituzione con altro modello, con caratteristiche almeno pari.,sempre se possibile. Nel caso in cui invece nè la riparazione né la sostituzione siano fattibili o siano da considerarsi eccessivamente onerose, la garanzia riconosciuta al consumatore è quella di domandare un’adeguata riduzione del prezzo o addirittura la rescissione del contratto di compravendita, con restituzione del prodotto e relativo rimborso di quanto pagato per l’acquisto.
TEMPI - Sui tempi “utili” in cui il rivenditore deve provvedere a risolvere il “problema”,il legislatore ha dato un’indicazione di massima, tutt’altro che precisa: il Codice del Consumo,infatti, impone che il difetto di conformità venga rimediato dal rivenditore in tempi “congrui”che dipendono,ovviamente,anche dall’ entità del problema. Precisando nulla di più.
E se il rivenditore si rifiutasse di riconoscere la garanzia di legge?Ad esempio,contro le intenzioni del cliente, invitandolo a ricorrere al centro assistenza?In tal caso il consumatore potrà rivolgersi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Infine non va confusa la garanzia con la responsabilità del danno derivante da prodotto difettoso non è soggetto al limite temporale dei due anni e vale indefinitamente, fatte salve alcune condizioni regolamentate dall’articolo 118 c.c.
Si può creare una società tra professionisti?
di Rossana De Lucia
Un vecchio dilemma che finalmente il Codice risolve "quasi" definitivamente.
Tizio,che esercita una professione intellettuale,vorrebbe costituire una società con Caio,anch'egli libero professionista.Possono concretizzare i due questo loro desiderio e che forma giuridica dovranno dare al soggetto che nascerà dal loro esercizio in comune dell'attività economica? Quid Iuris?
Diamo subito una risposta: alla luce dell’art.10 della legge 183/2011 è espressamente consentita la costituzione di una società tra professionisti. Ma procediamo con ordine.Bisogna far riferimento a 4 dati normativi:A) La legge 1815/39 con l’articolo 1 introdusse, per la prima volta,gli “studi associati” SOLO tra professionisti abilitati; l’articolo 2,invece, VIETAVA espressamente la costituzione di Società tra professionisti.B) La legge 226/97 fu il primo segno di stabilità, dopo vari e vani progetti precedenti. La suddetta legge abrogò parzialmente la legge antisemita del 39’; parzialmente in quanto fu abrogato il solo art.2 e non l’intera legge.Dunque fu eliminato il divieto di costituire società tra professionisti….ma il limite permane ed è intrinseco nel nostro sistema;
C) L’art.2232 c.c rappresenta quel limite. Perchè?La norma disciplina il “prestatore d’opera intellettuale”,che altri non è che un professionista. La norma pone dubbi e contraddizioni in quanto riconosce al prestatore d’opera intellettuale una Responsabilità Personale anche se si avvale dell’aiuto di sostituti o ausiliari- per le sue prestazioni. Dunque il principio della responsabilità personale entra in evidente conflitto con il carattere assolutamente impersonale tipico di una società(visto che,secondo il criterio formale dell’imputazione dell’attività d’impresa,la responsabilità non è personale ma imputabile all’ente collettivo/società).Da qui la distinzione tra “professioni protette”(ovvero professioni il cui esercizio è subordinato all’iscrizione in appositi albi professionali-es:avvocati,commercialisti,ingegneri ecc..) e “non protette”(professioni per il cui esercizio non è richiesta alcuna abilitazione).Quindi l’art.2232 c.c,cristallizzando la responsabilità rigorosamente personale della prestazione d’opera intellettuale,si riferisce esclusivamente ai “professionisti protetti”… mente quelli “non protetti” potevano pertanto essere svincolati dall’applicazione del 2232 c.c, rinunciando alla qualifica di prestatore d’opera intellettuale e acquisire,invece, quella di “imprenditore commerciale” che,in quanto tale,è libero di costituire una qualsiasi società;
D) L’ultimo(per ora) dato normativo è la legge 183/2011.Il suo art.10 ha finalmente espressamente riconosciuto la possibilità di costituire SOCIETA’ TRA PROFESSIONISTI (siano essi protetti e non),ha anche abrogato la legge del 39’ lasciando però in vita gli studi associati.Ma, sotto il profilo della responsabilità, i dubbi e le incongruenze sopravvivono.Infatti,benchè non lo dica espressamente il legislatore,sembrerebbe doversi dedurre una estensione analogica (dell’art.2232)della responsabilità diretta e personale del socio-professionista,autore della prestazione, (nonostante svolga la propria professione in forma societaria) nei confronti del proprio cliente.
Tizio,che esercita una professione intellettuale,vorrebbe costituire una società con Caio,anch'egli libero professionista.Possono concretizzare i due questo loro desiderio e che forma giuridica dovranno dare al soggetto che nascerà dal loro esercizio in comune dell'attività economica? Quid Iuris?
Diamo subito una risposta: alla luce dell’art.10 della legge 183/2011 è espressamente consentita la costituzione di una società tra professionisti. Ma procediamo con ordine.Bisogna far riferimento a 4 dati normativi:A) La legge 1815/39 con l’articolo 1 introdusse, per la prima volta,gli “studi associati” SOLO tra professionisti abilitati; l’articolo 2,invece, VIETAVA espressamente la costituzione di Società tra professionisti.B) La legge 226/97 fu il primo segno di stabilità, dopo vari e vani progetti precedenti. La suddetta legge abrogò parzialmente la legge antisemita del 39’; parzialmente in quanto fu abrogato il solo art.2 e non l’intera legge.Dunque fu eliminato il divieto di costituire società tra professionisti….ma il limite permane ed è intrinseco nel nostro sistema;
C) L’art.2232 c.c rappresenta quel limite. Perchè?La norma disciplina il “prestatore d’opera intellettuale”,che altri non è che un professionista. La norma pone dubbi e contraddizioni in quanto riconosce al prestatore d’opera intellettuale una Responsabilità Personale anche se si avvale dell’aiuto di sostituti o ausiliari- per le sue prestazioni. Dunque il principio della responsabilità personale entra in evidente conflitto con il carattere assolutamente impersonale tipico di una società(visto che,secondo il criterio formale dell’imputazione dell’attività d’impresa,la responsabilità non è personale ma imputabile all’ente collettivo/società).Da qui la distinzione tra “professioni protette”(ovvero professioni il cui esercizio è subordinato all’iscrizione in appositi albi professionali-es:avvocati,commercialisti,ingegneri ecc..) e “non protette”(professioni per il cui esercizio non è richiesta alcuna abilitazione).Quindi l’art.2232 c.c,cristallizzando la responsabilità rigorosamente personale della prestazione d’opera intellettuale,si riferisce esclusivamente ai “professionisti protetti”… mente quelli “non protetti” potevano pertanto essere svincolati dall’applicazione del 2232 c.c, rinunciando alla qualifica di prestatore d’opera intellettuale e acquisire,invece, quella di “imprenditore commerciale” che,in quanto tale,è libero di costituire una qualsiasi società;
D) L’ultimo(per ora) dato normativo è la legge 183/2011.Il suo art.10 ha finalmente espressamente riconosciuto la possibilità di costituire SOCIETA’ TRA PROFESSIONISTI (siano essi protetti e non),ha anche abrogato la legge del 39’ lasciando però in vita gli studi associati.Ma, sotto il profilo della responsabilità, i dubbi e le incongruenze sopravvivono.Infatti,benchè non lo dica espressamente il legislatore,sembrerebbe doversi dedurre una estensione analogica (dell’art.2232)della responsabilità diretta e personale del socio-professionista,autore della prestazione, (nonostante svolga la propria professione in forma societaria) nei confronti del proprio cliente.
Eredità senza testamento.Regole,eccezioni.
di Rossana De Lucia
Cosa accade se non c'è un testamento che regoli le ultime volontà?
Tizio e Caio sono i figli naturali di Sempronio il quale morendo non ha lasciato per iscritto le sue ultime volontà in nessun tipo di testamento o in alcun altra forma. Come si svolgerà allora la successione ereditaria sui beni del de cuius e in che modo le quote verranno suddivise poi fra gli aventi diritto? Quid Iuris.
L’art. 457 c.c non lascia dubbi a riguardo : ”L'eredità si devolve per legge o per testamento. Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria”. Dunque, fermo restando la assoluta precedenza alla volontà del defunto e alla propria libertà testamentaria,il problema si pone nel momento in cui il defunto non abbia lasciato alcuna disposizione circa i propri averi o nell’ipotesi in cui lo abbia fatto ma solo parzialmente;in tali casi la legge prevede un meccanismo di “successione legittima”,che trae la sua fonte non nella volontà del defunto bensì nella legge. In virtù di tale meccanismo i beni ereditari – che si tratti dell’intero asse o di una sola parte- verranno suddivisi fra quei soggetti individuati dall’ art. 565 c.c. come “categorie dei successibili”. Nello specifico l’art. 565 c.c. fa rientrare in suddetta categoria : il coniuge, i figli legittimi e naturali, gli ascendenti legittimi, i collaterali, gli altri parenti oppure,in mancanza, lo Stato. Ipotesi diversa è se il defunto sia privo di figli, ascendenti e fratelli; in tal caso l’eredità spetterà per intero al coniuge; nell’ipotesi inversa -ovvero in mancanza del coniuge-andrà invece per intero al figlio/i.
Nell’ipotesi in cui sopravvivano sia il coniuge sia un solo figlio.A ciascuno sarà riservato 1/3 dell’eredità. E se invece il coniuge concorresse con più di un figlio.In tal caso,il coniuge avrà diritto a ricevere 1/4 del patrimonio, mentre ai figli spetteranno i 2/3. In presenza di coniuge e fratelli (ma in assenza di discendenti e ascendenti), 2/3 dell’asse andranno al coniuge, e 1/3 ai fratelli; in assenza di coniuge, discendenti, ascendenti e fratelli o loro discendenti, l’eredità sarà devoluta ai più prossimi tra i parenti entro il sesto grado. La mancanza ulteriore anche di tali soggetti, farà si che l’eredità andrà allo Stato. Inoltre l’art. 467 c.c. esamina la possibilità della “rappresentazione”:istituto che consente ai discendenti- siano essi legittimi o naturali- (in qualità di rappresentanti) di subentrare,nell’accettazione di un’eredità,al posto di un loro ascendente “in tutti i casi in cui questi non può o non vuole accettare l'eredità o il legato”; la rappresentazione ha luogo,prosegue l’art. 468, “nella linea retta, a favore dei discendenti dei figli legittimi, legittimati e adottivi, nonché dei discendenti dei figli naturali del defunto, e, nella linea collaterale, a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto”.
Urge tuttavia sottolineare che un ruolo fondamentale giocano i cosiddetti “legittimari”(coniuge,figli legittimi,adottivi e naturali,ascendenti legittimi);ossia eredi cui la legge riserva, a prescindere dalla volontà del defunto,NECESSARIAMENTE una quota di eredità o altri diritti-si pensi ad esempio all’assegno vitalizio spettante al coniuge superstite.I legittimari,pertanto, semmai lesi nella quota loro dovuta per legge, avranno il diritto di agire giuridicamente per ottenere le loro spettanze.
Tizio e Caio sono i figli naturali di Sempronio il quale morendo non ha lasciato per iscritto le sue ultime volontà in nessun tipo di testamento o in alcun altra forma. Come si svolgerà allora la successione ereditaria sui beni del de cuius e in che modo le quote verranno suddivise poi fra gli aventi diritto? Quid Iuris.
L’art. 457 c.c non lascia dubbi a riguardo : ”L'eredità si devolve per legge o per testamento. Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria”. Dunque, fermo restando la assoluta precedenza alla volontà del defunto e alla propria libertà testamentaria,il problema si pone nel momento in cui il defunto non abbia lasciato alcuna disposizione circa i propri averi o nell’ipotesi in cui lo abbia fatto ma solo parzialmente;in tali casi la legge prevede un meccanismo di “successione legittima”,che trae la sua fonte non nella volontà del defunto bensì nella legge. In virtù di tale meccanismo i beni ereditari – che si tratti dell’intero asse o di una sola parte- verranno suddivisi fra quei soggetti individuati dall’ art. 565 c.c. come “categorie dei successibili”. Nello specifico l’art. 565 c.c. fa rientrare in suddetta categoria : il coniuge, i figli legittimi e naturali, gli ascendenti legittimi, i collaterali, gli altri parenti oppure,in mancanza, lo Stato. Ipotesi diversa è se il defunto sia privo di figli, ascendenti e fratelli; in tal caso l’eredità spetterà per intero al coniuge; nell’ipotesi inversa -ovvero in mancanza del coniuge-andrà invece per intero al figlio/i.
Nell’ipotesi in cui sopravvivano sia il coniuge sia un solo figlio.A ciascuno sarà riservato 1/3 dell’eredità. E se invece il coniuge concorresse con più di un figlio.In tal caso,il coniuge avrà diritto a ricevere 1/4 del patrimonio, mentre ai figli spetteranno i 2/3. In presenza di coniuge e fratelli (ma in assenza di discendenti e ascendenti), 2/3 dell’asse andranno al coniuge, e 1/3 ai fratelli; in assenza di coniuge, discendenti, ascendenti e fratelli o loro discendenti, l’eredità sarà devoluta ai più prossimi tra i parenti entro il sesto grado. La mancanza ulteriore anche di tali soggetti, farà si che l’eredità andrà allo Stato. Inoltre l’art. 467 c.c. esamina la possibilità della “rappresentazione”:istituto che consente ai discendenti- siano essi legittimi o naturali- (in qualità di rappresentanti) di subentrare,nell’accettazione di un’eredità,al posto di un loro ascendente “in tutti i casi in cui questi non può o non vuole accettare l'eredità o il legato”; la rappresentazione ha luogo,prosegue l’art. 468, “nella linea retta, a favore dei discendenti dei figli legittimi, legittimati e adottivi, nonché dei discendenti dei figli naturali del defunto, e, nella linea collaterale, a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto”.
Urge tuttavia sottolineare che un ruolo fondamentale giocano i cosiddetti “legittimari”(coniuge,figli legittimi,adottivi e naturali,ascendenti legittimi);ossia eredi cui la legge riserva, a prescindere dalla volontà del defunto,NECESSARIAMENTE una quota di eredità o altri diritti-si pensi ad esempio all’assegno vitalizio spettante al coniuge superstite.I legittimari,pertanto, semmai lesi nella quota loro dovuta per legge, avranno il diritto di agire giuridicamente per ottenere le loro spettanze.
Cos'è un condominio?Origine e disciplina.
di Rossana De Lucia
Prospetto giuridico di un istituto tanto diffuso quanto problematico.
Tizio acquista un immobile e si inserisce all'interno di un condominio plurifamiliare. Quali sono le regole che disciplinano il vivere in comune?Quali gli organi e quali le modalità di scelta sulle varie decisioni comuni da prendere.Quid Iuris?
Cosa si intende per condominio? Il codice civile,come accade già per altri istituti, glissa e non fornisce in merito alcuna definizione. Molteplici potrebbero essere i modi per rispondere al nostro quesito introduttivo,poiché il concetto “condominiale” avrebbe risvolti diversi se esaminato alla luce del mero profilo materiale o di quello giuridico. Istituto relativamente di “recente costruzione”, il condominio è trattato in maniera analitica e sistematica(pur mancandone una definizione)nel codice del 1942; quello del 1865, invece, trattava l’argomento in modo estremamente scarno e incompleto. Le norme che regolano la materia condominiale sono rinvenibili nel Libro III, relativo alla proprietà,Titolo VII -relativo alla comunione-. Già da questo dettaglio si coglie come il condominio altro non sia che una forma (seppur particolare) di comunione su un immobile. I due istituti però si differenziano sul punto in cui nel condominio porzioni di proprietà esclusiva convivono insieme a parti di proprietà comune. Se esistono due soli proprietari,si parlerà allora di condominio minimo. Il numero dei condomini è importante sia in quanto incide sulla necessità di nominare un amministratore(che è obbligatorio quando i condomini sono più di quattro) sia per il regolamento condominiale, elemento obbligatorio per quei condomini con più di dieci partecipanti.
LA DISCIPLINA - E’ con la legge n. 220/2012,entrata in vigore nel 2013, che la materia ha subito importanti modifiche e aggiunte; e non è da escludere l’eventualità che alcune norme, perchè equivoche (basti pensare ai diversi quorum richiesti per l’installazione di pannelli solari) o penalizzanti (come quella sull’obbligatorietà del fondo speciale per innovazioni e opere di manutenzione),vengano rivalutate.
ASSEMBLEA – In un condominio è prevista l’assemblea ed è previsto anche un limite di rappresentanza. Ovvero una stessa persona può rappresentare in assemblea i condomini con precisi limiti SOLO SE i condomini sono più di 20, in tal caso il delegato non può rappresentare più di 1/5 dei condomini e del valore proporzionale, ossia 200 millesimi. Nessuna limitazione prevista,invece,circa la qualità della persona che può fungere da delegato. Per rendere valida una delibera è richiesta la maggioranza degli intervenuti in assemblea o di almeno la metà dei proprietari dell'edificio. L'unanimità è invece necessaria nei seguenti casi: costituzione di diritti reali;innovazioni gravose;alterazione del decoro architettonico o della sicurezza;ristrutturazione edificio;vendita o cessione di beni;regolamento condominiale.
AMMINISTRATORE – Può l’amministratore ricoprire il ruolo di rappresentante di uno o anche più condomini in assemblea? Forte era l’esigenza di giungere ad una risposta univoca per risolvere l’affannoso problema del conflitto d’interessi. E ecco che la riforma sul condominio,entrata in vigore nel 2013, interviene e stabilisce, infatti, che è assolutamente vietato concedere delega di rappresentanza all’amministratore ,«qualunque» sia il tipo di assemblea(ordinaria o straordinaria). Ampi sono i poteri riconosciuti all’assemblea dei condomini;che può revocare in qualsiasi momento l’amministratore. La riforma precisa che per una revoca valida è necessario il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all’assemblea. Nulla vieta che possa esser anche il Tribunale a disporne la revoca, ovviamente su ricorso di ciascun condomino, qualora l’amministratore non provveda a rendere il conto della gestione annuale.
PARTI COMUNI – E se un condomino volesse modificare la destinazione d’uso di una o più parti comuni? Quali le maggioranze e gli adempimenti formali richiesti? E’ necessario il voto favorevole dei 4/5 dei partecipanti al condominio, che rappresentino almeno i 4/5 del valore dell’edificio. Occorre convocare l’assemblea per deliberare in merito e tale convocazione deve rimanere affissa, in quei luoghi di maggior uso comune,per un tempo non inferiore a 30 giorni consecutivi.
Tizio acquista un immobile e si inserisce all'interno di un condominio plurifamiliare. Quali sono le regole che disciplinano il vivere in comune?Quali gli organi e quali le modalità di scelta sulle varie decisioni comuni da prendere.Quid Iuris?
Cosa si intende per condominio? Il codice civile,come accade già per altri istituti, glissa e non fornisce in merito alcuna definizione. Molteplici potrebbero essere i modi per rispondere al nostro quesito introduttivo,poiché il concetto “condominiale” avrebbe risvolti diversi se esaminato alla luce del mero profilo materiale o di quello giuridico. Istituto relativamente di “recente costruzione”, il condominio è trattato in maniera analitica e sistematica(pur mancandone una definizione)nel codice del 1942; quello del 1865, invece, trattava l’argomento in modo estremamente scarno e incompleto. Le norme che regolano la materia condominiale sono rinvenibili nel Libro III, relativo alla proprietà,Titolo VII -relativo alla comunione-. Già da questo dettaglio si coglie come il condominio altro non sia che una forma (seppur particolare) di comunione su un immobile. I due istituti però si differenziano sul punto in cui nel condominio porzioni di proprietà esclusiva convivono insieme a parti di proprietà comune. Se esistono due soli proprietari,si parlerà allora di condominio minimo. Il numero dei condomini è importante sia in quanto incide sulla necessità di nominare un amministratore(che è obbligatorio quando i condomini sono più di quattro) sia per il regolamento condominiale, elemento obbligatorio per quei condomini con più di dieci partecipanti.
LA DISCIPLINA - E’ con la legge n. 220/2012,entrata in vigore nel 2013, che la materia ha subito importanti modifiche e aggiunte; e non è da escludere l’eventualità che alcune norme, perchè equivoche (basti pensare ai diversi quorum richiesti per l’installazione di pannelli solari) o penalizzanti (come quella sull’obbligatorietà del fondo speciale per innovazioni e opere di manutenzione),vengano rivalutate.
ASSEMBLEA – In un condominio è prevista l’assemblea ed è previsto anche un limite di rappresentanza. Ovvero una stessa persona può rappresentare in assemblea i condomini con precisi limiti SOLO SE i condomini sono più di 20, in tal caso il delegato non può rappresentare più di 1/5 dei condomini e del valore proporzionale, ossia 200 millesimi. Nessuna limitazione prevista,invece,circa la qualità della persona che può fungere da delegato. Per rendere valida una delibera è richiesta la maggioranza degli intervenuti in assemblea o di almeno la metà dei proprietari dell'edificio. L'unanimità è invece necessaria nei seguenti casi: costituzione di diritti reali;innovazioni gravose;alterazione del decoro architettonico o della sicurezza;ristrutturazione edificio;vendita o cessione di beni;regolamento condominiale.
AMMINISTRATORE – Può l’amministratore ricoprire il ruolo di rappresentante di uno o anche più condomini in assemblea? Forte era l’esigenza di giungere ad una risposta univoca per risolvere l’affannoso problema del conflitto d’interessi. E ecco che la riforma sul condominio,entrata in vigore nel 2013, interviene e stabilisce, infatti, che è assolutamente vietato concedere delega di rappresentanza all’amministratore ,«qualunque» sia il tipo di assemblea(ordinaria o straordinaria). Ampi sono i poteri riconosciuti all’assemblea dei condomini;che può revocare in qualsiasi momento l’amministratore. La riforma precisa che per una revoca valida è necessario il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all’assemblea. Nulla vieta che possa esser anche il Tribunale a disporne la revoca, ovviamente su ricorso di ciascun condomino, qualora l’amministratore non provveda a rendere il conto della gestione annuale.
PARTI COMUNI – E se un condomino volesse modificare la destinazione d’uso di una o più parti comuni? Quali le maggioranze e gli adempimenti formali richiesti? E’ necessario il voto favorevole dei 4/5 dei partecipanti al condominio, che rappresentino almeno i 4/5 del valore dell’edificio. Occorre convocare l’assemblea per deliberare in merito e tale convocazione deve rimanere affissa, in quei luoghi di maggior uso comune,per un tempo non inferiore a 30 giorni consecutivi.
E' illegale scaricare materiale da internet?
di Rossana De Lucia
Condividere,scaricare,copiare file dalla rete.E' possibile o no?
Tizio decide tramite un particolare software di scaricare da internet tutta una serie di contenuti coperti da diritti d'autore,come ebook,musica,giochi,film ecc. Nel momento in cui sceglie di farlo e poi di condividere in rete ciò che ha scaricato,sta commettendo un reato o no.Quid Iuris?
Nello specifico sono intervenute molteplici sentenze della Corte di Cassazione,precisando che qualora si utilizzino file multimediali in rete esclusivamente per uso personale, il fatto non costituisce reato penale bensì contravvenzione. Il tutto emerge chiaramente dalla legge 633/1941 sul diritto d’autore la quale, grazie anche alle successive modifiche subentrate nel corso degli ultimi anni, è divenuta senz’altro l’emblema,la norma cardine per ciò che concerne i diritti su opere multimediali. Dunque in Italia, sino a questo momento, scaricare dalla rete musica, film o programmi che siano “coperti”,tutelati da diritto d’autore non costituisce di certo reato penale;tranne nel caso in cui si sia agito «per scopo di lucro», destinare cioè tali opere alla rivendita e non più soltanto per usufruirne personalmente. È opportuno chiarire tuttavia che, sempre la Cassazione ha stabilito che la diffusione online di link utili per la visione di incontri di calcio, anche se trasmessi su emittenti estere pagandone i diritti alla stessa società televisiva rendendo poi, anche senza volerlo, disponibile la diretta dei suddetti incontri di calcio sul web,resta comunque un’azione illegale. Differente è il discorso circa i social network.
Basti far notare come in Svizzera(e in altri paesi europei) la condivisione di link abbia favorito ed incrementato la vendita di dischi. Esistono inoltre specifici programmi in rete che consentono,in modo estremamente rapido e semplice,di estrarre la traccia mp3 dai video youtube. Ebbene : trattasi di programmi illegali,dunque azioni perseguibili penalmente? Per meglio intenderci: se io da un video pubblicato su Youtube sul canale di una specifica etichetta discografica , (quindi titolare dei diritti esclusivi di quel brano), estraggo la traccia mp3 ma a posteriori scelgo di non condividere suddetta traccia, limitandomi ad ascoltarla privatamente … sarò perseguibile dalla legge? Attenendoci al contenuto della sentenza della Suprema Corte sopra annoverata,la risposta non può che esser negativa. E’ bene però prender coscienza del fatto che la maggior parte delle persone che caricano e scaricano contenuti multimediali sul web ignorano completamente i contenuti della su citata legge. Ebbene sino ad oggi quali sono stati i provvedimenti adottati dallo Stato italiano volti a definire e regolamentare la prassi della condivisione sul web di file tutelati dal diritto d’autore?Indubbiamente l’adesione all’Anti Counterfeiting Trade Agreement (ACTA)da parte dell’Italia (come già fatto da vari Paesi europei volti a compiacere le major americane) non sembra,a mio avviso,una strada percorribile priva di dossi (per usare una metafora) e senza comunque rischiare di compromettere lo spirito di condivisione congenito e proprio della natura di Internet.
CONCLUDENDO: in tema di condivisione in rete,quali le fattispecie di reato e quali le sanzioni previste dalla legge penale?
Condividere in rete brani coperti da diritto d’autore,seppur SENZA alcuno scopo di lucro (per esempio con programmi per il “file sharing”),equivale ad una sanzione penale fino a 2.065,00 euro, oltre ad una sanzione amministrativa pari a 103,00 euro per ogni file condiviso. Mentre, scaricare da internet musica,files ed altri contenuti senza però condividerli con altri, in seguito anche alle più recenti decisioni giurisprudenziali, sarà punibile con la sola sanzione amministrativa di 154,00 euro; in caso di recidiva però, o qualora la quantità di file scaricati fosse elevata, la sanzione aumenterà fino a 1.032,00 euro,comportando inoltre la confisca dei brani e dell’hardware utilizzato per lo scaricamento.
Tizio decide tramite un particolare software di scaricare da internet tutta una serie di contenuti coperti da diritti d'autore,come ebook,musica,giochi,film ecc. Nel momento in cui sceglie di farlo e poi di condividere in rete ciò che ha scaricato,sta commettendo un reato o no.Quid Iuris?
Nello specifico sono intervenute molteplici sentenze della Corte di Cassazione,precisando che qualora si utilizzino file multimediali in rete esclusivamente per uso personale, il fatto non costituisce reato penale bensì contravvenzione. Il tutto emerge chiaramente dalla legge 633/1941 sul diritto d’autore la quale, grazie anche alle successive modifiche subentrate nel corso degli ultimi anni, è divenuta senz’altro l’emblema,la norma cardine per ciò che concerne i diritti su opere multimediali. Dunque in Italia, sino a questo momento, scaricare dalla rete musica, film o programmi che siano “coperti”,tutelati da diritto d’autore non costituisce di certo reato penale;tranne nel caso in cui si sia agito «per scopo di lucro», destinare cioè tali opere alla rivendita e non più soltanto per usufruirne personalmente. È opportuno chiarire tuttavia che, sempre la Cassazione ha stabilito che la diffusione online di link utili per la visione di incontri di calcio, anche se trasmessi su emittenti estere pagandone i diritti alla stessa società televisiva rendendo poi, anche senza volerlo, disponibile la diretta dei suddetti incontri di calcio sul web,resta comunque un’azione illegale. Differente è il discorso circa i social network.
Basti far notare come in Svizzera(e in altri paesi europei) la condivisione di link abbia favorito ed incrementato la vendita di dischi. Esistono inoltre specifici programmi in rete che consentono,in modo estremamente rapido e semplice,di estrarre la traccia mp3 dai video youtube. Ebbene : trattasi di programmi illegali,dunque azioni perseguibili penalmente? Per meglio intenderci: se io da un video pubblicato su Youtube sul canale di una specifica etichetta discografica , (quindi titolare dei diritti esclusivi di quel brano), estraggo la traccia mp3 ma a posteriori scelgo di non condividere suddetta traccia, limitandomi ad ascoltarla privatamente … sarò perseguibile dalla legge? Attenendoci al contenuto della sentenza della Suprema Corte sopra annoverata,la risposta non può che esser negativa. E’ bene però prender coscienza del fatto che la maggior parte delle persone che caricano e scaricano contenuti multimediali sul web ignorano completamente i contenuti della su citata legge. Ebbene sino ad oggi quali sono stati i provvedimenti adottati dallo Stato italiano volti a definire e regolamentare la prassi della condivisione sul web di file tutelati dal diritto d’autore?Indubbiamente l’adesione all’Anti Counterfeiting Trade Agreement (ACTA)da parte dell’Italia (come già fatto da vari Paesi europei volti a compiacere le major americane) non sembra,a mio avviso,una strada percorribile priva di dossi (per usare una metafora) e senza comunque rischiare di compromettere lo spirito di condivisione congenito e proprio della natura di Internet.
CONCLUDENDO: in tema di condivisione in rete,quali le fattispecie di reato e quali le sanzioni previste dalla legge penale?
Condividere in rete brani coperti da diritto d’autore,seppur SENZA alcuno scopo di lucro (per esempio con programmi per il “file sharing”),equivale ad una sanzione penale fino a 2.065,00 euro, oltre ad una sanzione amministrativa pari a 103,00 euro per ogni file condiviso. Mentre, scaricare da internet musica,files ed altri contenuti senza però condividerli con altri, in seguito anche alle più recenti decisioni giurisprudenziali, sarà punibile con la sola sanzione amministrativa di 154,00 euro; in caso di recidiva però, o qualora la quantità di file scaricati fosse elevata, la sanzione aumenterà fino a 1.032,00 euro,comportando inoltre la confisca dei brani e dell’hardware utilizzato per lo scaricamento.
Violazione di un preliminare di vendita.
di Rossana De Lucia
Quali sono gli effetti giuridici se non si rispetta un preliminare?
Tizio,presso un notaio,stipula un compromesso di vendita alienando a Caio il suo immobile e ricevendo da questi specifica caparra. Cosa accade se nella data di stipulazione del contratto di compravendita vero e proprio,una delle parti decida di non rispettare il contenuto del compromesso stesso. Quid iuris?
Si definisce compromesso (o contratto preliminare) quell’accordo preventivo che impone ai due contraenti di stipulare,in un arco temporale successivo, il contratto definitivo. Solitamente il compromesso è anticipato da un ulteriore accordo preliminare,formalmente definito “proposta d'acquisto”, che l’alienante, di regola, fa firmare all'acquirente nel medesimo istante in cui viene versata la caparra(qualora prevista). Quindi,per intenderci,il compromesso rappresenta quell’atto formale che anticipa il rogito, ed è comunemente noto anche come promessa di vendita. I dettagli contrattuali debbono essere definiti già in questa fase, dal momento che tale accordo formale vincola per primo entrambi i contraenti, con specifici effetti giuridici qualora l’accordo preliminare non venisse rispettato. E’opportuno specificare che il rogito di solito comporta una mera conferma degli impegni preliminari e, nonostante in via teorica appaia comunque possibile effettuare qualsiasi modifica fra l’atto preliminare e quello successivo-definitivo,in realtà ciò risulta molto complesso essendo necessaria sempre e comunque la volontà di entrambe le parti.
Ecco gli elementi tipici del compromesso:
1) generalità dei contraenti e dati relativi all'immobile (risultanze catastali, vani, pertinenze);2) il prezzo dell'immobile,termini e modalità di pagamento;3) certificati di regolarita' dell'immobile rispetto alle norme edilizie e verifica di eventuali ipoteche, servitù e altri vincoli;4) il titolo del possesso,indicando data d’inizio ed eventuali limitazioni;5)versamento dell'acconto o della caparra (di circa il 20-25% del prezzo totale). Giungere alla stipula del compromesso non è una fase obbligatoria,però,qualora scelto,deve riportare tassativamente una serie di indicazioni: caratteristiche dell'immobile , prezzo, eventuali rateazioni e data di consegna dell'immobile. Se poi l’acquisto viene effettuato mediante ricorso a mutuo bancario, è opportuno che chi acquista indichi che il denaro che si obbliga a corrispondere,sarà interamente anticipato dall’istituto di credito così da proteggersi da eventuali rivendicazioni. Comunque sia, basilare è che sia resa manifesta la volontà di entrambi i contraenti. Nella recente prassi giuridica,si è soliti inserire nell’atto preliminare una clausola di ampia portata,prevedendo con essa l’ipotesi di un eventuale acquisto effettuato con persona da nominare:infatti qualora l’originario acquirente fosse impossibilitato,per qualsiasi motivo, a concludere il contratto,l’apposizione di tale clausola consentirà l’ingresso di un soggetto diverso dall’acquirente originario,e l’alienante non potrà eccepire alcunchè. Al momento della stipulazione dell’atto preliminare di vendita,l’acquirente non è obbligato al versamento della cd. “caparra confirmatoria”ma, nonostante l’inesistenza di tale obbligo,ciò è divenuta quasi una vera e propria consuetudine, da intendersi come reciproco impegno da rispettare ai fini del contratto definitivo di vendita. Non è previsto un importo fisso( in caso di versamento di somma di denaro a titolo di caparra),ma di solito esso oscilla tra il 10 ed il 25% del prezzo complessivo di compravendita.
Ma cosa accade se,dopo aver stipulato l’atto preliminare,alienante ed acquirente non intendano più stipulare il contratto definitivo di compravendita?
Nulla di particolare in quanto, ex art.1372c.c, entrambi i contraenti hanno manifestato la loro comune intenzione di sciogliere il contratto. Le parti dovranno soltanto rispettare l’onere di procedere,per atto scritto,all’annullamento del contratto preliminare precedentemente sottoscritto,facendo emergere(nell’atto scritto) il loro comune accordo circa lo scioglimento del compromesso e rinunciando così a future ed eventuali contestazioni. E' questa l’ipotesi dello “scioglimento per mutuo consenso”.
E se invece fosse uno solo, tra i due contraenti, a manifestare la volontà di sciogliere il contratto preliminare?
In tal caso la situazione si complica. La legge tutela particolarmente il contraente i cui interessi risultino danneggiati dal”ripensamento” dell’altra parte,contravvenuta agli impegni precedentemente assunti. A tal proposito sarà il danneggiato a dover scegliere fra 2 rimedi: la richiesta di adempimento del contratto o la risoluzione dello stesso. Se si opta per il primo rimedio,allora la parte otterrà dal giudice - previa instaurazione di un giudizio - l'emanazione di una sentenza costitutiva, produttiva dei medesimi effetti del contratto “rinnegato” e non più concluso. In breve il valore accordato a tale sentenza è sostitutivo del consenso “negato”dal contraente venuto meno all’impegno assunto e non rispettato. Se la scelta ricade sul secondo rimedio – ovvero la risoluzione del contratto - il Giudice provvederà a dichiarare lo scioglimento del contratto preliminare per inadempimento di quella parte che, non avendo voluto concludere il contratto definitivo, sarà condannata inoltre al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, per il danno causato all'altro contraente.
Tizio,presso un notaio,stipula un compromesso di vendita alienando a Caio il suo immobile e ricevendo da questi specifica caparra. Cosa accade se nella data di stipulazione del contratto di compravendita vero e proprio,una delle parti decida di non rispettare il contenuto del compromesso stesso. Quid iuris?
Si definisce compromesso (o contratto preliminare) quell’accordo preventivo che impone ai due contraenti di stipulare,in un arco temporale successivo, il contratto definitivo. Solitamente il compromesso è anticipato da un ulteriore accordo preliminare,formalmente definito “proposta d'acquisto”, che l’alienante, di regola, fa firmare all'acquirente nel medesimo istante in cui viene versata la caparra(qualora prevista). Quindi,per intenderci,il compromesso rappresenta quell’atto formale che anticipa il rogito, ed è comunemente noto anche come promessa di vendita. I dettagli contrattuali debbono essere definiti già in questa fase, dal momento che tale accordo formale vincola per primo entrambi i contraenti, con specifici effetti giuridici qualora l’accordo preliminare non venisse rispettato. E’opportuno specificare che il rogito di solito comporta una mera conferma degli impegni preliminari e, nonostante in via teorica appaia comunque possibile effettuare qualsiasi modifica fra l’atto preliminare e quello successivo-definitivo,in realtà ciò risulta molto complesso essendo necessaria sempre e comunque la volontà di entrambe le parti.
Ecco gli elementi tipici del compromesso:
1) generalità dei contraenti e dati relativi all'immobile (risultanze catastali, vani, pertinenze);2) il prezzo dell'immobile,termini e modalità di pagamento;3) certificati di regolarita' dell'immobile rispetto alle norme edilizie e verifica di eventuali ipoteche, servitù e altri vincoli;4) il titolo del possesso,indicando data d’inizio ed eventuali limitazioni;5)versamento dell'acconto o della caparra (di circa il 20-25% del prezzo totale). Giungere alla stipula del compromesso non è una fase obbligatoria,però,qualora scelto,deve riportare tassativamente una serie di indicazioni: caratteristiche dell'immobile , prezzo, eventuali rateazioni e data di consegna dell'immobile. Se poi l’acquisto viene effettuato mediante ricorso a mutuo bancario, è opportuno che chi acquista indichi che il denaro che si obbliga a corrispondere,sarà interamente anticipato dall’istituto di credito così da proteggersi da eventuali rivendicazioni. Comunque sia, basilare è che sia resa manifesta la volontà di entrambi i contraenti. Nella recente prassi giuridica,si è soliti inserire nell’atto preliminare una clausola di ampia portata,prevedendo con essa l’ipotesi di un eventuale acquisto effettuato con persona da nominare:infatti qualora l’originario acquirente fosse impossibilitato,per qualsiasi motivo, a concludere il contratto,l’apposizione di tale clausola consentirà l’ingresso di un soggetto diverso dall’acquirente originario,e l’alienante non potrà eccepire alcunchè. Al momento della stipulazione dell’atto preliminare di vendita,l’acquirente non è obbligato al versamento della cd. “caparra confirmatoria”ma, nonostante l’inesistenza di tale obbligo,ciò è divenuta quasi una vera e propria consuetudine, da intendersi come reciproco impegno da rispettare ai fini del contratto definitivo di vendita. Non è previsto un importo fisso( in caso di versamento di somma di denaro a titolo di caparra),ma di solito esso oscilla tra il 10 ed il 25% del prezzo complessivo di compravendita.
Ma cosa accade se,dopo aver stipulato l’atto preliminare,alienante ed acquirente non intendano più stipulare il contratto definitivo di compravendita?
Nulla di particolare in quanto, ex art.1372c.c, entrambi i contraenti hanno manifestato la loro comune intenzione di sciogliere il contratto. Le parti dovranno soltanto rispettare l’onere di procedere,per atto scritto,all’annullamento del contratto preliminare precedentemente sottoscritto,facendo emergere(nell’atto scritto) il loro comune accordo circa lo scioglimento del compromesso e rinunciando così a future ed eventuali contestazioni. E' questa l’ipotesi dello “scioglimento per mutuo consenso”.
E se invece fosse uno solo, tra i due contraenti, a manifestare la volontà di sciogliere il contratto preliminare?
In tal caso la situazione si complica. La legge tutela particolarmente il contraente i cui interessi risultino danneggiati dal”ripensamento” dell’altra parte,contravvenuta agli impegni precedentemente assunti. A tal proposito sarà il danneggiato a dover scegliere fra 2 rimedi: la richiesta di adempimento del contratto o la risoluzione dello stesso. Se si opta per il primo rimedio,allora la parte otterrà dal giudice - previa instaurazione di un giudizio - l'emanazione di una sentenza costitutiva, produttiva dei medesimi effetti del contratto “rinnegato” e non più concluso. In breve il valore accordato a tale sentenza è sostitutivo del consenso “negato”dal contraente venuto meno all’impegno assunto e non rispettato. Se la scelta ricade sul secondo rimedio – ovvero la risoluzione del contratto - il Giudice provvederà a dichiarare lo scioglimento del contratto preliminare per inadempimento di quella parte che, non avendo voluto concludere il contratto definitivo, sarà condannata inoltre al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, per il danno causato all'altro contraente.