RECENSIONI
a cura di Valeria Piras
PHOENIX - Rita Ora
di Valeria Piras
Dopo la forzata pausa torna Rita Ora con un album di rinascita personale.
Sono stati davvero interminabili questi sei anni di attesa per il nuovo disco di Rita Ora, soprattutto visto che si tratta di una delle stelle più talentuose della musica r&b mondiale ed è l'unica che gareggia alla pari delle varie Beyonce e Rihanna.E' accaduto tutto questo a Rita Ora, la cantante anglo-kosovara che dopo il successo di “Ora” (2012) ha dovuto subire un'estenuante battaglia legale con la sua ex-etichetta Roc Nation - Columbia che la impediva di pubblicare un disco già quasi pronto. Nel frattempo sono arrivate le varie Jess Glynne e Dua Lipa a rubare la scena e, nonostante il suo riciclarsi come attrice Rita Ora rischiava di perdere terreno. Dopo tanto penare arriva alla fine del 2018 questo “Phoenix”, nome scelto non a caso, contenente alcuni singoli già pubblicati da oltre un anno: è il caso di “Anywhere” che apre il disco, una bombetta EDM uscito nel 2017 che ancora si fa ascoltare con piacere, e anche “Your Song”, la canzone più edsheeriana dell'intero disco, uscita lo scorso maggio.
Il disco distribuito dalla Atlantic Records ovviamente risente di questo lungo periodo di gestazione. 29 produttori si alternano tra le 16 tracce della deluxe version (12 nell'edizione normale), praticamente i più importanti della nuova scena r&b, da Jack&Coke a Cashmere Cat, ma c'è anche un dj-producer EDM come Alesso (per la già citata “Anywhrere”) e anche gli inglesi Rudimental con “Summer Love” che assomiglia a tante altre produzioni del collettivo drum'n'bass inglese. Il disco ha avuto una così lunga gestazione che contiene anche una canzone prodotta da Avicii (“Lonely together”) che nel frattempo è passato a miglior vita.Quindi è evidente trovare un po' di discontinuità in questo disco, anche se in realtà Rita Ora riesce a imporsi con destrezza, grazie a una vocalità non particolarmente virtuosa ma potente ed esuberante, specialmente negli episodi più pop come “Let you love me” o nella collaborazione con Julia Michaels “Keep Talking”.
Forse la canzone che farà più discutere è proprio “Girls”, inno all'empowerment femminile e alla bisessualità, precedentemente registrata con Charli XCX, MØ e Starrah, successivamente con Charli XCX e Raye, mentre nella versione versione finale è cantata insieme a Cardi B, Bebe Rexha e Charli XCX, sfruttando la popolarità della rapper newyorkese, perfetto ariete per sfondare il mercato statunitense. Il resto del disco è formato da canzoni già sentite che risentono del tempo passato e di autentici filler.Rita Ora con questo “Phoenix” è riuscita a risorgere dalle proprie ceneri, facendo capire che può ancora far parte dell'olimpo pop globale, anche se Ariana Grande e pure la timida Alessia Cara si trovano ad un paio di gradini più in alto.
Sono stati davvero interminabili questi sei anni di attesa per il nuovo disco di Rita Ora, soprattutto visto che si tratta di una delle stelle più talentuose della musica r&b mondiale ed è l'unica che gareggia alla pari delle varie Beyonce e Rihanna.E' accaduto tutto questo a Rita Ora, la cantante anglo-kosovara che dopo il successo di “Ora” (2012) ha dovuto subire un'estenuante battaglia legale con la sua ex-etichetta Roc Nation - Columbia che la impediva di pubblicare un disco già quasi pronto. Nel frattempo sono arrivate le varie Jess Glynne e Dua Lipa a rubare la scena e, nonostante il suo riciclarsi come attrice Rita Ora rischiava di perdere terreno. Dopo tanto penare arriva alla fine del 2018 questo “Phoenix”, nome scelto non a caso, contenente alcuni singoli già pubblicati da oltre un anno: è il caso di “Anywhere” che apre il disco, una bombetta EDM uscito nel 2017 che ancora si fa ascoltare con piacere, e anche “Your Song”, la canzone più edsheeriana dell'intero disco, uscita lo scorso maggio.
Il disco distribuito dalla Atlantic Records ovviamente risente di questo lungo periodo di gestazione. 29 produttori si alternano tra le 16 tracce della deluxe version (12 nell'edizione normale), praticamente i più importanti della nuova scena r&b, da Jack&Coke a Cashmere Cat, ma c'è anche un dj-producer EDM come Alesso (per la già citata “Anywhrere”) e anche gli inglesi Rudimental con “Summer Love” che assomiglia a tante altre produzioni del collettivo drum'n'bass inglese. Il disco ha avuto una così lunga gestazione che contiene anche una canzone prodotta da Avicii (“Lonely together”) che nel frattempo è passato a miglior vita.Quindi è evidente trovare un po' di discontinuità in questo disco, anche se in realtà Rita Ora riesce a imporsi con destrezza, grazie a una vocalità non particolarmente virtuosa ma potente ed esuberante, specialmente negli episodi più pop come “Let you love me” o nella collaborazione con Julia Michaels “Keep Talking”.
Forse la canzone che farà più discutere è proprio “Girls”, inno all'empowerment femminile e alla bisessualità, precedentemente registrata con Charli XCX, MØ e Starrah, successivamente con Charli XCX e Raye, mentre nella versione versione finale è cantata insieme a Cardi B, Bebe Rexha e Charli XCX, sfruttando la popolarità della rapper newyorkese, perfetto ariete per sfondare il mercato statunitense. Il resto del disco è formato da canzoni già sentite che risentono del tempo passato e di autentici filler.Rita Ora con questo “Phoenix” è riuscita a risorgere dalle proprie ceneri, facendo capire che può ancora far parte dell'olimpo pop globale, anche se Ariana Grande e pure la timida Alessia Cara si trovano ad un paio di gradini più in alto.
DIARI APERTI - Elisa
di Valeria Piras
Elisa si celebra tra passata e futuro, un disco intimo che fa pensare.
Dopo i concerti all'Arena di Verona nei quali Elisa ha celebrato i ventanni di carriera musicale e dopo aver lasciato la casa discografica Sugar che la scoprì e alla quale è stata legata per due decenni Elisa riparte da Diari Aperti, il suo nuovo album di inediti. Il disco è la sua risposta ad una serie di cerchi che si andavano a chiudere. Questo album era in programma l'anno scorso perchè ricco di pezzi anche del passato che l'artista aveva tenuto nascosti in un cassetto. Ma per preparare al meglio i concerti in Arena, Elisa ha deciso di rimandarne l'uscita a data da destinarsi. Nel frattempo, i programmi sono cambiati: una pausa di riflessione le è servita per riprendere fiato e fare il punto della situazione, suggerendole di cambiare completamente direzione.Rispetto al passato, stavolta voleva essere più esplicita, raccontare senza filtri, metafore e giri di parole pagine della sua vita (non a caso, il disco è cantato tutto in italiano, come "L'anima vola" del 2013).
I "diari aperti" del titolo sono quelli che Elisa ha tirato fuori dagli armadi alla ricerca di ricordi da trasformare in canzoni: c'è Elisa versione quindicenne "con il braccio rotto e l'Estathé versato addosso" nell'estate del '92 ("Come fosse adesso"), Elisa versione mamma che canta a suo figlio "con te ho imparato a dire 'ti voglio bene'" ("Promettimi"), Elisa versione cantautrice che a quarant'anni decide di voltare pagina e mettersi in discussione ("Tutta un'altra storia"), riconoscendo di non avere sempre la stessa spinta e l'urgenza espressiva che aveva a vent'anni e accettando per questo di confrontarsi con autori più giovani (come Calcutta per "Se piovesse il tuo nome", Federica Abbate per "Vivere tutte le vite" e Davide Petrella per "Tua per sempre").Non aspettatevi un ritorno al rock degli esordi: "Diari aperti" è un disco intimista e riflessivo, in cui le canzoni sono spesso cantate sottovoce, quasi sussurrate ("Anche fragile", "Con te mi sento così"), accompagnate da da sonorità morbide e eleganti (chitarre, pianoforte, fiati - nella produzione e negli arrangiamenti si sente il tocco di Taketo Gohara).
È un passo di lato rispetto alla grinta e all'energia di "On", l'album del 2016 che spiazzò i fan della cantautrice, anche se non mancano un paio di pezzi che vanno fuori dal tracciato, come "L'estate già fuori" (un reggae dalle sonorità elettroniche, in odore di singolo per la prossima estate) e "Tutta un'altra storia".In "Diari aperti" Elisa cammina in precario ma sufficiente equilibrio tra passato e futuro: "Se cercherai chi sono stata, ritroverai chi sono adesso", canta in "Tua per sempre". Questo album rappresenta al tempo stesso un modo per tracciare un bilancio e aprirsi alle novità, riflettere su quante pagine sono state scritte e su quanto ancora c'è da scrivere.
Dopo i concerti all'Arena di Verona nei quali Elisa ha celebrato i ventanni di carriera musicale e dopo aver lasciato la casa discografica Sugar che la scoprì e alla quale è stata legata per due decenni Elisa riparte da Diari Aperti, il suo nuovo album di inediti. Il disco è la sua risposta ad una serie di cerchi che si andavano a chiudere. Questo album era in programma l'anno scorso perchè ricco di pezzi anche del passato che l'artista aveva tenuto nascosti in un cassetto. Ma per preparare al meglio i concerti in Arena, Elisa ha deciso di rimandarne l'uscita a data da destinarsi. Nel frattempo, i programmi sono cambiati: una pausa di riflessione le è servita per riprendere fiato e fare il punto della situazione, suggerendole di cambiare completamente direzione.Rispetto al passato, stavolta voleva essere più esplicita, raccontare senza filtri, metafore e giri di parole pagine della sua vita (non a caso, il disco è cantato tutto in italiano, come "L'anima vola" del 2013).
I "diari aperti" del titolo sono quelli che Elisa ha tirato fuori dagli armadi alla ricerca di ricordi da trasformare in canzoni: c'è Elisa versione quindicenne "con il braccio rotto e l'Estathé versato addosso" nell'estate del '92 ("Come fosse adesso"), Elisa versione mamma che canta a suo figlio "con te ho imparato a dire 'ti voglio bene'" ("Promettimi"), Elisa versione cantautrice che a quarant'anni decide di voltare pagina e mettersi in discussione ("Tutta un'altra storia"), riconoscendo di non avere sempre la stessa spinta e l'urgenza espressiva che aveva a vent'anni e accettando per questo di confrontarsi con autori più giovani (come Calcutta per "Se piovesse il tuo nome", Federica Abbate per "Vivere tutte le vite" e Davide Petrella per "Tua per sempre").Non aspettatevi un ritorno al rock degli esordi: "Diari aperti" è un disco intimista e riflessivo, in cui le canzoni sono spesso cantate sottovoce, quasi sussurrate ("Anche fragile", "Con te mi sento così"), accompagnate da da sonorità morbide e eleganti (chitarre, pianoforte, fiati - nella produzione e negli arrangiamenti si sente il tocco di Taketo Gohara).
È un passo di lato rispetto alla grinta e all'energia di "On", l'album del 2016 che spiazzò i fan della cantautrice, anche se non mancano un paio di pezzi che vanno fuori dal tracciato, come "L'estate già fuori" (un reggae dalle sonorità elettroniche, in odore di singolo per la prossima estate) e "Tutta un'altra storia".In "Diari aperti" Elisa cammina in precario ma sufficiente equilibrio tra passato e futuro: "Se cercherai chi sono stata, ritroverai chi sono adesso", canta in "Tua per sempre". Questo album rappresenta al tempo stesso un modo per tracciare un bilancio e aprirsi alle novità, riflettere su quante pagine sono state scritte e su quanto ancora c'è da scrivere.
Q U E E N - Nicky Minay
di Valeria Piras
Ormai è vero.Il rap ha la sua regina, ricca di talento e senza freni inibitori.
Nicki Minaj è la scoperta musicale degli ultimi anni. Il suo ritmo musicale e il suo flow esplosivo hanno davvero spostato equilibri e portato una spruzzata di nuovo nel mondo del rap americano e non solo. Il suo nuovo album si intitola Queen ed è un nome adatto a lei che ormai si muove come una regina sulla scena musicale mondiale, tra singoli e centinaia di collaborazioni con artisti di ogni genere. Sul disco in copertina c'è lei come una Cleopatra del nuovo millennio. L’immagine è firmata da Mert Alas e Marcus Piggott, gli stessi che hanno diretto il video di “Ganja Burns”, brano che apre questo quarto disco in studio.Tanti sono i riconoscimenti ricevuti da Nicki nel corso della sua carriera, tra cui spicca il premio ai BET Awards che l’ha consacrata "Best Female Hip-Hop Artist" per sette anni consecutivi.
Già questo basterebbe a chiudere ogni rivalità con Cardi B, giovane rapper americana fiorita nel mondo dello striptease, ma a nostro modesto parere la Minaj si toglie ancora qualche sassolino dalla scarpa con “Hard White” (“I ain't ever have to strip to get the pole position”).Perché Nicki è così, diretta, irriverente, e a noi piace proprio per quello. Peccato non poterne comprendere immediatamente i testi, perché lo spasso è assicurato.A partire da “Barbie Dreams” in cui, tra i rapper con cui è stata a letto e quelli che avrebbero voluto portarcela, la Minaj non risparmia nessuno.
Sfodera la spada da regina guerriera e tira in ballo pure Drake, ironizzando su quella sua aria un po’ triste. Se “Bed”, con Ariana Grande, è già un successo di ascolti su Spotify e di visualizzazioni su YouTube (complici le riprese in riva al mare e a bordo piscina, che ne esaltano le virtù), a colpire davvero è “Majesty”, seconda collaborazione con Eminem, a distanza di otto anni da “Roman’s Revenge”, con la partecipazione, inoltre, del rapper britannico Labrinth. Nicki non si ferma qui e firma anche, insieme a Lil Wayne, “Rich Sex”, assicurandosi così due icone del rap in un unico disco.“Queen” è un bel mix di hip-hop e R&B con qualche sonorità caraibica spruzzata qua e là come un profumo sensuale, 19 brani che aumentano anche la temperatura del termometro sul terrazzo. Certo, con un numero così elevato di canzoni il risultato non può essere perfetto e non tutte sono particolarmente riuscite. Ma quando Nicki colpisce, lo fa davvero da indiscussa regina dell’hip-hop.
Nicki Minaj è la scoperta musicale degli ultimi anni. Il suo ritmo musicale e il suo flow esplosivo hanno davvero spostato equilibri e portato una spruzzata di nuovo nel mondo del rap americano e non solo. Il suo nuovo album si intitola Queen ed è un nome adatto a lei che ormai si muove come una regina sulla scena musicale mondiale, tra singoli e centinaia di collaborazioni con artisti di ogni genere. Sul disco in copertina c'è lei come una Cleopatra del nuovo millennio. L’immagine è firmata da Mert Alas e Marcus Piggott, gli stessi che hanno diretto il video di “Ganja Burns”, brano che apre questo quarto disco in studio.Tanti sono i riconoscimenti ricevuti da Nicki nel corso della sua carriera, tra cui spicca il premio ai BET Awards che l’ha consacrata "Best Female Hip-Hop Artist" per sette anni consecutivi.
Già questo basterebbe a chiudere ogni rivalità con Cardi B, giovane rapper americana fiorita nel mondo dello striptease, ma a nostro modesto parere la Minaj si toglie ancora qualche sassolino dalla scarpa con “Hard White” (“I ain't ever have to strip to get the pole position”).Perché Nicki è così, diretta, irriverente, e a noi piace proprio per quello. Peccato non poterne comprendere immediatamente i testi, perché lo spasso è assicurato.A partire da “Barbie Dreams” in cui, tra i rapper con cui è stata a letto e quelli che avrebbero voluto portarcela, la Minaj non risparmia nessuno.
Sfodera la spada da regina guerriera e tira in ballo pure Drake, ironizzando su quella sua aria un po’ triste. Se “Bed”, con Ariana Grande, è già un successo di ascolti su Spotify e di visualizzazioni su YouTube (complici le riprese in riva al mare e a bordo piscina, che ne esaltano le virtù), a colpire davvero è “Majesty”, seconda collaborazione con Eminem, a distanza di otto anni da “Roman’s Revenge”, con la partecipazione, inoltre, del rapper britannico Labrinth. Nicki non si ferma qui e firma anche, insieme a Lil Wayne, “Rich Sex”, assicurandosi così due icone del rap in un unico disco.“Queen” è un bel mix di hip-hop e R&B con qualche sonorità caraibica spruzzata qua e là come un profumo sensuale, 19 brani che aumentano anche la temperatura del termometro sul terrazzo. Certo, con un numero così elevato di canzoni il risultato non può essere perfetto e non tutte sono particolarmente riuscite. Ma quando Nicki colpisce, lo fa davvero da indiscussa regina dell’hip-hop.
E U F O R I A
di Valeria Piras
Un'altra grande prova registica per la Golino. Un film intimo e profondo.
Valeria Golino è diventata ormai una talentuosa regista. Nelle sale è da oggi presente Euforia, il suo secondo film.Un film che promette davvero bene, con due attori azzeccati ed ispiratissimi che va ad indagare il rapporto profondo tra due fratelli diametralmente opposti. I protagonisti sono Valeria Mastrandrea, che rappresenta il fratello maggiore, dal carattere chiuso e riflessivo, insegnante e con un matrimonio fallito che lo fa soffrire ancora. Riccardo Scamarcio è il minore, giovane imprenditore ossessionato dal successo e dall’aspetto fisico, estroverso e teatrale ai limiti dell’eccesso. La regista indaga il rapporto umano tra i due: anche se non ci si sente da giorni, quando si ritrova la voce di un fratello è come tornare a casa. Con sensibilità e sincerità, Valeria Golino esplora questo rapporto che, dall'esterno, può sembrare incomprensibile, quello di due persone che magari urlano, si insultano, a volte sono anche cattive tra loro, ma sono indissolubilmente legate da un filo che sarebbe innaturale spezzare, perché sarebbe come recidere la nostra storia, la nostra identità.
Nessuno può conoscerci davvero come un fratello o una sorella: questo da una parte è una sicurezza, dall'altra fa paura, perché di fronte a loro non si può mentire. Calibrando con sapienza gesti quotidiani che più diventano intimi, e quasi banali, più sanno di vita vissuta, Valeria Golino mette in scena alla perfezione il rapporto tra Matteo ed Ettore, facendoli scontrare, allontanare, ritrovare, ridere, piangere, ballare, risuonare di tutte le emozioni proprie della vita. L'ossessione di Matteo di operarsi ai polpacci, per migliorarne l'aspetto, diventa mostruosa di fronte al tumore di Ettore, che entrando in sala operatoria probabilmente non ne uscirebbe più: il non risparmiare le meschinità, le piccolezze, le vanità, gli errori ci fa amare questi fratelli ancora di più, perché li sentiamo vicini e soprattutto umani. Usando sapientemente gli spazi, Valeria Golino racconta magnificamente una storia fatta di sentimento, che si frammenta in sfumature via via sempre più complesse, come solo i rapporti familiari sanno essere.
Incastonati come gemme nelle geometrie disegnate dalla regista, Valerio Mastandrea e Riccardo Scamarcio sono una coppia dalla chimica perfetta. Il primo lavora sempre più per sottrazione, diventando quasi una figura da cinema muto, il secondo è forse alla sua prova migliore. Perfette, anche se in ruoli secondari, anche Isabella Ferrari, nel ruolo di Michela, moglie di Ettore, e Jasmine Trinca, che interpreta invece la sua amante, Elena.
Valeria Golino è diventata ormai una talentuosa regista. Nelle sale è da oggi presente Euforia, il suo secondo film.Un film che promette davvero bene, con due attori azzeccati ed ispiratissimi che va ad indagare il rapporto profondo tra due fratelli diametralmente opposti. I protagonisti sono Valeria Mastrandrea, che rappresenta il fratello maggiore, dal carattere chiuso e riflessivo, insegnante e con un matrimonio fallito che lo fa soffrire ancora. Riccardo Scamarcio è il minore, giovane imprenditore ossessionato dal successo e dall’aspetto fisico, estroverso e teatrale ai limiti dell’eccesso. La regista indaga il rapporto umano tra i due: anche se non ci si sente da giorni, quando si ritrova la voce di un fratello è come tornare a casa. Con sensibilità e sincerità, Valeria Golino esplora questo rapporto che, dall'esterno, può sembrare incomprensibile, quello di due persone che magari urlano, si insultano, a volte sono anche cattive tra loro, ma sono indissolubilmente legate da un filo che sarebbe innaturale spezzare, perché sarebbe come recidere la nostra storia, la nostra identità.
Nessuno può conoscerci davvero come un fratello o una sorella: questo da una parte è una sicurezza, dall'altra fa paura, perché di fronte a loro non si può mentire. Calibrando con sapienza gesti quotidiani che più diventano intimi, e quasi banali, più sanno di vita vissuta, Valeria Golino mette in scena alla perfezione il rapporto tra Matteo ed Ettore, facendoli scontrare, allontanare, ritrovare, ridere, piangere, ballare, risuonare di tutte le emozioni proprie della vita. L'ossessione di Matteo di operarsi ai polpacci, per migliorarne l'aspetto, diventa mostruosa di fronte al tumore di Ettore, che entrando in sala operatoria probabilmente non ne uscirebbe più: il non risparmiare le meschinità, le piccolezze, le vanità, gli errori ci fa amare questi fratelli ancora di più, perché li sentiamo vicini e soprattutto umani. Usando sapientemente gli spazi, Valeria Golino racconta magnificamente una storia fatta di sentimento, che si frammenta in sfumature via via sempre più complesse, come solo i rapporti familiari sanno essere.
Incastonati come gemme nelle geometrie disegnate dalla regista, Valerio Mastandrea e Riccardo Scamarcio sono una coppia dalla chimica perfetta. Il primo lavora sempre più per sottrazione, diventando quasi una figura da cinema muto, il secondo è forse alla sua prova migliore. Perfette, anche se in ruoli secondari, anche Isabella Ferrari, nel ruolo di Michela, moglie di Ettore, e Jasmine Trinca, che interpreta invece la sua amante, Elena.
A STAR IS BORN
di Valeria Piras
Esordio alla regia per Bradley Cooper. Interessante ma senza vere novità.
L'attore americano decidere di esordire alla regia con una storia drammatica molto chiara e nota, il ritorno/remake di un classico canovaccio del cinema americano, quello della scoperta di un talento musicale nascosto nell’anonimato di una vita molto comune. A Star Is Born è un compromesso con le necessità di fare soldi di Hollywood e la voglia di un artista di cimentarsi con la macchina da presa. Tutto nasce dalla passione di Bradley Cooper per la musica, e dalla speculare passione di Lady Gaga per la recitazione. Se Lady Gaga si è affidata all’esperienza dell’attore Cooper, quest’ultimo si è lasciato consigliare dalla grande cantante. “Tanta gente ha talento, la differenza la fa se hai qualcosa da dire”, dice il cantante Jackson Maine, con look, capelli, barba e anche voce roca che rimandano a Eddie Vedder, quando ascolta per caso la giovane cameriera Ally, performance occasionale in un piccolo locale, durante una serata drag queen. “Devi essere te stessa, metterti a nudo, se vuoi durare”, aggiunge nel momento in cui la sua protetta, e nel frattempo amata, sta per esplodere con l’album d’esordio.
Un'ossessione per la sincerità, per la musica che deve venire dal cuore, onnipresente nel film, tanto da insistere rispetto alla storia originale su alcune scene e svolte narrative drammatiche. Le parabole dei due artisti si muovono in versi opposti: lui è una stella che sta soccombendo all’abuso di alcol e droghe, lei è appunto nascente e da spaventato bruco vogliosa di spiccare il volo come farfalla. I due si incrociano, ritrovando una comune fragilità e l’amore per la performance pura, quella figlia dell’urgenza di comunicare, di dire cose che si sentono nelle viscere. Non sembra casuale, però, l’adattamento delle storia alle caratteristiche della Gaga performer, non solo cantante.
Il cantautore senza fronzoli Jack inizia a vedere con sospetto l’aggiunta di orpelli estetici propugnati dal giovane manager molto in voga di Ally, che vuole lanciarla con ballerine, capelli platino, balletti e un personaggio più in linea con i gusti pop attuali. Chissà che non sia un percorso di autoanalisi anche per l’amante dell’eccessivo Lady Gaga, brutto anatroccolo che si nasconde dietro maschere e coreografie, che forse proprio grazie ad Ally potrebbe rendersi conto come sia al suo massimo senza trucco, aiutata solo dalla sua voce e dal suo indubbio carisma, quello che trasforma il talento in una formula magica per pochi eletti. Il film lo dimostra, anche grazie a una delle migliori performance di Cooper, cantante dalle insospettabili capacità. Sono loro due che rendono A Star is Born qualcosa di più rispetto a una (ben nota) storia convenzionale di ascesa e caduta di due artisti alle prese con la celebrità, spesso poco in sintonia con il talento.
L'attore americano decidere di esordire alla regia con una storia drammatica molto chiara e nota, il ritorno/remake di un classico canovaccio del cinema americano, quello della scoperta di un talento musicale nascosto nell’anonimato di una vita molto comune. A Star Is Born è un compromesso con le necessità di fare soldi di Hollywood e la voglia di un artista di cimentarsi con la macchina da presa. Tutto nasce dalla passione di Bradley Cooper per la musica, e dalla speculare passione di Lady Gaga per la recitazione. Se Lady Gaga si è affidata all’esperienza dell’attore Cooper, quest’ultimo si è lasciato consigliare dalla grande cantante. “Tanta gente ha talento, la differenza la fa se hai qualcosa da dire”, dice il cantante Jackson Maine, con look, capelli, barba e anche voce roca che rimandano a Eddie Vedder, quando ascolta per caso la giovane cameriera Ally, performance occasionale in un piccolo locale, durante una serata drag queen. “Devi essere te stessa, metterti a nudo, se vuoi durare”, aggiunge nel momento in cui la sua protetta, e nel frattempo amata, sta per esplodere con l’album d’esordio.
Un'ossessione per la sincerità, per la musica che deve venire dal cuore, onnipresente nel film, tanto da insistere rispetto alla storia originale su alcune scene e svolte narrative drammatiche. Le parabole dei due artisti si muovono in versi opposti: lui è una stella che sta soccombendo all’abuso di alcol e droghe, lei è appunto nascente e da spaventato bruco vogliosa di spiccare il volo come farfalla. I due si incrociano, ritrovando una comune fragilità e l’amore per la performance pura, quella figlia dell’urgenza di comunicare, di dire cose che si sentono nelle viscere. Non sembra casuale, però, l’adattamento delle storia alle caratteristiche della Gaga performer, non solo cantante.
Il cantautore senza fronzoli Jack inizia a vedere con sospetto l’aggiunta di orpelli estetici propugnati dal giovane manager molto in voga di Ally, che vuole lanciarla con ballerine, capelli platino, balletti e un personaggio più in linea con i gusti pop attuali. Chissà che non sia un percorso di autoanalisi anche per l’amante dell’eccessivo Lady Gaga, brutto anatroccolo che si nasconde dietro maschere e coreografie, che forse proprio grazie ad Ally potrebbe rendersi conto come sia al suo massimo senza trucco, aiutata solo dalla sua voce e dal suo indubbio carisma, quello che trasforma il talento in una formula magica per pochi eletti. Il film lo dimostra, anche grazie a una delle migliori performance di Cooper, cantante dalle insospettabili capacità. Sono loro due che rendono A Star is Born qualcosa di più rispetto a una (ben nota) storia convenzionale di ascesa e caduta di due artisti alle prese con la celebrità, spesso poco in sintonia con il talento.
KAMIKAZE - Eminem
di Valeria Piras
Il rapper bianco torna sulle scene con un album davvero denso e musicalmente potente.
Eminem è tornato e l’ha fatto in grande stile. Dopo alcuni anni in cui l’ispirazione sembrava averlo abbandonato torna con Kamikaze, un disco che urla rabbia e contenuti e che al primo ascolto lascia a bocca aperta, come se il tempo si fosse fermato per il rapper di Detroit. Eminem appartiene ai musicisti di vecchia scuola che hanno bisogno di un nemico contro cui scagliarsi e contro cui urlare le proprie rime, solo così danno il meglio di se. Il suo precedente lavoro “Revival”, uscito a fine 2017, non è stato accolto con particolare entusiasmo dalla critica e dal pubblico, nonostante i featuring d'eccezione (Beyoncé, Ed Sheeran, Pink, Alicia Keys, tra gli altri); poi un tour trionfale che ha toccato i principali festival rock di mezzo mondo (e, per la prima volta, giusto anche in Italia di fronte agli 80 mila di Milano) ha riportato in alto il suo talento, la sua autostima e la sua aggressività musicale. Il risultato di questa vera e propria vendetta in musica è “Kamikaze”, disco rabbioso e irregolare, sboccato e omofobo, autoreferenziale e autoironico, pieno zeppo di dissing sparati a velocità supersonica. La prima traccia “The ringer” è lampante. Con la tecnica superlativa che tutti gli riconosciamo, Eminem qui non risparmia nessuno, ma soprattutto se la prende con i nuovi reucci della scena trap – Migos, Vince Staples, Lil Pump che fa pure rima con Trump, altro bersaglio di questo disco, come vedremo – rei di parlare solo di gioielli, droghe e scopate, ma soprattutto incapaci di rappare.
Il pezzo parte proprio con il classico flow del genere trap salvo poi mettere il turbo e accelerare con stratosferici extrabeat. Anche in “Not Alike”, con lo stesso giochino, usa inizialmente beat e flow della trap per dichiararne la sua distanza e auto-assegnandosi un posto di rilievo nella scena rap. In “Greatest” interpola anche “Humble” di Kendrick Lamar (e in Lucky You riprende “Dna”) e si lancia nel confronto autoironico tra “DAMN” e il suo ultimo lavoro (“Revival didn't go viral!”).Il titolo Kamikaze deriva dal termine che aveva usato per chiamare Trump in “The Storm”, un durissimo j'accuse in cui si schierava apertamente contro neo Presidente e chi lo aveva votato, presentato durante i BET Hip-Hop Award 2017; nella già citata “The Ringer” ritorna sull'argomento e rappa “se potessi tornare indietro, lo avrei almeno riformulato / e dire che mi identifico con le persone a cui questo serpente malvagio ha venduto il sogno che loro meritavano".Musicalmente non ci sono grande novità nella produzione di Dr. Dre e dello stesso Eminem e anche i sample non risultano particolarmente originali, anzi, a partire dalla copertina - una smaccata citazione dei Beastie Boys di “Licenced to Ill” il primo disco di rap bianco – Kamikaze è un inno alla superiorità della vecchia scuola.“Kamikaze” è un disco ostico all'ascolto, come tutti quelli dove la tecnica superveloce del flow impera, e seppur non ci sia nessuna traccia “commerciale” con il cantato del featuring famoso, non mancano canzoni più accessibili, come la nostalgica “Steeping Stones” dove si guarda indietro al suo successo e agli amici morti e “Fall”, che vede l'ausilio di Justin Vernon.
Dal punto di vista dei testi “Fall” è l'ennesima litania di insulti contro i trapper e che contiene anche offese gratuite verso Tyler, The Creator e il suo recente coming out: lo stesso Vernon ha preso le distanze dalla canzone dichiarando che non era presente quando Eminem ha registrato quelle barre, infatti non compare come featuring del pezzo.La misoginia è come sempre il punto debole di Eminem: in “Normal” ricade sulla sua mascolinità tossica e violenta, anche se in questo caso racconta solo una storia e il personaggio non è Eminem in prima persona, però tutto rimane piuttosto imbarazzante da ascoltare. Lo stesso accade anche in certe strofe di “Nice Guy” e “Good Guy” entrambi con il featuring di Jessie Reyez. Chiude il disco la traccia che, verosimilmente, ascolteremo più spesso nei prossimi mesi, ovvero il tema - piuttosto anonimo, invero – del prossimo blockbuster Marvel dedicato a “Venom”.Con questo 'Kamikaze' Eminem si riprende dal passo falso di “Revival” per imporsi come il rapper più cazzuto di tutti ma, così facendo, evidenzia ancora di più certi suoi limiti in termini di testi e beats, rimasti ancora a un passato glorioso. Mentre l'hip-hop continua a guardare avanti.
Eminem è tornato e l’ha fatto in grande stile. Dopo alcuni anni in cui l’ispirazione sembrava averlo abbandonato torna con Kamikaze, un disco che urla rabbia e contenuti e che al primo ascolto lascia a bocca aperta, come se il tempo si fosse fermato per il rapper di Detroit. Eminem appartiene ai musicisti di vecchia scuola che hanno bisogno di un nemico contro cui scagliarsi e contro cui urlare le proprie rime, solo così danno il meglio di se. Il suo precedente lavoro “Revival”, uscito a fine 2017, non è stato accolto con particolare entusiasmo dalla critica e dal pubblico, nonostante i featuring d'eccezione (Beyoncé, Ed Sheeran, Pink, Alicia Keys, tra gli altri); poi un tour trionfale che ha toccato i principali festival rock di mezzo mondo (e, per la prima volta, giusto anche in Italia di fronte agli 80 mila di Milano) ha riportato in alto il suo talento, la sua autostima e la sua aggressività musicale. Il risultato di questa vera e propria vendetta in musica è “Kamikaze”, disco rabbioso e irregolare, sboccato e omofobo, autoreferenziale e autoironico, pieno zeppo di dissing sparati a velocità supersonica. La prima traccia “The ringer” è lampante. Con la tecnica superlativa che tutti gli riconosciamo, Eminem qui non risparmia nessuno, ma soprattutto se la prende con i nuovi reucci della scena trap – Migos, Vince Staples, Lil Pump che fa pure rima con Trump, altro bersaglio di questo disco, come vedremo – rei di parlare solo di gioielli, droghe e scopate, ma soprattutto incapaci di rappare.
Il pezzo parte proprio con il classico flow del genere trap salvo poi mettere il turbo e accelerare con stratosferici extrabeat. Anche in “Not Alike”, con lo stesso giochino, usa inizialmente beat e flow della trap per dichiararne la sua distanza e auto-assegnandosi un posto di rilievo nella scena rap. In “Greatest” interpola anche “Humble” di Kendrick Lamar (e in Lucky You riprende “Dna”) e si lancia nel confronto autoironico tra “DAMN” e il suo ultimo lavoro (“Revival didn't go viral!”).Il titolo Kamikaze deriva dal termine che aveva usato per chiamare Trump in “The Storm”, un durissimo j'accuse in cui si schierava apertamente contro neo Presidente e chi lo aveva votato, presentato durante i BET Hip-Hop Award 2017; nella già citata “The Ringer” ritorna sull'argomento e rappa “se potessi tornare indietro, lo avrei almeno riformulato / e dire che mi identifico con le persone a cui questo serpente malvagio ha venduto il sogno che loro meritavano".Musicalmente non ci sono grande novità nella produzione di Dr. Dre e dello stesso Eminem e anche i sample non risultano particolarmente originali, anzi, a partire dalla copertina - una smaccata citazione dei Beastie Boys di “Licenced to Ill” il primo disco di rap bianco – Kamikaze è un inno alla superiorità della vecchia scuola.“Kamikaze” è un disco ostico all'ascolto, come tutti quelli dove la tecnica superveloce del flow impera, e seppur non ci sia nessuna traccia “commerciale” con il cantato del featuring famoso, non mancano canzoni più accessibili, come la nostalgica “Steeping Stones” dove si guarda indietro al suo successo e agli amici morti e “Fall”, che vede l'ausilio di Justin Vernon.
Dal punto di vista dei testi “Fall” è l'ennesima litania di insulti contro i trapper e che contiene anche offese gratuite verso Tyler, The Creator e il suo recente coming out: lo stesso Vernon ha preso le distanze dalla canzone dichiarando che non era presente quando Eminem ha registrato quelle barre, infatti non compare come featuring del pezzo.La misoginia è come sempre il punto debole di Eminem: in “Normal” ricade sulla sua mascolinità tossica e violenta, anche se in questo caso racconta solo una storia e il personaggio non è Eminem in prima persona, però tutto rimane piuttosto imbarazzante da ascoltare. Lo stesso accade anche in certe strofe di “Nice Guy” e “Good Guy” entrambi con il featuring di Jessie Reyez. Chiude il disco la traccia che, verosimilmente, ascolteremo più spesso nei prossimi mesi, ovvero il tema - piuttosto anonimo, invero – del prossimo blockbuster Marvel dedicato a “Venom”.Con questo 'Kamikaze' Eminem si riprende dal passo falso di “Revival” per imporsi come il rapper più cazzuto di tutti ma, così facendo, evidenzia ancora di più certi suoi limiti in termini di testi e beats, rimasti ancora a un passato glorioso. Mentre l'hip-hop continua a guardare avanti.
LIBERATION - Christina Aguilera
di Valeria Piras
L'ennesima rinascita della pop girl per eccellenza. Questa volta la strada sembra giusta.
Era il lontano 2012 quando Christina Aguilera tornò con un album di inediti dal titolo Bionic. Fu un mezzo disastro e dopo il primo singolo di lancio, la cantante non preparò alcun altro pezzo da regalare ai fan. Furono anni di riflessione e alla fine dopo sei per la precisione Chrisitina ha deciso di tornare e l'ha fatto mettendo un punto al passato e voltando completamente pagina. Il suo nuovo disco si chiama LIBERATION, un titolo evocativo e molto sentito. Grazie all'amicizia stretta con Demy Lovato, la Aguilera si è ripresa e ha dato alla luce un lavoro nuovo e molto intimo. Liberation è un disco personale, che a molti ricorda "Stripped", il gioiello assoluto della carriera discografica della Aguilera. La produzione è curatissima, tra interlude mai messi a caso e un disco dal sapore "concept". A differenza, però, di Stripped, all'interno di "Liberation", non ci sono pezzi talmente efficaci da far gridare alla "hit". Nessuna "Beautiful", "Fighter", "Can't Hold Us Down" o "The Voice Within", per intenderci. L'intro, Liberation, è meravigliosa. Solo musica e poche parole pronunciate da Xtina che parla a se stessa, cercando il suo animo più profondo, la sua bimba nascosta... "Where are you? Are you there?"... "Remember".
Pochi secondi che hanno la capacità di emozionare. "Maria" è la terza traccia, prima vera e propria canzone dopo le due introduzioni, ed è proprio il secondo nome della Aguilera, il suo lato più personale e introspettivo.Christina spazia dal lato ribelle rock di "Sick of Sittin'" alla ballad intensa di Twice, con sfumature gospel, passando per le audaci mosse di "Right Moves" e collaborazioni con i Goldlink in "Like I Do".
Sono molti i temi toccati, dall'emancipazione, al potere femminile (Fall in Line meriterebbe un riscontro di vendite nelle classifiche), all'amore sbagliato che non riesce ad essere allontanato ("Masochist") fino al grande passo delle nozze ("Unless It's with you").La Aguilera ha scelto di non puntare a brani immediati dal sapore di primi posti nelle classifiche per "spogliarsi nuovamente" (stripped...) di orpelli, trucco e maschere. Non a caso la cover del disco la mostra acqua e sapone, apparentemente fragile. E' un disco maturo che potrebbe fare da spartiacque ad un prossimo album più radio/chart friendly. E' introspettiva, raccolta e con molte sfumature. Si è liberata della caccia alla numero 1 a tutti i costi, del desiderio di essere la regina delle classifiche per raccontarsi e raccontare. Ora, una volta avvenuta la "Liberation", Xtina si merita un prossimo step di ritrovato successo anche in chart.
Era il lontano 2012 quando Christina Aguilera tornò con un album di inediti dal titolo Bionic. Fu un mezzo disastro e dopo il primo singolo di lancio, la cantante non preparò alcun altro pezzo da regalare ai fan. Furono anni di riflessione e alla fine dopo sei per la precisione Chrisitina ha deciso di tornare e l'ha fatto mettendo un punto al passato e voltando completamente pagina. Il suo nuovo disco si chiama LIBERATION, un titolo evocativo e molto sentito. Grazie all'amicizia stretta con Demy Lovato, la Aguilera si è ripresa e ha dato alla luce un lavoro nuovo e molto intimo. Liberation è un disco personale, che a molti ricorda "Stripped", il gioiello assoluto della carriera discografica della Aguilera. La produzione è curatissima, tra interlude mai messi a caso e un disco dal sapore "concept". A differenza, però, di Stripped, all'interno di "Liberation", non ci sono pezzi talmente efficaci da far gridare alla "hit". Nessuna "Beautiful", "Fighter", "Can't Hold Us Down" o "The Voice Within", per intenderci. L'intro, Liberation, è meravigliosa. Solo musica e poche parole pronunciate da Xtina che parla a se stessa, cercando il suo animo più profondo, la sua bimba nascosta... "Where are you? Are you there?"... "Remember".
Pochi secondi che hanno la capacità di emozionare. "Maria" è la terza traccia, prima vera e propria canzone dopo le due introduzioni, ed è proprio il secondo nome della Aguilera, il suo lato più personale e introspettivo.Christina spazia dal lato ribelle rock di "Sick of Sittin'" alla ballad intensa di Twice, con sfumature gospel, passando per le audaci mosse di "Right Moves" e collaborazioni con i Goldlink in "Like I Do".
Sono molti i temi toccati, dall'emancipazione, al potere femminile (Fall in Line meriterebbe un riscontro di vendite nelle classifiche), all'amore sbagliato che non riesce ad essere allontanato ("Masochist") fino al grande passo delle nozze ("Unless It's with you").La Aguilera ha scelto di non puntare a brani immediati dal sapore di primi posti nelle classifiche per "spogliarsi nuovamente" (stripped...) di orpelli, trucco e maschere. Non a caso la cover del disco la mostra acqua e sapone, apparentemente fragile. E' un disco maturo che potrebbe fare da spartiacque ad un prossimo album più radio/chart friendly. E' introspettiva, raccolta e con molte sfumature. Si è liberata della caccia alla numero 1 a tutti i costi, del desiderio di essere la regina delle classifiche per raccontarsi e raccontare. Ora, una volta avvenuta la "Liberation", Xtina si merita un prossimo step di ritrovato successo anche in chart.
UNA VITA SPERICOLATA
di Valeria Piras
Un bel film generazionale con attori azzeccatissimi. I dialoghi tarantiniaini sono da non perdere.
Il regista Marco Ponti torna al cinema con la commedia on the road Una Vita Spericolata, un film che come Santa Maradona, il film d’esordio di Ponti che fece gridare alla rinascita del cinema italiano, promette di divenire un altro cult generazionale. Nel film ci sono ottimi giovani attori come Lorenzo Richelmy, Eugenio Franceschini e soprattutto la bravissima Matilda De Angelis, attrice della nuova generazione dal viso angelico ma dallo sguardo conturbante che in ogni scena riempie lo schermo con il suo naturale talento espressivo. Marco Ponti ci dona un bel film, libero, senza freni, dal carattere molto personale e tutti questi elementi si avvertono fin dai primi minuti. Ma è soprattutto il linguaggio, lo stile di Una vita spericolata che rimanda ai primi due film di Ponti, quel guardare a un certo cinema americano, fatto di dialoghi fulminanti che devono colpire quasi quanto l'azione. Una vita spericolata mescola road movie, commedia, pulp, gangster movie e romanticismo. Strizzando l’occhio allo stile tarantiniano anche qui ritroviamo quei mitici e surreali discorsi fatti al bancone del bar tra due amici davanti a due birre, uno stile che ritroviamo nei film di registi come i Manetti Bros e appunto lo stesso Ponti.
A differenza dei film del regista americano, e anche dello stesso Santa Maradona, che fu un piccolo capolavoro del suo genere, Una vita spericolata non ha un meccanismo dietro perfetto, alcune situazioni appaiono leggermente forzate, cercate per portare il film nella direzione in cui deve andare. I proverbiali dialoghi di Ponti ci sono, ma vanno un po' a intermittenza. È un film che vive un po' di alti e bassi, ma che vale la pena vedere. Uno dei punti di forza del film è anche quello di analizzare con una certa schiettezza la continua ansia da prestazione a cui siamo sottoposti nella vita quotidiana.
Una volta c'erano il lavoro, il successo, la reputazione. Oggi c'è tutto questo, ma ci sono anche i follower su Instagram, i selfie, e quella notorietà che è elevata a valore assoluto: essere conosciuti va oltre il bene e il male. Tanto che, rapinatori o attrici, si viene richiesti e acclamati comunque. Ponti prova a raccontarci i nostri tempi, con in più quell'aspirazione, che, anche se non sembra, oggi è di molti: essere i buoni, essere dalla parte giusta, provare a tenere in qualche modo dritta la barra della propria vita. Questi tre Robin Hood, protagonisti di Una vita spericolata, ci provano.
Il regista Marco Ponti torna al cinema con la commedia on the road Una Vita Spericolata, un film che come Santa Maradona, il film d’esordio di Ponti che fece gridare alla rinascita del cinema italiano, promette di divenire un altro cult generazionale. Nel film ci sono ottimi giovani attori come Lorenzo Richelmy, Eugenio Franceschini e soprattutto la bravissima Matilda De Angelis, attrice della nuova generazione dal viso angelico ma dallo sguardo conturbante che in ogni scena riempie lo schermo con il suo naturale talento espressivo. Marco Ponti ci dona un bel film, libero, senza freni, dal carattere molto personale e tutti questi elementi si avvertono fin dai primi minuti. Ma è soprattutto il linguaggio, lo stile di Una vita spericolata che rimanda ai primi due film di Ponti, quel guardare a un certo cinema americano, fatto di dialoghi fulminanti che devono colpire quasi quanto l'azione. Una vita spericolata mescola road movie, commedia, pulp, gangster movie e romanticismo. Strizzando l’occhio allo stile tarantiniano anche qui ritroviamo quei mitici e surreali discorsi fatti al bancone del bar tra due amici davanti a due birre, uno stile che ritroviamo nei film di registi come i Manetti Bros e appunto lo stesso Ponti.
A differenza dei film del regista americano, e anche dello stesso Santa Maradona, che fu un piccolo capolavoro del suo genere, Una vita spericolata non ha un meccanismo dietro perfetto, alcune situazioni appaiono leggermente forzate, cercate per portare il film nella direzione in cui deve andare. I proverbiali dialoghi di Ponti ci sono, ma vanno un po' a intermittenza. È un film che vive un po' di alti e bassi, ma che vale la pena vedere. Uno dei punti di forza del film è anche quello di analizzare con una certa schiettezza la continua ansia da prestazione a cui siamo sottoposti nella vita quotidiana.
Una volta c'erano il lavoro, il successo, la reputazione. Oggi c'è tutto questo, ma ci sono anche i follower su Instagram, i selfie, e quella notorietà che è elevata a valore assoluto: essere conosciuti va oltre il bene e il male. Tanto che, rapinatori o attrici, si viene richiesti e acclamati comunque. Ponti prova a raccontarci i nostri tempi, con in più quell'aspirazione, che, anche se non sembra, oggi è di molti: essere i buoni, essere dalla parte giusta, provare a tenere in qualche modo dritta la barra della propria vita. Questi tre Robin Hood, protagonisti di Una vita spericolata, ci provano.
REPUTATION - Taylor Swift
di Valeria Piras
Anche la bella Taylor chiude con l'adolescenza. Ora è un'artista matura.
Il precedente album di Taylor "1989" era da considerare come il disco di transizione, che segnava l’era del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, era l’album con cui la Swift uccideva simbolicamente la sua icona di reginetta della musica pop – country. Questo nuovo disco rappresenta l'inizio di un nuovo capitolo della carriera della cantante, che qui mette tutta la sua energia e cattiveria,artistica, e riesce a modellare meglio il suo stile naturale. Reputation" è una vera evoluzione di "1989": le sonorità sono sempre elettroniche, ma più che guardare agli anni '80 Taylor Swift e i suoi produttori strizzano l'occhio alle sonorità che oggi vanno per la maggiore, quelli dell'elettropop che incontra l'hip hop. Proprio il suono e la struttura generale del disco sono la grande novità rispetto al passato: basti ascoltare pezzi come "Delicate" (una ballata con un arrangiamento tropical house), "Dress" (con una spruzzatina di trap), "Call it what you want" (con una base hip hop e un cantato r&b) o "End game" (con il rapper Future e una strofa di Ed Sheeran). Le atmosfere sono oscure, a tratti dark, come lasciavano presagire alcune delle canzoni pubblicate prima del disco ("Look what you made me do" in primis), ma non mancano pezzi caratterizzati da un mood più brillante e frizzante, più vicino al clima di "1989" ("Getaway car", "King of my heart", "Gorgeous").
La produzione è impeccabile, curatissima e a tratti anche un po' pomposa: mette in primo piano il suono dei sintetizzatori, i bassi da dubstep e le batterie elettroniche. Le canzoni sono tutte potenziali singoli di successo che la voce zuccherosa di Taylor Swift interpreta con rabbia e determinazione (e il contrasto è spesso interessante, a partire dalla stessa "Look what you made me do"): l'obiettivo è quello di sedurre i network radiofonici e trapanare il cervello, e in questo senso l'album funziona, va dritto al punto. Ma non aggiunge nulla di nuovo al panorama della musica pop: se con "1989", nel 2014, la Swift proponeva un sound fresco e piuttosto originale, qui gioca sul sicuro e non va oltre la riproposizione di suoni già ampiamente proposti.
Nelle quindici canzoni contenute in "Reputation" Taylor Swift indossa i panni della bad girl che ama far parlare di sé e finire sulle copertine delle riviste, che si diverte a lasciare qui e là indizi sulla sua vita privata affinché i fan e i giornalisti ci costruiscano sopra storie che poi lei si diverte a smontare. Non vuole più sembrare carina e tenera, non vuole più essere la ragazza della porta accanto, ma una donna matura e se serve anche crudele, super attenta alla sua immagine pubblica e intenzionata a non perdere nemmeno un centimetro dell'impero multimilionario che si è costruita negli ultimi anni.
Il precedente album di Taylor "1989" era da considerare come il disco di transizione, che segnava l’era del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, era l’album con cui la Swift uccideva simbolicamente la sua icona di reginetta della musica pop – country. Questo nuovo disco rappresenta l'inizio di un nuovo capitolo della carriera della cantante, che qui mette tutta la sua energia e cattiveria,artistica, e riesce a modellare meglio il suo stile naturale. Reputation" è una vera evoluzione di "1989": le sonorità sono sempre elettroniche, ma più che guardare agli anni '80 Taylor Swift e i suoi produttori strizzano l'occhio alle sonorità che oggi vanno per la maggiore, quelli dell'elettropop che incontra l'hip hop. Proprio il suono e la struttura generale del disco sono la grande novità rispetto al passato: basti ascoltare pezzi come "Delicate" (una ballata con un arrangiamento tropical house), "Dress" (con una spruzzatina di trap), "Call it what you want" (con una base hip hop e un cantato r&b) o "End game" (con il rapper Future e una strofa di Ed Sheeran). Le atmosfere sono oscure, a tratti dark, come lasciavano presagire alcune delle canzoni pubblicate prima del disco ("Look what you made me do" in primis), ma non mancano pezzi caratterizzati da un mood più brillante e frizzante, più vicino al clima di "1989" ("Getaway car", "King of my heart", "Gorgeous").
La produzione è impeccabile, curatissima e a tratti anche un po' pomposa: mette in primo piano il suono dei sintetizzatori, i bassi da dubstep e le batterie elettroniche. Le canzoni sono tutte potenziali singoli di successo che la voce zuccherosa di Taylor Swift interpreta con rabbia e determinazione (e il contrasto è spesso interessante, a partire dalla stessa "Look what you made me do"): l'obiettivo è quello di sedurre i network radiofonici e trapanare il cervello, e in questo senso l'album funziona, va dritto al punto. Ma non aggiunge nulla di nuovo al panorama della musica pop: se con "1989", nel 2014, la Swift proponeva un sound fresco e piuttosto originale, qui gioca sul sicuro e non va oltre la riproposizione di suoni già ampiamente proposti.
Nelle quindici canzoni contenute in "Reputation" Taylor Swift indossa i panni della bad girl che ama far parlare di sé e finire sulle copertine delle riviste, che si diverte a lasciare qui e là indizi sulla sua vita privata affinché i fan e i giornalisti ci costruiscano sopra storie che poi lei si diverte a smontare. Non vuole più sembrare carina e tenera, non vuole più essere la ragazza della porta accanto, ma una donna matura e se serve anche crudele, super attenta alla sua immagine pubblica e intenzionata a non perdere nemmeno un centimetro dell'impero multimilionario che si è costruita negli ultimi anni.
GOLDEN - Kylie Minogue
di Valeria Piras
Torna la popstar australiana e sembra intatta la sua voglia di stupire.
La regina della musica pop-country è tornata, dopo alcuni anni duri anche a livello personale, Kylie risorge dalle ceneri e lo fa con Golden, un nuovo lavoro ben costruito che riesce anche a dare novità sorprendenti alla musica pop. La star australiana è sempre stata allergica alle catalogazioni, sia pop che country infatti sono delle parole riduttive per lei. Kylie non è mai stata una cantante generalista qualunque, il country oggi è una cosa molto diversa dall'immagine che ne abbiano noi, da questa parte dell'oceano.Bastano due titoli, per dimostrare che Kylie Minogue ha da 25 anni quella capacità di contaminarsi che oggi rende credibile Lady Gaga anche fuori dal pop. "Confide in me" nel '94 flirtava con suoni e temi lontanissimi da quelli del pop mainstream con cui aveva iniziato (quello del trio di produttoro Stock-Aitken-Waterman, che l'avevano lanciata nella musica dopo un esordio nella soap opera). E l'anno dopo "Where the wild roses grow", il duetto con Nick Cave che rimane una delle cose più belle fatte da entrambi.
Questa ecletticità l'ha mantenuta negli anni, passando dal pop moderno di "Aprhodite" all'orchestrale di "The Abbey Road Sessions", per citare un paio di esempi. Così eccoci al "country": che questa musica negli Stati Uniti abbia subito una mutazione genetica verso il pop è cosa nota, non solo per via di Taylor Swift, che l'ha abbandonato. Già Madonna, con "Don't tell me" e "Music" aveva giocato con quei suoni (avvalendosi del cognato Joe Henry).Kylie arriva dopo, e meglio: perché "Golden" è un disco più omogeneo. Forse non ha singoli potenti, ma ha più canzoni-canzoni. "Golden" e "Shelby '68" giocano con una chitarra campionata su base elettronica, come diversi brani - i singoli "Dancing" e" Stop Me from Falling", per esempio. Kylie il suo gruppo di produttori mediano perfettamente tra le "roots" e la contemporaneità - che è poi il gioco di molto countri contemporaneo post-Taylor Swift.
Un po' meno bene, forse, solo quando insistono più sul pop puro (la seconda parte di "Live a litlle")."Radio on" parte voce e chitarra per poi aprirsi, con risultati da brividi: è il gioiello del disco, assieme al duetto con Jack Savoretti in "Music's Too Sad Without You": le canzoni più tradizionali sono quelle in cui Kylie dà il suo meglio."Golden" è un'operazione riuscita: non solo per la capacità (ben nota) di Kylie di interpretare pezzi e farli decollare, ma per la coesione del disco in sè, che trova una quadratura tra diversi generi, portando Kylie Minogue a fare qualcosa di diverso senza snaturarsi
La regina della musica pop-country è tornata, dopo alcuni anni duri anche a livello personale, Kylie risorge dalle ceneri e lo fa con Golden, un nuovo lavoro ben costruito che riesce anche a dare novità sorprendenti alla musica pop. La star australiana è sempre stata allergica alle catalogazioni, sia pop che country infatti sono delle parole riduttive per lei. Kylie non è mai stata una cantante generalista qualunque, il country oggi è una cosa molto diversa dall'immagine che ne abbiano noi, da questa parte dell'oceano.Bastano due titoli, per dimostrare che Kylie Minogue ha da 25 anni quella capacità di contaminarsi che oggi rende credibile Lady Gaga anche fuori dal pop. "Confide in me" nel '94 flirtava con suoni e temi lontanissimi da quelli del pop mainstream con cui aveva iniziato (quello del trio di produttoro Stock-Aitken-Waterman, che l'avevano lanciata nella musica dopo un esordio nella soap opera). E l'anno dopo "Where the wild roses grow", il duetto con Nick Cave che rimane una delle cose più belle fatte da entrambi.
Questa ecletticità l'ha mantenuta negli anni, passando dal pop moderno di "Aprhodite" all'orchestrale di "The Abbey Road Sessions", per citare un paio di esempi. Così eccoci al "country": che questa musica negli Stati Uniti abbia subito una mutazione genetica verso il pop è cosa nota, non solo per via di Taylor Swift, che l'ha abbandonato. Già Madonna, con "Don't tell me" e "Music" aveva giocato con quei suoni (avvalendosi del cognato Joe Henry).Kylie arriva dopo, e meglio: perché "Golden" è un disco più omogeneo. Forse non ha singoli potenti, ma ha più canzoni-canzoni. "Golden" e "Shelby '68" giocano con una chitarra campionata su base elettronica, come diversi brani - i singoli "Dancing" e" Stop Me from Falling", per esempio. Kylie il suo gruppo di produttori mediano perfettamente tra le "roots" e la contemporaneità - che è poi il gioco di molto countri contemporaneo post-Taylor Swift.
Un po' meno bene, forse, solo quando insistono più sul pop puro (la seconda parte di "Live a litlle")."Radio on" parte voce e chitarra per poi aprirsi, con risultati da brividi: è il gioiello del disco, assieme al duetto con Jack Savoretti in "Music's Too Sad Without You": le canzoni più tradizionali sono quelle in cui Kylie dà il suo meglio."Golden" è un'operazione riuscita: non solo per la capacità (ben nota) di Kylie di interpretare pezzi e farli decollare, ma per la coesione del disco in sè, che trova una quadratura tra diversi generi, portando Kylie Minogue a fare qualcosa di diverso senza snaturarsi
LORO - 1
di Valeria Piras
Un mondo senza valori e pronto a tutto per compiacere Lui. Un capolavoro.
Paolo Sorrentino torna nelle sale con un mega progetto diviso in due capitoli: LORO. Un cine-romanzo barocco che racconta la storia d'Italia degli ultimi dieci anni, il mondo di donne, papponi e mezzi uomini assatanati di potere che girava intorno alla potentissima sagoma di Silvio Berlusconi. Loro sono appunto tutti quelli che desideravano toccare o essere solo sfiorati dalla luce aurea del potere berlusconiano e che per tale scopo sacrificano tutto e tutti, in primis la loro dignità. Da un lato c'è una prosa che tende al barocco, satura, compiaciuta, a tutto vantaggio della narrazione, non in termini di linearità ma proprio a livello di chiarezza espositiva, un racconto che perciò qui va dritto al sodo, senza tutti quegli orpelli. E Berlusconi? Sin dalle prime scene ambientate in una triste Taranto, dove un intraprendente Sergio Morra (Riccardo Scamarcio) che offre a un politico una signorina che allarga le gambe da atleta al fine di ottenere un appalto, Berlusconi c’è ma non si vede. La sua è una presenza che aleggia, incombendo costantemente sulle vite devastate di questi patetici personaggi dell’esistenza il cui unico desiderio è quello di entrare nelle grazie del Presidente. Lui è l'appellativo che i LORO usano per riferirsi a Berlusconi, sempre con aria solenne, tangibile la soggezione dinanzi a questo personaggio sfuggente, che non hanno mai visto da vicino ma che eppure ha inciso così tanto su di loro, il loro modo di essere. Una delle scene forse più emblematiche del film si ha quando a Roma, un mezzo della nettezza urbana si capovolge da un ponte provocando una pioggia di rifiuti che in un secondo si trasforma in una festa in Sardegna in cui a cadere dall’ alto sono pasticche di ecstasy, la droga dell’abbraccio.
Plagiati e posseduti, il desiderio di entrare a far parte dell'universo berlusconiano trasforma questi giovani ragazzi e ragazze, pronti a tutto per soldi facili e successo, in una sorte di corte del sovrano, una specie di gruppo satanico adorante di una divinità terrena, una corte pronta a dare al Re quello che lui desidera ovvero essere ammirato ed adorato, nutrire il suo ego di sovrano televisivo. È un modo di relazionarsi alla figura di un uomo di potere che sintetizza bene l’esperienza umana e dunque le dinamiche ad essa sottese, per l’appunto, una metafora del Potere come forza desiderata, oltremodo suadente, che trasforma in veri morti viventi. Col passare dei minuti tutto si tramuta in vero avanspettacolo "consapevole", un approccio asciutto e tranchant non tanto nei riguardi del Cavaliere, al quale per lo più si allude in questa prima parte, quanto al contesto che gli orbita attorno, a quei personaggi che Sorrentino troppo detesta e il cui ribrezzo è davvero palpabile in ogni singolo fotogramma.
Forse è eccessivo l’atteggiamento vagamente anarchico col quale Sorrentino si avvicina ad un argomento così incandescente, ma potrebbe anche essere, tirando le somme, un valore, poichè permette di avere altrettanta intensità di sguardo, che si posa un po’ qua e un po’ là, permettendoci di intercettare certi profili, certe situazioni le quali, al contrario, resterebbero sfuggenti, aliene. Una cosa è certa: noi italiani, i LORO, questi personaggi descritti in modo lineare e sadico da Sorrentino li conosciamo, sappiamo bene i loro vizi, li abbiamo visti e rivisti; forse Sorrentino vuole mostrarci qualcos’altro, ciò che di solito non si vede proprio perché non immediatamente percepibile e il cui giudizio definitivo potremo darlo solo tra qualche settimana dopo la proiezione del secondo capito LORO - 2.
Paolo Sorrentino torna nelle sale con un mega progetto diviso in due capitoli: LORO. Un cine-romanzo barocco che racconta la storia d'Italia degli ultimi dieci anni, il mondo di donne, papponi e mezzi uomini assatanati di potere che girava intorno alla potentissima sagoma di Silvio Berlusconi. Loro sono appunto tutti quelli che desideravano toccare o essere solo sfiorati dalla luce aurea del potere berlusconiano e che per tale scopo sacrificano tutto e tutti, in primis la loro dignità. Da un lato c'è una prosa che tende al barocco, satura, compiaciuta, a tutto vantaggio della narrazione, non in termini di linearità ma proprio a livello di chiarezza espositiva, un racconto che perciò qui va dritto al sodo, senza tutti quegli orpelli. E Berlusconi? Sin dalle prime scene ambientate in una triste Taranto, dove un intraprendente Sergio Morra (Riccardo Scamarcio) che offre a un politico una signorina che allarga le gambe da atleta al fine di ottenere un appalto, Berlusconi c’è ma non si vede. La sua è una presenza che aleggia, incombendo costantemente sulle vite devastate di questi patetici personaggi dell’esistenza il cui unico desiderio è quello di entrare nelle grazie del Presidente. Lui è l'appellativo che i LORO usano per riferirsi a Berlusconi, sempre con aria solenne, tangibile la soggezione dinanzi a questo personaggio sfuggente, che non hanno mai visto da vicino ma che eppure ha inciso così tanto su di loro, il loro modo di essere. Una delle scene forse più emblematiche del film si ha quando a Roma, un mezzo della nettezza urbana si capovolge da un ponte provocando una pioggia di rifiuti che in un secondo si trasforma in una festa in Sardegna in cui a cadere dall’ alto sono pasticche di ecstasy, la droga dell’abbraccio.
Plagiati e posseduti, il desiderio di entrare a far parte dell'universo berlusconiano trasforma questi giovani ragazzi e ragazze, pronti a tutto per soldi facili e successo, in una sorte di corte del sovrano, una specie di gruppo satanico adorante di una divinità terrena, una corte pronta a dare al Re quello che lui desidera ovvero essere ammirato ed adorato, nutrire il suo ego di sovrano televisivo. È un modo di relazionarsi alla figura di un uomo di potere che sintetizza bene l’esperienza umana e dunque le dinamiche ad essa sottese, per l’appunto, una metafora del Potere come forza desiderata, oltremodo suadente, che trasforma in veri morti viventi. Col passare dei minuti tutto si tramuta in vero avanspettacolo "consapevole", un approccio asciutto e tranchant non tanto nei riguardi del Cavaliere, al quale per lo più si allude in questa prima parte, quanto al contesto che gli orbita attorno, a quei personaggi che Sorrentino troppo detesta e il cui ribrezzo è davvero palpabile in ogni singolo fotogramma.
Forse è eccessivo l’atteggiamento vagamente anarchico col quale Sorrentino si avvicina ad un argomento così incandescente, ma potrebbe anche essere, tirando le somme, un valore, poichè permette di avere altrettanta intensità di sguardo, che si posa un po’ qua e un po’ là, permettendoci di intercettare certi profili, certe situazioni le quali, al contrario, resterebbero sfuggenti, aliene. Una cosa è certa: noi italiani, i LORO, questi personaggi descritti in modo lineare e sadico da Sorrentino li conosciamo, sappiamo bene i loro vizi, li abbiamo visti e rivisti; forse Sorrentino vuole mostrarci qualcos’altro, ciò che di solito non si vede proprio perché non immediatamente percepibile e il cui giudizio definitivo potremo darlo solo tra qualche settimana dopo la proiezione del secondo capito LORO - 2.
2640 - Francesca Michielin
di Valeria Piras
Un nuovo e brillante lavoro per Francesca Michielin. La maturità continua.
Dopo due anni dal precedente album torna con un nuovo disco Francesca Michielin, la talentuosa ragazza uscita da X-Factor che sembra proseguire nel suo percorso evolutivo artistico e personale. Scordiamoci la ragazzina timida e insicura degli esordi, la Francesca di oggi è una donna solida che sembra certa delle cose che vuole fare. 2640 è un buon album pop prodotto da Canova e con ottimi artisti in collaborazione, su tutti Tommaso Paradiso e Calcutta. 2640 ha una voce riconoscibile e produzioni “internazionali”, per quello che può significare l’espressione. Sembra quasi che l’Italia abbia la sua Lorde che pare restare sullo sfondo. Dal disco emerge un approccio molto più “indie” anche grazie alle collaborazioni sui testi di cui sopra, e in effetti è davvero molto piacevole il risultato finale. Un album ben pensato, ben condotto, sicuramente riuscito. L’operazione funziona, anche e soprattutto perché per piacere al nuovo pubblico, ormai smaliziato e in gradi di capire le vere novità musicali, almeno un po’ di sostanza deve pur esserci.
E infatti questo è un disco ricco di sostanza, che magari in qualche traccia ha ancora qualche spruzzata ingenuamente pop degli esordi ma che comunque nella maggior parte dell’album è ricco di pregi e luci. Parliamo dell’eleganza di Comunicare, con base hip hop e piano a creare un brano di raffinato R&B che resta sì un brano pop, ma in certi momenti fa quasi venire in mente Beyoncé. E poi ballate a lume di candela come Scusa se non ho gli occhi azzurri, che sono anzitutto Canzoni, e singoli che funzionano alla grande come Vulcano, cassa dritta, rullante al punto giusto e piano incalzante che per chi li conosce non può non far tornare in mente gli Yombe di Vulkaan.
Ci sono poi un po’ di spezie caraibiche ed etnicheggianti (Tapioca), qualche eco di tipo tropicale e anche un primo tentativo di spendibilità più esportabile con un cantato inglese che sembra assolutamente alla portata (Lava).Sicuramente possiamo senza errore definirlo il disco migliore della Michielin ad oggi, e anche gli haters dei talent possono stare tranquilli, ci troviamo di fronte ad un disco valido e ricco di novità. Da ascoltare almeno una volta.
Dopo due anni dal precedente album torna con un nuovo disco Francesca Michielin, la talentuosa ragazza uscita da X-Factor che sembra proseguire nel suo percorso evolutivo artistico e personale. Scordiamoci la ragazzina timida e insicura degli esordi, la Francesca di oggi è una donna solida che sembra certa delle cose che vuole fare. 2640 è un buon album pop prodotto da Canova e con ottimi artisti in collaborazione, su tutti Tommaso Paradiso e Calcutta. 2640 ha una voce riconoscibile e produzioni “internazionali”, per quello che può significare l’espressione. Sembra quasi che l’Italia abbia la sua Lorde che pare restare sullo sfondo. Dal disco emerge un approccio molto più “indie” anche grazie alle collaborazioni sui testi di cui sopra, e in effetti è davvero molto piacevole il risultato finale. Un album ben pensato, ben condotto, sicuramente riuscito. L’operazione funziona, anche e soprattutto perché per piacere al nuovo pubblico, ormai smaliziato e in gradi di capire le vere novità musicali, almeno un po’ di sostanza deve pur esserci.
E infatti questo è un disco ricco di sostanza, che magari in qualche traccia ha ancora qualche spruzzata ingenuamente pop degli esordi ma che comunque nella maggior parte dell’album è ricco di pregi e luci. Parliamo dell’eleganza di Comunicare, con base hip hop e piano a creare un brano di raffinato R&B che resta sì un brano pop, ma in certi momenti fa quasi venire in mente Beyoncé. E poi ballate a lume di candela come Scusa se non ho gli occhi azzurri, che sono anzitutto Canzoni, e singoli che funzionano alla grande come Vulcano, cassa dritta, rullante al punto giusto e piano incalzante che per chi li conosce non può non far tornare in mente gli Yombe di Vulkaan.
Ci sono poi un po’ di spezie caraibiche ed etnicheggianti (Tapioca), qualche eco di tipo tropicale e anche un primo tentativo di spendibilità più esportabile con un cantato inglese che sembra assolutamente alla portata (Lava).Sicuramente possiamo senza errore definirlo il disco migliore della Michielin ad oggi, e anche gli haters dei talent possono stare tranquilli, ci troviamo di fronte ad un disco valido e ricco di novità. Da ascoltare almeno una volta.
T O N Y A
di Valeria Piras
Un film intenso e pieno di caparbietà. Un grande applauso alla bellissima Margot.
La splendida Margot Robbie è nelle sale con questo film auto-biografico che non è il solito film sul campione sportivo, ma un vero percorso che racconta il sentiero fino alla perdizione della campionessa di pattinaggio sul ghiaccio americana Tonya Harding. Un film davvero bello che lascia sorpresi per la grande immedesimazione della Robbie, davvero ottima e talentuosa in questa prova cinematografica. Tonya è una ragazza figlia del proletariato americano, con una mamma perfida che fin da 4 anni la forza al pattinaggio e rovina per sempre il legame affettivo con la figlia. In breve tempo diventa una campionessa, ma spesso per il suo carattere focoso e la poca eleganza nei modi diventa invisa all’America perbenista e ipocrita degli anni ’90.
Quando per le qualificazioni alle Olimpiadi del ’94 sembra che la federazione pattinaggio le stia per preferire la più bella e raffinata collega Nancy Karrigan, Tonya perde il controllo e insieme al marito commissiona l’aggressione alla collega, che riporterà la rottura del ginocchio. Non sveliamo troppo della trama, ma si può certamente dire che ci troviamo dinanzi ad un film ben strutturato con suspence e sostanza e con attori molto azzeccati nelle parti. La mamma della Harding è la brava Allison Janney che ha vinto proprio per questo film l’Oscar come attrice non protagonista. Alla fine possiamo senza dubbio affermare che è un piacere essere costretti a mettersi in discussione da un film come questo, brillante, originale e spavaldo.
E' un piacere soprattutto applaudire la sua protagonista, una Margot Robbie grintosa e indomabile, che consegna alla storia una Tonya Harding senza spirito di redenzione e di perdono ma semplicemente una donna davvero illuminata e in lotta contro le ipocrisie dell’America.
La splendida Margot Robbie è nelle sale con questo film auto-biografico che non è il solito film sul campione sportivo, ma un vero percorso che racconta il sentiero fino alla perdizione della campionessa di pattinaggio sul ghiaccio americana Tonya Harding. Un film davvero bello che lascia sorpresi per la grande immedesimazione della Robbie, davvero ottima e talentuosa in questa prova cinematografica. Tonya è una ragazza figlia del proletariato americano, con una mamma perfida che fin da 4 anni la forza al pattinaggio e rovina per sempre il legame affettivo con la figlia. In breve tempo diventa una campionessa, ma spesso per il suo carattere focoso e la poca eleganza nei modi diventa invisa all’America perbenista e ipocrita degli anni ’90.
Quando per le qualificazioni alle Olimpiadi del ’94 sembra che la federazione pattinaggio le stia per preferire la più bella e raffinata collega Nancy Karrigan, Tonya perde il controllo e insieme al marito commissiona l’aggressione alla collega, che riporterà la rottura del ginocchio. Non sveliamo troppo della trama, ma si può certamente dire che ci troviamo dinanzi ad un film ben strutturato con suspence e sostanza e con attori molto azzeccati nelle parti. La mamma della Harding è la brava Allison Janney che ha vinto proprio per questo film l’Oscar come attrice non protagonista. Alla fine possiamo senza dubbio affermare che è un piacere essere costretti a mettersi in discussione da un film come questo, brillante, originale e spavaldo.
E' un piacere soprattutto applaudire la sua protagonista, una Margot Robbie grintosa e indomabile, che consegna alla storia una Tonya Harding senza spirito di redenzione e di perdono ma semplicemente una donna davvero illuminata e in lotta contro le ipocrisie dell’America.
LA FORMA DELL'ACQUA
di Valeria Piras
Un piccolo capolavoro. Quando l'amore vince contro tutto e tutti.
Da alcune settimane è nelle sale italiane il film americano La Forma dell’Acqua, un film che è diventato un vero caso premiato agli Oscar come miglior film e con 13 candidature è entrato di diritto nella storia dell’Accademy. Alla vigilia nessuno lo dava per favorito ma alla fine la storia romantica e particolarissima che esso racconta ha avuto la meglio. Forse il motivo per cui La Forma dell’Acqua piace è il suo regista, Guillermo del Toro è da anni uno dei registi più talentuosi ed apprezzati di Hollywood, finalmente ha raccolto quanto di buono seminato negli anni. La storia è ambientata nella Baltimora della Guerra Fredda, dove in un laboratorio militare viene imprigionato un mostro marino, metà uomo e metà pesce per essere studiato dagli scienziati. Qui, l’inserviente del laboratorio, una bravissima Sally Hawkins lo scopre e se ne innamora.
Con lei ci sono la collega nera Zelda (Octavia Spencer) che si batte per i diritti degli afroamericani e il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), omosessuale discriminato. Sono loro ad assisterla – anche con l’aiuto dello scienziato Robert Hoffstetler (Michael Stuhlbarg) - quando lei scopre l’esistenza del “mostro” che può diventare il suo principe: nascondendola ai cinici militari inquisitori e al feroce vendicativo colonnello Strickland (Michael Shannon). La storia diventa contro tutto e contro (quasi) tutti, apparentemente antagonista alla natura, tuttavia immersa in quella stessa, acquatica natura come in una realtà onirica e travolgente. Una specie di sentiero utòpico-gotico che Guillermo Del Toro veste di fiaba dark tra mitologia, leggenda, horror e fantascienza. La dimensione magica di questo film, che il regista aveva già fatto intrevedere in precedenti opere come Il labirinto del Fauno e La spina del diavolo, disegna il riscatto dalla diversità elaborando un immaginario visivo angoscioso e sublime, metaforico e struggente.
Creando tensione e collisione fra la crudezza della Storia e le sue vittime, fra i suoi aguzzini e i suoi interpreti più vulnerabili e “altri”.Lo spettacolo, in verità, oltre l’impulso civile che l’accompagna e certamente lo ispira idealizzandolo, può bastare, per così dire, anche a se stesso: perché le suggestioni che sollecita con l’ estro visionario e avvolgente del suo autore ottengono spesso un riscontro di intenso contagio emotivo e puro piacere visuale. Alla fine il senso di partecipazione ai dolori della protagonista diventa anche per lo spettatore davvero incredibile.
Da alcune settimane è nelle sale italiane il film americano La Forma dell’Acqua, un film che è diventato un vero caso premiato agli Oscar come miglior film e con 13 candidature è entrato di diritto nella storia dell’Accademy. Alla vigilia nessuno lo dava per favorito ma alla fine la storia romantica e particolarissima che esso racconta ha avuto la meglio. Forse il motivo per cui La Forma dell’Acqua piace è il suo regista, Guillermo del Toro è da anni uno dei registi più talentuosi ed apprezzati di Hollywood, finalmente ha raccolto quanto di buono seminato negli anni. La storia è ambientata nella Baltimora della Guerra Fredda, dove in un laboratorio militare viene imprigionato un mostro marino, metà uomo e metà pesce per essere studiato dagli scienziati. Qui, l’inserviente del laboratorio, una bravissima Sally Hawkins lo scopre e se ne innamora.
Con lei ci sono la collega nera Zelda (Octavia Spencer) che si batte per i diritti degli afroamericani e il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), omosessuale discriminato. Sono loro ad assisterla – anche con l’aiuto dello scienziato Robert Hoffstetler (Michael Stuhlbarg) - quando lei scopre l’esistenza del “mostro” che può diventare il suo principe: nascondendola ai cinici militari inquisitori e al feroce vendicativo colonnello Strickland (Michael Shannon). La storia diventa contro tutto e contro (quasi) tutti, apparentemente antagonista alla natura, tuttavia immersa in quella stessa, acquatica natura come in una realtà onirica e travolgente. Una specie di sentiero utòpico-gotico che Guillermo Del Toro veste di fiaba dark tra mitologia, leggenda, horror e fantascienza. La dimensione magica di questo film, che il regista aveva già fatto intrevedere in precedenti opere come Il labirinto del Fauno e La spina del diavolo, disegna il riscatto dalla diversità elaborando un immaginario visivo angoscioso e sublime, metaforico e struggente.
Creando tensione e collisione fra la crudezza della Storia e le sue vittime, fra i suoi aguzzini e i suoi interpreti più vulnerabili e “altri”.Lo spettacolo, in verità, oltre l’impulso civile che l’accompagna e certamente lo ispira idealizzandolo, può bastare, per così dire, anche a se stesso: perché le suggestioni che sollecita con l’ estro visionario e avvolgente del suo autore ottengono spesso un riscontro di intenso contagio emotivo e puro piacere visuale. Alla fine il senso di partecipazione ai dolori della protagonista diventa anche per lo spettatore davvero incredibile.
A CASA TUTTI BENE
di Valeria Piras
Il tipico film mucciniano e non sempre è un vero complimento.
Nelle sale da pochi giorni il nuovo film, interamente girato in Italia, ad Ischia per la precisione, di Gabriele Muccino A Casa Tutti Bene. I critici lo hanno definito un ritorno al passato, un film tipicamente mucciniano, non senza qualche punta di critica al veleno. Nel film si assiste alla messa in scena nervosa delle dinamiche familiari, con la completa esplosione dei conflitti e con un numerosissimo cast, in questo caso circa venti attori (Stefano Accorsi, Carolina Crescentini, Elena Cucci, Tea Falco, Pierfrancesco Favino, Claudia Gerini, Massimo Ghini, Sabrina Impacciatore, Gianfelice Imparato, Ivano Marescotti, Giulia Michelini, Sandra Milo, Giampaolo Morelli, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino, Gianmarco Tognazzi) sempre in scena a darsele di santa ragione e a dirsi (urlarsi) tutto quello che pensano. Il film fin dalle prime scene ci fa capire che ci troviamo dinanzi ad un'indagine familiare e affida questa dichiarazione d'intenti alla frase d'apertura recitata dalla voce fuori campo di Accorsi: "Dicono che la famiglia sia il nostro punto di partenza, poi di fuga e alla fine diventi quello di ritorno". Quando una tempesta bloccherà il rientro sulla terraferma il gruppo sarà costretto a una convivenza forzata che finirà per esasperarne i sentimenti, rivelarne conflitti sopiti e fornire l'occasione per fermarsi e riflettere sul tempo che passa e sulle occasioni mancate.
È una storia che abbiamo già visto e sentito altre volte e altrove meglio raccontata (Parenti serpenti di Mario Monicelli docet), visto che uno dei limiti del film è proprio quello di inciampare nella banalità (di alcuni dialoghi) e nella ripetizione ossessiva e ossessionata di alcuni cliché. Ed è proprio il cast di attori a salvare un film che altrimenti andrebbe alla deriva come i suoi protagonisti: su tutti la compostezza e la dolenza misurata di Ghini nell'interpretare una persona sbiadita dalla malattia, la drammaticità e il realismo con cui la Gerini veste i panni della donna che gli sta accanto, l'aderenza totale di Tognazzi a un personaggio credibile dall'inizio alla fine, e che ricorda il papà Ugo di Io la conoscevo bene.
Memorabile la dolcezza naif della Sandrelli quando sussurra alla nipote: "Noi donne siamo fatte per sorreggere il mondo", o l'ironia e il cinismo di Marescotti che nel bel mezzo della tempesta urlerà sfinito: "Sono cresciuto orfano, a me la famiglia mi sta sul cazzo!". Il resto del film è dominato da un isterismo collettivo in più occasioni sopra le righe come la scena disturbante di Favino e la Crescentini sull'orlo di un dirupo, belli ma ripetuti oltremisura i momenti in cui la famiglia si riunisce per cantare vecchi successi intonati da Tognazzi al pianoforte. La famiglia che concepisce Gabriele Muccino alla fine risulta nevrotica, affollatissima e scombinata, insomma tutto tranne che il concetto tradizionale di famiglia, sarà un segno dei tempi, ma non sappiamo se sia un bene o meno. Alla fine il film scorre e si lascia guardare, si attende il colpo di scena che potrebbe farlo svoltare in positivo, ma che non arriva mai e in conclusione possiamo dire: caro Gabriele, con quel cast incredibile che ti sei ritrovato a guidare hai forse perso una vera grande occasione. Sarà per la prossima.
Nelle sale da pochi giorni il nuovo film, interamente girato in Italia, ad Ischia per la precisione, di Gabriele Muccino A Casa Tutti Bene. I critici lo hanno definito un ritorno al passato, un film tipicamente mucciniano, non senza qualche punta di critica al veleno. Nel film si assiste alla messa in scena nervosa delle dinamiche familiari, con la completa esplosione dei conflitti e con un numerosissimo cast, in questo caso circa venti attori (Stefano Accorsi, Carolina Crescentini, Elena Cucci, Tea Falco, Pierfrancesco Favino, Claudia Gerini, Massimo Ghini, Sabrina Impacciatore, Gianfelice Imparato, Ivano Marescotti, Giulia Michelini, Sandra Milo, Giampaolo Morelli, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino, Gianmarco Tognazzi) sempre in scena a darsele di santa ragione e a dirsi (urlarsi) tutto quello che pensano. Il film fin dalle prime scene ci fa capire che ci troviamo dinanzi ad un'indagine familiare e affida questa dichiarazione d'intenti alla frase d'apertura recitata dalla voce fuori campo di Accorsi: "Dicono che la famiglia sia il nostro punto di partenza, poi di fuga e alla fine diventi quello di ritorno". Quando una tempesta bloccherà il rientro sulla terraferma il gruppo sarà costretto a una convivenza forzata che finirà per esasperarne i sentimenti, rivelarne conflitti sopiti e fornire l'occasione per fermarsi e riflettere sul tempo che passa e sulle occasioni mancate.
È una storia che abbiamo già visto e sentito altre volte e altrove meglio raccontata (Parenti serpenti di Mario Monicelli docet), visto che uno dei limiti del film è proprio quello di inciampare nella banalità (di alcuni dialoghi) e nella ripetizione ossessiva e ossessionata di alcuni cliché. Ed è proprio il cast di attori a salvare un film che altrimenti andrebbe alla deriva come i suoi protagonisti: su tutti la compostezza e la dolenza misurata di Ghini nell'interpretare una persona sbiadita dalla malattia, la drammaticità e il realismo con cui la Gerini veste i panni della donna che gli sta accanto, l'aderenza totale di Tognazzi a un personaggio credibile dall'inizio alla fine, e che ricorda il papà Ugo di Io la conoscevo bene.
Memorabile la dolcezza naif della Sandrelli quando sussurra alla nipote: "Noi donne siamo fatte per sorreggere il mondo", o l'ironia e il cinismo di Marescotti che nel bel mezzo della tempesta urlerà sfinito: "Sono cresciuto orfano, a me la famiglia mi sta sul cazzo!". Il resto del film è dominato da un isterismo collettivo in più occasioni sopra le righe come la scena disturbante di Favino e la Crescentini sull'orlo di un dirupo, belli ma ripetuti oltremisura i momenti in cui la famiglia si riunisce per cantare vecchi successi intonati da Tognazzi al pianoforte. La famiglia che concepisce Gabriele Muccino alla fine risulta nevrotica, affollatissima e scombinata, insomma tutto tranne che il concetto tradizionale di famiglia, sarà un segno dei tempi, ma non sappiamo se sia un bene o meno. Alla fine il film scorre e si lascia guardare, si attende il colpo di scena che potrebbe farlo svoltare in positivo, ma che non arriva mai e in conclusione possiamo dire: caro Gabriele, con quel cast incredibile che ti sei ritrovato a guidare hai forse perso una vera grande occasione. Sarà per la prossima.
ESSERE QUI - Emma Marrone
di Valeria Piras
Emma torna con un disco sincero pieno di emozioni. Ora è una vera artista.
Essere qui è il nuovo album di inediti (il sesto da inizio carriera), di Emma Marrone, una cantautrice che spesso si è sentita puntare il dito contro. In questo disco Emma si spoglia di ogni etichetta datale da anni di critica musicale e non, e si presenta come se stessa. Una donna piena di fragilità ed insicurezze ma che ha sempre voglia di sorridere. Spesso per gossip o per altro non ci si è concentrati sulla sua musica, ma adesso è il momento, Emma ha talento ed “Essere Qui” ne è la prova tangibile, alzando il livello con la sua voglia di approdare verso nuovi lidi anche del suono.“Essere qui” va ascoltato alzando i bassi in macchina, che in accelerazione sembrano ritmare il battito cardiaco. Va ascoltato, non sentito, per cogliere l’animo underground che ha smosso la cantante salentina a coglierne ogni minima sfumatura. Va ascoltato con il dovuto rispetto che il lavoro svolto merita. E non è per i musicisti scelti o per i nomi alla produzione. Non è nemmeno per i qualificati autori (Simonetta, Amara, Sangiorgi, Petrella all’appello).
È per le sensazioni che la voce di Emma ti rimanda dentro. Le voci, la voce che ti porta a vedere Emma allo specchio raccontarsi senza veli che nascondono la sua indole. Ci sono temi, il cyberbullismo di “Malelingue”, a cui ogni tanto anche lei vi è sottoposta. Ci sono i valori con cui è cresciuta. C’è la capacità di raccontarsi tra sfumature che talvolta sono frasi da appuntarsi sul diario per cercare la nostra forma quando non riusciamo a darci definizione. “Se mi trovi diversa /Dimmi come vuoi che sia /Che quella che ero prima io /L’ho già dimenticata” (Le ragazze come me).Emma ha rischiato, con “L’Isola” lo ha ammesso, perché sarebbe stato più semplice fare quello che sa fare, senza grandi ripensamenti, senza sporcarsi le mani. Invece, decide di sperimentare, di lavorare in studio, di fare le nottate a ricantare i brani fino a che l’intenzione non arriva. Dall'altro, invece, a livello di attitudine rende esplicito il "debito" che ha nei confronti di quelle che lei ha sempre indicato come le sue "madri" artistiche, Gianna Nannini e Loredana Berté.
Emma ci somiglia per sfacciataggine e irriverenza in pezzi come "Effetto domino" (un folk-rock elettronico che ha riferimenti sessuali piuttosto espliciti, tra bende sugli occhi e non meglio specificati "giochi": "A me piace stare sul pavimento insieme a te / e se si deve andare giù, andiamo giù") e "Malelingue" ("Ho trent'anni sulle spalle e qualche schiaffo in faccia / Malelingue su di me non lasciano più traccia")."Adesso", il disco del 2015, aveva rappresentato per Emma un modo per alzare l'asticella soprattutto a livello di suoni, sporcandosi le mani con un pizzico di elettronica. Quell'asticella Emma la sposta ancora un po' più in alto, ora: non tanto per quanto riguarda il sound, che è un'evoluzione del precedente album con l'aggiunta di qualche elemento in più ("L'isola", con quel mix tra elettronica, pop e funk, perfetto i palasport, è stato un bel biglietto da visita), quanto per atteggiamento e toni. Con "Essere qui" porta il discorso al livello successivo e fa un passo in avanti, uscendo fuori dai suoi territori senza paura di rischiare.
Essere qui è il nuovo album di inediti (il sesto da inizio carriera), di Emma Marrone, una cantautrice che spesso si è sentita puntare il dito contro. In questo disco Emma si spoglia di ogni etichetta datale da anni di critica musicale e non, e si presenta come se stessa. Una donna piena di fragilità ed insicurezze ma che ha sempre voglia di sorridere. Spesso per gossip o per altro non ci si è concentrati sulla sua musica, ma adesso è il momento, Emma ha talento ed “Essere Qui” ne è la prova tangibile, alzando il livello con la sua voglia di approdare verso nuovi lidi anche del suono.“Essere qui” va ascoltato alzando i bassi in macchina, che in accelerazione sembrano ritmare il battito cardiaco. Va ascoltato, non sentito, per cogliere l’animo underground che ha smosso la cantante salentina a coglierne ogni minima sfumatura. Va ascoltato con il dovuto rispetto che il lavoro svolto merita. E non è per i musicisti scelti o per i nomi alla produzione. Non è nemmeno per i qualificati autori (Simonetta, Amara, Sangiorgi, Petrella all’appello).
È per le sensazioni che la voce di Emma ti rimanda dentro. Le voci, la voce che ti porta a vedere Emma allo specchio raccontarsi senza veli che nascondono la sua indole. Ci sono temi, il cyberbullismo di “Malelingue”, a cui ogni tanto anche lei vi è sottoposta. Ci sono i valori con cui è cresciuta. C’è la capacità di raccontarsi tra sfumature che talvolta sono frasi da appuntarsi sul diario per cercare la nostra forma quando non riusciamo a darci definizione. “Se mi trovi diversa /Dimmi come vuoi che sia /Che quella che ero prima io /L’ho già dimenticata” (Le ragazze come me).Emma ha rischiato, con “L’Isola” lo ha ammesso, perché sarebbe stato più semplice fare quello che sa fare, senza grandi ripensamenti, senza sporcarsi le mani. Invece, decide di sperimentare, di lavorare in studio, di fare le nottate a ricantare i brani fino a che l’intenzione non arriva. Dall'altro, invece, a livello di attitudine rende esplicito il "debito" che ha nei confronti di quelle che lei ha sempre indicato come le sue "madri" artistiche, Gianna Nannini e Loredana Berté.
Emma ci somiglia per sfacciataggine e irriverenza in pezzi come "Effetto domino" (un folk-rock elettronico che ha riferimenti sessuali piuttosto espliciti, tra bende sugli occhi e non meglio specificati "giochi": "A me piace stare sul pavimento insieme a te / e se si deve andare giù, andiamo giù") e "Malelingue" ("Ho trent'anni sulle spalle e qualche schiaffo in faccia / Malelingue su di me non lasciano più traccia")."Adesso", il disco del 2015, aveva rappresentato per Emma un modo per alzare l'asticella soprattutto a livello di suoni, sporcandosi le mani con un pizzico di elettronica. Quell'asticella Emma la sposta ancora un po' più in alto, ora: non tanto per quanto riguarda il sound, che è un'evoluzione del precedente album con l'aggiunta di qualche elemento in più ("L'isola", con quel mix tra elettronica, pop e funk, perfetto i palasport, è stato un bel biglietto da visita), quanto per atteggiamento e toni. Con "Essere qui" porta il discorso al livello successivo e fa un passo in avanti, uscendo fuori dai suoi territori senza paura di rischiare.
MADE IN ITALY
di Valeria Piras
Un film bello e sincero.Denso di vita e in pieno rock & roll.
Ormai Luciano Ligabue non è più una scoperta. Il suo talento è sconfinato ed è riuscito sempre a trovare un equilibrio stabile e ad usarlo come un grande filtro tramite cui raccontare la realtà. Nelle sale è arrivato il suo terzo film, Made In Italy, a sedici anni dal suo recente lavoro cinematografico. Un film con tanto lambrusco e popcorn, con forse qualche eccesso di retorica, come i monologhi esagerati di Stefano Accorsi, l’eterna adolescenza, i momenti videoclippati, gli errori di forma dovuti a volte da una voglia di fare e magari strafare, senza però mai assumere aria da filosofo o sacerdote di vita. Made in Italy, è un film molto sincero, che non se la tira e che parla di cose che il suo autore conosce davvero. Ligabue ci racconta il suo modo, che poi è la sua vita di una generazione nata negli anni Settanta, la precarietà economica ed esistenziale, i sogni infranti e quelli da coltivare, i problemi di un paese che ce la mette tutta per metterti i bastoni tra le ruote, e cioè i grandi temi del nostro tempo. La paura di cadere nella retorica esistenziale è notevole ma il regista-cantante tiene i piedi per terra, magari esagera in certe scelte formali e si sbizzarrisce in piccoli assoli non sempre coerenti, ma che sa bene quali sono le cose che gli stanno a cuore.
La dote principale del Liga regista è la bravura nel guidare gli attori, in un modo tale da arrivare quasi sempre lì dove vuole arrivare: raccontare la realtà del suo mondo. Molto bello il personaggio di Sara che è senz'altro uno dei più sfaccettati, e viene interpretato magistralmente da Kasia Smutniak, tanto da aver fatto dire proprio a Ligabue, a riprese finite, di essersi perdutamente innamorato di "Sara Smutniak". Bella ed espressiva, non più ragazzina, Sara non rinuncia a rivendicare la vita che vorrebbe, e un giorno affronta Riko – Accorsi con rabbia e coraggio, ammettendo i propri sbagli con sensi di colpa più profondi di quanto la situazione richieda.Ligabue racconta, illustra, a volte bene a volte male, ma non impartisce lezioni, perché farlo non solo non gli interessa, ma non gli viene proprio spontaneo.
E allora le persone di Made in Italy, i suoi personaggi, sono così come li vediamo, sono schietti, ruspanti e sinceri i sentimenti che provano. È schietto e sincero il film che li ospita, come la terra e i luoghi cui sono così legati, e che rispecchiano. Un film dove gli amici si parlano quasi solo prendendosi in giro e giocano a scopa ogni lunedì sera, dove i tradimenti si consumano tra i campi, un film tutto maschile senza però essere mai maschilista e questo è stato un gran merito.
Ormai Luciano Ligabue non è più una scoperta. Il suo talento è sconfinato ed è riuscito sempre a trovare un equilibrio stabile e ad usarlo come un grande filtro tramite cui raccontare la realtà. Nelle sale è arrivato il suo terzo film, Made In Italy, a sedici anni dal suo recente lavoro cinematografico. Un film con tanto lambrusco e popcorn, con forse qualche eccesso di retorica, come i monologhi esagerati di Stefano Accorsi, l’eterna adolescenza, i momenti videoclippati, gli errori di forma dovuti a volte da una voglia di fare e magari strafare, senza però mai assumere aria da filosofo o sacerdote di vita. Made in Italy, è un film molto sincero, che non se la tira e che parla di cose che il suo autore conosce davvero. Ligabue ci racconta il suo modo, che poi è la sua vita di una generazione nata negli anni Settanta, la precarietà economica ed esistenziale, i sogni infranti e quelli da coltivare, i problemi di un paese che ce la mette tutta per metterti i bastoni tra le ruote, e cioè i grandi temi del nostro tempo. La paura di cadere nella retorica esistenziale è notevole ma il regista-cantante tiene i piedi per terra, magari esagera in certe scelte formali e si sbizzarrisce in piccoli assoli non sempre coerenti, ma che sa bene quali sono le cose che gli stanno a cuore.
La dote principale del Liga regista è la bravura nel guidare gli attori, in un modo tale da arrivare quasi sempre lì dove vuole arrivare: raccontare la realtà del suo mondo. Molto bello il personaggio di Sara che è senz'altro uno dei più sfaccettati, e viene interpretato magistralmente da Kasia Smutniak, tanto da aver fatto dire proprio a Ligabue, a riprese finite, di essersi perdutamente innamorato di "Sara Smutniak". Bella ed espressiva, non più ragazzina, Sara non rinuncia a rivendicare la vita che vorrebbe, e un giorno affronta Riko – Accorsi con rabbia e coraggio, ammettendo i propri sbagli con sensi di colpa più profondi di quanto la situazione richieda.Ligabue racconta, illustra, a volte bene a volte male, ma non impartisce lezioni, perché farlo non solo non gli interessa, ma non gli viene proprio spontaneo.
E allora le persone di Made in Italy, i suoi personaggi, sono così come li vediamo, sono schietti, ruspanti e sinceri i sentimenti che provano. È schietto e sincero il film che li ospita, come la terra e i luoghi cui sono così legati, e che rispecchiano. Un film dove gli amici si parlano quasi solo prendendosi in giro e giocano a scopa ogni lunedì sera, dove i tradimenti si consumano tra i campi, un film tutto maschile senza però essere mai maschilista e questo è stato un gran merito.
NAPOLI VELATA
di Valeria Piras
Ozpetek si innamora di Napoli e narra il suo lato più misterioso e torbido.
Dopo anno dal suo ultimo Rosso Instabul il regista Ferzan Ozpetek con Napoli Velata abbandona totalmente le atmosfere più o meno autobiografiche del film precedente per immergersi in una vicenda dai contorni erotici e ammalianti, rivestiti però da una vena esoterica, da una simbologia smaccata – siamo a Napoli, dopotutto, la città della smorfia – e da un’evidente fascinazione, di certo non inedita, per il tema del doppio di hitchcockiana memoria, riletto da Ozpetek a modo suo, strizzando l’occhio ai suoi esordi ma anche al giallo all’italiana. Rispetto al melodramma spinto di Allacciate le cinture e all’approccio più ovattato di Rosso Istanbul la sensazione, in questo caso, è quella di un ritorno alle passioni violente dell’Ozpetek più fortunato, quello de La finestra di fronte ma non solo. Non a caso il regista di Saturno contro si riappropria di Giovanna Mezzogiorno e costruisce intorno al suo sguardo profondo, attraversato da ombre antichissime, un caleidoscopio di simboli spesso elementari.
Una danza macabra intorno a una città, Napoli, che con la morte ha in fin dei conti una familiarità non indifferente e che qui è presenza di volta in volta matriarcale, uterina, grottesca, macabra, strangolante. Come fosse una spirale vorticosa, oltre che uno scrigno ambiguo. L’approccio di Ozpetek a Napoli è esplorativo e magico, circospetto e allo stesso tempo innamorato: attraverso la figura spettrale di Adriana, personaggio piagato da mille dubbi e schiava di un innamoramento che non sembra avere appigli solidi nella realtà, l’autore annega tra i vicoli e gli interni, i caratteristi partenopei e le opere d’arte, in una specie di rilettura contromano, ardita e di sicuro sbalestrata ma a suo modo generosa, di tutto il suo cinema precedente.
Tra arte antica e reticenze, che a volte sanno di incertezza ma più spesso sono motivo poetico e visivo piuttosto ricorrente (il tema del velo e della scala sono i puntelli figurativi più frequenti del film), tra medicina legale e una scena di sesso che, nella sua carnalità torrida e traboccante di liquidi e di umori, verrà ricordata a lungo. Napoli velata è un film dalla drammaturgia irreprensibile e dalle molte suggestioni, a metà tra la novella e la numerologia, cavalcate a briglia sciolta. Per chi avesse nostalgia dell’Ozpetek di un tempo, quello attaccato ai traumi femminili come in Cuore sacro, questo film potrebbe però rappresentare il più piacevole dei ritorni.
Dopo anno dal suo ultimo Rosso Instabul il regista Ferzan Ozpetek con Napoli Velata abbandona totalmente le atmosfere più o meno autobiografiche del film precedente per immergersi in una vicenda dai contorni erotici e ammalianti, rivestiti però da una vena esoterica, da una simbologia smaccata – siamo a Napoli, dopotutto, la città della smorfia – e da un’evidente fascinazione, di certo non inedita, per il tema del doppio di hitchcockiana memoria, riletto da Ozpetek a modo suo, strizzando l’occhio ai suoi esordi ma anche al giallo all’italiana. Rispetto al melodramma spinto di Allacciate le cinture e all’approccio più ovattato di Rosso Istanbul la sensazione, in questo caso, è quella di un ritorno alle passioni violente dell’Ozpetek più fortunato, quello de La finestra di fronte ma non solo. Non a caso il regista di Saturno contro si riappropria di Giovanna Mezzogiorno e costruisce intorno al suo sguardo profondo, attraversato da ombre antichissime, un caleidoscopio di simboli spesso elementari.
Una danza macabra intorno a una città, Napoli, che con la morte ha in fin dei conti una familiarità non indifferente e che qui è presenza di volta in volta matriarcale, uterina, grottesca, macabra, strangolante. Come fosse una spirale vorticosa, oltre che uno scrigno ambiguo. L’approccio di Ozpetek a Napoli è esplorativo e magico, circospetto e allo stesso tempo innamorato: attraverso la figura spettrale di Adriana, personaggio piagato da mille dubbi e schiava di un innamoramento che non sembra avere appigli solidi nella realtà, l’autore annega tra i vicoli e gli interni, i caratteristi partenopei e le opere d’arte, in una specie di rilettura contromano, ardita e di sicuro sbalestrata ma a suo modo generosa, di tutto il suo cinema precedente.
Tra arte antica e reticenze, che a volte sanno di incertezza ma più spesso sono motivo poetico e visivo piuttosto ricorrente (il tema del velo e della scala sono i puntelli figurativi più frequenti del film), tra medicina legale e una scena di sesso che, nella sua carnalità torrida e traboccante di liquidi e di umori, verrà ricordata a lungo. Napoli velata è un film dalla drammaturgia irreprensibile e dalle molte suggestioni, a metà tra la novella e la numerologia, cavalcate a briglia sciolta. Per chi avesse nostalgia dell’Ozpetek di un tempo, quello attaccato ai traumi femminili come in Cuore sacro, questo film potrebbe però rappresentare il più piacevole dei ritorni.
YOUNGER NOW - Miley Cyrus
di Valeria Piras
La scatenata Miley si trasforma e rivoluziona stile e musica.
Miley Cyrus è davvero cambiata, non fa più balli erotici dal vivo, non diffonde foto sui social in cui si da alla marijuana , insomma ha smesso di fare la monella e non vuole più scandalizzare il pubblico. Questo nuovo album, "Younger now", è l'inaugurazione della terza fase della sua carriera, quella adulta: Miley ritorna alle radici americane, al country ma con un nuovo occhio, sovverte le regole - un'altra volta - ma in maniera più pacata, e parla di uguaglianza e diversità, di giustizia, di educazione e di non-violenza. Sono trascorsi ben quattro anni dall'uscita di "Bangerz" e dal successo di "Wrecking ball" (una delle più grandi hit pop degli ultimi anni, circa 6 milioni di copie vendute in tutto il mondo e una quarantina di dischi di platino conquistati), due dal disco inciso insieme ai Flaming Lips. La cantante ha cambiato anzitutto stile di vita. È andata a vivere in campagna, insieme a sette cani, due maiali e due pony e quando ha ricominciato a scrivere ha preso una direzione totalmente diversa rispetto a quella dei suoi ultimi lavori: la ragazzaccia che fino a qualche anno fa, durante i concerti, mimava pompini ai ballerini e si faceva fotografare con indosso una cintura fallica, è sparita. Miley non ha optato per il solito disco di hit pop prodotto dai soliti hitmaker americani e svedesi: ha preferito puntare su un progetto caratterizzato da un approccio da indipendente.
Adesso Miley si spoglia davvero, ma musicalmente parlando: del pop elettronico di "Can't be tamed" e di "Bangerz" non c'è davvero traccia, negli undici brani di "Younger now". Il suo nuovo album è un disco country, folk (anche la copertina, molto anni '70, richiama quel mondo lì), dai suoni più acustici e dai toni meno urlati e più sussurrati, con cui l'ex stellina Disney punta a sorprendere proprio come ha sorpreso Harry Styles con il suo album solista dopo gli One Direction: "La mia preoccupazione principale non erano le radio, stavolta", ha detto.L'operazione è simile a quella fatta da Lady Gaga con "Joanne". Come la voce di "Poker face" ha cercato di lasciarsi alle spalle quel disco bizzarro e stravagante che era stato "Artpop", così Miley Cyrus prova con "Younger now" a ripulirsi l'immagine, a mettere da parte tutti gli eccessi: "It's a brand new start", "È un nuovo inizio", sussurra in "Malibu", la prima canzone che ci ha fatto ascoltare di questo nuovo album."Younger now" è un album politico. Non tanto nei contenuti, quanto nel mood: hippie, fricchettone, perfetto per essere ascoltato distesi su un prato, al parco. È un disco di ballate intimiste e riflessive: "Feels like I just woke up, like all this time I've been asleep", canta nel brano che dà il titolo al disco, il primo della tracklist, "È come se mi fossi appena svegliata, come se avessi dormito per tutto questo tempo".
"Rainbowland", il duetto con Dolly Parton, è un pezzo country perfetto per essere cantato sul palco di un saloon, mentre pistoleri fanno festa e brindano con boccali di birra."Week without you": è una canzone da musical in cui Miley si rivolge un po' incazzata al suo ex fidanzato, che l'ha lasciata da poco. E gli dice che in fondo non si sta così male senza di lui (per gli appassionati di cronaca rosa: il ragazzo in questione è l'attore australiano Liam Hemsworth, con il quale Miley è stata fidanzata dal 2009 al 2013, per poi tornarci insieme lo scorso anno).E se "Miss you so much" e "She's not him" sono due canzoni d'amore, tutte chitarra, pianoforte e voce, in "Thinkin'", "Bad mood" e "Love someone" i suoni si fanno più aggressivi e strizzano l'occhio più al pop-rock che al country e al folk (con percussioni più incisive e chitarroni graffianti).Il manifesto della nuova Miley è l'ultima traccia del disco, "Inspired". Quello che rimane, alla fine di tutto, è una ragazza che imbraccia una chitarra e comincia a suonare una canzone senza fronzoli, bella, nuda, cruda, in cui canta di quanto sia bello aprire le porte al cambiamento. Sarà solamente un'altra fase di una delle carriere più imprevedibili del pop dei nostri anni? Può darsi, intanto, però, ci godiamo questo album, che ha tutte le carte in regola per lasciare il segno.
Miley Cyrus è davvero cambiata, non fa più balli erotici dal vivo, non diffonde foto sui social in cui si da alla marijuana , insomma ha smesso di fare la monella e non vuole più scandalizzare il pubblico. Questo nuovo album, "Younger now", è l'inaugurazione della terza fase della sua carriera, quella adulta: Miley ritorna alle radici americane, al country ma con un nuovo occhio, sovverte le regole - un'altra volta - ma in maniera più pacata, e parla di uguaglianza e diversità, di giustizia, di educazione e di non-violenza. Sono trascorsi ben quattro anni dall'uscita di "Bangerz" e dal successo di "Wrecking ball" (una delle più grandi hit pop degli ultimi anni, circa 6 milioni di copie vendute in tutto il mondo e una quarantina di dischi di platino conquistati), due dal disco inciso insieme ai Flaming Lips. La cantante ha cambiato anzitutto stile di vita. È andata a vivere in campagna, insieme a sette cani, due maiali e due pony e quando ha ricominciato a scrivere ha preso una direzione totalmente diversa rispetto a quella dei suoi ultimi lavori: la ragazzaccia che fino a qualche anno fa, durante i concerti, mimava pompini ai ballerini e si faceva fotografare con indosso una cintura fallica, è sparita. Miley non ha optato per il solito disco di hit pop prodotto dai soliti hitmaker americani e svedesi: ha preferito puntare su un progetto caratterizzato da un approccio da indipendente.
Adesso Miley si spoglia davvero, ma musicalmente parlando: del pop elettronico di "Can't be tamed" e di "Bangerz" non c'è davvero traccia, negli undici brani di "Younger now". Il suo nuovo album è un disco country, folk (anche la copertina, molto anni '70, richiama quel mondo lì), dai suoni più acustici e dai toni meno urlati e più sussurrati, con cui l'ex stellina Disney punta a sorprendere proprio come ha sorpreso Harry Styles con il suo album solista dopo gli One Direction: "La mia preoccupazione principale non erano le radio, stavolta", ha detto.L'operazione è simile a quella fatta da Lady Gaga con "Joanne". Come la voce di "Poker face" ha cercato di lasciarsi alle spalle quel disco bizzarro e stravagante che era stato "Artpop", così Miley Cyrus prova con "Younger now" a ripulirsi l'immagine, a mettere da parte tutti gli eccessi: "It's a brand new start", "È un nuovo inizio", sussurra in "Malibu", la prima canzone che ci ha fatto ascoltare di questo nuovo album."Younger now" è un album politico. Non tanto nei contenuti, quanto nel mood: hippie, fricchettone, perfetto per essere ascoltato distesi su un prato, al parco. È un disco di ballate intimiste e riflessive: "Feels like I just woke up, like all this time I've been asleep", canta nel brano che dà il titolo al disco, il primo della tracklist, "È come se mi fossi appena svegliata, come se avessi dormito per tutto questo tempo".
"Rainbowland", il duetto con Dolly Parton, è un pezzo country perfetto per essere cantato sul palco di un saloon, mentre pistoleri fanno festa e brindano con boccali di birra."Week without you": è una canzone da musical in cui Miley si rivolge un po' incazzata al suo ex fidanzato, che l'ha lasciata da poco. E gli dice che in fondo non si sta così male senza di lui (per gli appassionati di cronaca rosa: il ragazzo in questione è l'attore australiano Liam Hemsworth, con il quale Miley è stata fidanzata dal 2009 al 2013, per poi tornarci insieme lo scorso anno).E se "Miss you so much" e "She's not him" sono due canzoni d'amore, tutte chitarra, pianoforte e voce, in "Thinkin'", "Bad mood" e "Love someone" i suoni si fanno più aggressivi e strizzano l'occhio più al pop-rock che al country e al folk (con percussioni più incisive e chitarroni graffianti).Il manifesto della nuova Miley è l'ultima traccia del disco, "Inspired". Quello che rimane, alla fine di tutto, è una ragazza che imbraccia una chitarra e comincia a suonare una canzone senza fronzoli, bella, nuda, cruda, in cui canta di quanto sia bello aprire le porte al cambiamento. Sarà solamente un'altra fase di una delle carriere più imprevedibili del pop dei nostri anni? Può darsi, intanto, però, ci godiamo questo album, che ha tutte le carte in regola per lasciare il segno.
LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE
di Valeria Piras
Un vero capolavoro. Woody Allen torna e ci parla dell'altra faccia della felicità.
Woody Allen torna nelle sale con un film che da molti è stato definito come una delle sue migliori prove registiche.Uno struggente turbine di sentimenti. Un film sulla morte e il dolore con velate sfumature bergmaniane. La Ruota delle Meraviglie è un piccolo capolavoro dove Woody Allen non ha bisogno di filtri autoriali, di dialoghi che devono mantenere il proprio ipocondriaco ritmo. Le luci sembrano abbaglianti, ma quasi spente. Il parco divertimenti solo uno sfondo per una tragedia lacerante. In un film fatto di illusioni, affetti ritrovati e perduti, bagliori di una vita diversa che poi viene negata. Il luna park di Woody Allen, gli effetti della sua comicità, sono quasi sotterrati. Ne restano dei residui. Dalla casa dell’infanzia di Alvy Singer di Io e Annie ai gesti del figlio piromane di Ginny (l’incendio nello studio della terapeuta è l’apoteosi), quasi reincarnazione del Woody Allen folle e ribelle degli esordi.
La storia è ambientata a Coney Island, negli anni ’50. Nel parco divertimenti si intrecciano le vite di quattro personaggi. Ginny (Kate Winslet), un ex-aspirante attrice che ora è costretta a lavorare come cameriera; Humpty (Jim Belushi), il marito della donna che manovra le giostre; Mickey (Justin Timberlake), un bagnino che sogna di diventare scrittore; Carolina (Juno Temple), la figlia che Humpty ha avuto da un precedente matrimonio che torna a casa per nascondersi da gangster che la vogliono far fuori. Sogni perduti. L’illusione e la realtà. Con la fotografia di Vittorio Storaro (alla seconda collaborazione con Allen dopo Café Society) che si è ispirato ai dipinti su Coney Island dell’artista/fotografo Reginald Marsh oltre che a Norman Rockwell, che mostra quasi le vite parallele.
Dove la mente spazia in un luogo impermeabile, dove è impossibile uscire. Solo gli slanci, come nel teatro di Eugene O’Neill, dove i protagonisti sembrano raccontarsi altre storie. Soprattutto Mickey – che guarda in macchina parlando allo spettatore – e Ginny. Pensano ad altre vite e Allen filma il loro drammatico inganno, come aveva fatto in Crimini e misfatti, uno dei suoi risultati più alti e crudeli. Ma il ritmo è magnificamente lento. Anche nella battuta. E altrettanto ‘magnificamente’ non fa quasi ridere per niente. E il frammento di ogni aspetto ha un’amarezza senza fine. Il tragico raggiunge la sua totale essenzialità. Non c’è più bisogno del coro greco di La dea dell’amore. Non è solo uno dei film più ispirati del regista di quest’ultima fase. La ruota delle meraviglie è uno dei migliori Woody Allen di sempre. Con i suoi aspetti interiori che portano a galla l’altra faccia della felicità.
Woody Allen torna nelle sale con un film che da molti è stato definito come una delle sue migliori prove registiche.Uno struggente turbine di sentimenti. Un film sulla morte e il dolore con velate sfumature bergmaniane. La Ruota delle Meraviglie è un piccolo capolavoro dove Woody Allen non ha bisogno di filtri autoriali, di dialoghi che devono mantenere il proprio ipocondriaco ritmo. Le luci sembrano abbaglianti, ma quasi spente. Il parco divertimenti solo uno sfondo per una tragedia lacerante. In un film fatto di illusioni, affetti ritrovati e perduti, bagliori di una vita diversa che poi viene negata. Il luna park di Woody Allen, gli effetti della sua comicità, sono quasi sotterrati. Ne restano dei residui. Dalla casa dell’infanzia di Alvy Singer di Io e Annie ai gesti del figlio piromane di Ginny (l’incendio nello studio della terapeuta è l’apoteosi), quasi reincarnazione del Woody Allen folle e ribelle degli esordi.
La storia è ambientata a Coney Island, negli anni ’50. Nel parco divertimenti si intrecciano le vite di quattro personaggi. Ginny (Kate Winslet), un ex-aspirante attrice che ora è costretta a lavorare come cameriera; Humpty (Jim Belushi), il marito della donna che manovra le giostre; Mickey (Justin Timberlake), un bagnino che sogna di diventare scrittore; Carolina (Juno Temple), la figlia che Humpty ha avuto da un precedente matrimonio che torna a casa per nascondersi da gangster che la vogliono far fuori. Sogni perduti. L’illusione e la realtà. Con la fotografia di Vittorio Storaro (alla seconda collaborazione con Allen dopo Café Society) che si è ispirato ai dipinti su Coney Island dell’artista/fotografo Reginald Marsh oltre che a Norman Rockwell, che mostra quasi le vite parallele.
Dove la mente spazia in un luogo impermeabile, dove è impossibile uscire. Solo gli slanci, come nel teatro di Eugene O’Neill, dove i protagonisti sembrano raccontarsi altre storie. Soprattutto Mickey – che guarda in macchina parlando allo spettatore – e Ginny. Pensano ad altre vite e Allen filma il loro drammatico inganno, come aveva fatto in Crimini e misfatti, uno dei suoi risultati più alti e crudeli. Ma il ritmo è magnificamente lento. Anche nella battuta. E altrettanto ‘magnificamente’ non fa quasi ridere per niente. E il frammento di ogni aspetto ha un’amarezza senza fine. Il tragico raggiunge la sua totale essenzialità. Non c’è più bisogno del coro greco di La dea dell’amore. Non è solo uno dei film più ispirati del regista di quest’ultima fase. La ruota delle meraviglie è uno dei migliori Woody Allen di sempre. Con i suoi aspetti interiori che portano a galla l’altra faccia della felicità.
GLI SDRAIATI
di Valeria Piras
Una commedia intelligente che narra il misterioso universo degli adolescenti.
Francesca Archibugi è nelle sale con Gli Sdraiati un adattamento realizzato insieme al fido Francesco Piccolo dell'omonimo testo di Michele Serra, un film dal forte impatto coinvolgente. Ma più di quello, il suo Gli sdraiati cerca di spostare il fuoco sui ragazzi cui la generica definizione si riferisce. Non tanto a livello narrativo, misurabile in quantità di minuti in scena, quanto piuttosto per considerazione. Loro, del loro mondo, dei loro codici e ritualità. Potrebbe essere una impressione soggettiva, sbagliata, ma non è assurdo ipotizzare un tale niente affatto peregrino tentativo di ampliare il testo originale alla nuova forma. Di affiancare, al diario (più o meno) intimo di un padre spaesato e rammaricato - vera forza del libro di Serra - e al racconto delle sue nuove relazioni o reazioni a quelle esistenti (forse troppo tangenti al corpo principale, e a tratti affrontate in maniera diseguale), un accenno del mondo visto da 'loro', anche se forse descritto in maniera superficiale e poco intelligibile ai profani.
Come il padre interpretato da Claudio Bisio, egli stesso figlio da comprendere tanto quanto in cerca di una strada giusta, e magari di qualcuno che gliela indichi. Come noi spettatori, più facilmente propensi a tradurre una generazione attraverso stereotipi o a riconoscerne solo gli aspetti più nichilisti o naive. Un demerito del film - o dei suoi realizzatori - che fa il paio con la specificità di un contesto troppo particolare (e borghese, ma era inevitabile partendo da una storia singola e singolare) e controbilancia una intenzione tanto encomiabile e interessante.
Un rischio cui risponderà il boxoffice, o il passaparola, potenzialmente polarizzato tra adulti pronti a empatizzare con l'impacciato genitore, e a giustificarne errori e timori, e a giovani in cerca di identificazione presso il manipolo di incredibili liceali scelti da un casting attento e capace. La forza maggiore di un film nel quale è evidente la ricerca, visiva - per varietà di riprese e di montaggio - e musicale (anche se in molti casi dalla costruzione di un'atmosfera e di un background si scivola in sottolineature innecessarie). Che comunque riesce a rendere i diversi registri della commedia, staccandosi anche dal genere, cercando qualcosa in più, soprattutto dopo una prima parte troppo 'facilmente' simpatica sul tema del conflitto generazionale.
Francesca Archibugi è nelle sale con Gli Sdraiati un adattamento realizzato insieme al fido Francesco Piccolo dell'omonimo testo di Michele Serra, un film dal forte impatto coinvolgente. Ma più di quello, il suo Gli sdraiati cerca di spostare il fuoco sui ragazzi cui la generica definizione si riferisce. Non tanto a livello narrativo, misurabile in quantità di minuti in scena, quanto piuttosto per considerazione. Loro, del loro mondo, dei loro codici e ritualità. Potrebbe essere una impressione soggettiva, sbagliata, ma non è assurdo ipotizzare un tale niente affatto peregrino tentativo di ampliare il testo originale alla nuova forma. Di affiancare, al diario (più o meno) intimo di un padre spaesato e rammaricato - vera forza del libro di Serra - e al racconto delle sue nuove relazioni o reazioni a quelle esistenti (forse troppo tangenti al corpo principale, e a tratti affrontate in maniera diseguale), un accenno del mondo visto da 'loro', anche se forse descritto in maniera superficiale e poco intelligibile ai profani.
Come il padre interpretato da Claudio Bisio, egli stesso figlio da comprendere tanto quanto in cerca di una strada giusta, e magari di qualcuno che gliela indichi. Come noi spettatori, più facilmente propensi a tradurre una generazione attraverso stereotipi o a riconoscerne solo gli aspetti più nichilisti o naive. Un demerito del film - o dei suoi realizzatori - che fa il paio con la specificità di un contesto troppo particolare (e borghese, ma era inevitabile partendo da una storia singola e singolare) e controbilancia una intenzione tanto encomiabile e interessante.
Un rischio cui risponderà il boxoffice, o il passaparola, potenzialmente polarizzato tra adulti pronti a empatizzare con l'impacciato genitore, e a giustificarne errori e timori, e a giovani in cerca di identificazione presso il manipolo di incredibili liceali scelti da un casting attento e capace. La forza maggiore di un film nel quale è evidente la ricerca, visiva - per varietà di riprese e di montaggio - e musicale (anche se in molti casi dalla costruzione di un'atmosfera e di un background si scivola in sottolineature innecessarie). Che comunque riesce a rendere i diversi registri della commedia, staccandosi anche dal genere, cercando qualcosa in più, soprattutto dopo una prima parte troppo 'facilmente' simpatica sul tema del conflitto generazionale.
AMORE CHE TORNI - Negramaro
di Valeria Piras
Passeggiando sospesi sull'orlo del baratro, l'amore è l'unica salvezza, canta la band leccese.
Dopo il rischio corso qualche mese fa che li aveva portati sull'orlo dello scioglimento, tornano con un nuovo album di inediti i Negramaro, dal titolo Amore che Che Torni. Giuliano Sangiorgi e compagni sono stati due mesi lontani senza sentirsi, un breve addio che poteva segnare la fine del gruppo. Alla fine, però, si sono ritrovati e questo nuovo album, è la risposta alla crisi attraversata dalla band salentina negli scorsi mesi. "Back to the future, still together", "Ritorno al futuro, ancora insieme", scrivono loro nel booklet del disco.La chiave per comprenderlo, questo "Amore che torni", è rappresentata proprio dallo scioglimento sventato: ad ascoltare i dodici pezzi contenuti all'interno dell'album si ha la sensazione di vedere i componenti del gruppo che camminano su un ponte sospeso, pronto a crollare da un momento all'altro.
Il tono è inquieto, ansioso, come suggerisce il pezzo d'apertura, "Fino all'imbrunire" - che è stato anche il singolo apripista del disco: l'atmosfera è tesa, la ritmica frenetica (con quei vortici di synth in stile "Stranger things") e il testo è quasi parlato con un tono di preoccupazione (come ad auto-convincersi che sì, i vecchi tempi torneranno).Se vi erano piaciuti gli inediti contenuti nella raccolta del 2012 e le canzoni del precedente "La rivoluzione sta arrivando", potreste avere qualche difficoltà a masticare questi nuovi pezzi: "Amore che torni" è forse il disco più "difficile" tra quelli che i Negramaro hanno pubblicato negli ultimi anni, il meno immediato e il più complesso, quello che richiede più di un ascolto per essere compreso.Più che tornare al pop-rock degli esordi, a livello di suono Sangiorgi e compagni recuperano il rock elettronico di "Casa 69". Se gli ultimi lavori contenevano solo qualche traccia di elettronica sparsa qui e là, stavolta con i suoni elettronici ci vanno giù pesante: la cifra stilistica del disco è rappresentata dal tappeto di sintetizzatori e di batterie elettroniche che fa da sottofondo a quasi tutti i pezzi. Però si tratta di un'elettronica vintage, analogica, come hanno spiegato i Negramaro nella nostra intervista: le batterie sono sì triggerate, ma suonate, e le chitarre hanno trovato una strada più semplice e meno virtuosa rispetto a "La rivoluzione sta arrivando".
E per le ballate, che sono sempre stata una costante nei dischi della band, qui c'è poco spazio: le canzoni sono tutte molto ritmate e anche pezzi come "Mi basta e "Amore che torni", che partono come ballate, alla fine si trasformano in pezzi rock ("Ci sto pensando da un po'", invece, è una ballata esistenzialista, che parla di un bilancio: "Ci sto pensando da un po', sarebbe forse meglio poi sparire? / per non doversi accontentare, costretti a sorridere di più").Alla fine del ponte ci arrivano incolumi, e arricchiti dentro. E quando arrivano dall'altra parte della sponda si guardano indietro e capiscono che il peggio è passato, che la crisi è solo un ricordo lontano. Bellissima la frase che la voce della piccola nipote di Sangiorgi dice alla fine del disco: "A volte può sembrare che tutto sia finito. Un attimo dopo ti guardi le mani, le sollevi al cielo e copri le nuvole: afferrandole, le riporti in giù, nascondendole dietro la schiena. Fino al prossimo sole, fino al suo imbrunire, per vedere meglio le stelle e rassicurarle che domani sarà ancora un nuovo inizio". Un vero senso della vita.
Dopo il rischio corso qualche mese fa che li aveva portati sull'orlo dello scioglimento, tornano con un nuovo album di inediti i Negramaro, dal titolo Amore che Che Torni. Giuliano Sangiorgi e compagni sono stati due mesi lontani senza sentirsi, un breve addio che poteva segnare la fine del gruppo. Alla fine, però, si sono ritrovati e questo nuovo album, è la risposta alla crisi attraversata dalla band salentina negli scorsi mesi. "Back to the future, still together", "Ritorno al futuro, ancora insieme", scrivono loro nel booklet del disco.La chiave per comprenderlo, questo "Amore che torni", è rappresentata proprio dallo scioglimento sventato: ad ascoltare i dodici pezzi contenuti all'interno dell'album si ha la sensazione di vedere i componenti del gruppo che camminano su un ponte sospeso, pronto a crollare da un momento all'altro.
Il tono è inquieto, ansioso, come suggerisce il pezzo d'apertura, "Fino all'imbrunire" - che è stato anche il singolo apripista del disco: l'atmosfera è tesa, la ritmica frenetica (con quei vortici di synth in stile "Stranger things") e il testo è quasi parlato con un tono di preoccupazione (come ad auto-convincersi che sì, i vecchi tempi torneranno).Se vi erano piaciuti gli inediti contenuti nella raccolta del 2012 e le canzoni del precedente "La rivoluzione sta arrivando", potreste avere qualche difficoltà a masticare questi nuovi pezzi: "Amore che torni" è forse il disco più "difficile" tra quelli che i Negramaro hanno pubblicato negli ultimi anni, il meno immediato e il più complesso, quello che richiede più di un ascolto per essere compreso.Più che tornare al pop-rock degli esordi, a livello di suono Sangiorgi e compagni recuperano il rock elettronico di "Casa 69". Se gli ultimi lavori contenevano solo qualche traccia di elettronica sparsa qui e là, stavolta con i suoni elettronici ci vanno giù pesante: la cifra stilistica del disco è rappresentata dal tappeto di sintetizzatori e di batterie elettroniche che fa da sottofondo a quasi tutti i pezzi. Però si tratta di un'elettronica vintage, analogica, come hanno spiegato i Negramaro nella nostra intervista: le batterie sono sì triggerate, ma suonate, e le chitarre hanno trovato una strada più semplice e meno virtuosa rispetto a "La rivoluzione sta arrivando".
E per le ballate, che sono sempre stata una costante nei dischi della band, qui c'è poco spazio: le canzoni sono tutte molto ritmate e anche pezzi come "Mi basta e "Amore che torni", che partono come ballate, alla fine si trasformano in pezzi rock ("Ci sto pensando da un po'", invece, è una ballata esistenzialista, che parla di un bilancio: "Ci sto pensando da un po', sarebbe forse meglio poi sparire? / per non doversi accontentare, costretti a sorridere di più").Alla fine del ponte ci arrivano incolumi, e arricchiti dentro. E quando arrivano dall'altra parte della sponda si guardano indietro e capiscono che il peggio è passato, che la crisi è solo un ricordo lontano. Bellissima la frase che la voce della piccola nipote di Sangiorgi dice alla fine del disco: "A volte può sembrare che tutto sia finito. Un attimo dopo ti guardi le mani, le sollevi al cielo e copri le nuvole: afferrandole, le riporti in giù, nascondendole dietro la schiena. Fino al prossimo sole, fino al suo imbrunire, per vedere meglio le stelle e rassicurarle che domani sarà ancora un nuovo inizio". Un vero senso della vita.
THE PLACE
di Valeria Piras
Un piccolo capolavoro il nuovo film di Paolo Genovese.Tutto è chiaro anche se nascosto.
The Place, tratto dalla serie tv The Booth at the End è la nuova opera ambiziosa e potentissima di Paolo Genovese che cerchera di scardinare tutte le nostre convinzioni sulle relazioni umane. Il regista segue quell’ evoluzione della commedia all’italiana che verso gli anni '70 con registi come Monicelli e Scola cercò di scavare nel buio delle nostre vite e della nostra società. Con obiettivi narrativi, visivi ed emotivi.Nel precedente film del regista Perfetti sconosciuti: ci si poteva alzare, ogni tanto c’era una fuga in un’altra stanza, un’assenza. La possibilità di un movimento di macchina, seppur limitato. Qui, no. In The Place c'è solo un tavolo da due, un protagonista silenzioso e dolente, un Valerio Mastandrea che dà a un viso quasi immobile tante sfaccettature imprevedibili, e il suo antagonista di turno. Un bar, inquadrature che si contano sulle dita di una mano, montaggio essenziale, fotografia che gioca sui dettagli, su sfumature di luce, su sprazzi alla Hopper, più sui visi che su questo luogo senza tempo.
Il punto di partenza è una domanda “cosa saresti disposto a fare per ottenere ciò che desideri?”. Che sia una donna, la salvezza di un figlio, la bellezza, lasciarsi alle spalle un padre, ritrovare l’amore di un figlio o di un marito, il proprio dio o la vista. A farla è un uomo, ordinario, che non dorme mai ed è sempre seduto in un bar. Una grossa agenda come compagna. Non ha nome, passato, identità. Ha solo un compito, esaudire i desideri dei poveri diavoli che vengono da lui. E che si chiedono se sia un diavolo lui stesso. E lo è, ma non vuole l’anima. Non tutta intera, almeno, ne vuole un pezzo, vuole qualcosa in cambio. Azione e reazione.Più che un diavolo – non risponde mai alle domande, non risponderà neanche a questa -, un demone, la manifestazione fisica dell’anima di un individuo. In questo caso, del suo interlocutore di turno. Perché quell’ uomo non è l’abisso, ma uno specchio.Paolo Genovese supera, qui, anche quelle piccole forzature di Perfetti sconosciuti, quelle ruvidezze dovute alla credibilità impossibile di una cena come quella, quelle minime macchinosità: lo fa con una soluzione fantasy, dando per assodato che in quel locale ci sia un burocrate dei desideri, un kafkiano distributore di vite alternative.
E che tutti diano per scontato ciò che sia e che riesce a fare. E’ un dentro o fuori: se rimani davanti allo schermo e accetti il gioco non esci più da un vortice di emozioni, sguardi, parole, sorprese. Nulla accade, tutto viene raccontato. Lo spettatore è lì a guardare e immaginare, a pensare e capire, a cercare dentro di te ciò che vedi sullo schermo. Tutto è chiaro, anche se non è mostrato.Un capolavoro che viene su davanti ai nostri occhi per il talento di un regista sempre più coraggioso e consapevole, capace di creare un universo con le sole parole, con i soli visi degli attori, con l’indagine su cittadini al di sotto di ogni sospetto. Si fida dello spettatore e del proprio talento, neanche nel finale fa l’occhiolino a nessuno. E con l’ultima scena si regala un grande classico, l’unica concessione allo stereotipo, ma di gran classe.
The Place, tratto dalla serie tv The Booth at the End è la nuova opera ambiziosa e potentissima di Paolo Genovese che cerchera di scardinare tutte le nostre convinzioni sulle relazioni umane. Il regista segue quell’ evoluzione della commedia all’italiana che verso gli anni '70 con registi come Monicelli e Scola cercò di scavare nel buio delle nostre vite e della nostra società. Con obiettivi narrativi, visivi ed emotivi.Nel precedente film del regista Perfetti sconosciuti: ci si poteva alzare, ogni tanto c’era una fuga in un’altra stanza, un’assenza. La possibilità di un movimento di macchina, seppur limitato. Qui, no. In The Place c'è solo un tavolo da due, un protagonista silenzioso e dolente, un Valerio Mastandrea che dà a un viso quasi immobile tante sfaccettature imprevedibili, e il suo antagonista di turno. Un bar, inquadrature che si contano sulle dita di una mano, montaggio essenziale, fotografia che gioca sui dettagli, su sfumature di luce, su sprazzi alla Hopper, più sui visi che su questo luogo senza tempo.
Il punto di partenza è una domanda “cosa saresti disposto a fare per ottenere ciò che desideri?”. Che sia una donna, la salvezza di un figlio, la bellezza, lasciarsi alle spalle un padre, ritrovare l’amore di un figlio o di un marito, il proprio dio o la vista. A farla è un uomo, ordinario, che non dorme mai ed è sempre seduto in un bar. Una grossa agenda come compagna. Non ha nome, passato, identità. Ha solo un compito, esaudire i desideri dei poveri diavoli che vengono da lui. E che si chiedono se sia un diavolo lui stesso. E lo è, ma non vuole l’anima. Non tutta intera, almeno, ne vuole un pezzo, vuole qualcosa in cambio. Azione e reazione.Più che un diavolo – non risponde mai alle domande, non risponderà neanche a questa -, un demone, la manifestazione fisica dell’anima di un individuo. In questo caso, del suo interlocutore di turno. Perché quell’ uomo non è l’abisso, ma uno specchio.Paolo Genovese supera, qui, anche quelle piccole forzature di Perfetti sconosciuti, quelle ruvidezze dovute alla credibilità impossibile di una cena come quella, quelle minime macchinosità: lo fa con una soluzione fantasy, dando per assodato che in quel locale ci sia un burocrate dei desideri, un kafkiano distributore di vite alternative.
E che tutti diano per scontato ciò che sia e che riesce a fare. E’ un dentro o fuori: se rimani davanti allo schermo e accetti il gioco non esci più da un vortice di emozioni, sguardi, parole, sorprese. Nulla accade, tutto viene raccontato. Lo spettatore è lì a guardare e immaginare, a pensare e capire, a cercare dentro di te ciò che vedi sullo schermo. Tutto è chiaro, anche se non è mostrato.Un capolavoro che viene su davanti ai nostri occhi per il talento di un regista sempre più coraggioso e consapevole, capace di creare un universo con le sole parole, con i soli visi degli attori, con l’indagine su cittadini al di sotto di ogni sospetto. Si fida dello spettatore e del proprio talento, neanche nel finale fa l’occhiolino a nessuno. E con l’ultima scena si regala un grande classico, l’unica concessione allo stereotipo, ma di gran classe.
AMORE GIGANTE - Gianna Nannini
di Valeria Piras
Torna la Gianna nazionale e racconta l'amore come un campo di battaglia.
Da un album di Gianna Nannini ci si aspetta un vento di passioni e di forza fisica, emozioni allo stato puro e così è anche il nuovissimo “Amore gigante” un disco ricco di proclami sui sentimenti, melodie ampie e cantabili, arrangiamenti pieni di grandeur. La cantante senese è al suo disco numero diciotto, fa le cose in modo netto e chiaro. Questa volta i fidati William Malone e Alan Moulder, con i quali ha messo a punto negli anni passati un’idea d’italianità molto pop-rock e ipermelodica, imboccano una strada diversa e in alcune canzoni sono sostituiti da Michele Canova, forse il principale architetto del pop tricolore di questi anni. Una caratteristica del disco è il tema dell’amore, che viene descritto non come esperienza appagante, ma per lo più come fatica e lotta continua. È un disco sull’ amore liberato dalla rabbia e dai conflitti che sono insiti nei rapporti, ha detto la stessa Gianna Nannini. Fatto sta che, forse per via della scelta di affidare la produzione in parte a Canova e in parte a Malone, “Amore gigante” inizia in un modo e finisce in un altro.
Alcune canzoni prodotte da Canova come “Fenomenale”, biglietto da visita dell’operazione, sono infatti piazzate in apertura e calano la voce della Nannini in un contesto dai colori musicali meno vividi e passionali, fatto di riverberi, sintetizzatori e ritmiche programmate, senza batteristi, né bassisti. “Tutto è elettronica, lo è anche una chitarra elettrica una volta che passa per Pro Tools”, afferma la cantante per poi rivendicare il fatto di avere scelto l’elettronica in tempi non sospetti. Non è una svolta, insomma. O se è una svolta, lo è a metà. Con le sue tessiture elettroniche, Canova svecchia l’immagine di Nannini dopo il progetto un po' rétro di "Hitalia" ed è un’operazione parallela alla scelta di co-autori che sembrano in sintonia con il pubblico pop contemporaneo, da Dario Faini (Fedez, Alessandra Amoroso, Lorenzo Fragola, Emma, Annalisa) a Davide Petrella (Fabri Fibra, Cesare Cremonini, Francesco Renga). Sul fonte dei testi, riecco le figure famigliari di Pacifico e di Isabella Santacroce, che con Nannini e Fortunato Zampaglione (Marco Mengoni, Bianca Atzei, Patty Pravo) firma la title track dove si invita a liberare “le emozioni senza aver paura della diversità”.
Il disco si chiude con “L’ultimo latin lover”, che nella scrittura di Francesco Bianconi dei Baustelle strizza l’occhio alla “Latin lover” che dava il titolo all’ album del 1982. La canzone si apre e si chiude con il rombo di una vettura di Formula 1, un omaggio al fratello Alessandro Nannini. L’“Amore gigante” cantato dalla Nannini, “baluardo l’ultimo del grande bene”, è anche un amore tormentato. È destinato alla sconfitta, fatto di vuoto e confusione, vissuto con nostalgia, una cosa da acrobati. È un amore tutto da rifare, dove ci si odia in cui ci si lascia. È il lampo di una nuvola nera, è qualcosa che brucia le vene. E però non ne è uscito un disco pessimista e nemmeno malinconico: i ritornelli, persino quelli che cantano il rimpianto e la confusione emotiva, suonano come celebrazioni allegre e passionali.Brava Gianna.
TERAPIA DI COPPIA PER AMANTI
di Valeria Piras
Una frizzante commedia che si regge sulla simpatia dei protagonisti.
Terapia Di Coppia Per Amanti è il nuovo film di Alessio Maria Federici, tratto dall'omonimo romanzo di Diego De Silvia. Una commedia grottesca, dove due amanti fanno la scelta di iniziare una terapia e sviscerare le problematiche uomo-donna che vengono allo scoperto tra stereotipi, cliché e un lieto fine alla "e vissero felici e contenti" che forse lascia un pò delusi. Protagonisti Ambra Angiolini, nel ruolo di Viviana, casalinga disperata che è passata da un amante all'altro e mamma troppo apprensiva nei confronti di suo figlio adolescente, e Pietro Sermonti, interprete di Modesto tanto abile con la chitarra quanto disastroso nelle relazioni. Davvero frizzante la coppia composta da Angiolini e Sermonti, che cercano spesso di liberarsi da una sceneggiatura non originalissima, ma con emozioni autentiche, che nel finale forse riesce a dare il meglio di se.
Gli attori si liberano da qualsiasi redine e possono liberamente calarsi nei panni dei personaggi, lasciando libero sfogo all'improvvisazione, a quella parte più naturale e gioiosa della recitazione.A completare il quadro troviamo Sergio Rubini, interprete dell'esperto psicologo "aggiustatore" di cuori infranti. Non una commedia, non un thriller, non una pièce grottesca o un dramma dell'assurdo. Un film che risulta una via di mezzo tra vari generi ma che possiede un' anima che alla fine, anche se con qualche forzatura, riesce a lasciare qualcosa allo spettatore, coinvolgendolo e, soprattutto, a creare un rapporto con i protagonisti. Federici riesce a sfruttare fino in fondo il racconto di De Silva che, nel suo paradosso, si fonda sulla quotidianità, sul rapporto di coppia, su momenti in cui è possibile riconoscersi, facendo del luogo comune l'arma vincente per arrivare al lettore.
Tutto questo in Terapia di coppia per amanti è rispettato,anche troppo, finendo presto col diventare un film molto fedele al romanzo dove forse un pò di coraggio in più l'avrebbe reso una commedia con una forte spinta emotiva.
Terapia Di Coppia Per Amanti è il nuovo film di Alessio Maria Federici, tratto dall'omonimo romanzo di Diego De Silvia. Una commedia grottesca, dove due amanti fanno la scelta di iniziare una terapia e sviscerare le problematiche uomo-donna che vengono allo scoperto tra stereotipi, cliché e un lieto fine alla "e vissero felici e contenti" che forse lascia un pò delusi. Protagonisti Ambra Angiolini, nel ruolo di Viviana, casalinga disperata che è passata da un amante all'altro e mamma troppo apprensiva nei confronti di suo figlio adolescente, e Pietro Sermonti, interprete di Modesto tanto abile con la chitarra quanto disastroso nelle relazioni. Davvero frizzante la coppia composta da Angiolini e Sermonti, che cercano spesso di liberarsi da una sceneggiatura non originalissima, ma con emozioni autentiche, che nel finale forse riesce a dare il meglio di se.
Gli attori si liberano da qualsiasi redine e possono liberamente calarsi nei panni dei personaggi, lasciando libero sfogo all'improvvisazione, a quella parte più naturale e gioiosa della recitazione.A completare il quadro troviamo Sergio Rubini, interprete dell'esperto psicologo "aggiustatore" di cuori infranti. Non una commedia, non un thriller, non una pièce grottesca o un dramma dell'assurdo. Un film che risulta una via di mezzo tra vari generi ma che possiede un' anima che alla fine, anche se con qualche forzatura, riesce a lasciare qualcosa allo spettatore, coinvolgendolo e, soprattutto, a creare un rapporto con i protagonisti. Federici riesce a sfruttare fino in fondo il racconto di De Silva che, nel suo paradosso, si fonda sulla quotidianità, sul rapporto di coppia, su momenti in cui è possibile riconoscersi, facendo del luogo comune l'arma vincente per arrivare al lettore.
Tutto questo in Terapia di coppia per amanti è rispettato,anche troppo, finendo presto col diventare un film molto fedele al romanzo dove forse un pò di coraggio in più l'avrebbe reso una commedia con una forte spinta emotiva.
L'UOMO DI NEVE
di Valeria Piras
Un libro di successo e un thriller che vorrebbe inquietare. Ci riesce solo in parte.
Il regista Tomas Alfredson, già visto per l’ottimo La Talpa e Lasciami Entrare, ha deciso di adattare per il grande schermo un grande romanzo thriller come L'Uomo di Neve cercando di creare una profonda introspezione e una grandissima atmosfera, progetto forse riuscito solo in parte. Nel lavoro si sono fiondati nomi altisonanti dello star system di Hollywood come Martin Scorsese e Michael Fassbender, e alla fine l'adattamento dell'amatissima storia di Joe Nesbø, la settima con protagonista il Detective Harry Hole sul grande schermo ha mantenuto una certa fedeltà contenutistica. L'Uomo di Neve racconta una delle indagini di Harry Hole, uno dei più grandi personaggi dello scrittore norvegese e protagonista di decine delle sue storie.
Nel film il detective è interpretato da un Michael Fassbender in forma, in un'interpretazione sicuramente corretta che traduce su schermo vizi e virtù del rinomato investigatore, aggiungendoci un pizzico di empatia in più. Le premesse per un solido thriller d'atmosfera c'erano tutte, dall'ambientazione in pieno inverno norvegese all'investigatore outsider dai metodi particolari, ma non sono bastate per dare una struttura iper solida ad una storia dal ritmo serrato e dai toni inquietanti come probabilmente si desiderava. Nel film spicca soprattutto la fredda bellezza della Norvegia, nei suoi paesaggi costantemente innevati catturati con occhio placido da Anderson. L'impostazione della storia è fin troppo complicata e con ricchi capovolgimenti,a tratti molto imprevedibile e con un livello di inquietudine e stress psicologico piuttosto elevato.
A sorreggere una scrittura non eccezionale ci sono ottime inquadrature affascinanti che danno spessore a ciò che contornano. In questo film non siamo sugli alti livelli dei precedenti lavori di Alfredson ma l’atmosfera inquietante e i grandi nomi del progetto danno al film quella spinta decisiva. Ci si augura allora che un regista del suo calibro possa aumentare ancora di più lo spessore della sua regia, in questo film rimasta fin troppo in seconda fila quasi a voler troppo rispettosamente non invadere la struttura originaria del romanzo. Un thriller psicologico da vedere.
Il regista Tomas Alfredson, già visto per l’ottimo La Talpa e Lasciami Entrare, ha deciso di adattare per il grande schermo un grande romanzo thriller come L'Uomo di Neve cercando di creare una profonda introspezione e una grandissima atmosfera, progetto forse riuscito solo in parte. Nel lavoro si sono fiondati nomi altisonanti dello star system di Hollywood come Martin Scorsese e Michael Fassbender, e alla fine l'adattamento dell'amatissima storia di Joe Nesbø, la settima con protagonista il Detective Harry Hole sul grande schermo ha mantenuto una certa fedeltà contenutistica. L'Uomo di Neve racconta una delle indagini di Harry Hole, uno dei più grandi personaggi dello scrittore norvegese e protagonista di decine delle sue storie.
Nel film il detective è interpretato da un Michael Fassbender in forma, in un'interpretazione sicuramente corretta che traduce su schermo vizi e virtù del rinomato investigatore, aggiungendoci un pizzico di empatia in più. Le premesse per un solido thriller d'atmosfera c'erano tutte, dall'ambientazione in pieno inverno norvegese all'investigatore outsider dai metodi particolari, ma non sono bastate per dare una struttura iper solida ad una storia dal ritmo serrato e dai toni inquietanti come probabilmente si desiderava. Nel film spicca soprattutto la fredda bellezza della Norvegia, nei suoi paesaggi costantemente innevati catturati con occhio placido da Anderson. L'impostazione della storia è fin troppo complicata e con ricchi capovolgimenti,a tratti molto imprevedibile e con un livello di inquietudine e stress psicologico piuttosto elevato.
A sorreggere una scrittura non eccezionale ci sono ottime inquadrature affascinanti che danno spessore a ciò che contornano. In questo film non siamo sugli alti livelli dei precedenti lavori di Alfredson ma l’atmosfera inquietante e i grandi nomi del progetto danno al film quella spinta decisiva. Ci si augura allora che un regista del suo calibro possa aumentare ancora di più lo spessore della sua regia, in questo film rimasta fin troppo in seconda fila quasi a voler troppo rispettosamente non invadere la struttura originaria del romanzo. Un thriller psicologico da vedere.
IL COLORE NASCOSTO DELLE COSE
di Valeria Piras
Un tema molto delicato trattato con stile e contenuto.
Il regista Silvio Soldini torna a trattare il tema dei non-vedenti dopo il film documentario Per altri occhi. Questa volta ha deciso di usare dosi massicce di ironia per narrare la routine dei suoi protagonisti, e gira un film dal respiro europeo, più vicino alla Francia che all’Italia. Nel film Il Colore Nascosto delle Cose Soldini mantiene la sua vena tragicomica e narra una storia tenera, profonda, che riesce a emozionare col suo stile sobrio. Non ci sono musiche improvvise e la macchina da presa evita i movimenti azzardati. Il colore nascosto delle cose segue una struttura lineare, senza sorprese, ma riesce comunque a coinvolgere. Forse avrebbe dovuto osare in po’ di più, evitando un finale molto classico. Ma il cuore batte lo stesso, forte.Teo è un uomo pavido. È abituato a scappare dalle sue responsabilità e dai sentimenti.
Lavora in un’agenzia pubblicitaria, è un creativo, un’artista, e passa dagli spot delle macchine a quelli delle luci a Led. Frequenta due donne diverse e non affronta il passato. Quando la madre lo chiama per un lutto in famiglia, lui si rifiuta di andare al funerale. Si inventa sempre qualche scusa, fino a quando conosce Emma, un’osteopata che cammina col bastone bianco. Un appuntamento al buio scatena la curiosità di Teo, che inizia a corteggiarla.Lei non vuole rinchiudersi nella sua incapacità di distinguere uno scalino da un marciapiede, Emma “vede” con le mani, con il tatto, con i suoni che la circondano. L’apparire non determina le sue giornate, perché scava a fondo nell’essenza delle cose. Aiuta un’altra ragazza ipovedente, insegnandole il francese e spronandola ad andare avanti, nonostante i suoi problemi. A diciotto anni la ribellione interiore non accetta le disuguaglianze. “Tutti i ciechi finiscono col diventare centralinisti.
Non voglio più andare a scuola”, grida la liceale arrabbiata. Ma Emma, nella sua fragilità, può alleviare ogni pena, perché non ha ancora perso la speranza nel nostro mondo.Il colore nascosto delle cose ha un’anima onirica: a Emma sembra un sogno che un donnaiolo come Teo possa interessarsi a lei. Dopo il divorzio e la solitudine, il sole torna a splendere. Sembra di rivedere il Bruno Ganz di Pane e tulipani, un uomo ombroso sull’orlo del suicidio, prima che un tornado in gonnella porti lo scompiglio nella sua esistenza. Gli antieroi di Silvio Soldini respirano, pulsano di vita e riescono a non affogare. I sogni si avverano, qualche volta, e il buio può splendere se lo sguardo di chi ti sta vicino trasuda ancora passione.
Il regista Silvio Soldini torna a trattare il tema dei non-vedenti dopo il film documentario Per altri occhi. Questa volta ha deciso di usare dosi massicce di ironia per narrare la routine dei suoi protagonisti, e gira un film dal respiro europeo, più vicino alla Francia che all’Italia. Nel film Il Colore Nascosto delle Cose Soldini mantiene la sua vena tragicomica e narra una storia tenera, profonda, che riesce a emozionare col suo stile sobrio. Non ci sono musiche improvvise e la macchina da presa evita i movimenti azzardati. Il colore nascosto delle cose segue una struttura lineare, senza sorprese, ma riesce comunque a coinvolgere. Forse avrebbe dovuto osare in po’ di più, evitando un finale molto classico. Ma il cuore batte lo stesso, forte.Teo è un uomo pavido. È abituato a scappare dalle sue responsabilità e dai sentimenti.
Lavora in un’agenzia pubblicitaria, è un creativo, un’artista, e passa dagli spot delle macchine a quelli delle luci a Led. Frequenta due donne diverse e non affronta il passato. Quando la madre lo chiama per un lutto in famiglia, lui si rifiuta di andare al funerale. Si inventa sempre qualche scusa, fino a quando conosce Emma, un’osteopata che cammina col bastone bianco. Un appuntamento al buio scatena la curiosità di Teo, che inizia a corteggiarla.Lei non vuole rinchiudersi nella sua incapacità di distinguere uno scalino da un marciapiede, Emma “vede” con le mani, con il tatto, con i suoni che la circondano. L’apparire non determina le sue giornate, perché scava a fondo nell’essenza delle cose. Aiuta un’altra ragazza ipovedente, insegnandole il francese e spronandola ad andare avanti, nonostante i suoi problemi. A diciotto anni la ribellione interiore non accetta le disuguaglianze. “Tutti i ciechi finiscono col diventare centralinisti.
Non voglio più andare a scuola”, grida la liceale arrabbiata. Ma Emma, nella sua fragilità, può alleviare ogni pena, perché non ha ancora perso la speranza nel nostro mondo.Il colore nascosto delle cose ha un’anima onirica: a Emma sembra un sogno che un donnaiolo come Teo possa interessarsi a lei. Dopo il divorzio e la solitudine, il sole torna a splendere. Sembra di rivedere il Bruno Ganz di Pane e tulipani, un uomo ombroso sull’orlo del suicidio, prima che un tornado in gonnella porti lo scompiglio nella sua esistenza. Gli antieroi di Silvio Soldini respirano, pulsano di vita e riescono a non affogare. I sogni si avverano, qualche volta, e il buio può splendere se lo sguardo di chi ti sta vicino trasuda ancora passione.
LUST FOR LIFE - Lana del Rey
di Valeria Piras
Lana esce con un nuovo disco e fa un altro passo in avanti.
L'intensa Lana del Rey viene da alcuni anni molto particolari. Prima aveva dato alla luce un disco capolavoro come Ultraviolence (2014) a un solo anno di distanza, si era presentata con il passo falso Honeymoon. Ora dal quarto album in studio della cantante americana c'era da attendersi di tutto. La cover pic del disco è molto evocativa con la bellissima Lana con un sorriso smagliante quasi a far intendere l'abbandono delle atmosfere cupe e malinconiche che l'hanno sempre caratterizzata. In realtà, l'evoluzione in questo senso è parziale, più presente nell'artwork che nei brani: fatto salvo alcuni episodi in cui effettivamente la Del Rey riesce a proporre temi e canzoni più positive (Change, Groupie Love, la title-track), nella maggior parte del disco l'artista non riesce a distaccarsi dal mood malinconico che la caratterizza; del resto, la sua voce (quasi) sempre trascinata e dalle sfumature retrò non aiuta di certo a veicolare messaggi pieni di spensieratezza e leggerezza, e anzi rende molto di più in pezzi che trasmettono l'opposto (13 Beaches, Cherry, Heroin).
Da un punto di vista prettamente musicale, difficile aspettarsi un disco diverso nelle atmosfere e nelle melodie, anche se in realtà batterie hip hop permeano l'intero disco e, inoltre, compaiono alcuni brani che presentano una certa dose di "sperimentazione", come nella beatlesiana Tomorrow Never Came - non a caso realizzata in collaborazione con Sean Ono Lennon, figlio di John - o in Summer Bummer, anch'essa un duetto (con A$AP Rocky e Playboi Carti), caratterizzato da sfumature trap.
I pezzi migliori, tuttavia, sono quelli che maggiormente si rifanno al passato della cantautrice, vale a dire le già citate Heroin e 13 Beaches, In My Feelings e Get Free, la quale, nonostante un giro armonico palesemente preso in prestito da Creep dei Radiohead, chiude alla perfezione l'album. Per niente riusciti sono, invece, i pezzi When the World Was at War We Kept Dancing e Beautiful People Beautiful Problems (un altro featuring, con Stevie Nicks, poco significativo), che rischiano di far precipitare un lavoro comunque troppo lungo, data la somiglianza tra le varie tracce.Tirando le somme, Lana Del Rey pubblica il suo disco che, finora, più si avvicina ad Ultraviolence, sia nei contenuti sia nella qualità. Tuttavia, resta l'impressione che riducendo l'album di quattro o cinque brani, questo risulterebbe molto più fruibile ed eviterebbe che l'attenzione dell'ascoltatore cali da metà in poi. In ogni caso, una prova positiva da parte della cantante newyorkese.
L'intensa Lana del Rey viene da alcuni anni molto particolari. Prima aveva dato alla luce un disco capolavoro come Ultraviolence (2014) a un solo anno di distanza, si era presentata con il passo falso Honeymoon. Ora dal quarto album in studio della cantante americana c'era da attendersi di tutto. La cover pic del disco è molto evocativa con la bellissima Lana con un sorriso smagliante quasi a far intendere l'abbandono delle atmosfere cupe e malinconiche che l'hanno sempre caratterizzata. In realtà, l'evoluzione in questo senso è parziale, più presente nell'artwork che nei brani: fatto salvo alcuni episodi in cui effettivamente la Del Rey riesce a proporre temi e canzoni più positive (Change, Groupie Love, la title-track), nella maggior parte del disco l'artista non riesce a distaccarsi dal mood malinconico che la caratterizza; del resto, la sua voce (quasi) sempre trascinata e dalle sfumature retrò non aiuta di certo a veicolare messaggi pieni di spensieratezza e leggerezza, e anzi rende molto di più in pezzi che trasmettono l'opposto (13 Beaches, Cherry, Heroin).
Da un punto di vista prettamente musicale, difficile aspettarsi un disco diverso nelle atmosfere e nelle melodie, anche se in realtà batterie hip hop permeano l'intero disco e, inoltre, compaiono alcuni brani che presentano una certa dose di "sperimentazione", come nella beatlesiana Tomorrow Never Came - non a caso realizzata in collaborazione con Sean Ono Lennon, figlio di John - o in Summer Bummer, anch'essa un duetto (con A$AP Rocky e Playboi Carti), caratterizzato da sfumature trap.
I pezzi migliori, tuttavia, sono quelli che maggiormente si rifanno al passato della cantautrice, vale a dire le già citate Heroin e 13 Beaches, In My Feelings e Get Free, la quale, nonostante un giro armonico palesemente preso in prestito da Creep dei Radiohead, chiude alla perfezione l'album. Per niente riusciti sono, invece, i pezzi When the World Was at War We Kept Dancing e Beautiful People Beautiful Problems (un altro featuring, con Stevie Nicks, poco significativo), che rischiano di far precipitare un lavoro comunque troppo lungo, data la somiglianza tra le varie tracce.Tirando le somme, Lana Del Rey pubblica il suo disco che, finora, più si avvicina ad Ultraviolence, sia nei contenuti sia nella qualità. Tuttavia, resta l'impressione che riducendo l'album di quattro o cinque brani, questo risulterebbe molto più fruibile ed eviterebbe che l'attenzione dell'ascoltatore cali da metà in poi. In ogni caso, una prova positiva da parte della cantante newyorkese.
CODICE CRIMINALE
di Valeria Piras
Un' epopea criminale con un forte sottofondo romantico.
Codice Criminale è il nuovo film con protagonista il bravissimo Michael Fassbender sotto la regia dell’adrenalinico Adam Smith, una specie di romanzo criminale su una famiglia irlandere, i Cutler, perennemente in fuga dalla polizia. Una monovolume da sette posti è il mezzo con cui la famiglia Cutler spesso si muove, con cui insegna al più piccolo del clan a correre in auto (lo fanno stando tutti insieme in macchina, inseguendo un coniglio nei grandi prati irlandesi in una sequenza d’apertura formidabile per rischio, divertimento e senso della famiglia) e con cui Chad, il rampollo o “la leggenda” come lo chiama il padre, scappa dalla polizia. Un mezzo inadeguato e familiare adattato alla grande ad imprese pericolose e criminali.I Cutler sono ladri per genìa, è il vanto di famiglia e lo sanno tutti, è come una regola non scritta: tutti sanno che sono ladri, loro continuano a fare i ladri ma non devono farsi beccare dalla polizia. Quella con le forze dell’ordine è una specie di faida, una rivalità che non conosce pietà (nemmeno davanti alla sparizione di due figli, nel momento in cui dietro le barricate si potrebbe scorgere una comune umanità, questa diversità è messa da parte), una che si acuisce quando il padre di famiglia (un fenomenale Brendan Gleeson finalmente sporco, lercio e bastardo senza redenzione con un anello incredibile) commissiona come al solito al figlio un furto che si scoprirà essere in una casa di un ufficiale della polizia.
L’evento cambia tutto e nonostante Chad l’abbia fatta franca come Ulisse (si nasconde sotto le vacche), qualcosa si è rotto.Il punto di Codice Criminale è infatti come in questa grande faida familiare tra i Cutler e la polizia un ingranaggio sia fuori posto. Michael Fassbender è perfetto nel ruolo di questa leggenda del crimine in tuta con il cuore d’oro che sempre meno vuole vedere il figlio preso anch’egli in questioni di crimine, lo vorrebbe a scuola nonostante il nonno e il resto della famiglia spingano per l’anarchia e la vita criminale: “La prigione è la medicina di Dio, ti insegna le cose importanti” è la morale che il nonno passa al nipote.Solo che la famiglia non è facile da mollare, la polizia non è facile da eludere e tutti sembrano tramare contro di lui.Adam Smith ha una mano fermissima, sa correre quando serve, dirige bene la tensione, il rischio e gli inseguimenti di cui è chiaramente appassionato tanto quanto i personaggi, ma ha anche il cuore che serve per un dialogo a porte chiuse, per due battute in cima ad un albero o uno sguardo di sfida tra i parenti. Questo del resto è un film di uomini, quindi non ce ne sono troppi di dialoghi, sono più sguardi, campi e controcampi in cui ci si fissa con la serietà e la determinazione di un adulto pur avendo 10 anni e così facendo si dicono cose serissime.
Alla fine della fiera però ciò che veramente emerge da questo quadro con colori poco saturi è la meschinità umana in un mondo, quello delle faide, che non sembra nemmeno troppo il nostro. Per quanto ami mettere molta ironia nel film (funzionale a tratti ma non quando indugia nella coolness dei personaggi, caratteristica che stona in un film così poco compiaciuto e così commiserevole), Smith ha la capacità di dare una profondità quasi mitologica alle rivalità, rendendole contrapposizioni ancestrali, quasi millenarie. Una meschinità che sembra affondare chissà dove nel passato e che ovviamente ha il mirabile risultato di rendere il cuore e il desiderio di fuga del protagonista ancora più romantico.
Codice Criminale è il nuovo film con protagonista il bravissimo Michael Fassbender sotto la regia dell’adrenalinico Adam Smith, una specie di romanzo criminale su una famiglia irlandere, i Cutler, perennemente in fuga dalla polizia. Una monovolume da sette posti è il mezzo con cui la famiglia Cutler spesso si muove, con cui insegna al più piccolo del clan a correre in auto (lo fanno stando tutti insieme in macchina, inseguendo un coniglio nei grandi prati irlandesi in una sequenza d’apertura formidabile per rischio, divertimento e senso della famiglia) e con cui Chad, il rampollo o “la leggenda” come lo chiama il padre, scappa dalla polizia. Un mezzo inadeguato e familiare adattato alla grande ad imprese pericolose e criminali.I Cutler sono ladri per genìa, è il vanto di famiglia e lo sanno tutti, è come una regola non scritta: tutti sanno che sono ladri, loro continuano a fare i ladri ma non devono farsi beccare dalla polizia. Quella con le forze dell’ordine è una specie di faida, una rivalità che non conosce pietà (nemmeno davanti alla sparizione di due figli, nel momento in cui dietro le barricate si potrebbe scorgere una comune umanità, questa diversità è messa da parte), una che si acuisce quando il padre di famiglia (un fenomenale Brendan Gleeson finalmente sporco, lercio e bastardo senza redenzione con un anello incredibile) commissiona come al solito al figlio un furto che si scoprirà essere in una casa di un ufficiale della polizia.
L’evento cambia tutto e nonostante Chad l’abbia fatta franca come Ulisse (si nasconde sotto le vacche), qualcosa si è rotto.Il punto di Codice Criminale è infatti come in questa grande faida familiare tra i Cutler e la polizia un ingranaggio sia fuori posto. Michael Fassbender è perfetto nel ruolo di questa leggenda del crimine in tuta con il cuore d’oro che sempre meno vuole vedere il figlio preso anch’egli in questioni di crimine, lo vorrebbe a scuola nonostante il nonno e il resto della famiglia spingano per l’anarchia e la vita criminale: “La prigione è la medicina di Dio, ti insegna le cose importanti” è la morale che il nonno passa al nipote.Solo che la famiglia non è facile da mollare, la polizia non è facile da eludere e tutti sembrano tramare contro di lui.Adam Smith ha una mano fermissima, sa correre quando serve, dirige bene la tensione, il rischio e gli inseguimenti di cui è chiaramente appassionato tanto quanto i personaggi, ma ha anche il cuore che serve per un dialogo a porte chiuse, per due battute in cima ad un albero o uno sguardo di sfida tra i parenti. Questo del resto è un film di uomini, quindi non ce ne sono troppi di dialoghi, sono più sguardi, campi e controcampi in cui ci si fissa con la serietà e la determinazione di un adulto pur avendo 10 anni e così facendo si dicono cose serissime.
Alla fine della fiera però ciò che veramente emerge da questo quadro con colori poco saturi è la meschinità umana in un mondo, quello delle faide, che non sembra nemmeno troppo il nostro. Per quanto ami mettere molta ironia nel film (funzionale a tratti ma non quando indugia nella coolness dei personaggi, caratteristica che stona in un film così poco compiaciuto e così commiserevole), Smith ha la capacità di dare una profondità quasi mitologica alle rivalità, rendendole contrapposizioni ancestrali, quasi millenarie. Una meschinità che sembra affondare chissà dove nel passato e che ovviamente ha il mirabile risultato di rendere il cuore e il desiderio di fuga del protagonista ancora più romantico.
TURN UP THE QUIET - Diana Krall
di Valeria Piras
Un vento di raffinata musicalità.Questo è lo stile di Diana Krall.
Sono trascorsi ben otto anni di distanza dall’ultimo album di inediti (“Quiet nights”, del 2009), e con il nuovo disco Diana Krall torna al repertorio a lei più congeniale prelevando a piene mani dalla grande tradizione jazzistica americana. “Turn up the quiet”, questo è il titolo del nuovo lavoro di Diana, segna anche il ritorno della produzione di Tommy LiPuma (scomparso prima dell’uscita del disco), che aveva già curato alcuni album di successo della cantante/pianista canadese. Ci sono undici brani nel disco e sono suonati in trio, quartetto o quintetto, a volte con l’aggiunta degli archi, ma sempre con una veste raffinata ed elegante. La Krall ci tiene a mantenere per tutto il disco un’atmosfera intima e romantica a partire dal primo brano “Like someone in love” grazie alla sua voce sussurrata e sensuale e al suo fraseggio ormai celebre.
Ai brani arcinoti come “Night and day” , “L-O-V-E” e “Isn’t it romantic” si alternano pezzi meno conosciuti come “I’m confessin’ that I love you”, “Moonglow” e “No moon at all”. I musicisti che accompagnano la Krall - dal double bass Christian McBride ai suoi usuali collaboratori, tra cui Russel Malone alla chitarra e Anthony Wilson alla batteria - sono straordinari ma non prevalgono mai sulla loro leader, mantenendo piano e voce sempre centrali.Il disco si conclude con la dolcissima “I’ll see you in my dreams” , in cui il solo del violinista Stuart Duncan impreziosisce un disco perfetto per una cena a lume di candela, perché Diana Krall – sebbene considerata un po’ stucchevole dai puristi del jazz - è sempre garanzia di classe ed eleganza.
Undici brani da ascoltare lentamente, anche tra tanti anni, ricchi di eleganza dove la stella jazz di Diana brilla fortemente divertendosi senza troppe sperimentazioni, un lavoro fatto bene e piacevole dove la voce dell’artista non è la sola protagonista del disco, ma ci sono musicisti di primissimo livello che completano un album dai toni meno cupi e più spensierati, fruibile a tutti non solo agli amanti del piano jazz.Una musica che scorre lenta da ascoltare in pieno relax
Sono trascorsi ben otto anni di distanza dall’ultimo album di inediti (“Quiet nights”, del 2009), e con il nuovo disco Diana Krall torna al repertorio a lei più congeniale prelevando a piene mani dalla grande tradizione jazzistica americana. “Turn up the quiet”, questo è il titolo del nuovo lavoro di Diana, segna anche il ritorno della produzione di Tommy LiPuma (scomparso prima dell’uscita del disco), che aveva già curato alcuni album di successo della cantante/pianista canadese. Ci sono undici brani nel disco e sono suonati in trio, quartetto o quintetto, a volte con l’aggiunta degli archi, ma sempre con una veste raffinata ed elegante. La Krall ci tiene a mantenere per tutto il disco un’atmosfera intima e romantica a partire dal primo brano “Like someone in love” grazie alla sua voce sussurrata e sensuale e al suo fraseggio ormai celebre.
Ai brani arcinoti come “Night and day” , “L-O-V-E” e “Isn’t it romantic” si alternano pezzi meno conosciuti come “I’m confessin’ that I love you”, “Moonglow” e “No moon at all”. I musicisti che accompagnano la Krall - dal double bass Christian McBride ai suoi usuali collaboratori, tra cui Russel Malone alla chitarra e Anthony Wilson alla batteria - sono straordinari ma non prevalgono mai sulla loro leader, mantenendo piano e voce sempre centrali.Il disco si conclude con la dolcissima “I’ll see you in my dreams” , in cui il solo del violinista Stuart Duncan impreziosisce un disco perfetto per una cena a lume di candela, perché Diana Krall – sebbene considerata un po’ stucchevole dai puristi del jazz - è sempre garanzia di classe ed eleganza.
Undici brani da ascoltare lentamente, anche tra tanti anni, ricchi di eleganza dove la stella jazz di Diana brilla fortemente divertendosi senza troppe sperimentazioni, un lavoro fatto bene e piacevole dove la voce dell’artista non è la sola protagonista del disco, ma ci sono musicisti di primissimo livello che completano un album dai toni meno cupi e più spensierati, fruibile a tutti non solo agli amanti del piano jazz.Una musica che scorre lenta da ascoltare in pieno relax
WITNESS - Katy Perry
di Valeria Piras
Torna Katy con un album che prova a far riflettere, ma molto meglio il pop.
Arriva nei negozi Witness il nuovo album di inediti di Katy Perry. Esistono dei personaggi ed artisti che non si accontentano di essere delle popstar ma ambiscono ad essere qualcosa di oltre e questo è l'esempio della nostra Katy con questo disco. La popolarità planetaria che adesso ha le permette di esprimere il proprio punto di vista su argomenti vari - la politica, in primis. Katy Perry tenta di rendere impegnate delle potenziali hit pop. Per raccontare "Witness" ha coniato l'espressione "purposeful pop". Vale a dire: pop con un obiettivo preciso, quello di far riflettere. Fin dalla cover del disco la cantante inglese ci fa capire che lei osserva e con la sua voce poi grida in faccia il suo pensiero. Katy Perry ha scelto una strategia diversa rispetto a quella scelta per "Prism" del 2013. All'epoca fece uscire il primo singolo, "Roar", all'inizio di agosto: l'album arrivò dopo due mesi, insieme al secondo singolo ("Unconditionally") e debuttò direttamente al primo posto della classifica americana con 300.000 copie vendute.
Stavolta, ha preferito lavorare sul lungo termine: escludendo "Rise", singolo pubblicato la scorsa estate in occasione dei giochi olimpici di Rio e non incluso nell'album, il primo singolo ("Chained to the rhythm") è uscito a febbraio, seguito due mesi dopo dal secondo singolo ("Bon appétit") e, lo scorso mese, da un terzo singolo ("Swish swish").Dopo quattro anni di assenza dalle scene, le aspettative erano piuttosto alte e i singoli non le hanno soddisfatte del tutto, in termini di dati: "Chained to the rhythm" non è riuscita ad agguantare il podio della classifica americana, ha debuttato alla quarta posizione e non s'è spinta oltre (invece "Roar", nella prima settimana, vendette circa 560.000 copie digitali). Ma, insomma, com'è questo "Witness"? L'album si presta a due diverse chiavi di lettura: una non esclude l'altra, ma qui preferiamo tenerle separate.La prima, più immediata: la musica. "Witness" è un disco di "semplici" canzoni pop. Katy ha detto che il suo obiettivo era quello di sperimentare, di esplorare stili diversi. E per farlo ha voluto collaborare con produttori provenienti da estrazioni diverse: ci sono gli onnipresenti hitmaker pop Max Martin e Shellback, garanzia di successo, ma ci sono anche il dj deep house britannico Duke Dumont (ha remixato Donna Summer e Lily Allen), la band elettronica londinese degli Hot Chip, i producer rap Mike Will Made It e DJ Mustard e anche il minimalista Jack Garratt. Le 15 tracce, tra i cui autori troviamo anche Sia, guardano molto al pop anni '80: tastieroni (come quelli di "Roulette" e "Tsunami"), synth vorticosi, drum machine.
Ma ci sono anche suoni più contemporanei, quelli che vanno per la maggiore nelle classifiche di tutto il mondo in questo momento, la tropical house, la deep house ("Swish swish"), l'EDM e la trap. Allusioni politiche le troviamo in pezzi come "Chained to the rhythm" (si parla di vivere in una bolla e di buttare giù i muri), "Bigger than me" (che, come la stessa popstar ha spiegato, è ispirata alle elezioni presidenziali statunitensi dello scorso anno - Katy era una sostenitrice di Hillary Clinton), "Hey hey hey" (c'è il tema del femminismo e la cantante parla di sé stessa come di una Marilyn Monroe alla guida di un monster truck).Se considerassimo "Witness" come un "purposeful pop album", come un album "impegnato", probabilmente non useremmo parole tenere: la Katy Perry in questa versione convince poco, manca di spessore e di incisività. Inserire vaghi riferimenti politici in canzoni i cui testi hanno poco a che vedere con la politica: è davvero questo, tutto quello che riesce a fare? Se sì, ha ragione chi - come Consequence of Sound - scrive: "La satira non è il suo forte"Preferiamo considerarlo, invece, come un album di potenziali e semplici hit pop con cui Katy Perry continua a voler vincere facile, a sedurre le radio, a riempire le arene e a vendere copie. A fare, insomma, quello che ogni popstar dovrebbe fare.
Arriva nei negozi Witness il nuovo album di inediti di Katy Perry. Esistono dei personaggi ed artisti che non si accontentano di essere delle popstar ma ambiscono ad essere qualcosa di oltre e questo è l'esempio della nostra Katy con questo disco. La popolarità planetaria che adesso ha le permette di esprimere il proprio punto di vista su argomenti vari - la politica, in primis. Katy Perry tenta di rendere impegnate delle potenziali hit pop. Per raccontare "Witness" ha coniato l'espressione "purposeful pop". Vale a dire: pop con un obiettivo preciso, quello di far riflettere. Fin dalla cover del disco la cantante inglese ci fa capire che lei osserva e con la sua voce poi grida in faccia il suo pensiero. Katy Perry ha scelto una strategia diversa rispetto a quella scelta per "Prism" del 2013. All'epoca fece uscire il primo singolo, "Roar", all'inizio di agosto: l'album arrivò dopo due mesi, insieme al secondo singolo ("Unconditionally") e debuttò direttamente al primo posto della classifica americana con 300.000 copie vendute.
Stavolta, ha preferito lavorare sul lungo termine: escludendo "Rise", singolo pubblicato la scorsa estate in occasione dei giochi olimpici di Rio e non incluso nell'album, il primo singolo ("Chained to the rhythm") è uscito a febbraio, seguito due mesi dopo dal secondo singolo ("Bon appétit") e, lo scorso mese, da un terzo singolo ("Swish swish").Dopo quattro anni di assenza dalle scene, le aspettative erano piuttosto alte e i singoli non le hanno soddisfatte del tutto, in termini di dati: "Chained to the rhythm" non è riuscita ad agguantare il podio della classifica americana, ha debuttato alla quarta posizione e non s'è spinta oltre (invece "Roar", nella prima settimana, vendette circa 560.000 copie digitali). Ma, insomma, com'è questo "Witness"? L'album si presta a due diverse chiavi di lettura: una non esclude l'altra, ma qui preferiamo tenerle separate.La prima, più immediata: la musica. "Witness" è un disco di "semplici" canzoni pop. Katy ha detto che il suo obiettivo era quello di sperimentare, di esplorare stili diversi. E per farlo ha voluto collaborare con produttori provenienti da estrazioni diverse: ci sono gli onnipresenti hitmaker pop Max Martin e Shellback, garanzia di successo, ma ci sono anche il dj deep house britannico Duke Dumont (ha remixato Donna Summer e Lily Allen), la band elettronica londinese degli Hot Chip, i producer rap Mike Will Made It e DJ Mustard e anche il minimalista Jack Garratt. Le 15 tracce, tra i cui autori troviamo anche Sia, guardano molto al pop anni '80: tastieroni (come quelli di "Roulette" e "Tsunami"), synth vorticosi, drum machine.
Ma ci sono anche suoni più contemporanei, quelli che vanno per la maggiore nelle classifiche di tutto il mondo in questo momento, la tropical house, la deep house ("Swish swish"), l'EDM e la trap. Allusioni politiche le troviamo in pezzi come "Chained to the rhythm" (si parla di vivere in una bolla e di buttare giù i muri), "Bigger than me" (che, come la stessa popstar ha spiegato, è ispirata alle elezioni presidenziali statunitensi dello scorso anno - Katy era una sostenitrice di Hillary Clinton), "Hey hey hey" (c'è il tema del femminismo e la cantante parla di sé stessa come di una Marilyn Monroe alla guida di un monster truck).Se considerassimo "Witness" come un "purposeful pop album", come un album "impegnato", probabilmente non useremmo parole tenere: la Katy Perry in questa versione convince poco, manca di spessore e di incisività. Inserire vaghi riferimenti politici in canzoni i cui testi hanno poco a che vedere con la politica: è davvero questo, tutto quello che riesce a fare? Se sì, ha ragione chi - come Consequence of Sound - scrive: "La satira non è il suo forte"Preferiamo considerarlo, invece, come un album di potenziali e semplici hit pop con cui Katy Perry continua a voler vincere facile, a sedurre le radio, a riempire le arene e a vendere copie. A fare, insomma, quello che ogni popstar dovrebbe fare.
QUANDO UN PADRE
di Valeria Piras
Filmone strappalacrime all'americana. Ma c'è del buono.
Da pochi giorni nelle sale cinematografiche Quando un Padre, il nuovo film del regista M.Williams che racconta una bella fetta della società americana di oggi. L'attore di punta è Gerard Butler che interpreta Dane, il “family man” del titolo originale, poco presente in famiglia perché completamente assorto nel lavoro. È uno spregiudicato cacciatore di teste in una società di recruitment (una sorta di agenzia di collocamento). L’uomo è convinto che il miglior modo di prendersi cura dei suoi amati sia guadagnare il più possibile. Naturalmente questo lo allontana dai suoi figli e lo isola dalla moglie.Una famiglia che, comunque, conduce una vita serena, ma il fato non è sempre benevolo.
La relativa tranquillità del nucleo familiare è sconvolta dalla malattia del primogenito, che contrae la leucemia.Con l’insorgere di questa sconvolgente realtà, Dan inizierà un’evoluzione psicologica che lo porterà a rivedere la sue priorità. L’intenzione del regista Mark Williams sembrerebbe quella di realizzare un film semplice e classico; per questo rigetta qualsiasi scelta artistica che possa attirare troppo l’attenzione su di sé, per optare in favore di una regia quasi invisibile.Dal punto di vista narrativo la storia non propone nulla di nuovo o inedito, puntando molto su luoghi comuni e stereotipi, sia nella costruzione dei personaggi sia nella conduzione dell’arco narrativo.
Quello che unicamente interessa è creare tutti i presupposti per “regalare” al pubblico facili emozioni e spicciole morali. Essendo un prodotto americano è sicuramente ben confezionato, sia nella parte tecnica sia in quella attoriale. Su questo versante si scorgono le uniche, minime, fonti d’interesse. È sempre un piacere ammirare l’enorme talento di un attore del calibro di Willem Dafoe (anche se in un ruolo marginale, al limite del cameo) ma anche del più giovane Butler. Il loro talento arricchisce il classico esempio di prodotto medio sfornato dall’industria hollywoodiana.
Da pochi giorni nelle sale cinematografiche Quando un Padre, il nuovo film del regista M.Williams che racconta una bella fetta della società americana di oggi. L'attore di punta è Gerard Butler che interpreta Dane, il “family man” del titolo originale, poco presente in famiglia perché completamente assorto nel lavoro. È uno spregiudicato cacciatore di teste in una società di recruitment (una sorta di agenzia di collocamento). L’uomo è convinto che il miglior modo di prendersi cura dei suoi amati sia guadagnare il più possibile. Naturalmente questo lo allontana dai suoi figli e lo isola dalla moglie.Una famiglia che, comunque, conduce una vita serena, ma il fato non è sempre benevolo.
La relativa tranquillità del nucleo familiare è sconvolta dalla malattia del primogenito, che contrae la leucemia.Con l’insorgere di questa sconvolgente realtà, Dan inizierà un’evoluzione psicologica che lo porterà a rivedere la sue priorità. L’intenzione del regista Mark Williams sembrerebbe quella di realizzare un film semplice e classico; per questo rigetta qualsiasi scelta artistica che possa attirare troppo l’attenzione su di sé, per optare in favore di una regia quasi invisibile.Dal punto di vista narrativo la storia non propone nulla di nuovo o inedito, puntando molto su luoghi comuni e stereotipi, sia nella costruzione dei personaggi sia nella conduzione dell’arco narrativo.
Quello che unicamente interessa è creare tutti i presupposti per “regalare” al pubblico facili emozioni e spicciole morali. Essendo un prodotto americano è sicuramente ben confezionato, sia nella parte tecnica sia in quella attoriale. Su questo versante si scorgono le uniche, minime, fonti d’interesse. È sempre un piacere ammirare l’enorme talento di un attore del calibro di Willem Dafoe (anche se in un ruolo marginale, al limite del cameo) ma anche del più giovane Butler. Il loro talento arricchisce il classico esempio di prodotto medio sfornato dall’industria hollywoodiana.
EL DORADO - Shakira
di Valeria Piras
Tutti attendevano Shakira e lei torna più calda e pop che mai.
Ritorna in grande stile la splendida Shakira dopo tre anni di attesa dal suo precedente lavoro di inediti. E lo fa con un nuovo album che dal titolo è già tutto un programma: l'"El Dorado" che ci spinge a sognare quella terra della Colombia dove erano nascosti tesori e per creare curiosità e coinvolgere i fans a livello globale. Shakira ha ideato una specie di caccia al tesoro disseminando indizi in tutto il mondo e facendo giocare il pubblico tramite una app. Così gli stessi fan attraverso il gioco hanno scelto anche copertina e tracklist del disco.Preceduto di qualche mese dal singolo "Chantaje", il nuovo album è pieno di successi garantiti (o almeno cercati): tutti brani di presa immediata.
Se volessimo sintetizzare lo stile del disco possiamo dire che si tratta di pop allo stato puro. A partire dal nuovo singolo "Me enamorè" che racconta la nascita della sua storia d'amore con il calciatore Gerard Piqué, suo marito."El Dorado" è quasi tutto in spagnolo, con brani accattivanti e molto vari che vanno dal pop al latino, dal reggaeton di "What we said" e "Perro Fiel" in duetto con Nicky Jam alla bachata di "Deja vu", senza tralasciare un paio di ballad, come "Nada" e la bella "Tonelades" , piano e voce, che chiude il disco. Per non scontentare nessuno però ci sono anche un paio di brani in inglese, come il pop moderno di "When a woman" e il sound anni 80 di "Amarillo.
E perfino uno in francese, "Comme moi", di cui è presente anche la versione in inglese.La cantante racconta che aveva perso l'ispirazione e si sentiva pressata dal "dover" fare un nuovo album, finché ha capito che poteva scrivere un pezzo alla volta e non un intero progetto. Ecco perché i brani suonano tutti come potenziali singoli, Anche grazie a una produzione accuratissima, così come gli arrangiamenti. E la voce di Shakira (125 milioni di dischi venduti nel mondo, 2 Grammy Awards e 10 Latin Grammy), che può piacere o meno con quel timbro fortemente marcato e gutturale, risulta proprio per questo caratteristica e unica. Un disco comunque piacevole che non scontenterà i fan dell'artista e cerca di riposizionare Shakira nell'olimpo delle pop star.
Ritorna in grande stile la splendida Shakira dopo tre anni di attesa dal suo precedente lavoro di inediti. E lo fa con un nuovo album che dal titolo è già tutto un programma: l'"El Dorado" che ci spinge a sognare quella terra della Colombia dove erano nascosti tesori e per creare curiosità e coinvolgere i fans a livello globale. Shakira ha ideato una specie di caccia al tesoro disseminando indizi in tutto il mondo e facendo giocare il pubblico tramite una app. Così gli stessi fan attraverso il gioco hanno scelto anche copertina e tracklist del disco.Preceduto di qualche mese dal singolo "Chantaje", il nuovo album è pieno di successi garantiti (o almeno cercati): tutti brani di presa immediata.
Se volessimo sintetizzare lo stile del disco possiamo dire che si tratta di pop allo stato puro. A partire dal nuovo singolo "Me enamorè" che racconta la nascita della sua storia d'amore con il calciatore Gerard Piqué, suo marito."El Dorado" è quasi tutto in spagnolo, con brani accattivanti e molto vari che vanno dal pop al latino, dal reggaeton di "What we said" e "Perro Fiel" in duetto con Nicky Jam alla bachata di "Deja vu", senza tralasciare un paio di ballad, come "Nada" e la bella "Tonelades" , piano e voce, che chiude il disco. Per non scontentare nessuno però ci sono anche un paio di brani in inglese, come il pop moderno di "When a woman" e il sound anni 80 di "Amarillo.
E perfino uno in francese, "Comme moi", di cui è presente anche la versione in inglese.La cantante racconta che aveva perso l'ispirazione e si sentiva pressata dal "dover" fare un nuovo album, finché ha capito che poteva scrivere un pezzo alla volta e non un intero progetto. Ecco perché i brani suonano tutti come potenziali singoli, Anche grazie a una produzione accuratissima, così come gli arrangiamenti. E la voce di Shakira (125 milioni di dischi venduti nel mondo, 2 Grammy Awards e 10 Latin Grammy), che può piacere o meno con quel timbro fortemente marcato e gutturale, risulta proprio per questo caratteristica e unica. Un disco comunque piacevole che non scontenterà i fan dell'artista e cerca di riposizionare Shakira nell'olimpo delle pop star.
FORTUNATA
di Valeria Piras
Un bel film italiano intenso e ricco di sfumature. Elogio a Castellitto.
La coppia Mazzantini - Castellitto sforna un nuovo ed intenso film nelle sale in questi giorni. Fortunata è il titolo ed è una pellicola con una carica vitale prorompente, a tratti assillante, presentata anche in concorso a Cannes nella sezione Un Certain Regard. La protagonista del film ha una smisurata voglia di aprirsi e urlare tanti sentimenti e tante emozioni contrastanti. Il nome che dà il titolo al film è quello della protagonista, una giovane madre interpretata dalla iridescente Jasmine Trinca (brava e credibile nella sua romanità) che si arrabatta come può per sopravvivere al caldo torrido della capitale e per cullare il sogno di una vita, quello di aprire un negozio di parrucchiera, nonostante gli ostacoli, tanti, che mattone su mattone vanno a costruire quasi un muro invalicabile dinnanzi a lei. È davvero sfigata Fortunata, nonostante il suo nome: avverte come un macigno l'assenza dei suoi genitori, ha come migliore amico un tossicodipendente che ha la madre affetta dall'Alzheimer, non ha un lavoro, ha un matrimonio gettato alle ortiche, un ex marito cinico e violento che rivendica i suoi diritti sulla figlioletta Barbara. Il tutto mentre i cinesi, sempre più padroni di Roma (e del mondo) le rubano il sogno.
Il film ha la stessa frenesia di Non ti muovere ma almeno nella prima parte il melodramma cangiante di Castellitto ha il merito di far presa sullo spettatore grazie a questa sprizzante vivacità che la pellicola emana nei dialoghi, nei movimenti di camera, nelle vivide scorribande dei protagonisti. La psicologia, la "forza interiore", la ricerca dell'identità, lo sviluppo dei personaggi. "Fortunata" promette tanto e mantiene il giusto. L'eroina, novella Mamma Roma degli anni duemila (paragone azzardato ma che concettualmente può starci) combatte con tutte le sue forze contro sputi, pistole e istituzioni. Almeno fino a quando non si imbatte nella "variabile dell'amore", "l'unica forza sovvertitrice capace di far perdere ogni certezza". Così forte da far sbandare e condizionare l'intera seconda parte di pellicola che si incunea in parossismi febbrili tanto urlati e sudati quanto un pò stereotipati come la corsa sul Tevere dello psicologo Accorsi che ogni sera torna a casa "con un fegato tanto", il sesso spinto tra i due protagonisti dopo una luna di miele clandestina con tanto di visita ai delfini all'Acquario di Genova.
E poi una compilation di ballate pop composta da "Friday I'm Love", "Have You Ever Seen the Rain?" e l'immancabile "Vivere" di Vasco Rossi. Ma la spinta di "Fortunata", è soprattutto una sceneggiatura che ripaga fino in fondo quanto di buono aveva fatto intravedere nella prima parte, e che anzi si sviluppa bene nel cuore del film, tra tragedie greche, disgrazie imminenti, segreti nascosti, jackpot milionari e una Roma multietnica come ciliegina sulla torta. Castellitto, che alcuni hanno definito in versione sorrentiniana con qualche eccesso di troppo, cerca insieme alle convincenti urla della Trinca, alla sorpresa Edoardo Pesce e alla solita faccia da bipolare di Alessandro Borghi di non invadere troppo il film con il suo sguado ed il risultato finale è beffardo come il destino della sua protagonista, che allegoricamente si eclissa nell'acqua mentre il solito Vasco in sottofondo, prima dei titoli di coda, ci ricorda che bisogna vivere e pensare che domani sarà sempre meglio. Un buon lavoro per Sergio Castellitto.
La coppia Mazzantini - Castellitto sforna un nuovo ed intenso film nelle sale in questi giorni. Fortunata è il titolo ed è una pellicola con una carica vitale prorompente, a tratti assillante, presentata anche in concorso a Cannes nella sezione Un Certain Regard. La protagonista del film ha una smisurata voglia di aprirsi e urlare tanti sentimenti e tante emozioni contrastanti. Il nome che dà il titolo al film è quello della protagonista, una giovane madre interpretata dalla iridescente Jasmine Trinca (brava e credibile nella sua romanità) che si arrabatta come può per sopravvivere al caldo torrido della capitale e per cullare il sogno di una vita, quello di aprire un negozio di parrucchiera, nonostante gli ostacoli, tanti, che mattone su mattone vanno a costruire quasi un muro invalicabile dinnanzi a lei. È davvero sfigata Fortunata, nonostante il suo nome: avverte come un macigno l'assenza dei suoi genitori, ha come migliore amico un tossicodipendente che ha la madre affetta dall'Alzheimer, non ha un lavoro, ha un matrimonio gettato alle ortiche, un ex marito cinico e violento che rivendica i suoi diritti sulla figlioletta Barbara. Il tutto mentre i cinesi, sempre più padroni di Roma (e del mondo) le rubano il sogno.
Il film ha la stessa frenesia di Non ti muovere ma almeno nella prima parte il melodramma cangiante di Castellitto ha il merito di far presa sullo spettatore grazie a questa sprizzante vivacità che la pellicola emana nei dialoghi, nei movimenti di camera, nelle vivide scorribande dei protagonisti. La psicologia, la "forza interiore", la ricerca dell'identità, lo sviluppo dei personaggi. "Fortunata" promette tanto e mantiene il giusto. L'eroina, novella Mamma Roma degli anni duemila (paragone azzardato ma che concettualmente può starci) combatte con tutte le sue forze contro sputi, pistole e istituzioni. Almeno fino a quando non si imbatte nella "variabile dell'amore", "l'unica forza sovvertitrice capace di far perdere ogni certezza". Così forte da far sbandare e condizionare l'intera seconda parte di pellicola che si incunea in parossismi febbrili tanto urlati e sudati quanto un pò stereotipati come la corsa sul Tevere dello psicologo Accorsi che ogni sera torna a casa "con un fegato tanto", il sesso spinto tra i due protagonisti dopo una luna di miele clandestina con tanto di visita ai delfini all'Acquario di Genova.
E poi una compilation di ballate pop composta da "Friday I'm Love", "Have You Ever Seen the Rain?" e l'immancabile "Vivere" di Vasco Rossi. Ma la spinta di "Fortunata", è soprattutto una sceneggiatura che ripaga fino in fondo quanto di buono aveva fatto intravedere nella prima parte, e che anzi si sviluppa bene nel cuore del film, tra tragedie greche, disgrazie imminenti, segreti nascosti, jackpot milionari e una Roma multietnica come ciliegina sulla torta. Castellitto, che alcuni hanno definito in versione sorrentiniana con qualche eccesso di troppo, cerca insieme alle convincenti urla della Trinca, alla sorpresa Edoardo Pesce e alla solita faccia da bipolare di Alessandro Borghi di non invadere troppo il film con il suo sguado ed il risultato finale è beffardo come il destino della sua protagonista, che allegoricamente si eclissa nell'acqua mentre il solito Vasco in sottofondo, prima dei titoli di coda, ci ricorda che bisogna vivere e pensare che domani sarà sempre meglio. Un buon lavoro per Sergio Castellitto.
SONG TO SONG
di Valeria Piras
Ancora una volta un vero ed intenso capolavoro per il grande Terrence Malick.
La nuova opera cinematografica del mitico regista Terrence Malick è nelle sale col titolo Song To Song, con un cast davvero eccezionale e ben assortito composto da Ryan Gosling, Michael Fassbender, Rooney Mara e la bellissima ed intensa Natalie Portman. La prima scena di Song to Song è già una fotografia incredibile da parte di Terrence Malick, che come al solito declina il tutto con l'essenziale, cercando la sostanza della forma in un linguaggio che, ormai dal film The Tree Of Life, non fa altro che evolversi e rinnovarsi pur mantenendo la stessa poetica. Al centro delle scene ci sono i corpi come veri protagonisti della pellicola, corpi che danzano, giocano, si rincorrono e lottano sotto un palcoscenico alzando polvere ed emozioni, alla ricerca del punto più alto, del salto più lontano: quello in grado di superare lo steccato. Lo stesso fanno i quattro protagonisti della vicenda, dal musicista illuso BV (Ryan Gosling) ennesima vittima del famelico produttore Cook (Michael Fassbender), personaggio carnale e carnivoro che succhia anima e vita all'amante Faye (Rooney Mara) e l'amore a Rhonda (Natalie Portman), giocando sulle geometrie delle relazioni e disincantando ogni personaggio che cade preda delle sue fauci.
Lo sfondo della città di Austin agisce come un personaggio nella camera di Emmanuel Lubezki, avvolgendo i protagonisti ed immergendoli nel mondo della musica, che Terrence Malick riesce a far respirare intorno a loro attraverso suoni, concerti, abbigliamenti e protagonisti - Lykke Li, Iggy Pop, Patti Smith tanto per dirne alcuni. Ancora una volta infatti il regista recupera una narrazione ormai testata nei suoi ultimi film per presentare i suoi protagonisti non tanto come personaggi unici ma come archetipi, modelli contenenti la complessità delle emozioni umane - che tuttavia si fanno stavolta terrene, carnali. A noi non resta che sfiorarli assieme a lui con le immagini, nello stesso modo in cui loro stessi si sfiorano costantemente, comunicando con il tatto più che con la vista o con la voce. Song to Song diventa così un film corporeo e concreto, fatto di mani più che di sguardi, mani che cercano nell'ossessivo tocco sul ventre la fonte della vita, la carnalità stessa, l'incontro tra corpo e anima e tra ragione e sentimento.
L'obiettivo del regista è come al solito dei più ambiziosi e la ricerca che Malick si pone è una solita sfida irraggiungibile, una domanda destinata a rimanere senza risposta. La frattura è evidente e dolorosa, ed è proprio dentro quella faglia che sta l'esperienza dei film del regista texano, la ricerca costante e il viaggio dello spettatore - e dei personaggi - insieme al film. In Song to Song va percepita proprio nella carnalità dei corpi, che mai come questa volta comunica un bisogno di concretezza ormai quasi disperato che Terrence Malick esprime in un processo di montaggio costantemente fratturato, senza pace, quasi autodistruttivo: le scene d'amore sopra tutte sembrano apparire come un insieme di minuscoli pezzi di un puzzle, che il regista sparpaglia dando allo spettatore. La grandezza dei film di Terrence Malick in fondo sta proprio in questo: nell'essere unici per ognuno di noi, nel creare un'immagine che sia nostra e che riesca a scavare nella profondità di ognuno pur rimanendo in superficie.
La nuova opera cinematografica del mitico regista Terrence Malick è nelle sale col titolo Song To Song, con un cast davvero eccezionale e ben assortito composto da Ryan Gosling, Michael Fassbender, Rooney Mara e la bellissima ed intensa Natalie Portman. La prima scena di Song to Song è già una fotografia incredibile da parte di Terrence Malick, che come al solito declina il tutto con l'essenziale, cercando la sostanza della forma in un linguaggio che, ormai dal film The Tree Of Life, non fa altro che evolversi e rinnovarsi pur mantenendo la stessa poetica. Al centro delle scene ci sono i corpi come veri protagonisti della pellicola, corpi che danzano, giocano, si rincorrono e lottano sotto un palcoscenico alzando polvere ed emozioni, alla ricerca del punto più alto, del salto più lontano: quello in grado di superare lo steccato. Lo stesso fanno i quattro protagonisti della vicenda, dal musicista illuso BV (Ryan Gosling) ennesima vittima del famelico produttore Cook (Michael Fassbender), personaggio carnale e carnivoro che succhia anima e vita all'amante Faye (Rooney Mara) e l'amore a Rhonda (Natalie Portman), giocando sulle geometrie delle relazioni e disincantando ogni personaggio che cade preda delle sue fauci.
Lo sfondo della città di Austin agisce come un personaggio nella camera di Emmanuel Lubezki, avvolgendo i protagonisti ed immergendoli nel mondo della musica, che Terrence Malick riesce a far respirare intorno a loro attraverso suoni, concerti, abbigliamenti e protagonisti - Lykke Li, Iggy Pop, Patti Smith tanto per dirne alcuni. Ancora una volta infatti il regista recupera una narrazione ormai testata nei suoi ultimi film per presentare i suoi protagonisti non tanto come personaggi unici ma come archetipi, modelli contenenti la complessità delle emozioni umane - che tuttavia si fanno stavolta terrene, carnali. A noi non resta che sfiorarli assieme a lui con le immagini, nello stesso modo in cui loro stessi si sfiorano costantemente, comunicando con il tatto più che con la vista o con la voce. Song to Song diventa così un film corporeo e concreto, fatto di mani più che di sguardi, mani che cercano nell'ossessivo tocco sul ventre la fonte della vita, la carnalità stessa, l'incontro tra corpo e anima e tra ragione e sentimento.
L'obiettivo del regista è come al solito dei più ambiziosi e la ricerca che Malick si pone è una solita sfida irraggiungibile, una domanda destinata a rimanere senza risposta. La frattura è evidente e dolorosa, ed è proprio dentro quella faglia che sta l'esperienza dei film del regista texano, la ricerca costante e il viaggio dello spettatore - e dei personaggi - insieme al film. In Song to Song va percepita proprio nella carnalità dei corpi, che mai come questa volta comunica un bisogno di concretezza ormai quasi disperato che Terrence Malick esprime in un processo di montaggio costantemente fratturato, senza pace, quasi autodistruttivo: le scene d'amore sopra tutte sembrano apparire come un insieme di minuscoli pezzi di un puzzle, che il regista sparpaglia dando allo spettatore. La grandezza dei film di Terrence Malick in fondo sta proprio in questo: nell'essere unici per ognuno di noi, nel creare un'immagine che sia nostra e che riesca a scavare nella profondità di ognuno pur rimanendo in superficie.
L'AMORE CRIMINALE
di Valeria Piras
Un passionale thriller anni '90 che ha il suo perchè.
Denise Di Novi è una super nota produttrice, ha lavorato a tanti successi di Tim Burton, ha deciso adesso di fare il suo esordio alla regia, sua grande passione e ha scelto un thriller dal sapore anni '90 che appare ben costruito per stile ed approccio, soprattutto alimentato dai molti motivi di interesse nel mettere due star del calibro di Rosario Dawson e Katherine Heigl una contro l'altra. Il titolo della pellicola è L'amore criminale (un più secco Unforgettable in originale) in cui le due attrici interpretano rispettivamente la nuova fiamma e la ex del David di Geoff Stults. Inizia bene L'amore criminale della Di Novi, portandoci nel cuore della storia al momento dell'interrogatorio di una Julia che da vittima sembra essere diventata colpevole. La donna è ferita e l'agente di polizia che la interroga lascia intendere che ci sono indizi che la ricollegano all'uomo rinvenuto nella sua casa.
Pochi minuti, quanto basta per incuriosire lo spettatore, per poi saltare a diverso tempo prima, al momento in cui Julia sta salutando la sua redazione per trasferirsi da David; pochi minuti che sono molto utili per capire da subito l'andamento narrativo di un film che prosegue lasciandosi a volte andare ai cliché del genere e ad un certo tipo di thriller che sembra uscito dagli anni '80 e '90, da Attrazione fatale a Basic Instinct, tipo noir solo vagamente erotico ed uno stile patinato che sembra ben simboleggiato dall'immagine, ripetuta all'eccesso, di Tessa che spazzola i propri capelli e quelli della figlia. Pur essendo un film al femminile, concentrato su due figure di donna opposte, non si può dire che L'amore criminale cerchi di proporre modelli femminili moderni o ben scritti (né va meglio al David di Stults che si adagia negli stereotipi maschili che rappresenta).
La sceneggiatura non è perfetta nella sua interezza ma un plauso va alle due protagoniste femminili: in primis la Heigl che con fare intenso riesce a proporre una figura di villain credibile e realmente minacciosa.Anche la collega Dawson da una prova positiva ed ha il merito di far emergere la propria Julia dalla mera figura di donna in pericolo, rendendola più concreta, passionale e viva, diventando uno dei principali punti di forza di un film che, non sarà indimenticabile come dice il titolo originale della pellicola, ma che ha un suo perchè nella categoria dei noir passionali.Buon esordio alla regia.
Denise Di Novi è una super nota produttrice, ha lavorato a tanti successi di Tim Burton, ha deciso adesso di fare il suo esordio alla regia, sua grande passione e ha scelto un thriller dal sapore anni '90 che appare ben costruito per stile ed approccio, soprattutto alimentato dai molti motivi di interesse nel mettere due star del calibro di Rosario Dawson e Katherine Heigl una contro l'altra. Il titolo della pellicola è L'amore criminale (un più secco Unforgettable in originale) in cui le due attrici interpretano rispettivamente la nuova fiamma e la ex del David di Geoff Stults. Inizia bene L'amore criminale della Di Novi, portandoci nel cuore della storia al momento dell'interrogatorio di una Julia che da vittima sembra essere diventata colpevole. La donna è ferita e l'agente di polizia che la interroga lascia intendere che ci sono indizi che la ricollegano all'uomo rinvenuto nella sua casa.
Pochi minuti, quanto basta per incuriosire lo spettatore, per poi saltare a diverso tempo prima, al momento in cui Julia sta salutando la sua redazione per trasferirsi da David; pochi minuti che sono molto utili per capire da subito l'andamento narrativo di un film che prosegue lasciandosi a volte andare ai cliché del genere e ad un certo tipo di thriller che sembra uscito dagli anni '80 e '90, da Attrazione fatale a Basic Instinct, tipo noir solo vagamente erotico ed uno stile patinato che sembra ben simboleggiato dall'immagine, ripetuta all'eccesso, di Tessa che spazzola i propri capelli e quelli della figlia. Pur essendo un film al femminile, concentrato su due figure di donna opposte, non si può dire che L'amore criminale cerchi di proporre modelli femminili moderni o ben scritti (né va meglio al David di Stults che si adagia negli stereotipi maschili che rappresenta).
La sceneggiatura non è perfetta nella sua interezza ma un plauso va alle due protagoniste femminili: in primis la Heigl che con fare intenso riesce a proporre una figura di villain credibile e realmente minacciosa.Anche la collega Dawson da una prova positiva ed ha il merito di far emergere la propria Julia dalla mera figura di donna in pericolo, rendendola più concreta, passionale e viva, diventando uno dei principali punti di forza di un film che, non sarà indimenticabile come dice il titolo originale della pellicola, ma che ha un suo perchè nella categoria dei noir passionali.Buon esordio alla regia.
FENOMENO - Fabri Fibra
di Valeria Piras
Il rapper italiano che più parla di noi.Complimenti a Fibra.
Si intitola "Fenomeno” il nuovo album di Fabrizio Tarducci, in arte Fabri Fibra. Ed è un disco in cui l'artista riesce finalmente a mettersi a nudo e raccontare al mondo i veri motivi della sua inquietudine, da ricercare nella sua travagliata storia di famiglia.Il disco contiene 17 tracce in cui Fibra ci parla e anche bene, di questa Italia tra crisi e voglia di emergere, mescolando glamour e cronaca nera, droga e social. Di alto livello sono le collaborazioni con artisti del calibro dei TheGiornalisti, l'artista trap Laioung e anche un intervento addirittura di Roberto Saviano. Due anni fa Fabri Fibra per il suo “Squallor” optò per un'uscita a sorpresa, una copertina da guerrilla writing, niente promozione, nessuna intervista nè firmacopie, e tutto ciò corrispondeva a un disco con tracce molto schiette e abrasive, nei suoni e nei testi, decisamente poco mainstream. Però si sa: nuovo disco, nuova storia. Considerando quindi le ospitate da Fazio e Fiorello dei giorni scorsi, un singolo (title-track) dritto e radiofonico, intervista a Repubblica e Corriere e con l'in store tour già pianificato, c'era da aspettarsi un disco più maturo e “serio”.
Ed è proprio così, ma c'è molto di più. Quindi andiamo con ordine. Fabri Fibra, tra i rapper italiani è da sempre uno dei più riflessivi: pur non discostandosi troppo dalla logica dell' ego trip hip-hop, nei suoi testi sono più le domande che le risposte, più dubbi che certezze. Qui avviene fin dalla “intro”: Fabri si chiede se oggi a 40 anni valga ancora la pena rappare in Italia, dove il genere “è roba da ragazzini”.La risposta ce la dà lungo tutto il disco: affermando la primigenia del successo del rap in Italia (“Rappo da prima dei social / Da prima di Twitter / Da prima che ci fossi tu su YouTube”), come riscatto verso chi lo credeva finito (tutta la traccia “Lascia Stare”), per far capire che è meglio degli altri (“Questi rapper sono tutti innocui / Quasi fanno sembrare il mio genere un altro / Ho provato a puntare più in alto / Rischi la crocifissione / Venerdì santo") e per togliersi un po' di massi da dentro le scarpe.
Il flow di Fibra rispetto alle tracce precedenti è ancora più incisivo e secco, scandisce le parole e le basi amplificano il climax drammatico. Nel rap italiano non si erano mai sentite parole e storie così dure: il confronto con Eminem e le sue dure “Cleanin' Out My Closet”, “Kill You” e “My Mom” contro la madre è inevitabile.Tirando le somme, con “Fenomeno” Fabri Fibra si conferma il rapper più potente del panorama italiano, con un disco che alterna equilibrio e potenza dirompente collegato ad una serrata psicoanalisi in cui si toglie ogni maschera di comodo.
Si intitola "Fenomeno” il nuovo album di Fabrizio Tarducci, in arte Fabri Fibra. Ed è un disco in cui l'artista riesce finalmente a mettersi a nudo e raccontare al mondo i veri motivi della sua inquietudine, da ricercare nella sua travagliata storia di famiglia.Il disco contiene 17 tracce in cui Fibra ci parla e anche bene, di questa Italia tra crisi e voglia di emergere, mescolando glamour e cronaca nera, droga e social. Di alto livello sono le collaborazioni con artisti del calibro dei TheGiornalisti, l'artista trap Laioung e anche un intervento addirittura di Roberto Saviano. Due anni fa Fabri Fibra per il suo “Squallor” optò per un'uscita a sorpresa, una copertina da guerrilla writing, niente promozione, nessuna intervista nè firmacopie, e tutto ciò corrispondeva a un disco con tracce molto schiette e abrasive, nei suoni e nei testi, decisamente poco mainstream. Però si sa: nuovo disco, nuova storia. Considerando quindi le ospitate da Fazio e Fiorello dei giorni scorsi, un singolo (title-track) dritto e radiofonico, intervista a Repubblica e Corriere e con l'in store tour già pianificato, c'era da aspettarsi un disco più maturo e “serio”.
Ed è proprio così, ma c'è molto di più. Quindi andiamo con ordine. Fabri Fibra, tra i rapper italiani è da sempre uno dei più riflessivi: pur non discostandosi troppo dalla logica dell' ego trip hip-hop, nei suoi testi sono più le domande che le risposte, più dubbi che certezze. Qui avviene fin dalla “intro”: Fabri si chiede se oggi a 40 anni valga ancora la pena rappare in Italia, dove il genere “è roba da ragazzini”.La risposta ce la dà lungo tutto il disco: affermando la primigenia del successo del rap in Italia (“Rappo da prima dei social / Da prima di Twitter / Da prima che ci fossi tu su YouTube”), come riscatto verso chi lo credeva finito (tutta la traccia “Lascia Stare”), per far capire che è meglio degli altri (“Questi rapper sono tutti innocui / Quasi fanno sembrare il mio genere un altro / Ho provato a puntare più in alto / Rischi la crocifissione / Venerdì santo") e per togliersi un po' di massi da dentro le scarpe.
Il flow di Fibra rispetto alle tracce precedenti è ancora più incisivo e secco, scandisce le parole e le basi amplificano il climax drammatico. Nel rap italiano non si erano mai sentite parole e storie così dure: il confronto con Eminem e le sue dure “Cleanin' Out My Closet”, “Kill You” e “My Mom” contro la madre è inevitabile.Tirando le somme, con “Fenomeno” Fabri Fibra si conferma il rapper più potente del panorama italiano, con un disco che alterna equilibrio e potenza dirompente collegato ad una serrata psicoanalisi in cui si toglie ogni maschera di comodo.
MOGLIE E MARITO
di Valeria Piras
Una bella commedia equilibrata e divertente.Finalmente.
Il giovane e talentuoso regista Simone Godano torna con un nuovissimo film, una brillante commedia dal titolo Moglie e Marito. La cosa che più rimane impressa dopo la visione del suo film è quanto questa storia molto semplice viva di un lavoro di squadra molto raro nelle commedie italiane, così bilanciato e ben gestito, così ben tagliato ed essenziale da non possedere quasi nessuno dei difetti che attribuiamo al nostro cinema non autoriale. Un film che addirittura fa ridere davvero, un unicorno nell’ universo commerciale italiano.La storia non è una novità per il cinema, lo scambio di corpo tra moglie e marito è una delle mille possibili variazioni di un genere che, al cinema, nasce con Tutto Accadde un Venerdì a fine anni ‘70, non è nuovo né deve esserlo, è altro: è un classico. Moglie e Marito però decide di concentrarsi sul concetto dell' esplorazione. Invece che dimenticare il motivo dello scambio lo esalta e ci lavora sopra, elevandolo a centro nevralgico del senso del film. Come fa la fantascienza più moderna questa storia scritta da Giulia Steigerwalt ha un inconsueto interesse per il meccanismo: perché si sono scambiati? cosa è successo? “scientificamente” cosa gli sta accadendo? come ne potranno uscire?
Su questa base Simone Godano gira un film che punta tutto su attori e attrici, uno in cui anche l’interpretazione dell’ultima delle comparse è estremamente curata e sincronizzata sul ritmo a cui battono tutti gli altri, cioè quello segnato dai due protagonisti, quasi coautori del film. Sta infatti ai due protagonisti, Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak lavorare di interpretazione, corpo e volto per animare gag che non possono funzionare sulla carta come dal vivo, che anche quando sono di parola dipendono unicamente dall’ inflessione, dal tempismo e dalla dinamica. Il loro complesso di movimenti, reazioni, cadute, risposte sbagliate e l’interazione a tre che riescono ad animare assieme all’ impagabile Valerio Aprea è dei migliori in assoluto. Non è tanto una questione di imitare l’altro sesso, ma di fare qualcosa di questa imitazione, di sacrificare un po’ di plausibilità per un po’ di commedia, scartare a volte il realista per il piacere della finzione e così riuscire a dare l’impressione di divertirsi assieme al pubblico.Non stupisce che in questa terra di mezzo tra il divertito e il divertente sguazzi Pierfrancesco Favino che da sempre, anche nei ruoli più seri, ha dimostrato di avere un temperamento da commedia fantastico, forse tra i migliori in assoluto, dotato di tempi incredibili e di grandissima profondità di visione: far ridere per dire qualcosa.
Stupisce davvero molto Kasia Smutniak, in passato mai determinante in una commedia, che invece riesce a tenere benissimo il passo del suo partner e anzi spesso dia l’impressione meglio di lui di avere dentro di sé Favino che si agita in un corpo smilzo e attraente che gli va strettissimo e lo costringe a mille diversi obblighi e doveri di cui non vuole nemmeno sentir parlare.Era facilissimo scadere nella macchietta, era facilissimo essere una copia scialba e provinciale del cinema americano, era difficile invece realizzare un film dalla tenuta così tesa e costante, che non perde fiato nemmeno a tre quarti, quando solitamente tutti i film accusano un po’ di stanchezza, e anzi rilancia con una gran cavalcata finale.Addirittura anche quel po’ di tenerezza d’ordinanza, quel po’ di miele che sembra obbligatorio non è difficile da trascurare.Moglie e Marito è in buona sostanza il trionfo del meccanismo della commedia, della buona scrittura, della direzione equilibrata e di un lavoro coordinato, preciso e ammirabile tra tutti i reparti. Un’opera che non si vergogna del proprio statuto, come spesso capita ai nostri film sempre presi da velleità fuori luogo, ma anzi ne è quasi esaltata, libera dai lacci del dover essere altro e a proprio agio tra il pubblico.
Il giovane e talentuoso regista Simone Godano torna con un nuovissimo film, una brillante commedia dal titolo Moglie e Marito. La cosa che più rimane impressa dopo la visione del suo film è quanto questa storia molto semplice viva di un lavoro di squadra molto raro nelle commedie italiane, così bilanciato e ben gestito, così ben tagliato ed essenziale da non possedere quasi nessuno dei difetti che attribuiamo al nostro cinema non autoriale. Un film che addirittura fa ridere davvero, un unicorno nell’ universo commerciale italiano.La storia non è una novità per il cinema, lo scambio di corpo tra moglie e marito è una delle mille possibili variazioni di un genere che, al cinema, nasce con Tutto Accadde un Venerdì a fine anni ‘70, non è nuovo né deve esserlo, è altro: è un classico. Moglie e Marito però decide di concentrarsi sul concetto dell' esplorazione. Invece che dimenticare il motivo dello scambio lo esalta e ci lavora sopra, elevandolo a centro nevralgico del senso del film. Come fa la fantascienza più moderna questa storia scritta da Giulia Steigerwalt ha un inconsueto interesse per il meccanismo: perché si sono scambiati? cosa è successo? “scientificamente” cosa gli sta accadendo? come ne potranno uscire?
Su questa base Simone Godano gira un film che punta tutto su attori e attrici, uno in cui anche l’interpretazione dell’ultima delle comparse è estremamente curata e sincronizzata sul ritmo a cui battono tutti gli altri, cioè quello segnato dai due protagonisti, quasi coautori del film. Sta infatti ai due protagonisti, Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak lavorare di interpretazione, corpo e volto per animare gag che non possono funzionare sulla carta come dal vivo, che anche quando sono di parola dipendono unicamente dall’ inflessione, dal tempismo e dalla dinamica. Il loro complesso di movimenti, reazioni, cadute, risposte sbagliate e l’interazione a tre che riescono ad animare assieme all’ impagabile Valerio Aprea è dei migliori in assoluto. Non è tanto una questione di imitare l’altro sesso, ma di fare qualcosa di questa imitazione, di sacrificare un po’ di plausibilità per un po’ di commedia, scartare a volte il realista per il piacere della finzione e così riuscire a dare l’impressione di divertirsi assieme al pubblico.Non stupisce che in questa terra di mezzo tra il divertito e il divertente sguazzi Pierfrancesco Favino che da sempre, anche nei ruoli più seri, ha dimostrato di avere un temperamento da commedia fantastico, forse tra i migliori in assoluto, dotato di tempi incredibili e di grandissima profondità di visione: far ridere per dire qualcosa.
Stupisce davvero molto Kasia Smutniak, in passato mai determinante in una commedia, che invece riesce a tenere benissimo il passo del suo partner e anzi spesso dia l’impressione meglio di lui di avere dentro di sé Favino che si agita in un corpo smilzo e attraente che gli va strettissimo e lo costringe a mille diversi obblighi e doveri di cui non vuole nemmeno sentir parlare.Era facilissimo scadere nella macchietta, era facilissimo essere una copia scialba e provinciale del cinema americano, era difficile invece realizzare un film dalla tenuta così tesa e costante, che non perde fiato nemmeno a tre quarti, quando solitamente tutti i film accusano un po’ di stanchezza, e anzi rilancia con una gran cavalcata finale.Addirittura anche quel po’ di tenerezza d’ordinanza, quel po’ di miele che sembra obbligatorio non è difficile da trascurare.Moglie e Marito è in buona sostanza il trionfo del meccanismo della commedia, della buona scrittura, della direzione equilibrata e di un lavoro coordinato, preciso e ammirabile tra tutti i reparti. Un’opera che non si vergogna del proprio statuto, come spesso capita ai nostri film sempre presi da velleità fuori luogo, ma anzi ne è quasi esaltata, libera dai lacci del dover essere altro e a proprio agio tra il pubblico.
LA VERITA' VI SPIEGO SULL'AMORE
di Valeria Piras
Una brillante commedia sulle donne forti, pronte a ricominciare.
In questi giorni nelle sale il nuovo film di Max Croci, la gradevole commedia La Verità vi Spiego sull'Amore. Una storia ricca di mamme single alla riscossa, donne in crisi di nervi e uomini alla deriva. C’è tutto questo in questa divertente commedia tratta dal romanzo che porta lo stesso titolo del film (ed. Mondadori). Entrambi frutto della creatività di Enrica Tesio, torinese che ha trasferito su internet e sulla pagina scritta i frammenti della sua vita ingarbugliata di madre che deve vedersela da sola, non solo con i figli da preservare ma anche col suo ex, con gli amici, coi genitori, con gli animali. Gestione complicata ma dinamica, (auto)ironica e corrosiva, capace di conquistare fama e seguaci (è stata definita “la blogger più letta dalle mamme italiane”). Portando adesso anche al cinema il suo rumoroso carico d’esistenza.La figura centrale la interpreta Dora (Ambra Angiolini), lasciata dal suo compagno Davide (Massimo Poggio) dopo un settennato di vita in comune e due figli sulle spalle, Pietro di cinque anni e Anna di uno.
Ribaltone. Lavoro, scuola, corse di qua e di là, in un turbine che, sulle prime, sembra sopraffarla. Poi, a poco a poco, Dora decide, semplicemente, di non rassegnarsi alla débacle dei sentimenti . E con l’aiuto e la verve dell’amica Sara (Carolina Crescentini) arriva a chiarire a se stessa e agli altri, figli e genitori compresi (la mamma di lei, Mimi, è Pia Engleberth, quella di lui, Roberta, è Giuliana De Sio) la novità del suo ruolo rigenerato. A darle una mano c’è anche Simone (Edoardo Pesce), compagno di Sara – anche lì, però, rapporto abbastanza perturbato – assunto come desueto ma efficacissimo babysitter per i due ragazzini che con lui e con il ritrovato, pugnace equilibrio di Dora, possono prendere le distanze (specie il più consapevole Pietro) dai guasti di una relazione andata a male.Nel finale agrodolce e certo non risolutivo si configura il concetto che l’amore, tutto sommato e anche quando sembra arrivare in modo speciale, è una fregatura. L’amore, però, pure quando ha connotazione calamitosa, resta centrale nel film (così come nelle sue fonti ispiratrici), dettato da un titolo che un po’ sardonicamente parafrasa quello dei versi di Wystan Auden, il poeta inglese di York padre del famoso La verità, vi prego, sull’amore.
D’altra parte questa Dora Story è un commedia sentimentale. Né blog né libro ma cinema con la necessaria applicazione delle sue leggi.Prima di tutto quella applicata da un regista come Croci, vivace ed eclettico autore di corti, documentari, animazione e illustrazione oltre le due precedenti - e recenti - prove dietro alla macchina da presa, Poli opposti del 2015 e Al posto tuo del 2016. Una personalità che ritroviamo interamente nel racconto, nell’ esuberanza di un montaggio e di una rappresentazione a tratti derivati dallo stile graphic novel , in qualche omaggio al cinema d’una volta nell’ andatura sincopata dell’azione, nei baci improvvisi e vertiginosi, negli amori che finiscono e rinvigoriscono, nell’assunto che “la maternità è come l’amore: ti spezza le ossa”.Molte di queste intenzioni vengono affidate agli attori e da loro realizzate con una certa efficacia. Specie nella recitazione di Ambra Angiolini, mobile, brillante e densa nelle successive evoluzioni dei suoi casi esistenziali. Accanto a lei l’amica Sara di Carolina Crescentini è presenza inquieta e persuasiva, caratteristiche riprodotte al meglio da questa brava artista, anche con propaggini di sorprendente dolcezza.
In questi giorni nelle sale il nuovo film di Max Croci, la gradevole commedia La Verità vi Spiego sull'Amore. Una storia ricca di mamme single alla riscossa, donne in crisi di nervi e uomini alla deriva. C’è tutto questo in questa divertente commedia tratta dal romanzo che porta lo stesso titolo del film (ed. Mondadori). Entrambi frutto della creatività di Enrica Tesio, torinese che ha trasferito su internet e sulla pagina scritta i frammenti della sua vita ingarbugliata di madre che deve vedersela da sola, non solo con i figli da preservare ma anche col suo ex, con gli amici, coi genitori, con gli animali. Gestione complicata ma dinamica, (auto)ironica e corrosiva, capace di conquistare fama e seguaci (è stata definita “la blogger più letta dalle mamme italiane”). Portando adesso anche al cinema il suo rumoroso carico d’esistenza.La figura centrale la interpreta Dora (Ambra Angiolini), lasciata dal suo compagno Davide (Massimo Poggio) dopo un settennato di vita in comune e due figli sulle spalle, Pietro di cinque anni e Anna di uno.
Ribaltone. Lavoro, scuola, corse di qua e di là, in un turbine che, sulle prime, sembra sopraffarla. Poi, a poco a poco, Dora decide, semplicemente, di non rassegnarsi alla débacle dei sentimenti . E con l’aiuto e la verve dell’amica Sara (Carolina Crescentini) arriva a chiarire a se stessa e agli altri, figli e genitori compresi (la mamma di lei, Mimi, è Pia Engleberth, quella di lui, Roberta, è Giuliana De Sio) la novità del suo ruolo rigenerato. A darle una mano c’è anche Simone (Edoardo Pesce), compagno di Sara – anche lì, però, rapporto abbastanza perturbato – assunto come desueto ma efficacissimo babysitter per i due ragazzini che con lui e con il ritrovato, pugnace equilibrio di Dora, possono prendere le distanze (specie il più consapevole Pietro) dai guasti di una relazione andata a male.Nel finale agrodolce e certo non risolutivo si configura il concetto che l’amore, tutto sommato e anche quando sembra arrivare in modo speciale, è una fregatura. L’amore, però, pure quando ha connotazione calamitosa, resta centrale nel film (così come nelle sue fonti ispiratrici), dettato da un titolo che un po’ sardonicamente parafrasa quello dei versi di Wystan Auden, il poeta inglese di York padre del famoso La verità, vi prego, sull’amore.
D’altra parte questa Dora Story è un commedia sentimentale. Né blog né libro ma cinema con la necessaria applicazione delle sue leggi.Prima di tutto quella applicata da un regista come Croci, vivace ed eclettico autore di corti, documentari, animazione e illustrazione oltre le due precedenti - e recenti - prove dietro alla macchina da presa, Poli opposti del 2015 e Al posto tuo del 2016. Una personalità che ritroviamo interamente nel racconto, nell’ esuberanza di un montaggio e di una rappresentazione a tratti derivati dallo stile graphic novel , in qualche omaggio al cinema d’una volta nell’ andatura sincopata dell’azione, nei baci improvvisi e vertiginosi, negli amori che finiscono e rinvigoriscono, nell’assunto che “la maternità è come l’amore: ti spezza le ossa”.Molte di queste intenzioni vengono affidate agli attori e da loro realizzate con una certa efficacia. Specie nella recitazione di Ambra Angiolini, mobile, brillante e densa nelle successive evoluzioni dei suoi casi esistenziali. Accanto a lei l’amica Sara di Carolina Crescentini è presenza inquieta e persuasiva, caratteristiche riprodotte al meglio da questa brava artista, anche con propaggini di sorprendente dolcezza.
THE RIDE - Nelly Furtado
di Valeria Piras
Nuovo disco e nuovo sound. Nelly è davvero rinata.
Il successo nei primi anni 2000 di Nelly Furtado fu davvero incredibile.Una vera stella della musica era sbocciata all'improvviso e la sua voce dolce lasciava estasiati.Poi verso la fine del decennio il crollo da cui pareva difficile riemergere considerando la spietatezza del mare della musica pop mondiale. A distanza di cinque anni dall’ultimo disco, però, Nelly Furtado non si è data per vinta ed ha deciso di tornare a far parlare di se, questa volta sotto tutt’altra veste rispetto a come la conoscevamo noi tutti qualche anno fa. La Furtado ha inaspettatamente cambiato stile e dimostra le proprie capacità con un sound soul-pop, finalmente fornito di una buona emotività. Pipe Dreams, è il singolo che fa da anteprima a The Ride, il suo nuovo lavoro in studio. Pipe Dreams è un fortissimo brano. Atmosfere anni 80 si miscelano ad un downtempo legato ad eccentuati organi, direzionando tutto verso una ballata gospel, ricordando tanto il già citato collega Blood Orange, Kindness e la cara Solange.Ecco che poi arriva The Ride. E se dopo Pipe Dreams ci si aspettava una svolta soul-R&B, già dalla prima traccia del disco, Cold Hard Truth, si viene (quasi amaramente) smentiti.
Ciò che viene proposto è infatti del synth pop graffiante, dance e che, in fondo, con la voce della cantante si sposa bene. Salta subito alla mente una versione meno rock di St. Vincent e infatti, non per caso a produrre il disco questa volta sarà John Congleton, già produttore della Clark, ora santo protettore della cantante canadese. Seguono quest’onda Flatline, Palaces, Paris Sun e Right Road, quest’ultima, con i suoi suoni semi-orientali è forse la canzone che più merita in tutto il disco.Le ballad tipiche della prima Furtado vengono ora lasciate da parte se non per qualche eccezione che devia verso un pop melodico (Carnival Games, Tap Dancing, Phoenix). Ma di quel pop caratteristico dell’artista non è rimasto praticamente niente. La ricerca di un suono indipendente ha portato ad un alternativa al pop. Adesso il genere è molto più particolare, sicuramente più consono all’artista.
A momenti ci si avvicina ad una Lykke Li in Youth Novels. Stick and Stones con la sua cassa dritta, le percussioni tribali e i bassi sporchi, è paragonabile ad una versione più frenetica dell’artista svedese.Questo è un capitolo sicuramente buono per la carriera dell’artista canadese, non è da togliere però che c’è ancora tanto sul quale lavorare. Gran parte dei brani mancano ancora di carattere seppure musicalmente siano fondati su buone basi. La scelta di un buon produttore e delle giuste collaborazioni hanno giovato al sound dell’artista e l’aver scelto di intraprendere una nuova strada dopo una carriera simile è stata una mossa particolarmente audace. Rimane il fatto che la Furtado adesso pare essersi avvicinata al suo stile, quello che le si addice di più; il cammino sembra promettere bene e fa decisamente effetto vedere un artista del genere reinterpretarsi, cercando di dare sfogo ad un secondo debutto.
Il successo nei primi anni 2000 di Nelly Furtado fu davvero incredibile.Una vera stella della musica era sbocciata all'improvviso e la sua voce dolce lasciava estasiati.Poi verso la fine del decennio il crollo da cui pareva difficile riemergere considerando la spietatezza del mare della musica pop mondiale. A distanza di cinque anni dall’ultimo disco, però, Nelly Furtado non si è data per vinta ed ha deciso di tornare a far parlare di se, questa volta sotto tutt’altra veste rispetto a come la conoscevamo noi tutti qualche anno fa. La Furtado ha inaspettatamente cambiato stile e dimostra le proprie capacità con un sound soul-pop, finalmente fornito di una buona emotività. Pipe Dreams, è il singolo che fa da anteprima a The Ride, il suo nuovo lavoro in studio. Pipe Dreams è un fortissimo brano. Atmosfere anni 80 si miscelano ad un downtempo legato ad eccentuati organi, direzionando tutto verso una ballata gospel, ricordando tanto il già citato collega Blood Orange, Kindness e la cara Solange.Ecco che poi arriva The Ride. E se dopo Pipe Dreams ci si aspettava una svolta soul-R&B, già dalla prima traccia del disco, Cold Hard Truth, si viene (quasi amaramente) smentiti.
Ciò che viene proposto è infatti del synth pop graffiante, dance e che, in fondo, con la voce della cantante si sposa bene. Salta subito alla mente una versione meno rock di St. Vincent e infatti, non per caso a produrre il disco questa volta sarà John Congleton, già produttore della Clark, ora santo protettore della cantante canadese. Seguono quest’onda Flatline, Palaces, Paris Sun e Right Road, quest’ultima, con i suoi suoni semi-orientali è forse la canzone che più merita in tutto il disco.Le ballad tipiche della prima Furtado vengono ora lasciate da parte se non per qualche eccezione che devia verso un pop melodico (Carnival Games, Tap Dancing, Phoenix). Ma di quel pop caratteristico dell’artista non è rimasto praticamente niente. La ricerca di un suono indipendente ha portato ad un alternativa al pop. Adesso il genere è molto più particolare, sicuramente più consono all’artista.
A momenti ci si avvicina ad una Lykke Li in Youth Novels. Stick and Stones con la sua cassa dritta, le percussioni tribali e i bassi sporchi, è paragonabile ad una versione più frenetica dell’artista svedese.Questo è un capitolo sicuramente buono per la carriera dell’artista canadese, non è da togliere però che c’è ancora tanto sul quale lavorare. Gran parte dei brani mancano ancora di carattere seppure musicalmente siano fondati su buone basi. La scelta di un buon produttore e delle giuste collaborazioni hanno giovato al sound dell’artista e l’aver scelto di intraprendere una nuova strada dopo una carriera simile è stata una mossa particolarmente audace. Rimane il fatto che la Furtado adesso pare essersi avvicinata al suo stile, quello che le si addice di più; il cammino sembra promettere bene e fa decisamente effetto vedere un artista del genere reinterpretarsi, cercando di dare sfogo ad un secondo debutto.
GIROTONDO - Giusy Ferreri
di Valeria Piras
Un dolce ritorno pop per la cantante dalla voce inconfondibile.
Dopo l'ottima prova sanremese Giusy Ferreri torna con un album nuovo di zecca che aggiunge un ulteriore passo nella crescita di questa talentuoso cantante scoperta quasi per caso qualche anno fa.Dopo i mega successi degli esordi con hit come "Non ti scordar mai di me" e "Novembre" Giusy ha optato per allontanarsi dal genere puramente pop e sperimentare suoni e melodie. Nel 2014 l'album di inediti, "L'attesa", è stato un mezzo passo falso che non è riuscito a riportare Giusy ai fasti degli esordi. Da quel vicolo cieco, la Ferreri ne è uscita nell'estate del 2015, grazie al duetto con Baby K: "Roma-Bangkok" l'ha rilanciata, le ha indicato la strada da seguire a livello di suono e produzione. Questo nuovo album in studio, "Girotondo", sembra quasi una prova del nove: Giusy può tornare ai grandi numeri di qualche anno fa? La Ferreri ci prova con un disco di canzoni che ripropongono in qualche modo la formula degli ultimi singoli che ha pubblicato, da "Roma-Bangkok" a "Volevo te". "Fa talmente male", la canzone che Giusy ha presentato in gara al Festival di Sanremo 2017, riassume un po' l'intero disco: ritmica incalzante, ritornelli che ti si appiccicano in testa, sonorità un po' elettroniche e un po' latine.
"Girotondo", che è stato prodotto da Fabrizio Ferraguzzo (già al fianco della cantante per gli inediti della raccolta "Hits"), suona tutto più o meno così: "L'amore tante volte" è un misto tra sonorità dance e reggaeton (con un ritmo in levare), "Col sole e col buio" è una semplice canzone "pop" e così anche "Tornerò da te". È un disco di potenziali singoli, che è un po' un'arma a doppio taglio: perché se da un lato l'album appare piuttosto omogeneo a livello di suoni e stili, al tempo stesso non c'è una canzone che spicca sulle altre, che dà una svolta. I brani portano le firme di autori più o meno noti della nuova scena pop italiana: da Roberto Casalino a Federica Abbate, passando per Dario Faini, Diego Mancino e Alessandro Raina. Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti ha partecipato alla scrittura di due canzoni dell'album: "Partiti adesso" e "Occhi lucidi", che sono due canzoni con un bel piglio pop, semplici, dritte e in pieno stile Thegiornalisti. Tra gli autori del disco compaiono anche Federico Zampaglione dei Tiromancino (che duetta pure con Giusy Ferreri in "L'amore mi perseguita") e Marco Masini (che ha co-firmato "Immaginami").
"Girotondo" rappresenta una rottura precisa nei confronti degli ultimi due album in studio della Ferreri: siamo lontanissimi sia dalle sonorità rock di "Il mio universo" sia da quelle di "L'attesa". Giusy sembra essere tornata sui suoi passi, alle canzoni più melodiche che qualche anno fa l'avevano portata a raggiungere traguardi di tutto rispetto (come le 11 settimane consecutive al primo posto della classifica). Non a caso, sulla copertina dell'album, alle spalle della cantante, c'è una gigantesca bussola con i punti cardinali sbagliati: "A volte, quando cerchiamo di percorrere quella che pensiamo sia la strada giusta, sbagliamo itinerario: ma è proprio sbagliando itinerario che arrivano le sorprese".Anche se, alla luce di questo nuovo cambio di rotta, l'ennesimo, verrebbe da chiedersi: chi è davvero Giusy Ferreri?
Dopo l'ottima prova sanremese Giusy Ferreri torna con un album nuovo di zecca che aggiunge un ulteriore passo nella crescita di questa talentuoso cantante scoperta quasi per caso qualche anno fa.Dopo i mega successi degli esordi con hit come "Non ti scordar mai di me" e "Novembre" Giusy ha optato per allontanarsi dal genere puramente pop e sperimentare suoni e melodie. Nel 2014 l'album di inediti, "L'attesa", è stato un mezzo passo falso che non è riuscito a riportare Giusy ai fasti degli esordi. Da quel vicolo cieco, la Ferreri ne è uscita nell'estate del 2015, grazie al duetto con Baby K: "Roma-Bangkok" l'ha rilanciata, le ha indicato la strada da seguire a livello di suono e produzione. Questo nuovo album in studio, "Girotondo", sembra quasi una prova del nove: Giusy può tornare ai grandi numeri di qualche anno fa? La Ferreri ci prova con un disco di canzoni che ripropongono in qualche modo la formula degli ultimi singoli che ha pubblicato, da "Roma-Bangkok" a "Volevo te". "Fa talmente male", la canzone che Giusy ha presentato in gara al Festival di Sanremo 2017, riassume un po' l'intero disco: ritmica incalzante, ritornelli che ti si appiccicano in testa, sonorità un po' elettroniche e un po' latine.
"Girotondo", che è stato prodotto da Fabrizio Ferraguzzo (già al fianco della cantante per gli inediti della raccolta "Hits"), suona tutto più o meno così: "L'amore tante volte" è un misto tra sonorità dance e reggaeton (con un ritmo in levare), "Col sole e col buio" è una semplice canzone "pop" e così anche "Tornerò da te". È un disco di potenziali singoli, che è un po' un'arma a doppio taglio: perché se da un lato l'album appare piuttosto omogeneo a livello di suoni e stili, al tempo stesso non c'è una canzone che spicca sulle altre, che dà una svolta. I brani portano le firme di autori più o meno noti della nuova scena pop italiana: da Roberto Casalino a Federica Abbate, passando per Dario Faini, Diego Mancino e Alessandro Raina. Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti ha partecipato alla scrittura di due canzoni dell'album: "Partiti adesso" e "Occhi lucidi", che sono due canzoni con un bel piglio pop, semplici, dritte e in pieno stile Thegiornalisti. Tra gli autori del disco compaiono anche Federico Zampaglione dei Tiromancino (che duetta pure con Giusy Ferreri in "L'amore mi perseguita") e Marco Masini (che ha co-firmato "Immaginami").
"Girotondo" rappresenta una rottura precisa nei confronti degli ultimi due album in studio della Ferreri: siamo lontanissimi sia dalle sonorità rock di "Il mio universo" sia da quelle di "L'attesa". Giusy sembra essere tornata sui suoi passi, alle canzoni più melodiche che qualche anno fa l'avevano portata a raggiungere traguardi di tutto rispetto (come le 11 settimane consecutive al primo posto della classifica). Non a caso, sulla copertina dell'album, alle spalle della cantante, c'è una gigantesca bussola con i punti cardinali sbagliati: "A volte, quando cerchiamo di percorrere quella che pensiamo sia la strada giusta, sbagliamo itinerario: ma è proprio sbagliando itinerario che arrivano le sorprese".Anche se, alla luce di questo nuovo cambio di rotta, l'ennesimo, verrebbe da chiedersi: chi è davvero Giusy Ferreri?
QUESTIONE DI KARMA
di Valeria Piras
Un bel ritratto della società di oggi.Con una leggera malinconia.
Questione di Karma è il titolo della seconda pellicola diretta dal regista Edoardo Falcone; si tratta di una vera favola surreale alla ricerca di un padre e della propria identità e che vede come azzeccatissimi protagonisti il simpatico Fabio De Luigi e il talentuosissimo Elio Germano. E si pensa a Elio Germano, viene in mente immediatamente il suo talento. Subito dopo pensiamo al fatto che pochi, come lui, sono impegnati sul fronte politico-sociale e ne fanno anche una questione di scelte lavorative. Questa volta però Elio ci fa ridere. E nemmeno poco. Il suo personaggio è ridicolo già dai baffi che ha sul labbro superiore. Mario Pitagora, uno che vive alla giornata fuggendo dai creditori. Il gioco tra lui e Fabio De Luigi si incastra sin da subito, e anche il comico romagnolo regala quella che è sicuramente una delle sue migliori interpretazioni.
Merito del traino di Germano, sostiene lui, ma noi sospettiamo che ci sia parecchia farina anche dal suo sacco. Oltre a loro, anche tutto il cast di comprimari mette in atto una perfetta alchimia, a cominciare da due splendide attrici del calibro di Stefania Sandrelli, madre svampita e ricca nullafacente dalle adorabili uscite, e Isabella Ragonese, sorella tutta d'un pezzo dell'ingenuo Giacomo. Per proseguire poi con la bellissima Daniela Virgilio, moglie astiosa e affascinante di Mario, e con il grandioso Massimo De Lorenzo, vicino di casa e autista di ambulanze. Una perla assoluta: la partecipazione di Philippe Leroy e del suo arrosto con patate. Come dice lo stesso Elio Germano, Questione di karma non ha una recitazione che ammicca al pubblico. Il suo grande merito è soprattutto quello di avere attori veri, non comici mutuati dagli show televisivi in voga al momento. L'idea era quella di riprendere la tradizione della nostra commedia, fatta di grandi interpreti che sapevano rendere credibile anche la situazione più paradossale.
Il film di Edoardo Falcone, già regista di Se Dio Vuole, si discosta dalle commedie contemporanee, ma senza esagerare. Il ritmo è forse un pò lento, e d'accordo che non si vuole richiamare la gag televisiva, ma siamo pure sempre in commedia. I toni sono delicati e alla fine i momenti di maggiore ilarità sono le battute senza senso della Sandrelli, la moglie benestante. Ampio spazio è lasciato alla tenerezza dei sentimenti familiari: tra fratello e sorella, padri e figli, mariti e mogli. La famiglia sempre al centro di un fedele ritratto della società italiana di oggi.
Questione di Karma è il titolo della seconda pellicola diretta dal regista Edoardo Falcone; si tratta di una vera favola surreale alla ricerca di un padre e della propria identità e che vede come azzeccatissimi protagonisti il simpatico Fabio De Luigi e il talentuosissimo Elio Germano. E si pensa a Elio Germano, viene in mente immediatamente il suo talento. Subito dopo pensiamo al fatto che pochi, come lui, sono impegnati sul fronte politico-sociale e ne fanno anche una questione di scelte lavorative. Questa volta però Elio ci fa ridere. E nemmeno poco. Il suo personaggio è ridicolo già dai baffi che ha sul labbro superiore. Mario Pitagora, uno che vive alla giornata fuggendo dai creditori. Il gioco tra lui e Fabio De Luigi si incastra sin da subito, e anche il comico romagnolo regala quella che è sicuramente una delle sue migliori interpretazioni.
Merito del traino di Germano, sostiene lui, ma noi sospettiamo che ci sia parecchia farina anche dal suo sacco. Oltre a loro, anche tutto il cast di comprimari mette in atto una perfetta alchimia, a cominciare da due splendide attrici del calibro di Stefania Sandrelli, madre svampita e ricca nullafacente dalle adorabili uscite, e Isabella Ragonese, sorella tutta d'un pezzo dell'ingenuo Giacomo. Per proseguire poi con la bellissima Daniela Virgilio, moglie astiosa e affascinante di Mario, e con il grandioso Massimo De Lorenzo, vicino di casa e autista di ambulanze. Una perla assoluta: la partecipazione di Philippe Leroy e del suo arrosto con patate. Come dice lo stesso Elio Germano, Questione di karma non ha una recitazione che ammicca al pubblico. Il suo grande merito è soprattutto quello di avere attori veri, non comici mutuati dagli show televisivi in voga al momento. L'idea era quella di riprendere la tradizione della nostra commedia, fatta di grandi interpreti che sapevano rendere credibile anche la situazione più paradossale.
Il film di Edoardo Falcone, già regista di Se Dio Vuole, si discosta dalle commedie contemporanee, ma senza esagerare. Il ritmo è forse un pò lento, e d'accordo che non si vuole richiamare la gag televisiva, ma siamo pure sempre in commedia. I toni sono delicati e alla fine i momenti di maggiore ilarità sono le battute senza senso della Sandrelli, la moglie benestante. Ampio spazio è lasciato alla tenerezza dei sentimenti familiari: tra fratello e sorella, padri e figli, mariti e mogli. La famiglia sempre al centro di un fedele ritratto della società italiana di oggi.
IL MESTIERE DELLA VITA
di Valeria Piras
Un disco diverso e profondo ma che finalmente ha una visione solare della vita.
Tiziano Ferro torna a pubblicare un album di inediti e senza dubbio ci troviamo di fronte ad un artista cambiato, pur rimanendo se stesso. Basta guardare la cover del suo nuovo album: giacca e cravatta, il suo stile ormai consolidato. Il volto serio, un po' accigliato e riflessivo, come spesso è nelle sue canzoni. Ma attraversa una strada, e sembra essere in un ambiente gioioso e allegro. Quella de "Il mestiere della vita" è la prima copertina "concettuale" per un disco del cantante di Latina: un'immagine diversa rispetto ai toni scuri e un pò cupi dei suoi dischi precedenti. Che questo album rappresenti un nuovo inizio per Tiziano è evidente fin dalle prime note, quelle dell'intro "Epic" in cui canta esplicitamente "Una vita in bilico, un libro epico…. Fine primo capitolo".Ma si tratta anche di un disco che, nella direzione scelta, mantiene una forte continuità con la sua storia. Un filo rosso rappresentato dalle melodie, dalla scrittura, che questa volta si uniscono a suoni più sintetici. "Potremmo ritornare", curiosamente scelta come primo singolo, è la ballata "alla Tiziano", semplice, riflessiva e diretta, come solo lui sa fare. Un suono caldo, un approccio tradizionale, che poi nel disco è minoritario, e che ritorna solo nella title-track."Il mestiere della vita" è un lavoro diverso da "L'amore è una cosa semplice" di 5 anni fa. Tiziano ci ha lavorato con il suo fido collaboratore di sempre, Michele Canova: assieme si sono messi alla ricerca di un suono meno complesso e costruito. Un suono "urban", come direbbero da quella parte dell'oceano, contemporaneo, ma che deve anche molto alle origini di Tiziano.
Ci sono momenti in cui Tiziano (e Canova) spingono di più sul versante pop sincopato ("Lento/Veloce" "Casa è vuota"), altri in cui giocano più sul down tempo ("La tua vita intera", che ricorda certe atmosfere di Banks). Ma gli esempi migliori di questa ricerca sono brani come "Valore assoluto" o "Ora perdona" - classica melodia di Tiziano su beat elettronici. Quanto alle origini, invece, non è un caso che la parola "Perdono" ricorra almeno un paio di volte nel disco. E agli inizi della sua carriera, visti con l'esperienza di oggi, Tiziano fa un sentito tributo in "My steelo", giocoso brano hip-hop con Tormento dei Sottotono (per cui, quando non era ancora famoso, aveva aperto i concerti).
La sintesi perfetta, nonché la canzone più bella del disco, è "Il conforto", il duetto con Carmen Consoli - portata fuori dalla sua "comfort zone" in uno stupendo brano elettronico, con le voci che a volte viaggiano separate, a volte si uniscono su una melodia mai banale. Tiziano Ferro si è trasferito in California, in quella Los Angeles ritratta in copertina. Il luogo ha contribuito a produrre un disco tratti solare e pop, a tratti più intimista e spigoloso. Chi ama Tiziano ritroverà il suo mondo interiore, a tratti giocoso, più spesso tormentato. E' un disco bipolare, come l'ha definito lo stesso Tiziano: il lavoro di un artista che ha capito che, appunto, non si smette mai di imparare "Il mestiiere della vita". L'unica strada, non solo da attraversare ma da percorrere fino in fondo, è continuare a giocare con la musica, con leggerezza ma senza rinunciare alla profondità.
Tiziano Ferro torna a pubblicare un album di inediti e senza dubbio ci troviamo di fronte ad un artista cambiato, pur rimanendo se stesso. Basta guardare la cover del suo nuovo album: giacca e cravatta, il suo stile ormai consolidato. Il volto serio, un po' accigliato e riflessivo, come spesso è nelle sue canzoni. Ma attraversa una strada, e sembra essere in un ambiente gioioso e allegro. Quella de "Il mestiere della vita" è la prima copertina "concettuale" per un disco del cantante di Latina: un'immagine diversa rispetto ai toni scuri e un pò cupi dei suoi dischi precedenti. Che questo album rappresenti un nuovo inizio per Tiziano è evidente fin dalle prime note, quelle dell'intro "Epic" in cui canta esplicitamente "Una vita in bilico, un libro epico…. Fine primo capitolo".Ma si tratta anche di un disco che, nella direzione scelta, mantiene una forte continuità con la sua storia. Un filo rosso rappresentato dalle melodie, dalla scrittura, che questa volta si uniscono a suoni più sintetici. "Potremmo ritornare", curiosamente scelta come primo singolo, è la ballata "alla Tiziano", semplice, riflessiva e diretta, come solo lui sa fare. Un suono caldo, un approccio tradizionale, che poi nel disco è minoritario, e che ritorna solo nella title-track."Il mestiere della vita" è un lavoro diverso da "L'amore è una cosa semplice" di 5 anni fa. Tiziano ci ha lavorato con il suo fido collaboratore di sempre, Michele Canova: assieme si sono messi alla ricerca di un suono meno complesso e costruito. Un suono "urban", come direbbero da quella parte dell'oceano, contemporaneo, ma che deve anche molto alle origini di Tiziano.
Ci sono momenti in cui Tiziano (e Canova) spingono di più sul versante pop sincopato ("Lento/Veloce" "Casa è vuota"), altri in cui giocano più sul down tempo ("La tua vita intera", che ricorda certe atmosfere di Banks). Ma gli esempi migliori di questa ricerca sono brani come "Valore assoluto" o "Ora perdona" - classica melodia di Tiziano su beat elettronici. Quanto alle origini, invece, non è un caso che la parola "Perdono" ricorra almeno un paio di volte nel disco. E agli inizi della sua carriera, visti con l'esperienza di oggi, Tiziano fa un sentito tributo in "My steelo", giocoso brano hip-hop con Tormento dei Sottotono (per cui, quando non era ancora famoso, aveva aperto i concerti).
La sintesi perfetta, nonché la canzone più bella del disco, è "Il conforto", il duetto con Carmen Consoli - portata fuori dalla sua "comfort zone" in uno stupendo brano elettronico, con le voci che a volte viaggiano separate, a volte si uniscono su una melodia mai banale. Tiziano Ferro si è trasferito in California, in quella Los Angeles ritratta in copertina. Il luogo ha contribuito a produrre un disco tratti solare e pop, a tratti più intimista e spigoloso. Chi ama Tiziano ritroverà il suo mondo interiore, a tratti giocoso, più spesso tormentato. E' un disco bipolare, come l'ha definito lo stesso Tiziano: il lavoro di un artista che ha capito che, appunto, non si smette mai di imparare "Il mestiiere della vita". L'unica strada, non solo da attraversare ma da percorrere fino in fondo, è continuare a giocare con la musica, con leggerezza ma senza rinunciare alla profondità.
BEATA IGNORANZA
di Valeria Piras
Una commedia leggera ben diretta che però non graffia al punto giusto.
Nel lontano 2001 Massimiliano Bruno fece un luminoso esordio alla regia col film Nessuno Mi Può Giudicare con P.Cortellesi, prendendo spunto comico dal malcostume delle cronache contemporanee (escort e politica a luci rosse), appoggiandosi quindi a quel portento della Cortellesi, aveva sbeffeggiato i vizi italiani facendo ridere allegramente, toccando quel miracolo tanto difficile da raggiungere che è la compiutezza.Da allora la sua carriera registica ha vissuto di alti e bassi,da pochi giorni è nelle sale con Beata Ignoranza, una leggera commedia che analizza due categorie di persone i pro e gli anti-tecnologia. In televisione, sui giornali, nei libri e poi anche nel cinema esiste un’opposizione che si ritrova nella vita reale.
È quella tra chi è estraneo alla tecnologia, a favore dei tramonti, i libri, le poesie e le panchine nei parchi e chi invece è vittima dei social media, sempre su Facebook, inadatto ai rapporti sociali, incapace di staccarsene come ne fosse malato. Su quest’opposizione si basa Beata Ignoranza, con attori come Marco Giallini, A.Gassman e C.Crescentini. Gassman interpreta il malato di tecnologia e Giallini il passatista, nell’ intreccio dovranno forzarsi a fare l’opposto. Neanche a dirlo il primo si troverà tutto sommato bene senza tecnologia, mentre il secondo ne diventerà dipendente da che la disprezzava. A due anni di distanza, il regista, attore e sceneggiatore torna a parlare di attualità, riflettendo questa volta sui social network e sull'evoluzione delle relazioni umane: pur indovinando una lunga serie di gag ben riuscite e divertenti, questa volta però a mancare è proprio un po' di sana cattiveria, che avrebbe reso Beata ignoranza più efficace e interessante. Il film invece diventa presto una commedia che, in molti punti, sa di già visto, offrendo soluzioni adottate mille volte in altrettanti film simili e altre che lasciano perplessi (il dialogo con la foto della lapide).
L'idea migliore arriva dalla fusione di media: con la scusa del documentario, i protagonisti hanno infatti la possibilità di guardare direttamente in camera, come se stessero girando un video di YouTube, confessandosi in modo molto più sincero rispetto a quando parlano con un altro essere umano.
Nel lontano 2001 Massimiliano Bruno fece un luminoso esordio alla regia col film Nessuno Mi Può Giudicare con P.Cortellesi, prendendo spunto comico dal malcostume delle cronache contemporanee (escort e politica a luci rosse), appoggiandosi quindi a quel portento della Cortellesi, aveva sbeffeggiato i vizi italiani facendo ridere allegramente, toccando quel miracolo tanto difficile da raggiungere che è la compiutezza.Da allora la sua carriera registica ha vissuto di alti e bassi,da pochi giorni è nelle sale con Beata Ignoranza, una leggera commedia che analizza due categorie di persone i pro e gli anti-tecnologia. In televisione, sui giornali, nei libri e poi anche nel cinema esiste un’opposizione che si ritrova nella vita reale.
È quella tra chi è estraneo alla tecnologia, a favore dei tramonti, i libri, le poesie e le panchine nei parchi e chi invece è vittima dei social media, sempre su Facebook, inadatto ai rapporti sociali, incapace di staccarsene come ne fosse malato. Su quest’opposizione si basa Beata Ignoranza, con attori come Marco Giallini, A.Gassman e C.Crescentini. Gassman interpreta il malato di tecnologia e Giallini il passatista, nell’ intreccio dovranno forzarsi a fare l’opposto. Neanche a dirlo il primo si troverà tutto sommato bene senza tecnologia, mentre il secondo ne diventerà dipendente da che la disprezzava. A due anni di distanza, il regista, attore e sceneggiatore torna a parlare di attualità, riflettendo questa volta sui social network e sull'evoluzione delle relazioni umane: pur indovinando una lunga serie di gag ben riuscite e divertenti, questa volta però a mancare è proprio un po' di sana cattiveria, che avrebbe reso Beata ignoranza più efficace e interessante. Il film invece diventa presto una commedia che, in molti punti, sa di già visto, offrendo soluzioni adottate mille volte in altrettanti film simili e altre che lasciano perplessi (il dialogo con la foto della lapide).
L'idea migliore arriva dalla fusione di media: con la scusa del documentario, i protagonisti hanno infatti la possibilità di guardare direttamente in camera, come se stessero girando un video di YouTube, confessandosi in modo molto più sincero rispetto a quando parlano con un altro essere umano.
CINQUANTA SFUMATURE DI NERO
di Valeria Piras
Secondo capitolo della saga di E.James.Ma questa volta molto meno scabroso.
Da alcuni giorni nelle sale il nuovo film Cinquanta Sfumature di Nero tratto dal best seller di E.James. Il secondo capitolo della saga ha tratti molto più romantici del precedente mentre avrebbe dovuto essere infinitamente “darker”; prendendo una piega completamente diversa rispetto alla direzione di Cinquanta Sfumature di Grigio.La regia non è più affidata alla lineare Sam Taylor-Johnson – impegnata a festeggiare i riconoscimenti del marito per Nocturnal Animals – bensì a James Foley. Il tocco di un regista diverso si percepisce fin da subito, proprio come si coglie immediatamente il tono romantico del film, in deciso contrasto con la schiettezza caratterizzante del film precedente.Mentre il film precedente aveva cercato di restare il più fedele possibile al libro – incluse le scene di sesso estremo, lunghe e a tratti imbarazzanti – Cinquanta Sfumature di Nero si spaccia per una commedia romantica. Le scene che potrebbero disturbare lo spettatore sono quasi completamente eliminate, limitandosi a qualche giro tra le coperte e nudità gratuità a volontà. Dakota Johnson sembra prediligere una camicia sbottonata per andare in giro per casa – o sul balcone – mentre il personaggio di Jamie Dornan offre più di una volta una visuale in 3D dei suoi addominali scolpiti.
Cinquanta Sfumature di Nero potrebbe essere una “libera ispirazione” al libro di E.L. James, non una sua fedele rappresentazione. Mancano, oltre ad una serie di personaggio chiave, una serie di scene significative e cruciali. Eliminate le scene più spinte e i giochetti sadomaso, la storia dei protagonisti si riduce a poche, mirate scene e frasi. Se le citazioni dal libro non mancano e, anzi, abbondano, le scene chiave sono parafrasate o incongruenti. Per non parlare della metamorfosi dei personaggi.Il complesso risulta, paradossalmente, molto gradevole. La scelta di dare una direzione romantica alla pellicola ripaga con una vicenda meno intricata, solida nella trama e nel cast – nuovo e vecchio. Christian Grey ride un po’ troppo per i nostri gusti, allontanandosi molto dall’allure di oscurità e mistero che dovrebbero invece caratterizzarlo. Diventa quasi un eroe romantico, con una donzella da salvare dal capo prepotente e con un passato oscuro da cui cerca di proteggere se stesso e le persone a lui care.
Ci piace, anche se trasforma Cinquanta Sfumature di Nero in un film a tratti banale.L’originalità che forse la prima pellicola aveva deciso di mantenere, a costo di essere eccessivamente spinta e brutale, qui manca. Ci sono i bei vestiti, le case, la barca, le macchine, i soldi a volontà, ma l’oscurità e il “nero” del titolo non ci sono affatto. Con queste premesse Cinquanta Sfumature di Rosso – il cui trailer, con una mossa alla film della Marvel, è stato proiettato subito dopo la prima parte dei titoli di coda – potrebbe persino non essere vietato ai minori.
Da alcuni giorni nelle sale il nuovo film Cinquanta Sfumature di Nero tratto dal best seller di E.James. Il secondo capitolo della saga ha tratti molto più romantici del precedente mentre avrebbe dovuto essere infinitamente “darker”; prendendo una piega completamente diversa rispetto alla direzione di Cinquanta Sfumature di Grigio.La regia non è più affidata alla lineare Sam Taylor-Johnson – impegnata a festeggiare i riconoscimenti del marito per Nocturnal Animals – bensì a James Foley. Il tocco di un regista diverso si percepisce fin da subito, proprio come si coglie immediatamente il tono romantico del film, in deciso contrasto con la schiettezza caratterizzante del film precedente.Mentre il film precedente aveva cercato di restare il più fedele possibile al libro – incluse le scene di sesso estremo, lunghe e a tratti imbarazzanti – Cinquanta Sfumature di Nero si spaccia per una commedia romantica. Le scene che potrebbero disturbare lo spettatore sono quasi completamente eliminate, limitandosi a qualche giro tra le coperte e nudità gratuità a volontà. Dakota Johnson sembra prediligere una camicia sbottonata per andare in giro per casa – o sul balcone – mentre il personaggio di Jamie Dornan offre più di una volta una visuale in 3D dei suoi addominali scolpiti.
Cinquanta Sfumature di Nero potrebbe essere una “libera ispirazione” al libro di E.L. James, non una sua fedele rappresentazione. Mancano, oltre ad una serie di personaggio chiave, una serie di scene significative e cruciali. Eliminate le scene più spinte e i giochetti sadomaso, la storia dei protagonisti si riduce a poche, mirate scene e frasi. Se le citazioni dal libro non mancano e, anzi, abbondano, le scene chiave sono parafrasate o incongruenti. Per non parlare della metamorfosi dei personaggi.Il complesso risulta, paradossalmente, molto gradevole. La scelta di dare una direzione romantica alla pellicola ripaga con una vicenda meno intricata, solida nella trama e nel cast – nuovo e vecchio. Christian Grey ride un po’ troppo per i nostri gusti, allontanandosi molto dall’allure di oscurità e mistero che dovrebbero invece caratterizzarlo. Diventa quasi un eroe romantico, con una donzella da salvare dal capo prepotente e con un passato oscuro da cui cerca di proteggere se stesso e le persone a lui care.
Ci piace, anche se trasforma Cinquanta Sfumature di Nero in un film a tratti banale.L’originalità che forse la prima pellicola aveva deciso di mantenere, a costo di essere eccessivamente spinta e brutale, qui manca. Ci sono i bei vestiti, le case, la barca, le macchine, i soldi a volontà, ma l’oscurità e il “nero” del titolo non ci sono affatto. Con queste premesse Cinquanta Sfumature di Rosso – il cui trailer, con una mossa alla film della Marvel, è stato proiettato subito dopo la prima parte dei titoli di coda – potrebbe persino non essere vietato ai minori.
GLORY - Britney Spears
di Valeria Piras
Britney è rinata e ora la sua musica è finalmente matura ed intensa.
Con l’album Glory, uscito qualche mese fa nei negozi, c’è stato ufficialmente il ritorno sulle scene di Britney Spears, accompagnato da un nuovo singolo Make Me (feat. G Eazy) e una serie di brani promozionali rilasciati nella settimane prima della data di pubblicazione dell'album. E adesso, con la sua nuova fatica, quello che possiamo ascoltare è sicuramente una evoluzione della popstar, apparentemente interessata a sperimentare un nuovo sound. A quasi trentacinque anni, giustamente -anche se con un po' di malinconia- non possiamo più aspettarci di ascoltare una carrellata di pezzi bubble gum e pop come i primi dischi della sua carriera o il tanto amato Blackout. Questo, però, come vedremo, non è per forza un difetto. "Glory" è stato messo in piedi con un team di tutto rispetto e il risultato ottenuto va ben oltre le (ridimensionate) aspettative.
Non sarà certo una visione della Madonna, dal momento che "Glory" è ancora una volta un prodotto pop creato senza scopo alcuno se non l'intrattenimento casuale, ma la Spears oggi sembra nuovamente intenzionata a fare la popstar e a riconquistare quella che è sempre stata la sua peculiarità: adattarsi a nuove sonorità tramite la sua fragile ma elastica presenza di donna-robot-ma-con-un-cuore. Tutto questo ovviamente dirà meno di zero ai suoi eterni detrattori, ma per i vecchi fan, che con lei sono cresciuti attraverso anni di drammi & successi, vederla a suo modo nuovamente viva è un piccolo tuffo al cuore. Glory è un disco che ricompensa i fan delusi da Britney Jean (è decisamente una spanna sopra al precedente lavoro) e che presenta, al suo interno, alcuni pezzi che potrebbero riportare i singolo della popstar ai piani alti delle classifiche, se accompagnati anche da un video di buon livello (Do You Wanna Come Over è il perfetto esempio).
Dimenticate, voi che vi accingete ad ascoltare il disco, qualsiasi ballad: l'album non ha nessun Perfume o Everytime 2.0. La produzione è curata in ogni dettaglio, rischiando però il solito effetto: mascherare e coprire la voce di Miss Spears provocando overdose da effetti sonori per chi ascolta. E' ai livelli del tanto agognato Blackout? No, ma è sicuramente il suo disco migliore da quei tempi e un capitolo nuovo per Britney che, almeno apparentemente, è tornata più in forma e divertita, presente, convincente, nei brani incisi.
Con l’album Glory, uscito qualche mese fa nei negozi, c’è stato ufficialmente il ritorno sulle scene di Britney Spears, accompagnato da un nuovo singolo Make Me (feat. G Eazy) e una serie di brani promozionali rilasciati nella settimane prima della data di pubblicazione dell'album. E adesso, con la sua nuova fatica, quello che possiamo ascoltare è sicuramente una evoluzione della popstar, apparentemente interessata a sperimentare un nuovo sound. A quasi trentacinque anni, giustamente -anche se con un po' di malinconia- non possiamo più aspettarci di ascoltare una carrellata di pezzi bubble gum e pop come i primi dischi della sua carriera o il tanto amato Blackout. Questo, però, come vedremo, non è per forza un difetto. "Glory" è stato messo in piedi con un team di tutto rispetto e il risultato ottenuto va ben oltre le (ridimensionate) aspettative.
Non sarà certo una visione della Madonna, dal momento che "Glory" è ancora una volta un prodotto pop creato senza scopo alcuno se non l'intrattenimento casuale, ma la Spears oggi sembra nuovamente intenzionata a fare la popstar e a riconquistare quella che è sempre stata la sua peculiarità: adattarsi a nuove sonorità tramite la sua fragile ma elastica presenza di donna-robot-ma-con-un-cuore. Tutto questo ovviamente dirà meno di zero ai suoi eterni detrattori, ma per i vecchi fan, che con lei sono cresciuti attraverso anni di drammi & successi, vederla a suo modo nuovamente viva è un piccolo tuffo al cuore. Glory è un disco che ricompensa i fan delusi da Britney Jean (è decisamente una spanna sopra al precedente lavoro) e che presenta, al suo interno, alcuni pezzi che potrebbero riportare i singolo della popstar ai piani alti delle classifiche, se accompagnati anche da un video di buon livello (Do You Wanna Come Over è il perfetto esempio).
Dimenticate, voi che vi accingete ad ascoltare il disco, qualsiasi ballad: l'album non ha nessun Perfume o Everytime 2.0. La produzione è curata in ogni dettaglio, rischiando però il solito effetto: mascherare e coprire la voce di Miss Spears provocando overdose da effetti sonori per chi ascolta. E' ai livelli del tanto agognato Blackout? No, ma è sicuramente il suo disco migliore da quei tempi e un capitolo nuovo per Britney che, almeno apparentemente, è tornata più in forma e divertita, presente, convincente, nei brani incisi.
SMETTO QUANDO VOGLIO 2
di Valeria Piras
Nuove avventure per i dottori criminali.Il risultato è davvero ottimo.
Arriva nelle sale nostrane il sequel Smetto Quando Voglio intitolato Masterclass. La nuova pellicola si Sydney Sibilia attinge dal melting pot dei linguaggi cinematografici: l'intelaiatura, certo, si ispira molto alla commedia all'italiana dei maestri, ma i diversi twist narrativi e la sbruffoneria nel voler calare i personaggi in un contesto particolare tradiscono un'impronta da action movie d'oltreoceano. In Smetto Quando Voglio - Masterclass ritroviamo i nerd criminali del primo film, finiti dietro le sbarre dopo aver sintetizzato (e spacciato) una sostanza psicotropa in quel di Roma. I primi minuti del film svolgono la funzione di cordone ombelicale con il primo capitolo della saga (il cui epilogo si intitolerà Ad Honorem), dal momento che fanno nuovamente capolino personaggi e situazioni familiari per lo spettatore, a cominciare dalla sequenza iniziale che offre nuovamente l'accostamento ripresa con drone + hit rock dell'originale. Il tutto dura, però, un battito di ciglia, perchè l'entrata in scena della new entry Greta Scarano - nei panni dell'ispettore di polizia Paola Coletti - serve come pretesto a regista e sceneggiatori per esasperare i toni del primo film, proprio come la fotografia "acida" di Vladan Radovic esaspera i colori, rendendoli "stupefacenti".
Smetto Quando Voglio- Masterclass rivoluziona e ci riesce qualsivoglia moralismo o paternale, alternando l'irriverenza monicelliana nel raccontare una generazione di brillanti falliti con un repertorio che pesca invece dal cinema americano (e non). Il film con Edoardo Leo "si droga" dell'estetica e dei contenuti di un cinema osservato dalle nostre parti sempre con ammirazione o superficialità (a seconda dei casi), ma comunque mai in modo così ravvicinato. Sibilia recupera la vocazione d'intrattenimento del cinema di genere anni '70, sbattendo in prima pagina titoli di giornale e inseguimenti degni dei polizieschi con Maurizio Merli e Tomas Milian, ibridando il tutto con avveniristici bazooka a là Ghostbusters e vetture e motociclette del Terzo Reich (come in Rat Race).
Il risultato è un ibrido scollegato dalle logiche del primo film, decisamente più frenetico e ambizioso, che consente un cambio di rotta in grado di puntare dritto anche verso un terzo capitolo annunciato nel finale da una scena che suscita più di una curiosità. Se, con Smetto Quando Voglio, Sydney Sibilia aveva formulato una commedia strepitosa "fatta in casa, con Masterclass il regista salernitano si fa largo nel traffico internazionale di action comedy.
Arriva nelle sale nostrane il sequel Smetto Quando Voglio intitolato Masterclass. La nuova pellicola si Sydney Sibilia attinge dal melting pot dei linguaggi cinematografici: l'intelaiatura, certo, si ispira molto alla commedia all'italiana dei maestri, ma i diversi twist narrativi e la sbruffoneria nel voler calare i personaggi in un contesto particolare tradiscono un'impronta da action movie d'oltreoceano. In Smetto Quando Voglio - Masterclass ritroviamo i nerd criminali del primo film, finiti dietro le sbarre dopo aver sintetizzato (e spacciato) una sostanza psicotropa in quel di Roma. I primi minuti del film svolgono la funzione di cordone ombelicale con il primo capitolo della saga (il cui epilogo si intitolerà Ad Honorem), dal momento che fanno nuovamente capolino personaggi e situazioni familiari per lo spettatore, a cominciare dalla sequenza iniziale che offre nuovamente l'accostamento ripresa con drone + hit rock dell'originale. Il tutto dura, però, un battito di ciglia, perchè l'entrata in scena della new entry Greta Scarano - nei panni dell'ispettore di polizia Paola Coletti - serve come pretesto a regista e sceneggiatori per esasperare i toni del primo film, proprio come la fotografia "acida" di Vladan Radovic esaspera i colori, rendendoli "stupefacenti".
Smetto Quando Voglio- Masterclass rivoluziona e ci riesce qualsivoglia moralismo o paternale, alternando l'irriverenza monicelliana nel raccontare una generazione di brillanti falliti con un repertorio che pesca invece dal cinema americano (e non). Il film con Edoardo Leo "si droga" dell'estetica e dei contenuti di un cinema osservato dalle nostre parti sempre con ammirazione o superficialità (a seconda dei casi), ma comunque mai in modo così ravvicinato. Sibilia recupera la vocazione d'intrattenimento del cinema di genere anni '70, sbattendo in prima pagina titoli di giornale e inseguimenti degni dei polizieschi con Maurizio Merli e Tomas Milian, ibridando il tutto con avveniristici bazooka a là Ghostbusters e vetture e motociclette del Terzo Reich (come in Rat Race).
Il risultato è un ibrido scollegato dalle logiche del primo film, decisamente più frenetico e ambizioso, che consente un cambio di rotta in grado di puntare dritto anche verso un terzo capitolo annunciato nel finale da una scena che suscita più di una curiosità. Se, con Smetto Quando Voglio, Sydney Sibilia aveva formulato una commedia strepitosa "fatta in casa, con Masterclass il regista salernitano si fa largo nel traffico internazionale di action comedy.
COLLATERAL BEAUTY
di Valeria Piras
Il lungo percorso di rinascita di un uomo. Ma qualcosa non convince.
Collateral Beauty è stato con clamore presentato in anteprima al Dubai International Film Festival dello scorso dicembre e molte erano le aspettative.Il film si basa sull'assunto che tutti noi essere umani siamo legati da gioie e dolori, ambizioni e delusioni. L'idea ha il suo fascino, forse perché in parte sembra ispirarsi al capolavoro letterario del grande Charles Dickens, Il Canto di Natale ma forse le aspettative erano davvero troppe. La critica americana ha in parte massacrato il film, quella nostrana non si è ancora espressa del tutto ma una cosa è certa: le potenzialità di questa storia sono rimaste inespresse, spesso soffocate dalla retorica e dai virtuosismi di una sceneggiatura troppo "astratta". Il film è ricchissimo di star come Keira Knightly, Hellen Mirren, Edward Norton, Kate Winslet e il protagonista Will Smith ma tutto questo non basta. La pungente poesia di Howard non trova una risposta altrettanto efficace, tranne forse in alcuni isolati dialoghi come quello in cui Helen Mirren dice che: "La Morte non ha molti ammiratori e non capisco perché: è una liberazione".
Lo sceneggiatore di Collateral Beauty, Allan Loeb, ex giocatore d'azzardo, ha sperimentato sulla propria pelle la sensazione di smarrimento e rinascita, ma non è riuscito a trasmettere fino in fondo tutte le sfumature emotive che una perdita comporta. Si è come fermato al livello più superficiale del lutto senza indagare alcuna transizione o fase, come se la perdita di una persona cara fosse solo un interruttore che spegne la luce e che prima o poi si riaccende toccando il tasto giusto. Una semplificazione del genere, racchiusa nel concetto di "bellezza collaterale" che dà il titolo al film, a dispetto del cast stellare e delle ambientazioni di forte impatto, non riesce a coinvolgere il pubblico fino in fondo.
L'ambizione iniziale di lanciare un messaggio significativo, anche se attraverso una saggezza un po' new age, cede a tratti in Collateral Beauty il passo alla banalità. E non basta neppure la maestria interpretativa di Helen Mirren o la toccante delicatezza di Kate Winslet a risollevare le sorti di una pellicola piena di buone intenzioni, anche se spesso disattese.
Collateral Beauty è stato con clamore presentato in anteprima al Dubai International Film Festival dello scorso dicembre e molte erano le aspettative.Il film si basa sull'assunto che tutti noi essere umani siamo legati da gioie e dolori, ambizioni e delusioni. L'idea ha il suo fascino, forse perché in parte sembra ispirarsi al capolavoro letterario del grande Charles Dickens, Il Canto di Natale ma forse le aspettative erano davvero troppe. La critica americana ha in parte massacrato il film, quella nostrana non si è ancora espressa del tutto ma una cosa è certa: le potenzialità di questa storia sono rimaste inespresse, spesso soffocate dalla retorica e dai virtuosismi di una sceneggiatura troppo "astratta". Il film è ricchissimo di star come Keira Knightly, Hellen Mirren, Edward Norton, Kate Winslet e il protagonista Will Smith ma tutto questo non basta. La pungente poesia di Howard non trova una risposta altrettanto efficace, tranne forse in alcuni isolati dialoghi come quello in cui Helen Mirren dice che: "La Morte non ha molti ammiratori e non capisco perché: è una liberazione".
Lo sceneggiatore di Collateral Beauty, Allan Loeb, ex giocatore d'azzardo, ha sperimentato sulla propria pelle la sensazione di smarrimento e rinascita, ma non è riuscito a trasmettere fino in fondo tutte le sfumature emotive che una perdita comporta. Si è come fermato al livello più superficiale del lutto senza indagare alcuna transizione o fase, come se la perdita di una persona cara fosse solo un interruttore che spegne la luce e che prima o poi si riaccende toccando il tasto giusto. Una semplificazione del genere, racchiusa nel concetto di "bellezza collaterale" che dà il titolo al film, a dispetto del cast stellare e delle ambientazioni di forte impatto, non riesce a coinvolgere il pubblico fino in fondo.
L'ambizione iniziale di lanciare un messaggio significativo, anche se attraverso una saggezza un po' new age, cede a tratti in Collateral Beauty il passo alla banalità. E non basta neppure la maestria interpretativa di Helen Mirren o la toccante delicatezza di Kate Winslet a risollevare le sorti di una pellicola piena di buone intenzioni, anche se spesso disattese.
L'AMORE E LA VIOLENZA
di Valeria Piras
Nuovo album per la band indie.Ed è sempre una rivoluzione.
Da pochi giorni nei negozi il nuovo album dei Baustelle “L’amore e la violenza”. È una sorta di disco meta-moderno che descrive la nostra contemporaneità attraverso una intera gamma di momenti interiori andando oltre il puro sentimentalismo e la disillusione. Suoni, atmosfere, ricordi, suggestioni sono stati selezionati con cura, prelevati dalla memoria collettiva degli anni ’70 e in parte ’80, rimescolati nelle musiche e nei testi. Il disco sembra essere nato come una reazione all'album precedente Fantasma, disco molto ingombrante e poderoso. “L’amore e la violenza” è un lavoro spudoratamente pop che ci getta nella complessità del presente e trasforma il caos in energia creativa. I Baustelle sono forse la band indie migliore che abbiamo in Italia e da sempre fanno cose contrarie ai trend del pop contemporaneo. Ma in questo album ci sono grandi novità. La prima è rivalutare ritornelli e melodie.Utilizza il passato come materia da plasmare e lo fa senza remore, un atteggiamento che potrebbe indispettire qualcuno. Il leader Bianconi lo dichiara apertamente: “Ci si aggancia senza timori alle melodie - di qualsiasi genere - già scritte, rimodellandole e reimpastandole secondo la propria sensibilità”. “L’amore e la violenza” resterà tale anche dopo averne decifrato tutti i riferimenti. Avanza per giustapposizioni spiazzanti e quindi eccitanti: alto e basso assieme, concetti come D’Annunzio, Facebook, Viola Valentino li troviamo tutti nella stessa traccia come un “trattatello di filosofia”, la lettura contemporanea del pop elettronico fatta dai Daft Punk a fianco della sigla di “Sandokan”.
Vien fuori un disco di folgoranti canzoni pop, di quelle che non si sentivano da tempo, colorato e cantabile senza essere kitsch, né banale. Pop, per i Baustelle, è musica dotata di vitalità melodica e armonica. Nel descriverne gli ispiratori, Bianconi fa una bella ammucchiata di nomi: Abba, Beatles, Burt Bacharach, Brian Wilson, Oliver Onions, Franco Battiato. Molti altri potrebbero essere aggiunti come De Gregori che emerge in “Ragazzina”, finale che ha l’eleganza quasi aristocratica tipica di Bianconi. In questo gioco citazionista — cui hanno partecipato anche Diego Palazzo in varie musiche e, per il testo di “Eurofestival”, Simone Lenzi dei Virginiana Miller — le canzoni rivelano la loro famigliarità al primo ascolto. È come se fossero sempre state lì. Quelle interpretate da e con Rachele Bastreghi sono fra le più immediate: non solo i ritornelli di “Betty” e “Amanda Lear”, ma soprattutto “La musica sinfonica” e la magnifica confusione di piani di “Eurofestival”. Le canzoni sono costruite in modo ingegnoso, vi è un’abbondanza di tastiere e sintetizzatori, però analogici. Su “Fantasma” c’era un’orchestra vera, qui è mimata dal suono del Mellotron, come usava un tempo. Il ritmo è dettato da una non-batteria costruita su micro-campionamenti di cose suonate oggi da Sebstiano De Gennaro oppure tratte da dischi del 1975-82.
È musica sincera pur essendo piena di rimandi spudorati ai repertori altrui. Gli strumenti sono autentici rifacendosi all’era pre-digitale oppure sono artefatti? I concetti di ciò che in musica è “vero” e “falso” si mescolano fino a confondersi. Questo disco è qui per raccontarci il collasso a cui stiamo assistendo, per cercare di descrivere lo smarrimento che viviamo, per fare una fotografia mossa e confusa dell’Occidente in guerra. Non lo racconta con cinismo. Il senso di caducità che impregna l’album non si trasforma in rassegnazione o rabbia. Anzi, queste canzoni invitano a non avere paura. L’amore e la violenza sono raccontate con un po’ di ironia, come accade in “Eurofestival”.Melodie azzeccate rendono plausibili passaggi altrimenti grossolani come “la vita è super”. Il linguaggio è volutamente frammentato, dà l’idea del cut-up, abbondano le citazioni come le “spiagge deturpate” che rimandano a Le Luci della Centrale Elettrica. La scrittura è volte automatica, piena di assonanze, È un disco di cortocircuiti. I Baustelle ci dicono che oggi l’originalità, perlomeno nella canzone pop, sembra sempre più una montagna impossibile da scalare. L’idea che qualcuno riesca a inventare uno stile assieme popolare e rivoluzionario appare remota. “L’amore e la violenza” ci dice che è possibile creare una narrazione sincera rimescolando in modo sfacciato e sorprendente elementi del passato. Ci dice che un altro pop è possibile. Pur essendo un disco immediato, si presta a più livelli di lettura. È “oscenamente pop”, come dice lo stesso Bianconi.
Da pochi giorni nei negozi il nuovo album dei Baustelle “L’amore e la violenza”. È una sorta di disco meta-moderno che descrive la nostra contemporaneità attraverso una intera gamma di momenti interiori andando oltre il puro sentimentalismo e la disillusione. Suoni, atmosfere, ricordi, suggestioni sono stati selezionati con cura, prelevati dalla memoria collettiva degli anni ’70 e in parte ’80, rimescolati nelle musiche e nei testi. Il disco sembra essere nato come una reazione all'album precedente Fantasma, disco molto ingombrante e poderoso. “L’amore e la violenza” è un lavoro spudoratamente pop che ci getta nella complessità del presente e trasforma il caos in energia creativa. I Baustelle sono forse la band indie migliore che abbiamo in Italia e da sempre fanno cose contrarie ai trend del pop contemporaneo. Ma in questo album ci sono grandi novità. La prima è rivalutare ritornelli e melodie.Utilizza il passato come materia da plasmare e lo fa senza remore, un atteggiamento che potrebbe indispettire qualcuno. Il leader Bianconi lo dichiara apertamente: “Ci si aggancia senza timori alle melodie - di qualsiasi genere - già scritte, rimodellandole e reimpastandole secondo la propria sensibilità”. “L’amore e la violenza” resterà tale anche dopo averne decifrato tutti i riferimenti. Avanza per giustapposizioni spiazzanti e quindi eccitanti: alto e basso assieme, concetti come D’Annunzio, Facebook, Viola Valentino li troviamo tutti nella stessa traccia come un “trattatello di filosofia”, la lettura contemporanea del pop elettronico fatta dai Daft Punk a fianco della sigla di “Sandokan”.
Vien fuori un disco di folgoranti canzoni pop, di quelle che non si sentivano da tempo, colorato e cantabile senza essere kitsch, né banale. Pop, per i Baustelle, è musica dotata di vitalità melodica e armonica. Nel descriverne gli ispiratori, Bianconi fa una bella ammucchiata di nomi: Abba, Beatles, Burt Bacharach, Brian Wilson, Oliver Onions, Franco Battiato. Molti altri potrebbero essere aggiunti come De Gregori che emerge in “Ragazzina”, finale che ha l’eleganza quasi aristocratica tipica di Bianconi. In questo gioco citazionista — cui hanno partecipato anche Diego Palazzo in varie musiche e, per il testo di “Eurofestival”, Simone Lenzi dei Virginiana Miller — le canzoni rivelano la loro famigliarità al primo ascolto. È come se fossero sempre state lì. Quelle interpretate da e con Rachele Bastreghi sono fra le più immediate: non solo i ritornelli di “Betty” e “Amanda Lear”, ma soprattutto “La musica sinfonica” e la magnifica confusione di piani di “Eurofestival”. Le canzoni sono costruite in modo ingegnoso, vi è un’abbondanza di tastiere e sintetizzatori, però analogici. Su “Fantasma” c’era un’orchestra vera, qui è mimata dal suono del Mellotron, come usava un tempo. Il ritmo è dettato da una non-batteria costruita su micro-campionamenti di cose suonate oggi da Sebstiano De Gennaro oppure tratte da dischi del 1975-82.
È musica sincera pur essendo piena di rimandi spudorati ai repertori altrui. Gli strumenti sono autentici rifacendosi all’era pre-digitale oppure sono artefatti? I concetti di ciò che in musica è “vero” e “falso” si mescolano fino a confondersi. Questo disco è qui per raccontarci il collasso a cui stiamo assistendo, per cercare di descrivere lo smarrimento che viviamo, per fare una fotografia mossa e confusa dell’Occidente in guerra. Non lo racconta con cinismo. Il senso di caducità che impregna l’album non si trasforma in rassegnazione o rabbia. Anzi, queste canzoni invitano a non avere paura. L’amore e la violenza sono raccontate con un po’ di ironia, come accade in “Eurofestival”.Melodie azzeccate rendono plausibili passaggi altrimenti grossolani come “la vita è super”. Il linguaggio è volutamente frammentato, dà l’idea del cut-up, abbondano le citazioni come le “spiagge deturpate” che rimandano a Le Luci della Centrale Elettrica. La scrittura è volte automatica, piena di assonanze, È un disco di cortocircuiti. I Baustelle ci dicono che oggi l’originalità, perlomeno nella canzone pop, sembra sempre più una montagna impossibile da scalare. L’idea che qualcuno riesca a inventare uno stile assieme popolare e rivoluzionario appare remota. “L’amore e la violenza” ci dice che è possibile creare una narrazione sincera rimescolando in modo sfacciato e sorprendente elementi del passato. Ci dice che un altro pop è possibile. Pur essendo un disco immediato, si presta a più livelli di lettura. È “oscenamente pop”, come dice lo stesso Bianconi.
ALLIED - Un'ombra nascosta
di Valeria Piras
Un classico thriller in stile retrò ma con un' energia moderna nascosta.
Allied – Un’ ombra nascosta è il nuovo film di Robert Zemeckis ambientato nel mondo degli agenti segreti della Seconda Guerra Mondiale e che vede come protagonisti la bellissima Marion Cotillard e il tenebroso Brad Pitt. Il Segreto del film sta nel sottotitolo, il concetto centrale è che per sopravvivere serve non farsi mai veramente conoscere da nessuno. Sono degli esperti ad ingannare, recitare un ruolo, anticipare le mosse e uccidere. La cosa quasi nuova è che nel bel mezzo di una missione straordinariamente rischiosa, senza volere, le due spie si innamorano l’uno dell’altra, la loro unica speranza è lasciarsi alle spalle tutti i doppi-giochi. Alcuni critici hanno definito Allied una sorta di nuovo “Mr. & Mrs. Smit” durante la seconda guerra mondiale, alimentato anche dalla recente rottura del bel Brad con Angelina Jolie, e con il supposto tradimento sul set con Marion Cotillard, in realtà la pellicola di Robert Zemeckis (Ritorno al Futuro Forrest Gump e il recente The Walk), basato su una sceneggiatura originale di Steven Knight (Piccoli affari sporchi, La promessa dell’assassino, Locke) è un solido thriller con il sapore dei film anni’40 ben aiutato dagli effetti speciali attuali. Robert Zemeckis parlava da tempo di girare un bel film ambientato nel periodo della seconda guerra mondiale e a prima vista la scelta della migliore attrice francese (che parla inglese) è stata felice, meno si può dire di Brad Pitt che veniva dall’ottima performance di “Fury” sempre ambientato durante il secondo conflitto mondiale, che forse convince di meno.
Molta critica ha sottolineato che la storia d’amore e al tempo stesso la spy story ricca d’azione funziona a livello di sceneggiatura, ma non sembra scoppiare la vera alchimia tra i due attori. Marion Cotillard è davvero una brava attrice, intensa e sensibile e riesce a mettere in ombra Pitt. Un applauso va agli sforzi del regista di ricostruire e ridare una certa atmosfera di quegli anni. Da una meticolosa ricostruzione storica di mezzi e costumi, come la ricostruzione del Westland Lysander , piccolo aereo inglese di cui esistono un pochissimi esemplari, ed uno di questi è stato utilizzato nel film e poi ricostruito per particolari scene d’azione in modo meticoloso dalla squadra di Zemeckis, a cui va aggiunto un grande uso di effetti speciali virtuali che hanno permesso al regista di poter fondere la storia nella realtà cinematografica.
Anche la scelta di una fotografia con l’utilizzo di vecchie ottiche a contrasto della modernissima macchina da ripresa digitale, hanno dato un sincero contributo per donare un certo effetto di film datato a tutta la pellicola. Ma ovviamente le scelte artistiche di Robert Zemeckis sono solo di contorno alla vera storia d’amore tra i due protagonisti che prende subito il sopravvento negli eventi narrati. Tuttavia nel suo complesso finale Allied resta una pellicola un po’ atipica e particolare nel panorama attuale dell’offerta cinematografica, sembra un classico vecchio film di guerra in bianco e nero, ma ricolorato e con qualche sfumatura attuale. Zemeckis ha voluto ricreare la magia del grande classico di spionaggio, un risultato non pienamente riuscito ma apprezzabile e da vedere assolutamente, con una Marion Cotillard davvero in grande spolvero.
Allied – Un’ ombra nascosta è il nuovo film di Robert Zemeckis ambientato nel mondo degli agenti segreti della Seconda Guerra Mondiale e che vede come protagonisti la bellissima Marion Cotillard e il tenebroso Brad Pitt. Il Segreto del film sta nel sottotitolo, il concetto centrale è che per sopravvivere serve non farsi mai veramente conoscere da nessuno. Sono degli esperti ad ingannare, recitare un ruolo, anticipare le mosse e uccidere. La cosa quasi nuova è che nel bel mezzo di una missione straordinariamente rischiosa, senza volere, le due spie si innamorano l’uno dell’altra, la loro unica speranza è lasciarsi alle spalle tutti i doppi-giochi. Alcuni critici hanno definito Allied una sorta di nuovo “Mr. & Mrs. Smit” durante la seconda guerra mondiale, alimentato anche dalla recente rottura del bel Brad con Angelina Jolie, e con il supposto tradimento sul set con Marion Cotillard, in realtà la pellicola di Robert Zemeckis (Ritorno al Futuro Forrest Gump e il recente The Walk), basato su una sceneggiatura originale di Steven Knight (Piccoli affari sporchi, La promessa dell’assassino, Locke) è un solido thriller con il sapore dei film anni’40 ben aiutato dagli effetti speciali attuali. Robert Zemeckis parlava da tempo di girare un bel film ambientato nel periodo della seconda guerra mondiale e a prima vista la scelta della migliore attrice francese (che parla inglese) è stata felice, meno si può dire di Brad Pitt che veniva dall’ottima performance di “Fury” sempre ambientato durante il secondo conflitto mondiale, che forse convince di meno.
Molta critica ha sottolineato che la storia d’amore e al tempo stesso la spy story ricca d’azione funziona a livello di sceneggiatura, ma non sembra scoppiare la vera alchimia tra i due attori. Marion Cotillard è davvero una brava attrice, intensa e sensibile e riesce a mettere in ombra Pitt. Un applauso va agli sforzi del regista di ricostruire e ridare una certa atmosfera di quegli anni. Da una meticolosa ricostruzione storica di mezzi e costumi, come la ricostruzione del Westland Lysander , piccolo aereo inglese di cui esistono un pochissimi esemplari, ed uno di questi è stato utilizzato nel film e poi ricostruito per particolari scene d’azione in modo meticoloso dalla squadra di Zemeckis, a cui va aggiunto un grande uso di effetti speciali virtuali che hanno permesso al regista di poter fondere la storia nella realtà cinematografica.
Anche la scelta di una fotografia con l’utilizzo di vecchie ottiche a contrasto della modernissima macchina da ripresa digitale, hanno dato un sincero contributo per donare un certo effetto di film datato a tutta la pellicola. Ma ovviamente le scelte artistiche di Robert Zemeckis sono solo di contorno alla vera storia d’amore tra i due protagonisti che prende subito il sopravvento negli eventi narrati. Tuttavia nel suo complesso finale Allied resta una pellicola un po’ atipica e particolare nel panorama attuale dell’offerta cinematografica, sembra un classico vecchio film di guerra in bianco e nero, ma ricolorato e con qualche sfumatura attuale. Zemeckis ha voluto ricreare la magia del grande classico di spionaggio, un risultato non pienamente riuscito ma apprezzabile e da vedere assolutamente, con una Marion Cotillard davvero in grande spolvero.
REVOLUTION RADIO - Green Day
di Valeria Piras
Un nuovo lavoro in cui la band riflette sul senso della vita in modo sempre punk.
Dopo ben quattro anni dal loro ultimo lavoro di inediti tornano con un nuovissimo album i Green Day. Ed ecco, quindi, arrivare il loro dodicesimo lavoro in studio, prodotto - da veri duri e puri - da loro stessi. Si intitola Revolution Radio ma nonostante il titolo ribelle e guerriero è un disco in cui la band si concentra su se stessa e riflette sul mondo che li circonda, tentando di trovare un senso globale per fatti, eventi e situazioni che si intersecano in un puzzle caleidoscopico e folle. Una specie di lungo sogno dove la dimensione personale e quella più ampia (legata alla società americana e alla situazione mondiale) si scontrano e originano turbini di pensieri, contraddizioni e domande. Nel disco si trattano temi come la politica, le armi, l'amore, la morte, gli addi ad alcool e droghe, ma anche di come erano belli i vecchi tempi in cui l’unica cosa che contava era essere un punk rocker adolescente che viveva il presente come se non ci fosse un domani. Dati questi presupposti, anche il lato prettamente musicale del disco è sviluppato di conseguenza. Chiariamo subito: ora i Green Day non si sono messi a fare filosofia, né folk; anzi in "Revolution Radio” ci sono anche alcuni pezzi punk melodici nella loro miglior tradizione (e sono forse i più deboli del lotto: i Green Day hanno detto tutto il dicibile – e molto bene – in questo capo già da un bel po’ di tempo).
È palese, però, un certo avvicinamento a sonorità e atmosfere sempre meno esuberanti. Paradossalmente, quindi, gli episodi più interessanti sono quelli più introspettivi, come l’opener “Somewhere Now”, “Say Goodbye”, la rock ballad americanissima con spezie Seventies di “Troubled Times”, la ruvida e strascicata “Too Dumb To Die”. Certo, poi ci sono le cadute di tono totali: vedi “Outlaws”, una specie di ballata da spot per body antipancia per casalinghe dell’Iowa, musicalmente degna dei peggiori Michael Bolton e compagnia di cinquantenni col mullet (magari trapiantato) phonato. Ma son cose che capitano, tanto più in un ambito come quello del punk pop/pop punk in cui la band manovra da tre decenni a questa parte. Non sarà certo un disco ricordato per l’impatto, l’energia e la freschezza pop punk, questo nuovo dei Green Day. E lasciatemelo dire, meno male, perché tutta quella freschezza, dopo 30 anni, inizia a puzzare un po’ di talco mentolato su piaghe da decubito, con tutto il rispetto.
Del resto Armstrong e i suoi sembrano averlo intuito abbondantemente e mostrano di avere in mente una sorta di evoluzione, frutto di un procedimento che gli angolofoni definirebbero “coming of age”. La crescita, la maturazione, il raggiungimento dell’età adulta – quel periodo in cui si fanno i conti coi sogni che non ci sono più, con la realtà che magari non è esattamente come ce la eravamo immaginata e con le responsabilità che la soglia dei 40 anni e più comporta. In buona sostanza, questo non è il nuovo “American Idiot”, ma è di sicuro un bel disco di transizione. Resta da capire dove porterà questo cambiamento e se davvero verrà portato a termine. Per ora godiamoci questi nuovi brani, con tutti i loro pregi… e i difetti, che fanno sempre e deliziosamente punk.
DAY BREAKS - Nora Jones
di Valeria Piras
Un artista dal talento puro torna alle radici della sua musicalità.
Arriva nei negozi Day Breaks il nuovissimo lavoro di inediti di Norah Jones.Si tratta di un puro ritorno alle origini. La figlia del grande compositore Ravi Shankar è una delle poche artiste nel mondo della musica attuale ad essere dotate di un talento straripante, in ogni suo lavoro c'è sempre qualcosa di magico. Lo dimostrò col capolavoro da 25 milioni di copie “Come Away With Me”, e lo conferma oggi a distanza di anni con questo nuovo e bellissimo album. Un ritorno alle sonorità Jazz a cui partecipano anche Wayne Shorter al sassofono, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria; 12 brani di cui 9 inediti e 3 cover originariamente interpretate da Horace Silver e Duke Ellington.Norah Jones sembra nuotare in un mare di originalità con una maestria immensa, sembra proprio il suo habitat naturale, senza per questo rinnegare il recente maquillage estetico/artistico in favore di sonorità segnatamente Pop – in Day Breaks ne ritroviamo solamente qualche eco nelle ammalianti “Once i Had a Laugh” e “Sleeping Wild“. Un ritorno agli albori che esalta la scrittura primigenia della Jones (“Tragedy “e “Don’ be Denied“), qui ispirata dal bisogno di guardare a ciò che accade nella nostra realtà “Fleurette Africaine (African Flower)” e soprattutto nel brano “Flipside“, probabilmente il più maturo della sua intera produzione.
La tematica al centro del pezzo racconta di scontri con la polizia e tensioni razziali – quelle che stanno emergendo nelle grandi città americane –, messi in scena attraverso l’incedere alternato piano e organo: qualcosa che ricorda il migliore Jimmy Smith.Moderna e antica, la nostra possiede la dote dei grandi di genere, quella che ti rende semplice anche le cose più complesse. Day Breaks è il grande album di un’artista che nel giro di pochi anni è riuscita ad emanciparsi da quel ruolo di nicchia a cui una certa produzione snob musicale voleva relegarla.
Chiudiamo prendendo in prestito le parole con cui Bono Vox definì Jeff Buckley, ma che ben calzano anche per la nostra Norah Jones: “Una goccia di acqua pura in un oceano inquinato”. Day breaks" è un altro disco della conferma per Norah e arriva da un'artista che ha sempre fatto della sua "normalità" uno dei suoi punti di forza. Ma, nel suo genere, non risulta mai troppo patinato o artificioso come certo jazz che punta al pubblico pop, snaturandosi. Invece, questa è Norah Jones, e questa musica le riesce con una naturalezza davvero invidiabile e piacevole.
LA CENA DI NATALE
di Valeria Piras
Ottimi attori in una commedia che però resta un pò confusa.
Il regista Marco Ponti torna sul luogo del delitto.Dopo il film Io che amo solo te riprende la storia lasciata nella ridente Polignano a Mare e sempre con gli stessi personaggi racconta le vicende dei due innamorati (Scamarcio e Laura Chiatti) alle prese con la tanto temuta cena di Natale.La cena di Natale, così come il prequel, è anche film di personaggi che entrano ed escono con ragguardevole disinvoltura, in cui ciascuno sta in luogo di qualcos’altro, una categoria, una fattispecie, un tipo. Emerge ancora una volta forse il poco interesse per la storia in se, per raccontarne una insomma, preferendo procedere per singoli episodi dallo sviluppo cadenzato, sostanzialmente perché asservito al desiderio di mostrare un ambiente e certi suoi meccanismi mediante la collezione di situazioni tipo, non necessariamente collegate tra loro. Lo scopo principale è creare un cinema medio che cerchi di accontentare tutti (e per tutti s’intende proprio tutti). Tale è l’impressione che si ha alla prima visione, frutto di tutta una serie di compromessi e bilanciamenti esterni al racconto, che non si può non avvertire quel senso di collegamento televisivo di cui quest’ultimo lavoro di Marco Ponti è intriso fino al midollo. E certo che in alcuni frangenti si sorride, perché malgrado tutto si è riusciti ancora una volta a raggruppare un cast di buoni attori, altro che gente improvvisata. Placido, Gerardi, Attili, Calzone, Pivetti (e perché no? Lo stesso Scamarcio)… sono loro a coprire le piccole lacune di un progetto il quale a loro si affida anima e corpo. Si evidenziano certamente momenti “alti”, come la contrapposizione tra famiglia tradizionalmente intesa e quelle di più recente concezione, a momenti “bassi”, con scene simili ad alcuni cinepanettone.
Di nuovo, però, nella misura in cui si aspira alla riflessione (senza però evocarla in maniera troppo convinta), La cena di Natale maneggia forse in modo poco convinto il suo enorme materiale. Lungi da noi avversare i luoghi comuni, i cliché, ché se tali sono un motivo deve pur esserci; ma davvero, quando vedi il parroco, t-shirt di Amnesty ben in vista,consigliare implicitamente di rovinare un matrimonio, per poi promettere in un altro caso sonori ceffoni qualora non la smettesse d’infilarsi nel letto di donne diverse da sua moglie si capisce che la morale raccontata non è soltanto incerta, confusa, ma proprio distorta.
Sembra quasi che il film cerchi di arrampicarsi lungo queste salite troppo ripide rispetto alla capacità di scalarle. Il processo messo in atto si sostanzia perciò nella gratuita volgarizzazione di concetti già visti come: il maschio italiano irrimediabilmente alla ricerca dell'adulterio, l’omosessuale un po’ macchietta, la ragazza cafona ed insopportabile e via discorrendo. Ogni tanto, come già accennato, viene fuori pure un nuovo personaggio, tipo un’ex-prostituta che ora fa la cameriera in attesa del grande amore che contribuisca al definitivo riscatto; salvo poi scomparire con la medesima estemporaneità con cui era apparsa.Insomma, un passo indietro per Marco Ponti, un film dove solo gli ottimi attori lo salvano dal baratro narrativo.
MADE IN ITALY - Ligabue
di Valeria Piras
Nuovo disco per il Liga. In 14 tracce tutta la sua vita.
Ecco il ritorno sulle scene musicali di Luciano Ligabue.Si tratta di un concept album ma la parola "concept" è controversa, nel rock indica a volte qualcosa di complesso, se non qualcosa di esplicitamente troppo ambizioso, che va oltre i limiti naturali della canzone. Molti la ritengono una contraddizione visto che il rock and roll è basato sostanzialmente su tre accordi. In Made in Italy il concept è la storia di Riko. Si tratta di un tipico personaggio da Bar Mario solo che adesso ha qualche anno in più e qualche problema in più. Riko finisce a protestare in piazza, diventa suo malgrado un personaggio per i media finendo in uno scontro con la Poilizia. I media lo usano e si dimenticano in fretta di lui Riko torna alla sua vita e al suo paese con una nuova consapevolezza. La storia è raccontata attraverso la sequenza delle canzoni.La storia principale, comincia con "La vita facile" e si chiude con "Un'altra realtà".Nelle canzoni ci sono i temi classici di Ligabue: la vita di provincia ("E' venerdì, non rompetemi i coglioni"), le relazioni ("Vittime e complici", la canzone che racconta la crisi famigliare di Riko), il rapporto con i media ("I miei quindici minuti", "Apperò"), e altri che rappresentano la sua "svolta sociale" degli ultimi anni: "Ho fatto in tempo ad avere un futuro", per esempio, o il rapporto contrastato con l'Italia: "Made in italy". Se vogliamo semplificare, o se l'idea di un concept album non piace, la storia è una cornice per Ligabue per esplorare da un nuovo punto di vista il suo mondo e il suo immaginario.
Ma, si diceva, "Made in italy" è soprattutto un disco di canzoni nato con un approccio diverso rispetto all'ultimo "Mondovisione". Nonostante l'idea di un concept faccia pensare il contrario, è un disco meno pensato e prodotto. Nel senso che la mano di Luciano Luisi, tastierista e produttore anche di "Mondovisione" si sente perché è invisibile. Il disco è stato scritto in poco tempo e conseguentemente registrato con un approccio che ha ridotto la post-produzione al minimo indispensabile. Il risultato è un disco più pulito nei suoni, più diretto.Ligabue non rinuncia a giocare con i generi, come fa da qualche tempo a questa parte: il reggae-rock di "Quindici minuti" (dove fa capolino anche una chitarra stile Paul Simon periodo "Graceland"), il classic-rock sprinsteeniano di "E' venerdì" (con quel vibrafono alla Phil Spector che fa tanto "Hungry heart") assieme al rock di "La vita facile", o il minimalismo di "Apperò", voce e ukulule, assieme a ballate classiche come "Meno male", impreziosita da una tromba (i fiati arricchischino diverse canzoni e danno un tocco di blue eyed soul a "Ho fatto in tempo ad avere un futuro").
Ligabue ci ha raccontato che l'urgenza di queste canzoni è quella che ha sempre contraddistinto la sua musica. Chi lo ama avrà altri motivi per amarlo e si rafforzerà nella convinzione. Chi lo ascolta in modo veloce o solo alla radio avrà buoni motivi per approfondire o per cambiare idea. L'approccio più secco delle canzoni le rende volutamente meno potenti, ma più accessibili. "Made in Italy" riesce ad esse un disco che si presta a diversi livelli di lettura, da quello più complesso del concept, a quello più rock e semplice, che poi alla fine è la vera essenza e cuore dello stile di Luciano Ligabue.
ANIMALI NOTTURNI
di Valeria Piras
L'eleganza visiva parte integrante di una storia originale. Bravo Tom.
Animali Notturni è il nuovo film del regista e stilista nonchè stella glamour Tom Ford. Non si tratta do un esordio ma della seconda opera dello stilista dopo il film A Single Man, che fu un piccolo capolavoro di eleganza e raffinatezza. Molto lo hanno definito un film sul sentirsi speciali, forse è meglio dire che si tratta di un film su cosa accade quando ci accorgiamo di non essere speciali per niente. La trama ci parla di Susan Morrow (Amy Adams) una gallerista con un matrimonio alle spalle e una relazione attuale che sta volgendo al termine. Un giorno riceve per posta il manoscritto del nuovo romanzo del suo ex marito Tony, intitolato Animali Notturni. E così Susan, vittima d’insonnia, inizia a leggere il romanzo la cui storia prende vita nella sua testa, e noi assistiamo ad una vicenda cruda di amori perduti e vendette e morte. Ma che forse parla anche di come sia brutalmente terminata la relazione fra lei e il suo ex marito.
La cosa interessante di questa seconda opera del regista/stilista è il suo strutturarsi su più livelli narrativi. C’è l’animale notturno Susan, una donna insoddisfatta dalla vita che si è ritrovata a vivere per colpa di pessime scelte passate. Poi c’è l’animale notturno Edward (Jake Gyllenhaal), il protagonista del libro di Tony, che proprio per colpa di pessime scelte dovrà vedersela con un destino particolarmente sgradevole. E c’è anche l’animale notturno per eccellenza, il passato, con tutti i suoi errori e i rancori che si porta dietro, che torna nelle notti insonne di Susan al solo scopo di tormentarla, al solo scopo di ricordarle che cosa si è lasciata alle spalle, con quei flashback agrodolci coi quali Ford già giocava sapientemente in A Single Man.E così mentre Susan legge il manoscritto, nella sua mente visualizza la storia di Edward, un marito e un padre la cui vita cambierà per sempre nel corso di una terribile notte, e noi osserviamo questi due film che si sovrappongono egoisticamente uno sull’altro, ognuno dei quali sembra voler rendere il sopravvento, quasi a volersi soffocare a vicenda. Un po’ come si fa nelle relazioni. L’amore rende feroci, diceva Oliver Stone in uno dei suoi film meno riusciti, Le Belve.
Coincidenza anche in quel film c’era Aaron Taylor-Johnson, qui magistrale interprete di Ray, lo psicopatico antagonista col quale Edward e il detective Bobby Andes (un gigantesco Michael Shannon) dovranno fare i conti nel film-dentro-al-film.Una pellicola che è un mix fra David Lynch e Alfred Hitchcock, un sontuoso melodramma dalle forti tinte noir con il quale Ford conferma le eccezionali abilità di narratore e visionario già dimostrate in A Single Man. Il suo sguardo fine e meticoloso sa al tempo stesso indagare le anime dei personaggi e studiare con raffinatezza ogni aspetto formale della pellicola, dai colori delle scenografie alle composizioni delle singole inquadrature.Per ovvi motivi un regista omosessuale non è in grado di rendere sensuale una donna (come invece erano attraenti e seducenti tutti gli uomini di A Single Man), ma non è tanto la seduzione che Ford cerca in Amy Adams, quanto l’eleganza. Com’è elegante ogni dettaglio all’interno dei due film contenuti in Animali Notturni, del resto: perfino il deserto del Texas sembra tirato a lucido, e anche la morte diventa un’opera d’arte moderna, coi cadaveri che sembrano essere in posa per farsi ammirare.Il finale è sorprendentemente coraggioso e a prima vista potrà sembrarvi ambiguo, ma di ambiguo non ha proprio nulla. Chiude il cerchio sul discorso della vendetta che ritorna per tutto il film, ed è semplicemente perfetto per entrambe le storie.
JOANNE - Lady Gaga
di Valeria Piras
La splendida Gaga volta pagina e si fa più profonda.
Sono passati ben tre anni dal suo ultimo disco "Art-pop" e la ribelle Lady Gaga torna col suo nuovo ed attesissimo lavoro in studio: "Joanne". Per chi pensasse che la splendida Gaga abbia deciso di mettere la testa a posto ci saranno delle delusioni, perché il disco "Joanne" è un altro atto dell'opera teatrale a cui facevamo riferimento sopra. Il fiasco di "Artpop" aveva portato la cantautrice americana fuori strada: Gaga sembrava essersi persa, disorientata. Quando ha ripreso a scrivere, ha cominciato ad analizzare il suo passato e la sua famiglia, riscoprendo anche la storia di Joanne Germanotta (da qui il titolo), una sua zia morta a soli vent’anni. Ha deciso di circondarsi solo di fidati collaboratori tra produttori e musicisti e quando è stato il momento di ritornare alla musica, la scelta è stata quella di diminuire la quantità di lustrini e stranezze e dare un'immagine più pura e genuina: l'uscita del nuovo disco è stata anticipata da un tour che ha visto Gaga esibirsi in alcuni piccoli locali americani, come a voler ripartire dal basso.
"Joanne" è un album dall'attitudine rock'n'roll in cui Lady Gaga si spoglia e si mette a nudo, musicalmente parlando, mostrandoci il suo lato più emotivo e personale (in "Diamond heart" fa anche un accenno agli abusi sessuali subiti a 19 anni). Il disco, prodotto dalla cantautrice insieme a Mark Ronson e BloodPop (con la partecipazione di Kevin Parker dei Tame Impala, di Jeff Bhasker e di Emile Haynie), è spiazzante: piuttosto che ritornare ai pezzoni dance-pop degli esordi, Gaga sembra aver intrapreso l'ennesima nuova strada. A livello di sonorità, l'album mette insieme episodi più vicini al pop-rock ("Diamond heart", "Perfect illusion"), al country rock e all'indie rock ("A-YO", "Joanne", "Sinner's prayer" - con lo zampino di Father John Misty), al country blues ("Come to mama") e alle ballad pianistiche (la bellissima "Million reasons" e "Angel down"). L'elettronica c'è, ma viene relegata sullo sfondo, con il worldbeat in stile M.I.A. di "Dancin' in circles" (c'è lo zampino di Beck) e il duetto con Florence Welch su "Hey girl", che però sembra essere più vicino a certe produzioni anni '80 di Prince e Michael Jackson piuttosto che alle hit tamarre della prima Lady Gaga.
In uno dei momenti migliori del precedente album, il ritornello di "Aura", Gaga cantava: "Vuoi vedere la ragazza che si nasconde dietro l'aura, dietro il sipario, dietro il burqa?". E ce l'aveva fatta quasi vedere, quella ragazza che si nascondeva dietro il sipario: però, poi, il velo non lo squarciava. Ora, invece, il burqa lo lascia cadere a terra e non fa niente per raccoglierlo e ricoprirsi: Gaga ci mostra il suo volto puro, i suoi occhi e il suo "Diamond heart". "Dove sta il trucco? Dove sta l'inganno? I suoi fan capiranno questa ennesima svolta?", ti chiedi. Perché "Joanne" è un disco che disorienta e stordisce: sembra quasi una finzione dentro la finzione. Lei, per rassicurarci, sorride. Ma più che un sorriso rassicurante, il suo, sembra un ghigno beffardo: e se questo volto così puro fosse solamente un'altra maschera, una "perfetta illusione"?
ORONERO - Giorgia
di Valeria Piras
Torna Giorgia con un elettro-pop che conquista davvero.
Oronero è il nuovissimo lavoro della talentuosa Giorgia.Dopo due anni di duro lavoro in studio insieme al grande Michele Canova, vede la luce un disco davvero intenso e nuovo nell'impostazione. L'album è stato registrato tra Milano e Los Angeles, ed era previsto che uscisse già la scorsa primavera, ma Giorgia ha voluto prendersi un po' più di tempo e ne ha posticipato la pubblicazione di qualche mese. L'idea di base era di riprendere l'elettronica di "Dietro le apparenze", soprattutto nelle ritmiche, mettendo in primo piano sintetizzatori, programmazioni ritmiche e beat, riservando al tempo stesso uno spazio al tocco umano di musicisti "veri", "umani" (Alex Alessandroni Jr., Emanuel Lo, Tim Pierce, Christian Rigano e lo stesso Canova). Però la stessa Giorgia ha affermato che pochi mesi prima dell'uscita ha voluto comunque rimettere le mani e rimaneggiare alcuni aspetti.Una cosa che colpisce di "Oronero", musicalmente parlando, è il numero di strumenti impiegati nelle registrazioni, pochissimi: pianoforte, tastiere, Rhodes, sintetizzatori e chitarre elettriche. Addirittura, manca il basso, il basso "vero", quello suonato da un bassista "umano".Oronero, quindi possiede un'anima anzitutto elettronica. Metà disco si riallaccia, quasi senza soluzione di continuità, all'elettropop e alla dance di "Dietro le apparenze".
È così - ad esempio - in "Credo", un pezzo di Tony Maiello, Daniele Rea, Domenico Abbate e Enrico Palmosi, con un ritornello ballabile scandito da una cassa in quattro potentissima (sarà uno dei prossimi singoli estratti dal disco?). È così in "Danza", testo di Giorgia su musica degli autori americani Bryce Fox, Pete Nappi, Matt Parad e Felicia Barton, dove l'elettronica si fa più marcata e nel finale la cantante si improvvisa anche rapper. Ma "Oronero" ha anche una forte sfumatura acustica: l'altra metà del disco è composta di ballad intimiste che, in qualche modo, riportano Giorgia nella sua zona comfort, nei suoi territori. Nel singolo "Oronero", ad esempio, dove il canto di Giorgia si fa quasi parlato, seguendo un po' l'esempio delle ultime produzioni di Marco Mengoni (in sottofondo ci sono dei bassi potentissimi).
La stessa cosa succede in "Grande maestro", caratterizzata dal gioco delle armonie vocali realizzate "sdoppiando" la voce della cantante. "Per non pensarti", parole di Giorgia e musica di Lucie Silvas, Tommy Lee James e Andrew Dorff, è un'altra ballad classica nella struttura, ma con un arrangiamento che la sporca di elettronica. "Sempre si cambia", una canzone sul cambiamento, è frutto della collaborazione con Pacifico, che ne ha scritto parole e musica.Sullo sfondo, quasi in disparte, restano due canzoni. Se ne stanno lì, silenziose, timide, con la testa bassa. Sono due canzoni dall'attitudine introversa e introspettiva: "Posso farcela" e "Non fa niente". Le ha scritte Giorgia, da sola, parole e musica. La cantante parla a sé stessa di una persona che se ne è andata, che non c'è più. Ecco: in questo loro rimanere in disparte, queste due canzoni sembrano quasi le più efficaci del disco. Sembra che Giorgiasi ponga lì allo specchio e faccia i conti con i suoi demoni.
Oronero è il nuovissimo lavoro della talentuosa Giorgia.Dopo due anni di duro lavoro in studio insieme al grande Michele Canova, vede la luce un disco davvero intenso e nuovo nell'impostazione. L'album è stato registrato tra Milano e Los Angeles, ed era previsto che uscisse già la scorsa primavera, ma Giorgia ha voluto prendersi un po' più di tempo e ne ha posticipato la pubblicazione di qualche mese. L'idea di base era di riprendere l'elettronica di "Dietro le apparenze", soprattutto nelle ritmiche, mettendo in primo piano sintetizzatori, programmazioni ritmiche e beat, riservando al tempo stesso uno spazio al tocco umano di musicisti "veri", "umani" (Alex Alessandroni Jr., Emanuel Lo, Tim Pierce, Christian Rigano e lo stesso Canova). Però la stessa Giorgia ha affermato che pochi mesi prima dell'uscita ha voluto comunque rimettere le mani e rimaneggiare alcuni aspetti.Una cosa che colpisce di "Oronero", musicalmente parlando, è il numero di strumenti impiegati nelle registrazioni, pochissimi: pianoforte, tastiere, Rhodes, sintetizzatori e chitarre elettriche. Addirittura, manca il basso, il basso "vero", quello suonato da un bassista "umano".Oronero, quindi possiede un'anima anzitutto elettronica. Metà disco si riallaccia, quasi senza soluzione di continuità, all'elettropop e alla dance di "Dietro le apparenze".
È così - ad esempio - in "Credo", un pezzo di Tony Maiello, Daniele Rea, Domenico Abbate e Enrico Palmosi, con un ritornello ballabile scandito da una cassa in quattro potentissima (sarà uno dei prossimi singoli estratti dal disco?). È così in "Danza", testo di Giorgia su musica degli autori americani Bryce Fox, Pete Nappi, Matt Parad e Felicia Barton, dove l'elettronica si fa più marcata e nel finale la cantante si improvvisa anche rapper. Ma "Oronero" ha anche una forte sfumatura acustica: l'altra metà del disco è composta di ballad intimiste che, in qualche modo, riportano Giorgia nella sua zona comfort, nei suoi territori. Nel singolo "Oronero", ad esempio, dove il canto di Giorgia si fa quasi parlato, seguendo un po' l'esempio delle ultime produzioni di Marco Mengoni (in sottofondo ci sono dei bassi potentissimi).
La stessa cosa succede in "Grande maestro", caratterizzata dal gioco delle armonie vocali realizzate "sdoppiando" la voce della cantante. "Per non pensarti", parole di Giorgia e musica di Lucie Silvas, Tommy Lee James e Andrew Dorff, è un'altra ballad classica nella struttura, ma con un arrangiamento che la sporca di elettronica. "Sempre si cambia", una canzone sul cambiamento, è frutto della collaborazione con Pacifico, che ne ha scritto parole e musica.Sullo sfondo, quasi in disparte, restano due canzoni. Se ne stanno lì, silenziose, timide, con la testa bassa. Sono due canzoni dall'attitudine introversa e introspettiva: "Posso farcela" e "Non fa niente". Le ha scritte Giorgia, da sola, parole e musica. La cantante parla a sé stessa di una persona che se ne è andata, che non c'è più. Ecco: in questo loro rimanere in disparte, queste due canzoni sembrano quasi le più efficaci del disco. Sembra che Giorgiasi ponga lì allo specchio e faccia i conti con i suoi demoni.
QUALCOSA DI NUOVO
di Valeria Piras
Uno sguardo divertente e femminile sulla modernità dei rapporti.
Nelle sale il nuovo film commedia di Cristina Comencini e già questo dovrebbe essere di per se una garanzia di film di un certo livello.Dopo il suo ultimo lavoro datato 2015, ovvero il delizioso Latin Lover, la Comencini torna in sala con una commedia tratta da un proprio spettacolo teatrale, La Scena, a lungo acclamato e sul palco interpretato da Angela Finocchiaro e Maria Amelia Monti. Qui rivisitato dalla stessa Comencini insieme a Giulia Calenda e a Paola Cortellesi. Il film si intitola Qualcosa di Nuovo e guarda alla contemporaneietà dei rapporti e al fenomeno del 'toy boy', che sempre più abbraccia donne mature e mamme, per non dire a volte nonne.Protagoniste Lucia e Maria, amiche da sempre anche se diversissime. La prima ha chiuso con il genere maschile dopo aver preso la classica tranvata, mentre la seconda, madre di due figlie e divorziata, passa da un letto all'altro. Tutto cambia quando incontra colui che considera l'Uomo perfetto. Anzi, più che uomo dovremmo parlare di adolescente.
Maria perde infatti la testa per un 19enne, irruento e saggio, belloccio e ovviamente pieno di vita. Al mattino, però, una serie di incomprensioni, scambi di identità e verità celate porteranno le due amiche a prendersi una vacanza da se' stesse e a scoprire un mondo fino a quel momento inespresso. Una strana coppia, quella scritta e diretta dalla regista de La Bestia nel Cuore, modellata sui volti di Paola Cortellesi e Micaela Ramazzotti. Bacchettona e frigida la prima, neanche a dirlo svampita e facilona la seconda. Nel mezzo un ragazzino che ha il fuoco della passione dentro, a tal punto da scottarle costringendole a lievitare, maturando nei rapporti con l'altro sesso e con il proprio io di donna 'single'.
Arricchita la sceneggiatura rispetto allo spettacolo teatrale, perchè il cinema è differente dal palcoscenico, Qualcosa di Nuovo perde comunque il confronto con la piéce proprio perché ancora troppo artificioso, infarcito di luoghi comuni e incapace di arrivare ad una conclusione se non coraggiosa per lo meno 'sensata'. Proprio nel finale la Comencini perde originalità, esagerando nell'evoluzione di un rapporto 'a tre' che lentamente si fa sempre meno singolare e sempre più forzato. Tra Paola Cortellesi e Micaela Ramazzotti, incredibilmente, è proprio il 25enne nonché quasi esordiente Eduardo Valdarnini, qui 19enne saggio e immaturo, sbruffone e sentimentale, chiacchierone e sessualmente travolgente, a spiccare, dando così una spinta forte a questa bella commedia al femminile moderatamente leggera e capace di tenere la giusta dose di creatività ed interesse per quasi tutta la durata del film.
Nelle sale il nuovo film commedia di Cristina Comencini e già questo dovrebbe essere di per se una garanzia di film di un certo livello.Dopo il suo ultimo lavoro datato 2015, ovvero il delizioso Latin Lover, la Comencini torna in sala con una commedia tratta da un proprio spettacolo teatrale, La Scena, a lungo acclamato e sul palco interpretato da Angela Finocchiaro e Maria Amelia Monti. Qui rivisitato dalla stessa Comencini insieme a Giulia Calenda e a Paola Cortellesi. Il film si intitola Qualcosa di Nuovo e guarda alla contemporaneietà dei rapporti e al fenomeno del 'toy boy', che sempre più abbraccia donne mature e mamme, per non dire a volte nonne.Protagoniste Lucia e Maria, amiche da sempre anche se diversissime. La prima ha chiuso con il genere maschile dopo aver preso la classica tranvata, mentre la seconda, madre di due figlie e divorziata, passa da un letto all'altro. Tutto cambia quando incontra colui che considera l'Uomo perfetto. Anzi, più che uomo dovremmo parlare di adolescente.
Maria perde infatti la testa per un 19enne, irruento e saggio, belloccio e ovviamente pieno di vita. Al mattino, però, una serie di incomprensioni, scambi di identità e verità celate porteranno le due amiche a prendersi una vacanza da se' stesse e a scoprire un mondo fino a quel momento inespresso. Una strana coppia, quella scritta e diretta dalla regista de La Bestia nel Cuore, modellata sui volti di Paola Cortellesi e Micaela Ramazzotti. Bacchettona e frigida la prima, neanche a dirlo svampita e facilona la seconda. Nel mezzo un ragazzino che ha il fuoco della passione dentro, a tal punto da scottarle costringendole a lievitare, maturando nei rapporti con l'altro sesso e con il proprio io di donna 'single'.
Arricchita la sceneggiatura rispetto allo spettacolo teatrale, perchè il cinema è differente dal palcoscenico, Qualcosa di Nuovo perde comunque il confronto con la piéce proprio perché ancora troppo artificioso, infarcito di luoghi comuni e incapace di arrivare ad una conclusione se non coraggiosa per lo meno 'sensata'. Proprio nel finale la Comencini perde originalità, esagerando nell'evoluzione di un rapporto 'a tre' che lentamente si fa sempre meno singolare e sempre più forzato. Tra Paola Cortellesi e Micaela Ramazzotti, incredibilmente, è proprio il 25enne nonché quasi esordiente Eduardo Valdarnini, qui 19enne saggio e immaturo, sbruffone e sentimentale, chiacchierone e sessualmente travolgente, a spiccare, dando così una spinta forte a questa bella commedia al femminile moderatamente leggera e capace di tenere la giusta dose di creatività ed interesse per quasi tutta la durata del film.
STRANGE LITTLE BIRDS - Garbage
di Valeria Piras
La vera rivoluzione rock è restare fedeli a se stessi.
I Garbage sono da anni una band molto alternativa e questo è riconosciuto da tutti, pubblico e critica. Molti ritengono che i loro dischi siano caratterizzati da un leggero alone di persistente malinconia, fin dai loro esordi da venti anni a questa parte e che su tutto domini sempre e comunque la personalità stravagante di Shirley Manson. Forse però la loro unicità sta nel fatto che anche in tempi come i nostri in cui tutto cambia in fretta e gli stessi artisti si trovano di fronte alla scelta scomoda di dover spesso reinventarsi, i Garbage compiono la stravaganza di restare loro stessi, album dopo album. La loro ultima fatica si intitola “Strange little birds” e la loro tipica cifra stilistica è riconoscibile dal primo all’ultimo pezzo del disco, ma con quel pizzico di freschezza che rende il prodotto davvero coerente con il panorama musicale attuale. Il tutto sfumato con tinte che sono più scure del solito. Strange little birds è un disco che celebra la fragilità umana. A ben guardare, tutte le tracce insistono molto sui temi del buio, di perdita e di solitudine, a partire da titoli esplicativi come “Empty”, “Blackout” o “Night drive loneliness”.
Dunque, medaglia al valore per la costanza. Ma non solo, medaglia al valore per il coraggio: le tracce sono estremamente lunghe rispetto a ciò che sentiamo passare in radio e in alcuni casi l’uso di campionamenti dilata i brani fino al limite, sfiorando una certa ridondanza. Verrà da chiedersi, anche con un certo sconforto: ne vale davvero la pena? Tranquilli, nonostante la malinconia che abbiamo tirato fuori finora (in pieno stile Garbage, s’intende), si tratta comunque di una storia a lieto fine: la risposta è che sì, ne vale la pena. “Sometimes” ci accoglie con un’introduzione fatta di attesa. È un pezzo che cresce sotto campionamenti inquietanti, e la melodia a tratti dissonante si siede su un ritmo trip hop che già convince: un’atmosfera che trova la sua ideale prosecuzione in “Blackout” e in “If I lost you”. Irrompe il singolo “Empty”, con il suono pieno, le chitarre metalliche e un chorus che ti trovi a canticchiare anche quando la canzone è finita da un pezzo. Colpisce il clima di “Even though our love is doomed”, in cui la sensazione di vuoto è legata al testo straziante, con la voce che quasi si spezza sull’inciso "why we kill the things we love the most?".
Il sound robotico di “Magnetized” suggerisce una certa varietà di stile, mentre il successivo “We never tell” sembra strizzare l’occhio ai Garbage di vent’anni fa. Quasi in chiusura di album troviamo “So we can stay alive” in cui l’incedere decadente e ipnotico è interrotto da chitarre feroci, e “Teaching little fingers to play” in cui la malinconia si fonde a un groove incalzante. “Amends” chiude il tutto con gli spettrali effetti della voce. Insomma, “Strange little birds” è un album ricco e coeso, da ascoltare davvero nella sua interezza, a dimostrazione del fatto che per quanto le mode possano passare, i Garbage restano.
I Garbage sono da anni una band molto alternativa e questo è riconosciuto da tutti, pubblico e critica. Molti ritengono che i loro dischi siano caratterizzati da un leggero alone di persistente malinconia, fin dai loro esordi da venti anni a questa parte e che su tutto domini sempre e comunque la personalità stravagante di Shirley Manson. Forse però la loro unicità sta nel fatto che anche in tempi come i nostri in cui tutto cambia in fretta e gli stessi artisti si trovano di fronte alla scelta scomoda di dover spesso reinventarsi, i Garbage compiono la stravaganza di restare loro stessi, album dopo album. La loro ultima fatica si intitola “Strange little birds” e la loro tipica cifra stilistica è riconoscibile dal primo all’ultimo pezzo del disco, ma con quel pizzico di freschezza che rende il prodotto davvero coerente con il panorama musicale attuale. Il tutto sfumato con tinte che sono più scure del solito. Strange little birds è un disco che celebra la fragilità umana. A ben guardare, tutte le tracce insistono molto sui temi del buio, di perdita e di solitudine, a partire da titoli esplicativi come “Empty”, “Blackout” o “Night drive loneliness”.
Dunque, medaglia al valore per la costanza. Ma non solo, medaglia al valore per il coraggio: le tracce sono estremamente lunghe rispetto a ciò che sentiamo passare in radio e in alcuni casi l’uso di campionamenti dilata i brani fino al limite, sfiorando una certa ridondanza. Verrà da chiedersi, anche con un certo sconforto: ne vale davvero la pena? Tranquilli, nonostante la malinconia che abbiamo tirato fuori finora (in pieno stile Garbage, s’intende), si tratta comunque di una storia a lieto fine: la risposta è che sì, ne vale la pena. “Sometimes” ci accoglie con un’introduzione fatta di attesa. È un pezzo che cresce sotto campionamenti inquietanti, e la melodia a tratti dissonante si siede su un ritmo trip hop che già convince: un’atmosfera che trova la sua ideale prosecuzione in “Blackout” e in “If I lost you”. Irrompe il singolo “Empty”, con il suono pieno, le chitarre metalliche e un chorus che ti trovi a canticchiare anche quando la canzone è finita da un pezzo. Colpisce il clima di “Even though our love is doomed”, in cui la sensazione di vuoto è legata al testo straziante, con la voce che quasi si spezza sull’inciso "why we kill the things we love the most?".
Il sound robotico di “Magnetized” suggerisce una certa varietà di stile, mentre il successivo “We never tell” sembra strizzare l’occhio ai Garbage di vent’anni fa. Quasi in chiusura di album troviamo “So we can stay alive” in cui l’incedere decadente e ipnotico è interrotto da chitarre feroci, e “Teaching little fingers to play” in cui la malinconia si fonde a un groove incalzante. “Amends” chiude il tutto con gli spettrali effetti della voce. Insomma, “Strange little birds” è un album ricco e coeso, da ascoltare davvero nella sua interezza, a dimostrazione del fatto che per quanto le mode possano passare, i Garbage restano.
AL POSTO TUO
di Valeria Piras
La commedia italiana che stupisce e intrattiene. Ottimo lavoro.
Il giovane regista Max Croci,dopo la commedia romantica Poli Opposti, uscita nel 2015, torna nelle sale con una nuova commedia stile americano intitolata Al posto tuo.Un film dal sapore italianissimo che vede protagonisti Luca Argentero e Stefano Fresi nei panni di Rocco Fontana (Stefano Fresi) e Luca Molteni (Luca Argentero), due uomini completamente diversi, costretti da un gioco maligno del loro capo, la signora Welter (Pia Lanciotti) a scambiarsi la vita e gli affetti per una settimana, affinché ognuno riesca a cogliere la qualità dell’altra e presenti un eccellente prodotto (sono rispettivamente geometra ed architetto per un’azienda di sanitari) al compratore nipponico. Stefano Fresi è la spalla comica ideale, in coppia con Argentero funziona molto bene riversando sullo schermo un forte affiatamento. Il film ringrazia e ne beneficia. Molto ben delineate poi le quattro figure femminili che ruotano intorno ai protagonisti: l’esplosiva e travolgente suocera naif di Rocco interpretata da Fioretta Mari, la sinuosa e accattivante Anna, interpretata da Serena Rossi, che farà cambiare prospettiva allo sciupafemmine Luca, l’eccentrica e seduttiva vicina di casa di Luca, Grazia Schiavo e la perfettina e burbera Claudia moglie di Rocco interpretata da un Ambra Angiolini che da vita in modo esplosivo ad uno dei suoi migliori personaggi.
Al Posto Tuo è un film che ne contiene due separati o, che dir si voglia, è un film con due episodi intrecciati ma sostanzialmente distinti. Purtroppo non si può nemmeno dire che le due tracce siano ascoltabili da sole, tanto l’amalgama suona stonata. Alcuni ruoli sono infatti tarati su standard teatrali caricati (il capo, le sfortunate avventure occasionali di Fresi, la personal trainer e addirittura l’acquirente giapponese), mentre i protagonisti e il loro mondo vivono di battute e recitazione più realiste. Il film è ripreso con stile invisibile ma, solo in alcuni tratti, le scene in azienda sembrano avere le soluzioni di regia e la camera a mano di The Office. Le gag sono principalmente fisiche e non veicolate attraverso i dialoghi ma, come già detto, poi i due corpi del cartellone sono sfruttati pochissimo.
Non brillando particolarmente per sceneggiatura e regia con movimenti di macchina frettolosi ed in alcune scene inadatti, Al posto tuo intrattiene grazie alla bravura degli attori protagonisti che creano due caratteri maschili diversi ma in perfetto equilibrio, intorno ai quali si muovono quattro figure femminili ben caratterizzate e travolgenti. Leggero, piacevole e dalla colonna sonora ben scelta che coniuga musiche originali, pezzi pop/rock e qualche brano di repertorio dal sapore vagamente vintage.
Il giovane regista Max Croci,dopo la commedia romantica Poli Opposti, uscita nel 2015, torna nelle sale con una nuova commedia stile americano intitolata Al posto tuo.Un film dal sapore italianissimo che vede protagonisti Luca Argentero e Stefano Fresi nei panni di Rocco Fontana (Stefano Fresi) e Luca Molteni (Luca Argentero), due uomini completamente diversi, costretti da un gioco maligno del loro capo, la signora Welter (Pia Lanciotti) a scambiarsi la vita e gli affetti per una settimana, affinché ognuno riesca a cogliere la qualità dell’altra e presenti un eccellente prodotto (sono rispettivamente geometra ed architetto per un’azienda di sanitari) al compratore nipponico. Stefano Fresi è la spalla comica ideale, in coppia con Argentero funziona molto bene riversando sullo schermo un forte affiatamento. Il film ringrazia e ne beneficia. Molto ben delineate poi le quattro figure femminili che ruotano intorno ai protagonisti: l’esplosiva e travolgente suocera naif di Rocco interpretata da Fioretta Mari, la sinuosa e accattivante Anna, interpretata da Serena Rossi, che farà cambiare prospettiva allo sciupafemmine Luca, l’eccentrica e seduttiva vicina di casa di Luca, Grazia Schiavo e la perfettina e burbera Claudia moglie di Rocco interpretata da un Ambra Angiolini che da vita in modo esplosivo ad uno dei suoi migliori personaggi.
Al Posto Tuo è un film che ne contiene due separati o, che dir si voglia, è un film con due episodi intrecciati ma sostanzialmente distinti. Purtroppo non si può nemmeno dire che le due tracce siano ascoltabili da sole, tanto l’amalgama suona stonata. Alcuni ruoli sono infatti tarati su standard teatrali caricati (il capo, le sfortunate avventure occasionali di Fresi, la personal trainer e addirittura l’acquirente giapponese), mentre i protagonisti e il loro mondo vivono di battute e recitazione più realiste. Il film è ripreso con stile invisibile ma, solo in alcuni tratti, le scene in azienda sembrano avere le soluzioni di regia e la camera a mano di The Office. Le gag sono principalmente fisiche e non veicolate attraverso i dialoghi ma, come già detto, poi i due corpi del cartellone sono sfruttati pochissimo.
Non brillando particolarmente per sceneggiatura e regia con movimenti di macchina frettolosi ed in alcune scene inadatti, Al posto tuo intrattiene grazie alla bravura degli attori protagonisti che creano due caratteri maschili diversi ma in perfetto equilibrio, intorno ai quali si muovono quattro figure femminili ben caratterizzate e travolgenti. Leggero, piacevole e dalla colonna sonora ben scelta che coniuga musiche originali, pezzi pop/rock e qualche brano di repertorio dal sapore vagamente vintage.
TOMMASO
di Valeria Piras
Secondo film da regista per K.R.Stuart.Davvero ricco di coraggio.
Tra qualche giorno nelle sale arriva il nuovissimo film con Kim Rossi Stuart nelle vesti di regista e attore protagonista, intitolato Tommaso. Si tratta del quinto film negli ultimi dieci anni per l’attore romano, anni che a causa anche di episodi personali lo hanno molto segnato. E’ la sua seconda opera come regista dopo il suo lontanissimo esordio col film Anche Libero va bene. La proiezione del film alla Mostra di Venezia ha soddisfatto un po’ tutti, Kim Rossi Stuart ha indossato gli abiti di Nanni Moretti, a lui sorprendentemente congeniali e senza scimmiottarli. C'è la barba morettiana, il ciuffo castano morettiano, i vestiti morettiani e persino Jasmine Trinca, in questo Tommaso che spazia tra Freud e rapporti uomo-donna, visioni oniriche e complessa realtà, agognato sesso e inarrivabile amore, distacco materno e mancanza paterna.
Sceneggiato dal talentuoso Federico Starnone e dallo stesso Rossi Stuart, tanto da poterlo probabilmente definire in parte autobiografico, il film prova a nuotare nel movimentato io del protagonista, senza però eccedere nei toni ma anzi tenendoli a freno nei momenti di eccessivo pathos. Una specie di analisi psicologica di un adulto accartocciato su se' stesso e sulla costante ricerca di quel bambino interiore da tempo smarrito, collezionista di belle ragazze (prima Jasmine Trinca, poi Cristiana Capotondi ed infine la verace e travolgente Camilla Diana) nonché bisognoso di un sano equilibrio con il tanto amato universo femminile, da lui segretamente temuto.
Incapace di prendere una precisa posizione nella vita. Il film cerca di strizzare l’occhio al genere commedia ma di fondo è molto altro, una profonda lettura psicanalitica inondata da erotiche ed animalesche visioni e forse è proprio questa la caratteristica del film. In definitiva possiamo ammettere che il film d’esordio Anche Libero va bene era molto più semplice e comprensibile e per questo forse piacerà ancora di più rispetto a questa sua opera seconda ma Tommaso, in un certo senso, è un'opera più coraggiosa, libera, certamente non perfetta, ma che non trasmette mai un senso di estraneità, neppure se si è donne che di Tommasi (per fortuna) non ne hanno mai incontrato.
Tra qualche giorno nelle sale arriva il nuovissimo film con Kim Rossi Stuart nelle vesti di regista e attore protagonista, intitolato Tommaso. Si tratta del quinto film negli ultimi dieci anni per l’attore romano, anni che a causa anche di episodi personali lo hanno molto segnato. E’ la sua seconda opera come regista dopo il suo lontanissimo esordio col film Anche Libero va bene. La proiezione del film alla Mostra di Venezia ha soddisfatto un po’ tutti, Kim Rossi Stuart ha indossato gli abiti di Nanni Moretti, a lui sorprendentemente congeniali e senza scimmiottarli. C'è la barba morettiana, il ciuffo castano morettiano, i vestiti morettiani e persino Jasmine Trinca, in questo Tommaso che spazia tra Freud e rapporti uomo-donna, visioni oniriche e complessa realtà, agognato sesso e inarrivabile amore, distacco materno e mancanza paterna.
Sceneggiato dal talentuoso Federico Starnone e dallo stesso Rossi Stuart, tanto da poterlo probabilmente definire in parte autobiografico, il film prova a nuotare nel movimentato io del protagonista, senza però eccedere nei toni ma anzi tenendoli a freno nei momenti di eccessivo pathos. Una specie di analisi psicologica di un adulto accartocciato su se' stesso e sulla costante ricerca di quel bambino interiore da tempo smarrito, collezionista di belle ragazze (prima Jasmine Trinca, poi Cristiana Capotondi ed infine la verace e travolgente Camilla Diana) nonché bisognoso di un sano equilibrio con il tanto amato universo femminile, da lui segretamente temuto.
Incapace di prendere una precisa posizione nella vita. Il film cerca di strizzare l’occhio al genere commedia ma di fondo è molto altro, una profonda lettura psicanalitica inondata da erotiche ed animalesche visioni e forse è proprio questa la caratteristica del film. In definitiva possiamo ammettere che il film d’esordio Anche Libero va bene era molto più semplice e comprensibile e per questo forse piacerà ancora di più rispetto a questa sua opera seconda ma Tommaso, in un certo senso, è un'opera più coraggiosa, libera, certamente non perfetta, ma che non trasmette mai un senso di estraneità, neppure se si è donne che di Tommasi (per fortuna) non ne hanno mai incontrato.
ESCOBAR
di Valeria Piras
La storia di un paradiso perduto nell'eterna lotta tra Bene e Male.
Escobar è il nuovo biopic dedicato alla rocambolesca vita del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar.Il regista è l'italiano Andrea Di Stefano, ricco di talento che ha confessato di essere sempre stato attratto dalla vita di Escobar nel bene e nel male, e che esalta il ruolo da pater familias del capo colombiano che ha tutto sotto controllo (o almeno crede), al quale i suoi sottoposti obbediscono ciecamente. Il titolo originale del film è in realtà Paradise Lost che risulta essere molto esplicativo poichè questa in realtà è la storia del giovane Nick (Josh Hutcherson), che si innamora della nipote del trafficante di droga e da allora entra in un universo che gli cambierà radicalmente la vita. Sarà perché la figura di questo controverso personaggio in parte lo impone, sarà perché è effettivamente meno complesso adeguarsi a certi canoni, ma il manicheismo di fondo non ammette replica: esiste il Bene ed esiste il Male, ma soprattutto ci vuole poco ad identificarli. Solo Nick fa fatica e di lì a poco viene costretto a fare i conti con questa sua mancata perspicacia. Tuttavia, come evidenziato poco sopra, Escobar non si atteggia a ciò che non è, cercando di rimanere coi piedi per terra, raccontando una storia.
Quella di un giovane caduto in una ragnatela da cui apparentemente non c’è alcun modo di sfuggire.Emerge pure una venatura di mito nella misura in cui, consapevolmente o meno, il film di Di Stefano allude a questo ragazzo che si allontana troppo dal recinto, là dove nessuno può proteggerlo, segnando al tempo stesso quel rito di passaggio ineludibile ed in questo caso violento. Ed è onesto, come scritto sopra, proprio in virtù di questo suo tenere conto della posta in gioco, di non forzare troppo malgrado le necessità narrative, il bisogno di tenere desta l’attenzione pur parlando di una vicenda per lo più fittizia sebbene tratta da un episodio realmente accaduto.
Non dispiace l’intenzione di Di Stefano, che opta per un thriller più ragionato, competente ma non al cardiopalmo, lasciando che i conflitti di fondo ci tocchino anche se poi alla fine per lo più ci sfiorano. Il trade off però non ripaga appieno, tanto da chiedersi se il gioco sia valso la candela. L’andatura cadenzata di questo suo ritratto, che è quello di una fuga con ritorno, in realtà è meno pregno di ciò che sembra. Troppo dimesso, probabilmente perché troppo fiducioso nel carisma del suo co-protagonista e nella forza di una storia che tratta una situazione se vogliamo estrema. Da tale sproporzione viene fuori il film, piccolo, girato con criterio ma che ci passa davanti con eccessiva disinvoltura.
Escobar è il nuovo biopic dedicato alla rocambolesca vita del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar.Il regista è l'italiano Andrea Di Stefano, ricco di talento che ha confessato di essere sempre stato attratto dalla vita di Escobar nel bene e nel male, e che esalta il ruolo da pater familias del capo colombiano che ha tutto sotto controllo (o almeno crede), al quale i suoi sottoposti obbediscono ciecamente. Il titolo originale del film è in realtà Paradise Lost che risulta essere molto esplicativo poichè questa in realtà è la storia del giovane Nick (Josh Hutcherson), che si innamora della nipote del trafficante di droga e da allora entra in un universo che gli cambierà radicalmente la vita. Sarà perché la figura di questo controverso personaggio in parte lo impone, sarà perché è effettivamente meno complesso adeguarsi a certi canoni, ma il manicheismo di fondo non ammette replica: esiste il Bene ed esiste il Male, ma soprattutto ci vuole poco ad identificarli. Solo Nick fa fatica e di lì a poco viene costretto a fare i conti con questa sua mancata perspicacia. Tuttavia, come evidenziato poco sopra, Escobar non si atteggia a ciò che non è, cercando di rimanere coi piedi per terra, raccontando una storia.
Quella di un giovane caduto in una ragnatela da cui apparentemente non c’è alcun modo di sfuggire.Emerge pure una venatura di mito nella misura in cui, consapevolmente o meno, il film di Di Stefano allude a questo ragazzo che si allontana troppo dal recinto, là dove nessuno può proteggerlo, segnando al tempo stesso quel rito di passaggio ineludibile ed in questo caso violento. Ed è onesto, come scritto sopra, proprio in virtù di questo suo tenere conto della posta in gioco, di non forzare troppo malgrado le necessità narrative, il bisogno di tenere desta l’attenzione pur parlando di una vicenda per lo più fittizia sebbene tratta da un episodio realmente accaduto.
Non dispiace l’intenzione di Di Stefano, che opta per un thriller più ragionato, competente ma non al cardiopalmo, lasciando che i conflitti di fondo ci tocchino anche se poi alla fine per lo più ci sfiorano. Il trade off però non ripaga appieno, tanto da chiedersi se il gioco sia valso la candela. L’andatura cadenzata di questo suo ritratto, che è quello di una fuga con ritorno, in realtà è meno pregno di ciò che sembra. Troppo dimesso, probabilmente perché troppo fiducioso nel carisma del suo co-protagonista e nella forza di una storia che tratta una situazione se vogliamo estrema. Da tale sproporzione viene fuori il film, piccolo, girato con criterio ma che ci passa davanti con eccessiva disinvoltura.
UNA SOMMA DI PICCOLE COSE - N.Fabi
di Valeria Piras
Fabi fa centro.Un disco nuovo e intenso che accende sensi e cervello.
Una Somma di Piccole Cose è il nuovo album del cantautore romano Niccolò Fabi ed è l’ennesimo disco che sancisce la maturità artistica del cantante. Ogni nuovo disco Fabi riesce ad andare oltre il concetto di maturità e a donarci veri piccoli trattati musicali in cui il testo delle canzoni ben rispecchia la sua laurea in filosofia. Insomma parole che lasciano il segno sempre. Nel precedente disco “Ecco”, per esempio, la completezza sia dal punto di vista dei testi che musicale dava l’impressione che Fabi avesse trovato la quadra, la sua cifra espressiva. In questo suo ottavo disco solista ascoltandolo sembra quasi di trovarsi davanti a un concept album, uniforme, raccolto. D'altronde, mai come in queste nove canzoni il legame fra Niccolò Fabi e la natura è stato così intenso, così spiccatamente fisico e sensoriale, come fisico è stato l'atto stesso di assecondare i propri istinti, lasciando che il suono di "Una somma di piccole cose" fosse nient'altro che la giara in cui raccogliere l'emorragia dei propri gusti musicali, che hanno tutti un nome e un cognome: Sufjan Stevens, Damien Rice, The Tallest Man On Earth, Sun Kil Moon, Bon Iver.
I punti di contatto con quest'ultimo, peraltro, non riguardano solo il prodotto finale, ma anche la sua autarchica preparazione: "For Emma, Forever Ago" nel selvaggio Wisconsin, "Una somma di piccole cose" nell'antico cratere vulcanico della Valle di Baccano. Non c'è, però, la poetica morbosa di Justin Vernon nell'ultimo lavoro di Niccolò Fabi, quella dell'"amore magro" come i rami pesanti e stanchi dell'inverno statunitense. C'è, invece, una serena arrendevolezza, spiegata come farebbe un bambino nel gioco fanciullesco di "Facciamo finta" (il tributo più diretto a Damien Rice) oppure come la si spiegherebbe alla propria compagna o al proprio figlio. Nel primo caso con "Una mano sugli occhi", l'esatto punto dell'album in cui chi ascolta realizza che, miracolosamente, può ancora esistere una canzone d'amore che non scada nella banale retorica, perché parla di amore vero: sofferto, sudato, tradito, anche rinnegato, se abbisogna del rinnegamento per procurarsi un'altra occasione di rivincita; nel secondo caso con "Le chiavi di casa", sulla difficoltà di lasciare andare quando si è padre. Allora per Niccolò Fabi vince chi lascia.
Ritrovare se stessi mollando la presa e focalizzandosi sul proprio corpo e sul presente più puro, quello dei dettagli fisici: del naso, del cuore, della testa, delle vene, dei polmoni. L'intenzione di prendere coscienza e consapevolezza della propria esistenza per mezzo dell'esperienza sensoriale, in una sorta di meditazione che verrebbe da definire filo-buddista. "Vince chi molla", il nono e ultimo capitolo di questo breve gioiello, è semplicemente questo. Una somma di piccole cose" è essenziale in tutte le sfumature del significato, perché minimalista e perché indispensabile. Il suo tour è partito da Assisi, non a caso la patria di colui che dell'essenziale fu perfetta incarnazione e supremo profeta.
Una Somma di Piccole Cose è il nuovo album del cantautore romano Niccolò Fabi ed è l’ennesimo disco che sancisce la maturità artistica del cantante. Ogni nuovo disco Fabi riesce ad andare oltre il concetto di maturità e a donarci veri piccoli trattati musicali in cui il testo delle canzoni ben rispecchia la sua laurea in filosofia. Insomma parole che lasciano il segno sempre. Nel precedente disco “Ecco”, per esempio, la completezza sia dal punto di vista dei testi che musicale dava l’impressione che Fabi avesse trovato la quadra, la sua cifra espressiva. In questo suo ottavo disco solista ascoltandolo sembra quasi di trovarsi davanti a un concept album, uniforme, raccolto. D'altronde, mai come in queste nove canzoni il legame fra Niccolò Fabi e la natura è stato così intenso, così spiccatamente fisico e sensoriale, come fisico è stato l'atto stesso di assecondare i propri istinti, lasciando che il suono di "Una somma di piccole cose" fosse nient'altro che la giara in cui raccogliere l'emorragia dei propri gusti musicali, che hanno tutti un nome e un cognome: Sufjan Stevens, Damien Rice, The Tallest Man On Earth, Sun Kil Moon, Bon Iver.
I punti di contatto con quest'ultimo, peraltro, non riguardano solo il prodotto finale, ma anche la sua autarchica preparazione: "For Emma, Forever Ago" nel selvaggio Wisconsin, "Una somma di piccole cose" nell'antico cratere vulcanico della Valle di Baccano. Non c'è, però, la poetica morbosa di Justin Vernon nell'ultimo lavoro di Niccolò Fabi, quella dell'"amore magro" come i rami pesanti e stanchi dell'inverno statunitense. C'è, invece, una serena arrendevolezza, spiegata come farebbe un bambino nel gioco fanciullesco di "Facciamo finta" (il tributo più diretto a Damien Rice) oppure come la si spiegherebbe alla propria compagna o al proprio figlio. Nel primo caso con "Una mano sugli occhi", l'esatto punto dell'album in cui chi ascolta realizza che, miracolosamente, può ancora esistere una canzone d'amore che non scada nella banale retorica, perché parla di amore vero: sofferto, sudato, tradito, anche rinnegato, se abbisogna del rinnegamento per procurarsi un'altra occasione di rivincita; nel secondo caso con "Le chiavi di casa", sulla difficoltà di lasciare andare quando si è padre. Allora per Niccolò Fabi vince chi lascia.
Ritrovare se stessi mollando la presa e focalizzandosi sul proprio corpo e sul presente più puro, quello dei dettagli fisici: del naso, del cuore, della testa, delle vene, dei polmoni. L'intenzione di prendere coscienza e consapevolezza della propria esistenza per mezzo dell'esperienza sensoriale, in una sorta di meditazione che verrebbe da definire filo-buddista. "Vince chi molla", il nono e ultimo capitolo di questo breve gioiello, è semplicemente questo. Una somma di piccole cose" è essenziale in tutte le sfumature del significato, perché minimalista e perché indispensabile. Il suo tour è partito da Assisi, non a caso la patria di colui che dell'essenziale fu perfetta incarnazione e supremo profeta.
EVERYTHING AT ONCE - Travis
di Valeria Piras
I Travis provano a ricreare le magie degli esordi.Forse ci sono riusciti.
Chiunque sia stato adolescente nel 1998 conosce i Travis, un gruppo pop-rock di Glasgow che all’epoca arrivò come vento fresco in un settore musicale molto fermo da anni. Ma la carriera dei Travis però sembrava essere rimasta ancorata a quel periodo e nonostante altri album successivi il gruppo non è mai riuscito a eguagliare quel successo. Ora ci riprovano con un nuovo album di inediti intitolato Everything at Once. A dire il vero in questo nuovo disco qualcosa di nuovo c’è, varie tracce somigliano a gemme nascoste di pop-rock che pian piano conquistano con le loro arie gentili, i riff puliti, le atmosfere che sanno farsi gioiose (ricordate la vecchia "Sing"?) o malinconiche con identico, calibrato trasporto. Tutte istanze che il nuovo "Everything at Once", registrato in quegli Hansa Tonstudio berlinesi ormai divenuti una seconda casa per il quartetto scozzese, riesce a toccare. Se la title track -torna a sfruttare quella componente elettronica già assaggiata nel precedente "Where You Stand", un bel sussulto di vera sorpresa lo offre "Idlewild" in cui la cantautrice Josephine Oniyama prova a dare un taglio più moderno a un brano comunque poco consistente.
E la profonda ritrovata ispirazione è forse il tratto più evidente di un album che ha tutta l'aria di collocarsi ai vertici della discografia della band di Glasgow. Un posto d’onore anche per l'azzeccata ballad "3 Miles High", secondo singolo estratto e più diretto rimando al passato britpop, e per il positivo uptempo "Magnificent Time", incorniciato dal più arioso tra i chorus del lotto.
La rassicurante e agrodolce "What Will Come" è puro Travis-style, e sfiora in alcuni momenti le versioni dei classici della band. "Animals" e "Strangers on a Train" (che torna a prendere le mosse dal piano) potrebbero uscire da un qualsiasi album degli ultimi U2, mentre l'incerta "Radio Song" e la magniloquente "Paralysed" si contraddistinguono per un mood più oscuro. Che i Travis sappiano ancora scrivere delle sincere pop song ce lo ricorda invece "All of the Places", che con i suoi arpeggi si candida a fare da colonna sonora alla bella stagione ormai alle porte. Tutto sommato, anche nei loro capitoli meno ispirati i Travis riescono a sfoderare due-tre assi nella manica. E anche questo è rassicurante, forse la band è riuscita a tirarsi fuori dai vecchi fantasmi.
Chiunque sia stato adolescente nel 1998 conosce i Travis, un gruppo pop-rock di Glasgow che all’epoca arrivò come vento fresco in un settore musicale molto fermo da anni. Ma la carriera dei Travis però sembrava essere rimasta ancorata a quel periodo e nonostante altri album successivi il gruppo non è mai riuscito a eguagliare quel successo. Ora ci riprovano con un nuovo album di inediti intitolato Everything at Once. A dire il vero in questo nuovo disco qualcosa di nuovo c’è, varie tracce somigliano a gemme nascoste di pop-rock che pian piano conquistano con le loro arie gentili, i riff puliti, le atmosfere che sanno farsi gioiose (ricordate la vecchia "Sing"?) o malinconiche con identico, calibrato trasporto. Tutte istanze che il nuovo "Everything at Once", registrato in quegli Hansa Tonstudio berlinesi ormai divenuti una seconda casa per il quartetto scozzese, riesce a toccare. Se la title track -torna a sfruttare quella componente elettronica già assaggiata nel precedente "Where You Stand", un bel sussulto di vera sorpresa lo offre "Idlewild" in cui la cantautrice Josephine Oniyama prova a dare un taglio più moderno a un brano comunque poco consistente.
E la profonda ritrovata ispirazione è forse il tratto più evidente di un album che ha tutta l'aria di collocarsi ai vertici della discografia della band di Glasgow. Un posto d’onore anche per l'azzeccata ballad "3 Miles High", secondo singolo estratto e più diretto rimando al passato britpop, e per il positivo uptempo "Magnificent Time", incorniciato dal più arioso tra i chorus del lotto.
La rassicurante e agrodolce "What Will Come" è puro Travis-style, e sfiora in alcuni momenti le versioni dei classici della band. "Animals" e "Strangers on a Train" (che torna a prendere le mosse dal piano) potrebbero uscire da un qualsiasi album degli ultimi U2, mentre l'incerta "Radio Song" e la magniloquente "Paralysed" si contraddistinguono per un mood più oscuro. Che i Travis sappiano ancora scrivere delle sincere pop song ce lo ricorda invece "All of the Places", che con i suoi arpeggi si candida a fare da colonna sonora alla bella stagione ormai alle porte. Tutto sommato, anche nei loro capitoli meno ispirati i Travis riescono a sfoderare due-tre assi nella manica. E anche questo è rassicurante, forse la band è riuscita a tirarsi fuori dai vecchi fantasmi.
MAXIMILIAN - Max Gazzè
di Valeria Piras
L'artista romano ci mostra il suo lato più scanzonato senza perdere la sua elegante musicalità.
Da qualche mese nei negozi ecco il nuovissimo album di inediti del cantautore Max Gazzè.Il titolo è Maxmilian e con questo nome il cantante intende rappresentare l'anima più poppeggiante della sua musica.Proprio così Maxnon ha venduto il suo stile, genere e suono. Semplicemente, ha voluto,parole sue, dare un'immagine più diventita e pop del suo modo di intendere la musica.Pur essendo un disco da questa forma, infatti, questo "Maximilian" si presenta come un quadro eterogeneo, un assemblaggio giocoso con un suo equilibrio tra suoni, colori e forme. L'album è stato prodotto dallo stesso Max Gazzè, che ha scritto le canzoni insieme al fratello Francesco, Enzo Vecchiarelli, Alessandro Ciuffetti, Antonio Toni, Francesco De Benedittis e Tommaso Di Giulio; i brani sono stati registrati e mixati a Roma insieme allo stesso Baldi (chitarre), Clemente Ferrari (tastiere), Cristiano Micalizzi (batteria) e Max "Dedo" De Domenico (strumenti a fiato), e sono stati in seguito masterizzati a New York da Chris Gehringer presso lo Sterling Sound.
Dal punto di vista dei suoni, in diversi episodi del disco spicca un gusto per l'elettronica e la musica funky, con arrangiamenti che ruotano attorno ai bassi, alle chitarre elettriche, alle programmazioni e alle tastiere (è così per "Mille volte ancora", "Un uomo diverso", "Teresa", "Ti sembra normale" - che potrebbe essere il prossimo singolo estratto dal disco - e "Disordine d'aprile", scritta e cantata con Tommaso Di Giulio, cantautore romano classe 1986 con tre album e diverse collaborazioni all'attivo: Gazzè lo ha conosciuto nel 2009, e nel 2013 lo ha pure scelto come artista d'apertura dei suoi concerti). Sul modello di "Sotto casa", il brano che Max presentò a Sanremo nel 2013 (una delle hit di quell'annata - il singolo fu certificato doppio platino), "La vita com'è" porta in primo piano l'anima più scanzonata e popolareggiante del cantautore, incarnando il concept di questo "Maximilian": una hit spudorata pensata come tale oppure una caricatura delle grandi hit?
In tutto questo, il cantautore non perde l'eleganza e la raffinatezza che da sempre contraddistinguono la sua scrittura: l'altra metà del disco si compone infatti di brani con un gusto più classico. Il Gazzè introspettivo di "Mentre dormi" e "Buon compleanno" fa capolino in "Sul fiume" e "Nulla", un brano estremamente complesso, con parole e suoni che si aggrovigliano e con quel tocco di onirismo e di fellinismo che aveva caratterizzato diversi brani dei precedenti lavori di Max. Atmosfere operistiche, infine, fanno da sfondo a "Verso un altro immenso cielo", una canzone che parte come una filastrocca a tempo di valzer, dal ritmo ternario, con un pianoforte che nel finale lascia spazio ad un'orchestra d'archi vorticosa e sontuosa, con accordi dissonanti a suggerire un senso di ascensione: "L'anima di Maximilian esce dal corpo e viaggia oltre il limite del tempo e dello spazio"."Ti sembra normale" è invece il singolo super hit che diverte ma da cui si evince anche una critica del cantante alle relazioni amorose uomo-donna.
Da qualche mese nei negozi ecco il nuovissimo album di inediti del cantautore Max Gazzè.Il titolo è Maxmilian e con questo nome il cantante intende rappresentare l'anima più poppeggiante della sua musica.Proprio così Maxnon ha venduto il suo stile, genere e suono. Semplicemente, ha voluto,parole sue, dare un'immagine più diventita e pop del suo modo di intendere la musica.Pur essendo un disco da questa forma, infatti, questo "Maximilian" si presenta come un quadro eterogeneo, un assemblaggio giocoso con un suo equilibrio tra suoni, colori e forme. L'album è stato prodotto dallo stesso Max Gazzè, che ha scritto le canzoni insieme al fratello Francesco, Enzo Vecchiarelli, Alessandro Ciuffetti, Antonio Toni, Francesco De Benedittis e Tommaso Di Giulio; i brani sono stati registrati e mixati a Roma insieme allo stesso Baldi (chitarre), Clemente Ferrari (tastiere), Cristiano Micalizzi (batteria) e Max "Dedo" De Domenico (strumenti a fiato), e sono stati in seguito masterizzati a New York da Chris Gehringer presso lo Sterling Sound.
Dal punto di vista dei suoni, in diversi episodi del disco spicca un gusto per l'elettronica e la musica funky, con arrangiamenti che ruotano attorno ai bassi, alle chitarre elettriche, alle programmazioni e alle tastiere (è così per "Mille volte ancora", "Un uomo diverso", "Teresa", "Ti sembra normale" - che potrebbe essere il prossimo singolo estratto dal disco - e "Disordine d'aprile", scritta e cantata con Tommaso Di Giulio, cantautore romano classe 1986 con tre album e diverse collaborazioni all'attivo: Gazzè lo ha conosciuto nel 2009, e nel 2013 lo ha pure scelto come artista d'apertura dei suoi concerti). Sul modello di "Sotto casa", il brano che Max presentò a Sanremo nel 2013 (una delle hit di quell'annata - il singolo fu certificato doppio platino), "La vita com'è" porta in primo piano l'anima più scanzonata e popolareggiante del cantautore, incarnando il concept di questo "Maximilian": una hit spudorata pensata come tale oppure una caricatura delle grandi hit?
In tutto questo, il cantautore non perde l'eleganza e la raffinatezza che da sempre contraddistinguono la sua scrittura: l'altra metà del disco si compone infatti di brani con un gusto più classico. Il Gazzè introspettivo di "Mentre dormi" e "Buon compleanno" fa capolino in "Sul fiume" e "Nulla", un brano estremamente complesso, con parole e suoni che si aggrovigliano e con quel tocco di onirismo e di fellinismo che aveva caratterizzato diversi brani dei precedenti lavori di Max. Atmosfere operistiche, infine, fanno da sfondo a "Verso un altro immenso cielo", una canzone che parte come una filastrocca a tempo di valzer, dal ritmo ternario, con un pianoforte che nel finale lascia spazio ad un'orchestra d'archi vorticosa e sontuosa, con accordi dissonanti a suggerire un senso di ascensione: "L'anima di Maximilian esce dal corpo e viaggia oltre il limite del tempo e dello spazio"."Ti sembra normale" è invece il singolo super hit che diverte ma da cui si evince anche una critica del cantante alle relazioni amorose uomo-donna.
MOTHER'S DAY
di Valeria Piras
Celebrazione comica della festa della mamma.Ma non conquista.
Il regista americano Garry Marshall è specialista su commedie brillanti dedicate ai giorni di festa, circa sei anni fa ad esempio ci "regalò Appuntamento con l'amore (in originale Valentine's Day), commedia romantica corale piena zeppa di celebrità (Ashton Kutcher, Bradley Cooper, Jennifer Garner, Julia Roberts, Kathy Bates, Anne Hathaway e molti altri). Oggi è nelle sale con un film che segue quella falsa riga ma con meno star e dedicato ad un giorno diverso da S.Valentino, Mother's Day, terzo episodio di un vero franchising cinematografico. Il film racconta le vicende di un gruppo di quarantenni durante la giornata della festa della mamma: Jennifer Aniston, Kate Hudson, Sarah Chalke, la sempre disponibile Julia Roberts e, per quanto riguarda il contingente maschile, Jason Sudeikis, Jon Lovitz e Timothy Olyphant. Senza dimenticare la sorella del regista, Penny Marshall, che funge da voce narrante in originale.
In mezzo a tanta melassa, dove le battute sono poche ma comunque divertenti e ben inserite nella sceneggiatura c’è una questione importante ovvero la storyline incentrata sulla giovane madre Kristin e il suo compagno Zack. In parte perché Britt Robertson e Jack Whitehall riescono ad elevare il materiale affidatogli al di là del semplice luogo comune, ma soprattutto perché il regista ha avuto l'idea brillante di mostrarci Zack in azione quando si esibisce come comico in un locale. E lì emerge il carisma naturale del comico inglese che si è fatto le ossa nel medesimo ambiente nella natia Inghilterra, dando alle battute una vitalità davvero forte e nuova. Il film è a tratti un po’ lento ed alcune situazioni sceniche appaiono forzate ed incastrate non alla perfezione ma gli attori che si muovono nel film riescono a sopperire alle mancanze strutturali del film.
Kate Hudson è fresca e divertente nonostante non abbia più ventanni; Jennifer Aniston riesce a dare corposità ad un personaggio altrimenti quasi trasparente per carattere e spessore e poi c’è ovviamente la grande Julia Roberts che accetta di far parte di questo film come omaggio al regista cha la lanciò in Pretty Woman e con la sua sensuale verve riesce a dare luce a momenti altrimenti piatti e lenti. Una commedia americana che diverte solo grazie alla grande personalità dei suoi attori.
Il regista americano Garry Marshall è specialista su commedie brillanti dedicate ai giorni di festa, circa sei anni fa ad esempio ci "regalò Appuntamento con l'amore (in originale Valentine's Day), commedia romantica corale piena zeppa di celebrità (Ashton Kutcher, Bradley Cooper, Jennifer Garner, Julia Roberts, Kathy Bates, Anne Hathaway e molti altri). Oggi è nelle sale con un film che segue quella falsa riga ma con meno star e dedicato ad un giorno diverso da S.Valentino, Mother's Day, terzo episodio di un vero franchising cinematografico. Il film racconta le vicende di un gruppo di quarantenni durante la giornata della festa della mamma: Jennifer Aniston, Kate Hudson, Sarah Chalke, la sempre disponibile Julia Roberts e, per quanto riguarda il contingente maschile, Jason Sudeikis, Jon Lovitz e Timothy Olyphant. Senza dimenticare la sorella del regista, Penny Marshall, che funge da voce narrante in originale.
In mezzo a tanta melassa, dove le battute sono poche ma comunque divertenti e ben inserite nella sceneggiatura c’è una questione importante ovvero la storyline incentrata sulla giovane madre Kristin e il suo compagno Zack. In parte perché Britt Robertson e Jack Whitehall riescono ad elevare il materiale affidatogli al di là del semplice luogo comune, ma soprattutto perché il regista ha avuto l'idea brillante di mostrarci Zack in azione quando si esibisce come comico in un locale. E lì emerge il carisma naturale del comico inglese che si è fatto le ossa nel medesimo ambiente nella natia Inghilterra, dando alle battute una vitalità davvero forte e nuova. Il film è a tratti un po’ lento ed alcune situazioni sceniche appaiono forzate ed incastrate non alla perfezione ma gli attori che si muovono nel film riescono a sopperire alle mancanze strutturali del film.
Kate Hudson è fresca e divertente nonostante non abbia più ventanni; Jennifer Aniston riesce a dare corposità ad un personaggio altrimenti quasi trasparente per carattere e spessore e poi c’è ovviamente la grande Julia Roberts che accetta di far parte di questo film come omaggio al regista cha la lanciò in Pretty Woman e con la sua sensuale verve riesce a dare luce a momenti altrimenti piatti e lenti. Una commedia americana che diverte solo grazie alla grande personalità dei suoi attori.
THE GETAWAY - Red Hot Chili Peppers
di Valeria Piras
Un lungo sogno per guardare in faccia al nostro lato oscuro.
Da pochi giorni nei negozi e in rete il nuovo album dei Red Hot Chili Peppers dal titolo The Getaway. Anthony Kiedis il frontman del gruppo ora ha 53 anni, rimugina sul tempo che passa e sull’età delle sue giovanissime fidanzate. Ha il cuore spezzato e al posto di certe spacconate funk-rock va ora cercando vibrazioni blues, colori scuri, toni più riflessivi.L'idea di fondo è quella di lavorare in profondità sugli intrecci strumentali, come se le funky jam di cui il quartetto è capace fossero state compresse in pochi, significativi gesti musicali. Un lavoro di inediti che sorprende per gli intrecci nascosti.Se fino ad ora i Red Hot erano stati fedeli alla propria formula sonora, procedendo per aggiustamenti tutto sommato modesti, qui esplorano un nuovo mondo. Intrecci e fioriture strumentali definiscono il carattere dell’album, dove confluiscono elementi di disco, funk, new wave primi anni ’80, cantautorato pop dei ’70. Non ci sono capolavori da mettere a fianco degli hit di venti o venticinque anni fa. Non si avvicina alla bellezza di “Californication”. Ma è frutto di un gran talento, e per la cronaca è mixato da Nigel Godrich. Ha carattere, solo che potrebbe non essere quel che la gente cerca dai Red Hot. I vecchi Red Hot ci sono, eccome. Basti pensare a “The longest wave” che è la cosa più simile a “Under the bridge” che troverete qua dentro, solo più solare, ed è perciò destinata probabilmente a uscire come singolo.
Ha tutta l’aria della ballata d’amore cosmico: «Forse sei il mio ultimo amore, forse il primo, solo un altro modo di giocare nell’universo, ora so perché siamo venuti qui». Ci sono le riconoscibilissime linee funk di sempre, però l’esuberanza e la vitalità debordante su cui il gruppo ha costruito il proprio mito sono messe da parte. Questo è un disco per la mente più che per il corpo. Complice il gran lavoro al basso di Flea e i back up chitarristici di Josh Klinghoffer, che al secondo album con la band raramente si prende la scena, le canzoni hanno tinte cupe, i testi pure. In “Goodbye angels” Kiedis parrebbe cantare di suicidio, di sicuro parla di un amore finito. “The hunter” è dedicata al padre malato, con una parte pianistica che fa pensare a John Lennon. “This Ticonderoga” è una delle canzoni che affronta il tema della rottura sentimentale: “Eravamo tutti soldati in un epico scontro d’amore”. Qua e là emerge il tema della differenza d’età fra Kiedis e la sue partner. In “Sick love” c’è un accenno alla vacuità dello stile di vita californiano, mentre “Encore” trasmette un feeling nostalgico con i suoi riferimenti ai Beatles, ai cosmonauti, alle spie russe.
Dopo tredici canzoni s’arriva a “Dreams of a samurai”, con la cantante Beverley Chitwood che fa Clare Torry in formato mignon e la linea melodica che finisce dalle parti di “The dark side of the moon” dei Pink Floyd. Ed è forse questo il pezzo che, chiudendolo, definisce l’album come un’epica d’amore e dolore. “I’m a lonely lad”, canta Anthony Kiedis. Con le sue atmosfere malinconiche e le sue melodie che emergono da intrecci densi, con le sue sottigliezze e i piccoli deragliamenti sonori, “The getaway” sembra una spedizione all’interno di una mente in preda alla tristezza e alla solitudine, quasi un saggio sonoro sulla bellezza del nostro lato oscuro.
Da pochi giorni nei negozi e in rete il nuovo album dei Red Hot Chili Peppers dal titolo The Getaway. Anthony Kiedis il frontman del gruppo ora ha 53 anni, rimugina sul tempo che passa e sull’età delle sue giovanissime fidanzate. Ha il cuore spezzato e al posto di certe spacconate funk-rock va ora cercando vibrazioni blues, colori scuri, toni più riflessivi.L'idea di fondo è quella di lavorare in profondità sugli intrecci strumentali, come se le funky jam di cui il quartetto è capace fossero state compresse in pochi, significativi gesti musicali. Un lavoro di inediti che sorprende per gli intrecci nascosti.Se fino ad ora i Red Hot erano stati fedeli alla propria formula sonora, procedendo per aggiustamenti tutto sommato modesti, qui esplorano un nuovo mondo. Intrecci e fioriture strumentali definiscono il carattere dell’album, dove confluiscono elementi di disco, funk, new wave primi anni ’80, cantautorato pop dei ’70. Non ci sono capolavori da mettere a fianco degli hit di venti o venticinque anni fa. Non si avvicina alla bellezza di “Californication”. Ma è frutto di un gran talento, e per la cronaca è mixato da Nigel Godrich. Ha carattere, solo che potrebbe non essere quel che la gente cerca dai Red Hot. I vecchi Red Hot ci sono, eccome. Basti pensare a “The longest wave” che è la cosa più simile a “Under the bridge” che troverete qua dentro, solo più solare, ed è perciò destinata probabilmente a uscire come singolo.
Ha tutta l’aria della ballata d’amore cosmico: «Forse sei il mio ultimo amore, forse il primo, solo un altro modo di giocare nell’universo, ora so perché siamo venuti qui». Ci sono le riconoscibilissime linee funk di sempre, però l’esuberanza e la vitalità debordante su cui il gruppo ha costruito il proprio mito sono messe da parte. Questo è un disco per la mente più che per il corpo. Complice il gran lavoro al basso di Flea e i back up chitarristici di Josh Klinghoffer, che al secondo album con la band raramente si prende la scena, le canzoni hanno tinte cupe, i testi pure. In “Goodbye angels” Kiedis parrebbe cantare di suicidio, di sicuro parla di un amore finito. “The hunter” è dedicata al padre malato, con una parte pianistica che fa pensare a John Lennon. “This Ticonderoga” è una delle canzoni che affronta il tema della rottura sentimentale: “Eravamo tutti soldati in un epico scontro d’amore”. Qua e là emerge il tema della differenza d’età fra Kiedis e la sue partner. In “Sick love” c’è un accenno alla vacuità dello stile di vita californiano, mentre “Encore” trasmette un feeling nostalgico con i suoi riferimenti ai Beatles, ai cosmonauti, alle spie russe.
Dopo tredici canzoni s’arriva a “Dreams of a samurai”, con la cantante Beverley Chitwood che fa Clare Torry in formato mignon e la linea melodica che finisce dalle parti di “The dark side of the moon” dei Pink Floyd. Ed è forse questo il pezzo che, chiudendolo, definisce l’album come un’epica d’amore e dolore. “I’m a lonely lad”, canta Anthony Kiedis. Con le sue atmosfere malinconiche e le sue melodie che emergono da intrecci densi, con le sue sottigliezze e i piccoli deragliamenti sonori, “The getaway” sembra una spedizione all’interno di una mente in preda alla tristezza e alla solitudine, quasi un saggio sonoro sulla bellezza del nostro lato oscuro.
LEMONADE - Beyoncè
di Valeria Piras
Una nuova Beyoncè più matura e profonda.Una vera sorpresa musicale.
In questi giorni in uscita il nuovissimo ed interessante album di Beyoncè.La regina del del r&b mondiale torna con un disco di inediti davvero intenso che parla molto della recente crisi matrimoniale che ha colpito il suo lungo rapporto col rapper JAY-Z a causa dei prolungati tradimenti di lui. Il tema principale è la consapevolezza della propria libertà e dignità di donna ma poi dal contenuto personale si va all'universale e in pieno regime da black female power (“Formation”) si passa alla rivendicazione del diritto per ogni donna di essere emancipata, amata e rispettata, specie se del sud e di colore. Ma è sicuramente il primo tema ad aver il sopravvento. Musicalmente il disco è pregno di spunti e vario, con un occhio ai nuovi suoni (in “Hold up” con la produzione di Just Blaze e Diplo, la collaborazione di The Weeknd e James Blake) e l'altro verso musicisti di qualità (tutti gli arrangiamenti di archi sono di Jon Brion e in un paio di pezzi - “Freedom” e “All night” - si sente indistintamente il basso di Marcus Miller), i sample che strizzano l'occhio all'indie rock (Animal Collective, Yeah Yeah Yeah) e con il miglior rapper sulla piazza, Kendrick Lamar.
Un disco fatto in modo intelligente e con grande esperienza. Rispetto al precedente “Beyoncé” c'è meno la voglia di essere cool a tutti i costi con suoni e beat, mentre l'obiettivo è quello di comunicare con pezzi che colpiscono nel segno, anche fuori dal canonico Beyoncé-style: “Hold up” utilizza il sample di un celebre pezzo di Andy Williams su una base reggae, “Don't hurt yourself” con Jack White mescola la rabbia di Beyoncé con il suono ruvido del rock blues sudista con tanto di campione da Led Zeppelin IV ("When the levee breaks"). C'è anche un bizzarro pezzo tra country e dixieland (“Daddy Lessons”) e la sorprendente “Freedom”, puro black soul di protesta anni '70 dove l'affilato rap di Lamar sembra la continuazione del suo singolo “Alright”, diretto atto d'accusa verso i media conservatori e del modo in cui raccontano i fatti di cronaca che coinvolgono i giovani neri.
Da parte sua Beyoncé infila nel disco alcune tra le sue migliori e più mature interpretazioni, specialmente in quelle ballate dove si racconta il difficile perdono e il riavvicinamento al marito (“Sandcastles” “All night”) e dove la sua voce scopre inedite e profonde sfumature. “Con ogni lacrima è arrivato il riscatto, e il mio torturatore è diventato un rimedio” canta in “All Night” Forse il lato più debole dell'intera operazione è proprio il visual album trasmesso su HBO (e ora su Tidal), un pastiche arty di immagini tra il peggior Malick e l'estetica di Helmut Newton, con mille riferimenti all'immaginario gotico del sud degli Stati Uniti – da qui la limonata, bevanda preparate dalle donne del sud del titolo – e con un'onnipresente Beyoncé in tutte le parti.Finalmente un disco che ci conquista a pieno usato per comunicare emozioni e paure non solo come mezzo per fare soldi a palate.
In questi giorni in uscita il nuovissimo ed interessante album di Beyoncè.La regina del del r&b mondiale torna con un disco di inediti davvero intenso che parla molto della recente crisi matrimoniale che ha colpito il suo lungo rapporto col rapper JAY-Z a causa dei prolungati tradimenti di lui. Il tema principale è la consapevolezza della propria libertà e dignità di donna ma poi dal contenuto personale si va all'universale e in pieno regime da black female power (“Formation”) si passa alla rivendicazione del diritto per ogni donna di essere emancipata, amata e rispettata, specie se del sud e di colore. Ma è sicuramente il primo tema ad aver il sopravvento. Musicalmente il disco è pregno di spunti e vario, con un occhio ai nuovi suoni (in “Hold up” con la produzione di Just Blaze e Diplo, la collaborazione di The Weeknd e James Blake) e l'altro verso musicisti di qualità (tutti gli arrangiamenti di archi sono di Jon Brion e in un paio di pezzi - “Freedom” e “All night” - si sente indistintamente il basso di Marcus Miller), i sample che strizzano l'occhio all'indie rock (Animal Collective, Yeah Yeah Yeah) e con il miglior rapper sulla piazza, Kendrick Lamar.
Un disco fatto in modo intelligente e con grande esperienza. Rispetto al precedente “Beyoncé” c'è meno la voglia di essere cool a tutti i costi con suoni e beat, mentre l'obiettivo è quello di comunicare con pezzi che colpiscono nel segno, anche fuori dal canonico Beyoncé-style: “Hold up” utilizza il sample di un celebre pezzo di Andy Williams su una base reggae, “Don't hurt yourself” con Jack White mescola la rabbia di Beyoncé con il suono ruvido del rock blues sudista con tanto di campione da Led Zeppelin IV ("When the levee breaks"). C'è anche un bizzarro pezzo tra country e dixieland (“Daddy Lessons”) e la sorprendente “Freedom”, puro black soul di protesta anni '70 dove l'affilato rap di Lamar sembra la continuazione del suo singolo “Alright”, diretto atto d'accusa verso i media conservatori e del modo in cui raccontano i fatti di cronaca che coinvolgono i giovani neri.
Da parte sua Beyoncé infila nel disco alcune tra le sue migliori e più mature interpretazioni, specialmente in quelle ballate dove si racconta il difficile perdono e il riavvicinamento al marito (“Sandcastles” “All night”) e dove la sua voce scopre inedite e profonde sfumature. “Con ogni lacrima è arrivato il riscatto, e il mio torturatore è diventato un rimedio” canta in “All Night” Forse il lato più debole dell'intera operazione è proprio il visual album trasmesso su HBO (e ora su Tidal), un pastiche arty di immagini tra il peggior Malick e l'estetica di Helmut Newton, con mille riferimenti all'immaginario gotico del sud degli Stati Uniti – da qui la limonata, bevanda preparate dalle donne del sud del titolo – e con un'onnipresente Beyoncé in tutte le parti.Finalmente un disco che ci conquista a pieno usato per comunicare emozioni e paure non solo come mezzo per fare soldi a palate.
LA PAZZA GIOIA
di Valeria Piras
Viaggio profondo dentro due donne dalla folle voglia di vivere.
Il bravissimo regista Paolo Virzì ritorna nelle sale con un bel film scritto insieme alla regista visionaria Francesca Archibugi, si chiama La Pazza Gioia e ha per protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. La pazza gioia racconta un settimana folle nella vita di due donne affette da disturbi psichici, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti). Le due donne sono ospitate in una villa di campagna, una comunità terapeutica,ma decidono di scappare per alcuni giorni per inseguire la libertà e fuggire dalle loro profonde ossessioni. È un tipico film di Virzì, uno dei migliori registi italiani che riesce sempre a guidare in modo divino i suoi attori facendo emergere spesso lati nascosti anche a loro stessi. Basti notare che nella villa ci sono attrici e pazienti vere mescolate, e non è per niente facile capire quali siano le une e quali le altre.
La pazza gioia è anche un film di Francesca Archibugi, indimentica regista del Grande cocomero, quindi è più apertamente sentimentale rispetto ad altri film di Virzì, ma anche meno spinto verso il confronto tra elementi contrastanti, più pacificato. Valeria Bruni Tedeschi nella parte della milionaria decaduta, ossessiva, sexy e completamente fuori di testa, novella Valentina Cortese, è impeccabile. Micaela Ramazzotti è ugualmente efficace, completamente diversa nel carattere, nel fisico, nella recitazione, nel personaggio e nella patologia. Le due non si somigliano mai e si fanno sempre luce a vicenda: non è un risultato alla portata di molti.Un film che scorre veloce proprio perché è un film di Virzì.
È anche un film che tratta un argomento complicatissimo nel nostro paese, dove tanto la cultura cattolica quanto un pezzo di pensiero antagonista hanno fatto di tutto per negare la psicopatologia e la sua terapia. In La pazza gioia c’è invece un senso di quotidianità della malattia mentale, di difficoltà umana e necessaria ma normale, di cui abbiamo bisogno (molto credibile anche Valentina Carnelutti, la terapeuta); anche perché siamo il paese di Franco Basaglia, che è una cosa da non dimenticare e di cui andare fieri. Oltre alla bravura delle due protagoniste e del cast intero, di questo film si può amare proprio il sentimentalismo, la vocazione all’empatia, la voglia di suscitare commozione senza trucchi. Anche se il tocco di Francesca Archibugi costringe spesso a trattenere a stento le lacrime,ma alla fine si può certamente dire che è un film che dà grandi soddisfazioni.
Il bravissimo regista Paolo Virzì ritorna nelle sale con un bel film scritto insieme alla regista visionaria Francesca Archibugi, si chiama La Pazza Gioia e ha per protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. La pazza gioia racconta un settimana folle nella vita di due donne affette da disturbi psichici, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti). Le due donne sono ospitate in una villa di campagna, una comunità terapeutica,ma decidono di scappare per alcuni giorni per inseguire la libertà e fuggire dalle loro profonde ossessioni. È un tipico film di Virzì, uno dei migliori registi italiani che riesce sempre a guidare in modo divino i suoi attori facendo emergere spesso lati nascosti anche a loro stessi. Basti notare che nella villa ci sono attrici e pazienti vere mescolate, e non è per niente facile capire quali siano le une e quali le altre.
La pazza gioia è anche un film di Francesca Archibugi, indimentica regista del Grande cocomero, quindi è più apertamente sentimentale rispetto ad altri film di Virzì, ma anche meno spinto verso il confronto tra elementi contrastanti, più pacificato. Valeria Bruni Tedeschi nella parte della milionaria decaduta, ossessiva, sexy e completamente fuori di testa, novella Valentina Cortese, è impeccabile. Micaela Ramazzotti è ugualmente efficace, completamente diversa nel carattere, nel fisico, nella recitazione, nel personaggio e nella patologia. Le due non si somigliano mai e si fanno sempre luce a vicenda: non è un risultato alla portata di molti.Un film che scorre veloce proprio perché è un film di Virzì.
È anche un film che tratta un argomento complicatissimo nel nostro paese, dove tanto la cultura cattolica quanto un pezzo di pensiero antagonista hanno fatto di tutto per negare la psicopatologia e la sua terapia. In La pazza gioia c’è invece un senso di quotidianità della malattia mentale, di difficoltà umana e necessaria ma normale, di cui abbiamo bisogno (molto credibile anche Valentina Carnelutti, la terapeuta); anche perché siamo il paese di Franco Basaglia, che è una cosa da non dimenticare e di cui andare fieri. Oltre alla bravura delle due protagoniste e del cast intero, di questo film si può amare proprio il sentimentalismo, la vocazione all’empatia, la voglia di suscitare commozione senza trucchi. Anche se il tocco di Francesca Archibugi costringe spesso a trattenere a stento le lacrime,ma alla fine si può certamente dire che è un film che dà grandi soddisfazioni.
A MOON SHAPED POOL - Radiohead
di Valeria Piras
Come un vero messia torna Tom York e la sua psichedelica band.
Dopo tanto vociare e tanto clamore per fatti extra musicali arriva il nono album della band più controversa di sempre,i Radiohead.Si intitola A Moon Shaped Pool, un disco che finalmente riesce a far concentrare il discorso su ciò che conta ovvero la musica. Che li si ami o li si odi, è innegabile un dato di fatto: la band inglese ha tante frecce al suo arco. A partire dalla voce di Tom Yorke, veicolo di una carica quasi messianica, capace di dare corpo a una tonalità emotiva, non proprio solare, tipica del vissuto occidentale contemporaneo; passando per l’enorme versatilità di Jonny Greenwood, archetipo del musicista colto del nuovo millennio, che dispone dell’elettronica e della musica classica da un’ottica che conferisce a entrambi gli approcci pari dignità; arrivando agli automatismi, ormai quasi sincronizzati fisiologicamente, di una band che suona insieme da 30anni.
Tutti questi aspetti hanno cementato intorno ai Radiohead un’aura caratteristica e riconoscibile; l’atmosfera che è la storica placenta del gruppo, almeno da fine anni novanta, e che ha molto a che fare con concetti quali sperimentazione, appartenenza, arte: tutte istanze che raramente si trovano accomunate in un unico gruppo pop rock. Perché, per quanto in costante ricerca di nuove forme e approdi stilistici, di questo parliamo quando ci riferiamo a loro: di rockstar; come lo furono i Beatles o i Pink Floyd. In questo A Moon Shaped Pool, passato, presente e futuro dei Radiohead si dispiegano insieme: ed è la carta che lo rende vincente. Tra i brani inseriti in scaletta almeno nove erano già noti ai fan, perché suonati dal vivo, inclusi in botoleg o EP, oppure presenti nel repertorio live di progetti paralleli dei membri del gruppo.
L’album si chiude addirittura con una composizione del 1994, True Love Waits, molto conosciuta e apprezzata dal pubblico e finalmente reputata meritevole di una sua collocazione nella discografia ufficiale della band.Le canzoni del disco sono disposte in una tracklist che si dipana, caratteristica piuttosto bizzarra, seguendo l’ordine alfabetico dei titoli dei brani, con la sola eccezione di Present Tense: questo aspetto è parte del lessico, fatto di stranezze e codici che sfuggono alla logica, tipico della band nell’ultimo decennio. Una sorta di predisposizione che potremmo chiamare post-realistica.In generale,A moon shaped Pool riesce dove altri album dei Radiohead post Amnesiac hanno fallito: utilizzare in maniera espressiva e narrativamente funzionale alcuni elementi sonori solitamente percepiti come “effetti speciali” fini a se stessi. E quindi le batterie ottenute con l’uso creativo di filtri e compressori, i riverberi vocali, le risonanze degli strumenti e in generale gli ambienti stranianti tipici del loro sound, sono tutti perfettamente organici alle canzoni del disco. Questo tentativo era riuscito solo in parte con il precedente, e ormai vecchio di 5 anni, The King of Limbs, per colpa di una certa ritrosia nel proporre canzoni che, a livello strutturale, fossero così tradizionali.Allo stesso tempo, in quest’opera c’è una ripresa molto diretta di una certa classicità rock: dal kraut alla psichedelia, passando per lo uk folk. Nuova linfa per i Radiohead.
Dopo tanto vociare e tanto clamore per fatti extra musicali arriva il nono album della band più controversa di sempre,i Radiohead.Si intitola A Moon Shaped Pool, un disco che finalmente riesce a far concentrare il discorso su ciò che conta ovvero la musica. Che li si ami o li si odi, è innegabile un dato di fatto: la band inglese ha tante frecce al suo arco. A partire dalla voce di Tom Yorke, veicolo di una carica quasi messianica, capace di dare corpo a una tonalità emotiva, non proprio solare, tipica del vissuto occidentale contemporaneo; passando per l’enorme versatilità di Jonny Greenwood, archetipo del musicista colto del nuovo millennio, che dispone dell’elettronica e della musica classica da un’ottica che conferisce a entrambi gli approcci pari dignità; arrivando agli automatismi, ormai quasi sincronizzati fisiologicamente, di una band che suona insieme da 30anni.
Tutti questi aspetti hanno cementato intorno ai Radiohead un’aura caratteristica e riconoscibile; l’atmosfera che è la storica placenta del gruppo, almeno da fine anni novanta, e che ha molto a che fare con concetti quali sperimentazione, appartenenza, arte: tutte istanze che raramente si trovano accomunate in un unico gruppo pop rock. Perché, per quanto in costante ricerca di nuove forme e approdi stilistici, di questo parliamo quando ci riferiamo a loro: di rockstar; come lo furono i Beatles o i Pink Floyd. In questo A Moon Shaped Pool, passato, presente e futuro dei Radiohead si dispiegano insieme: ed è la carta che lo rende vincente. Tra i brani inseriti in scaletta almeno nove erano già noti ai fan, perché suonati dal vivo, inclusi in botoleg o EP, oppure presenti nel repertorio live di progetti paralleli dei membri del gruppo.
L’album si chiude addirittura con una composizione del 1994, True Love Waits, molto conosciuta e apprezzata dal pubblico e finalmente reputata meritevole di una sua collocazione nella discografia ufficiale della band.Le canzoni del disco sono disposte in una tracklist che si dipana, caratteristica piuttosto bizzarra, seguendo l’ordine alfabetico dei titoli dei brani, con la sola eccezione di Present Tense: questo aspetto è parte del lessico, fatto di stranezze e codici che sfuggono alla logica, tipico della band nell’ultimo decennio. Una sorta di predisposizione che potremmo chiamare post-realistica.In generale,A moon shaped Pool riesce dove altri album dei Radiohead post Amnesiac hanno fallito: utilizzare in maniera espressiva e narrativamente funzionale alcuni elementi sonori solitamente percepiti come “effetti speciali” fini a se stessi. E quindi le batterie ottenute con l’uso creativo di filtri e compressori, i riverberi vocali, le risonanze degli strumenti e in generale gli ambienti stranianti tipici del loro sound, sono tutti perfettamente organici alle canzoni del disco. Questo tentativo era riuscito solo in parte con il precedente, e ormai vecchio di 5 anni, The King of Limbs, per colpa di una certa ritrosia nel proporre canzoni che, a livello strutturale, fossero così tradizionali.Allo stesso tempo, in quest’opera c’è una ripresa molto diretta di una certa classicità rock: dal kraut alla psichedelia, passando per lo uk folk. Nuova linfa per i Radiohead.
LA FORESTA DEI SOGNI
di Valeria Piras
Tra lirismo e psicologia un viaggio profondo in stile Van Sant.Da applausi.
Il mitico regista Gus Van Sant torna a sorprendere e porta nelle sale La Foresta dei Sogni,un film ansiogeno ed enigmatico su una storia vera.Ambientato in oriente, ad Aokigahara, in Giappone, dove esiste un luogo fuori dal tempo conosciuto in ogni angolo del Pianeta. Una foresta ormai famosa e decisamente macabra che accoglie chi ha deciso di mettere fine alla propria vita; è facile infatti – addentrandosi fra la vegetazione – trovare costantemente cadaveri fra gli arbusti, tende abbandonate, scheletri con ancora i vestiti addosso. Ovviamente anche messaggi di addio, fotografie, pupazzi e diari. Si tratta della celebre Foresta dei Suicidi, nota alle cronache locali. Le atmosfere estremamente suggestive e profondamente radicate nella cultura spirituale giapponese, che considera la foresta di Aokigahara come un purgatorio nel quale le anime sostano per accedere a qualcosa di superiore, danno tutte le carte per un film pregno di significato e simbolismo. La scrittura del film ne trae giovamento e funziona.Si assiste a una messa laica dominata da elevato pathos senza eccedere nel lacrimoso, forse un pò appesantito da una serie di piccoli clichés che creano equilibrio narrativo.
Il premio Oscar Matthew McCounaghey è bravo a gestire il suo personaggio durante la prima fase, per condurlo poi verso un finale duro e catastrofico a sorpresa.Ottima anche la prova della bella Naomi Watts intensa nel suo sguardo dolce ma penetrante.Il giapponese Ken Watanabe invece non sembra in formissima,troppo ingessato e con poche sfumature da mostrare. Tutti questi elementi nel Festival di Cannes 2015, dove La foresta dei sogni è stato presentato in Concorso, sono stati applauditi,non senza le critiche che un regista come Van Sant attira in ogni sua opera. Anche gli ottimi propositi del sottotesto, che mirano a dare una speranza a chi sta affrontando l’elaborazione di un lutto sono concetti da tenere in considerazione nell'analisi definitiva del film.Insomma possiamo dire che Van Sant partendo da un desiderio di morte riesce a far emergere dalle ceneri la vita, ricreatasi da un errare dantesco dove risalta tutta la bravura di un cast eccezionale.
Ma lungo il sentiero di questa rinascita, il regista statunitense anche grazie ad una solida sceneggiatura vira verso un cinema più intimistico ed impressionistico. Quella che si crea con il film La foresta dei sogni è sì un’opera che cerca di indagare il dolore e il pentimento, l’amore e la redenzione, ma lo fa immergendosi in essi,ricreando un grande dramma borghese e poetico nell’affrontare il tema della morte a cui i titoli di Van Sant sono solitamente molto legati.Ed è allora che la foresta della rinascita si trasforma in una stanza chiusa, dove la riflessione sull’uomo e sulla sua fine sembrano il vero fine del film.
Il mitico regista Gus Van Sant torna a sorprendere e porta nelle sale La Foresta dei Sogni,un film ansiogeno ed enigmatico su una storia vera.Ambientato in oriente, ad Aokigahara, in Giappone, dove esiste un luogo fuori dal tempo conosciuto in ogni angolo del Pianeta. Una foresta ormai famosa e decisamente macabra che accoglie chi ha deciso di mettere fine alla propria vita; è facile infatti – addentrandosi fra la vegetazione – trovare costantemente cadaveri fra gli arbusti, tende abbandonate, scheletri con ancora i vestiti addosso. Ovviamente anche messaggi di addio, fotografie, pupazzi e diari. Si tratta della celebre Foresta dei Suicidi, nota alle cronache locali. Le atmosfere estremamente suggestive e profondamente radicate nella cultura spirituale giapponese, che considera la foresta di Aokigahara come un purgatorio nel quale le anime sostano per accedere a qualcosa di superiore, danno tutte le carte per un film pregno di significato e simbolismo. La scrittura del film ne trae giovamento e funziona.Si assiste a una messa laica dominata da elevato pathos senza eccedere nel lacrimoso, forse un pò appesantito da una serie di piccoli clichés che creano equilibrio narrativo.
Il premio Oscar Matthew McCounaghey è bravo a gestire il suo personaggio durante la prima fase, per condurlo poi verso un finale duro e catastrofico a sorpresa.Ottima anche la prova della bella Naomi Watts intensa nel suo sguardo dolce ma penetrante.Il giapponese Ken Watanabe invece non sembra in formissima,troppo ingessato e con poche sfumature da mostrare. Tutti questi elementi nel Festival di Cannes 2015, dove La foresta dei sogni è stato presentato in Concorso, sono stati applauditi,non senza le critiche che un regista come Van Sant attira in ogni sua opera. Anche gli ottimi propositi del sottotesto, che mirano a dare una speranza a chi sta affrontando l’elaborazione di un lutto sono concetti da tenere in considerazione nell'analisi definitiva del film.Insomma possiamo dire che Van Sant partendo da un desiderio di morte riesce a far emergere dalle ceneri la vita, ricreatasi da un errare dantesco dove risalta tutta la bravura di un cast eccezionale.
Ma lungo il sentiero di questa rinascita, il regista statunitense anche grazie ad una solida sceneggiatura vira verso un cinema più intimistico ed impressionistico. Quella che si crea con il film La foresta dei sogni è sì un’opera che cerca di indagare il dolore e il pentimento, l’amore e la redenzione, ma lo fa immergendosi in essi,ricreando un grande dramma borghese e poetico nell’affrontare il tema della morte a cui i titoli di Van Sant sono solitamente molto legati.Ed è allora che la foresta della rinascita si trasforma in una stanza chiusa, dove la riflessione sull’uomo e sulla sua fine sembrano il vero fine del film.
ON - Elisa.
di Valeria Piras
Nuovo disco in stile elettro-pop.Per Elisa parte una nuova fase.
La talentuosa artista di Monfalcone tornain studio e produce il suo novo album dal titolo ON.Le tracce in esso presenti all'apparenza posso sembrare docili e calme ma nell'arco di pochi istanti si tramutano in ballate energiche e impetuose.Il disco arriva a circa due anni e mezzo di distanza dal precedente "L'anima vola", album in cui Elisa aveva deciso di cantare solo in italiano per la prima volta.Con "ON", la cantautrice torna a cantare in lingua inglese: solo due dei 13 brani contenuti in questo disco sono infatti cantati in lingua italiana. Tutte le canzoni dll'album sono farina della sola Elisa che si è anche avvalsa delle feuturing con alcuni autori internazionali quali Keely Bumford, Allan D. Rich e Jud Friedman, già autori per Whitney Houston, Ray Charles, Barbra Streisand e Giorgia. L'unica eccezione è rappresentata da "Waste your time on me", scritta da Jack Savoretti insieme a Pedro Vito e Sebastian Sternberg.La produzione del disco si è concentrata nel 2015 e ha toccato molti paese come la Slovenia, Los Angeles,Londra e Verona.Il suono di ON è una vera rivoluzione con i dischi precedenti di Elisa, ci sono meno chitarre e batteria, più tastiere, programmazioni, sintetizzatori e drum machine. Quello che si evidenzia fin da subito dalle prime tracce è un gusto per la musica elettronica, declinata in diverse forme: ci sono le power ballad in stile Sia ("Bad habits" e in parte anche "No hero"), pezzi in cui l'elettronica convive con sonorità più acustiche ("Wast your time on me", con un cameo dell'autore Jack Savoretti; e "Sorrido già", incisa invece con gli amici Giuliano Sangiorgi ed Emma), accenni di trip hop e drum'n'bass ("With the hurt", "Bruciare per te" - tra le influenze del disco, ci sono Diplo e Skrillex) e un paio di episodi dance pop che ricordano le hit delle popstar americane degli anni 2000 ("Ready now" e "Rain over my head").
Accanto a queste incursioni nell'elettronica troviamo una canzone in stile Motown come "Love me forever" (con una ritmica presa in prestito da "Footloose" di Kenny Loggins: Elisa aveva scritto questo brano a quattordici anni, venticinque anni fa), un brano dall'arrangiamento più pianistico come "Love is kinda war", una canzone condita in salsa soul come "Hold on for a minute" (con un'introduzione cupa che ricorda Adele e un ritornello più solare) e una iper-funky come "Peter Pan" (un retaggio della collaborazione con i Kolors dello scorso anno). L'Elisa dei primissimi album "Pipes & flowers", "Asile's World" e "Then comes the Sun" fa capolino in "Catch the light", con un arrangiamento più scarno e asciutto, tutto chitarra elettrica e batteria. "ON" è un disco che si ascolta volentieri, senza stancarsi. Sono canzoni energiche e da ballare, come lo stesso titolo lascia intendere, che giocano sull'effetto sorpresa: partono in una determinata maniera e arrivano poi a percorrere direzioni inaspettate.
Non solo a livello di sonorità, ma anche a livello di struttura musicale, grazie ad una serie di espedienti, su tutti i salti improvvisi di ottave. Il pezzo più atletico del disco è "Bruciare per te", scritto durante la partecipazione ad Amici dello scorso anno: un gioco di esplosione ed implosione mozzafiato, che non lascia indifferente chi ascolta. Per parlare di una vera e propria svolta artistica è presto: sarebbe più corretto dire che "ON" potrebbe segnare il punto di partenza per una nuova e interessante fase della carriera di Elisa, che con queste canzoni si propone in versione più estroversa e "popular" rispetto al passato, come lei stessa ha ammesso. E' un disco dirompente e fisico che, per la rottura che propone, potrebbe far storcere il naso ai fan della prima ora di Elisa: è un album lontano anni luce dalle prime produzioni della cantautrice. E' pop, vero, ma lo è nel senso migliore del termine: un bel mix nel quale convivono tutte le (migliori) sfaccettature della musica degli ultimi cinquant'anni, dalla Motown all'elettronica degli 2000, passando per il funk anni '70, la dance anni '80 e il pop degli anni '90.
La talentuosa artista di Monfalcone tornain studio e produce il suo novo album dal titolo ON.Le tracce in esso presenti all'apparenza posso sembrare docili e calme ma nell'arco di pochi istanti si tramutano in ballate energiche e impetuose.Il disco arriva a circa due anni e mezzo di distanza dal precedente "L'anima vola", album in cui Elisa aveva deciso di cantare solo in italiano per la prima volta.Con "ON", la cantautrice torna a cantare in lingua inglese: solo due dei 13 brani contenuti in questo disco sono infatti cantati in lingua italiana. Tutte le canzoni dll'album sono farina della sola Elisa che si è anche avvalsa delle feuturing con alcuni autori internazionali quali Keely Bumford, Allan D. Rich e Jud Friedman, già autori per Whitney Houston, Ray Charles, Barbra Streisand e Giorgia. L'unica eccezione è rappresentata da "Waste your time on me", scritta da Jack Savoretti insieme a Pedro Vito e Sebastian Sternberg.La produzione del disco si è concentrata nel 2015 e ha toccato molti paese come la Slovenia, Los Angeles,Londra e Verona.Il suono di ON è una vera rivoluzione con i dischi precedenti di Elisa, ci sono meno chitarre e batteria, più tastiere, programmazioni, sintetizzatori e drum machine. Quello che si evidenzia fin da subito dalle prime tracce è un gusto per la musica elettronica, declinata in diverse forme: ci sono le power ballad in stile Sia ("Bad habits" e in parte anche "No hero"), pezzi in cui l'elettronica convive con sonorità più acustiche ("Wast your time on me", con un cameo dell'autore Jack Savoretti; e "Sorrido già", incisa invece con gli amici Giuliano Sangiorgi ed Emma), accenni di trip hop e drum'n'bass ("With the hurt", "Bruciare per te" - tra le influenze del disco, ci sono Diplo e Skrillex) e un paio di episodi dance pop che ricordano le hit delle popstar americane degli anni 2000 ("Ready now" e "Rain over my head").
Accanto a queste incursioni nell'elettronica troviamo una canzone in stile Motown come "Love me forever" (con una ritmica presa in prestito da "Footloose" di Kenny Loggins: Elisa aveva scritto questo brano a quattordici anni, venticinque anni fa), un brano dall'arrangiamento più pianistico come "Love is kinda war", una canzone condita in salsa soul come "Hold on for a minute" (con un'introduzione cupa che ricorda Adele e un ritornello più solare) e una iper-funky come "Peter Pan" (un retaggio della collaborazione con i Kolors dello scorso anno). L'Elisa dei primissimi album "Pipes & flowers", "Asile's World" e "Then comes the Sun" fa capolino in "Catch the light", con un arrangiamento più scarno e asciutto, tutto chitarra elettrica e batteria. "ON" è un disco che si ascolta volentieri, senza stancarsi. Sono canzoni energiche e da ballare, come lo stesso titolo lascia intendere, che giocano sull'effetto sorpresa: partono in una determinata maniera e arrivano poi a percorrere direzioni inaspettate.
Non solo a livello di sonorità, ma anche a livello di struttura musicale, grazie ad una serie di espedienti, su tutti i salti improvvisi di ottave. Il pezzo più atletico del disco è "Bruciare per te", scritto durante la partecipazione ad Amici dello scorso anno: un gioco di esplosione ed implosione mozzafiato, che non lascia indifferente chi ascolta. Per parlare di una vera e propria svolta artistica è presto: sarebbe più corretto dire che "ON" potrebbe segnare il punto di partenza per una nuova e interessante fase della carriera di Elisa, che con queste canzoni si propone in versione più estroversa e "popular" rispetto al passato, come lei stessa ha ammesso. E' un disco dirompente e fisico che, per la rottura che propone, potrebbe far storcere il naso ai fan della prima ora di Elisa: è un album lontano anni luce dalle prime produzioni della cantautrice. E' pop, vero, ma lo è nel senso migliore del termine: un bel mix nel quale convivono tutte le (migliori) sfaccettature della musica degli ultimi cinquant'anni, dalla Motown all'elettronica degli 2000, passando per il funk anni '70, la dance anni '80 e il pop degli anni '90.
NEMICHE PER LA PELLE
di Valeria Piras
Un film che intrattiene con due protagoniste scatenate.
Sono trascorsi ben vent'anni dal film Ferie d’agosto, del 1996 nel quale Paolo Virzì stigmatizzava tic e stereotipi dell’italiano di destra e di sinistra.Luca Lucini (che origina da un soggetto della stessa Margherita Buy, protagonista al fianco di Claudia Gerini) in questa commedia si posiziona su quella falsa riga e continua a giocare con gli stessi tic e gli stessi stereotipi.Nella storia che il film racconta però le due parti opposte, lo ying e lo yang dello Stivale, vengono alla fine a coincidere su un argomento uguale:la famiglia.Sì, perché le Nemiche per la pelle del film imparano a superare i rispettivi egoismi e le radicate idiosincrasie delle loro vite, e a accettarsi (forse perfino a stimarsi) di fronte a un bambino (pure cinese, ci mancherebbe potesse mancare l’accenno al multiculturalismo) che le scioglie lentamente come ghiaccioli al sole.Un bambino, due madri. Non lesbiche, per carità, che per quello la Buy ha già dato in Io e lei, ma comunque donne. E madri.
È bello e giusto, per carità, perché la famiglia è il luogo della cura prima che della biologia: anche se l’affido lo si dà alla madre di destra perché più affidabile.E però è anche troppo facile utilizzare la coperta del Tema per coprire le manchevolezze di un copione che forse va a corrente alternata, che agli stereotipi ci si appoggia per comodità (dai camerieri filippini laureati in Bocconi alla psicoterapia per cani e gatti, passando per le solite case da film e da personaggi di contorno che son poco più che macchiette), e quelle di due attrici che giocano un po' troppo con l’immagine di sé stesse per conquistare, specialmente quando agiscono in autonomia e contrasto, e non sono intrigate da dinamiche di coppia e complicità che invece funzionano di più.
E, nel complesso, una Gerini in stile Meloni è più efficace di una Buy che fa la Buy.Non mancheranno di apprezzare le “cammelle” che la produttrice del film Donatella Botti cita come pubblico di riferimento del film, quelle che altri chiamano “professoresse democratiche”: donne colte di ceto medio-alto, orientate a sinistra. Perché dentro Nemiche per la pelle c’è tutto quello che la carineria della commedia italiana dei buoni sentimenti e del politicamente corretto vuole che ci sia: perfino il personaggio che alla fine si scopre essere gay, e quello dell’artista cialtrone ma simpatico e affascinante.Senza contare la furberia della linea narrativa legata alle lumache e al potere benefico della loro bava per la pelle: perché, si sa, essere mamme non vuol dire mica rinunciare a essere donne.
Sono trascorsi ben vent'anni dal film Ferie d’agosto, del 1996 nel quale Paolo Virzì stigmatizzava tic e stereotipi dell’italiano di destra e di sinistra.Luca Lucini (che origina da un soggetto della stessa Margherita Buy, protagonista al fianco di Claudia Gerini) in questa commedia si posiziona su quella falsa riga e continua a giocare con gli stessi tic e gli stessi stereotipi.Nella storia che il film racconta però le due parti opposte, lo ying e lo yang dello Stivale, vengono alla fine a coincidere su un argomento uguale:la famiglia.Sì, perché le Nemiche per la pelle del film imparano a superare i rispettivi egoismi e le radicate idiosincrasie delle loro vite, e a accettarsi (forse perfino a stimarsi) di fronte a un bambino (pure cinese, ci mancherebbe potesse mancare l’accenno al multiculturalismo) che le scioglie lentamente come ghiaccioli al sole.Un bambino, due madri. Non lesbiche, per carità, che per quello la Buy ha già dato in Io e lei, ma comunque donne. E madri.
È bello e giusto, per carità, perché la famiglia è il luogo della cura prima che della biologia: anche se l’affido lo si dà alla madre di destra perché più affidabile.E però è anche troppo facile utilizzare la coperta del Tema per coprire le manchevolezze di un copione che forse va a corrente alternata, che agli stereotipi ci si appoggia per comodità (dai camerieri filippini laureati in Bocconi alla psicoterapia per cani e gatti, passando per le solite case da film e da personaggi di contorno che son poco più che macchiette), e quelle di due attrici che giocano un po' troppo con l’immagine di sé stesse per conquistare, specialmente quando agiscono in autonomia e contrasto, e non sono intrigate da dinamiche di coppia e complicità che invece funzionano di più.
E, nel complesso, una Gerini in stile Meloni è più efficace di una Buy che fa la Buy.Non mancheranno di apprezzare le “cammelle” che la produttrice del film Donatella Botti cita come pubblico di riferimento del film, quelle che altri chiamano “professoresse democratiche”: donne colte di ceto medio-alto, orientate a sinistra. Perché dentro Nemiche per la pelle c’è tutto quello che la carineria della commedia italiana dei buoni sentimenti e del politicamente corretto vuole che ci sia: perfino il personaggio che alla fine si scopre essere gay, e quello dell’artista cialtrone ma simpatico e affascinante.Senza contare la furberia della linea narrativa legata alle lumache e al potere benefico della loro bava per la pelle: perché, si sa, essere mamme non vuol dire mica rinunciare a essere donne.
ANTI - Rihanna
diValeria Piras
In piena libertà Rihanna dà alla luce un album bello e ricco di novità.
Il mese scorso è arrivato nei negozi il nuovissimo album della popsta Jamaicana Rihanna e le vendite sono schizzate subito alle stelle.Rihanna adesso sembra più libera e autonoma e mentre in passato sfornava un disco ogni dodici mesi adesso si è presa tre anni per dare alla luce il suo nuovo lavoro. Dopo l'ultimo disco “Unapologetic” sembra che finalmente qualcosa è definitivamente cambiato per la cantante bajan, nel modo di concepire il rapporto con la musica, ma anche e soprattutto nella gestione della propria carriera, forte di una libertà che in passato faticava ad affiorare in maniera così netta.il nuovo disco finalmente non strizza l'occhio al ritmo dance, e anche lo spazio per melodie prettamente pop è davvero esiguo. In viaggio nel tempo, tra la contemporaneità più stringente (e comunque debitamente elaborata) e numeri dal personalissimo tocco vintage, “ANTI” è la lucida affermazione di una personalità solidissima nonostante il guardaroba totalmente rinnovato, di radici vecchie ben piantate in nuovi terreni, da colonizzare e rinverdire a modo proprio, in un lucidissimo gioco di riappropriazioni. Strategia interessante, per quanto fanbase e pubblico più generalista siano rimasti a dir poco interdetti: di certo un singolo come “Work”, annebbiata soca al rallentatore ricca di stralunati innesti electro, col suo ossessivo vociare caraibico e la melodia destrutturata in un fluire compatto di fraseggi a cascata (che nemmeno l'intervento di Drake riesce a spezzare del tutto), non è propriamente l'anthem che in molti si aspettavano.
Smacco non da poco per molti, a maggior ragione dopo che un brano come “Bitch Better Have My Money” (saggiamente escluso dall'album, come del resto gli altri due pezzi pubblicati nel 2015) metteva in risalto un'aggressività da trap-queen davvero inusitata per la cantante bajan. Eppure, non si tratta minimamente di una scelta di ripiego.In piena coerenza con l'estetica annuvolata e narcotica del lavoro, a predominare è uno spiccato gusto per una produzione frastagliata e policroma, che riesce a compattarsi attorno a pattern ritmici al rallentatore e sinuosità interpretative di grande varietà, senza per questo scadere in un temibile effetto-raccolta. Tra l'incattivito electro-hop dell'iniziale “Consideration”, attualizzazione e ri-modellazione del graffiante beat della björkiana “5 Years”, le pulsazioni al confine con l'industrial di “Woo” (dotata di una gestione del suono e di una progressione che al Kanye West di “Yeezus” non sarebbe dispiaciuta affatto), intricate elaborazioni nu-r&b sorvegliate da DJ Mustard (“Needed Me”, con un trattamento liquido dell'elemento ritmico paurosamente efficace, scaltro nel rifuggire i possibili contatti con miss Tinashe).Non che il trap virato in chiave Prince di “Kiss It Better” (sorprendente la scelta di non lanciarlo come primo singolo) non mettesse in chiaro come controllo e mimica siano ormai concetti assodati per l'artista.
E' una boccata d'aria sentirla sfoderare gli artigli e mandare all'aria ogni forma di bieco perfezionismo in un numero come “Love On The Brain” oppure preferire sottacere ogni tipo di enfasi, e lasciare che una torch-song dal tocco soft-jazz come “Close To You” si esprima senza bisogno di particolari prove di diaframma (comunque pienamente funzionante nel disperato swing da camera di “Higher”).In questo senso, la capacità di appropriazione e di adattamento proprie di una “Same Ol' Mistakes”, posta strategicamente a raccordo tra i due segmenti dell'album, rappresenta l'occasione migliore per constatare la statura acquisita da un'interprete ormai davvero capace di far ciò che più le pare. Lungi dall'essere la cover-karaoke del quasi omonimo brano dei Tame Impala, Rihanna non soltanto lo arricchisce di nuovi significa(n)ti ma si addentra nelle dinamiche del brano rendendolo perfettamente coerente alla sua vocalità, alle proprie cadenze. Per una non propriamente avvezza al circondario della psichedelia, è un traguardo non di poco conto.Successo o non successo, quel che è certo è che, finalmente, un lavoro di Rihanna riesce a rimanere saldo sui suoi piedi per tutta la durata, senza scivoloni imbarazzanti. Poi potrà dare fastidio a molti che a uscirsene con una prova del genere sia lei, e non qualche protetta della critica internazionale; classici pregiudizi snob a parte, si spera che la strada imboccata con questo ottavo album non sia una semplice deviazione estemporanea.
Il mese scorso è arrivato nei negozi il nuovissimo album della popsta Jamaicana Rihanna e le vendite sono schizzate subito alle stelle.Rihanna adesso sembra più libera e autonoma e mentre in passato sfornava un disco ogni dodici mesi adesso si è presa tre anni per dare alla luce il suo nuovo lavoro. Dopo l'ultimo disco “Unapologetic” sembra che finalmente qualcosa è definitivamente cambiato per la cantante bajan, nel modo di concepire il rapporto con la musica, ma anche e soprattutto nella gestione della propria carriera, forte di una libertà che in passato faticava ad affiorare in maniera così netta.il nuovo disco finalmente non strizza l'occhio al ritmo dance, e anche lo spazio per melodie prettamente pop è davvero esiguo. In viaggio nel tempo, tra la contemporaneità più stringente (e comunque debitamente elaborata) e numeri dal personalissimo tocco vintage, “ANTI” è la lucida affermazione di una personalità solidissima nonostante il guardaroba totalmente rinnovato, di radici vecchie ben piantate in nuovi terreni, da colonizzare e rinverdire a modo proprio, in un lucidissimo gioco di riappropriazioni. Strategia interessante, per quanto fanbase e pubblico più generalista siano rimasti a dir poco interdetti: di certo un singolo come “Work”, annebbiata soca al rallentatore ricca di stralunati innesti electro, col suo ossessivo vociare caraibico e la melodia destrutturata in un fluire compatto di fraseggi a cascata (che nemmeno l'intervento di Drake riesce a spezzare del tutto), non è propriamente l'anthem che in molti si aspettavano.
Smacco non da poco per molti, a maggior ragione dopo che un brano come “Bitch Better Have My Money” (saggiamente escluso dall'album, come del resto gli altri due pezzi pubblicati nel 2015) metteva in risalto un'aggressività da trap-queen davvero inusitata per la cantante bajan. Eppure, non si tratta minimamente di una scelta di ripiego.In piena coerenza con l'estetica annuvolata e narcotica del lavoro, a predominare è uno spiccato gusto per una produzione frastagliata e policroma, che riesce a compattarsi attorno a pattern ritmici al rallentatore e sinuosità interpretative di grande varietà, senza per questo scadere in un temibile effetto-raccolta. Tra l'incattivito electro-hop dell'iniziale “Consideration”, attualizzazione e ri-modellazione del graffiante beat della björkiana “5 Years”, le pulsazioni al confine con l'industrial di “Woo” (dotata di una gestione del suono e di una progressione che al Kanye West di “Yeezus” non sarebbe dispiaciuta affatto), intricate elaborazioni nu-r&b sorvegliate da DJ Mustard (“Needed Me”, con un trattamento liquido dell'elemento ritmico paurosamente efficace, scaltro nel rifuggire i possibili contatti con miss Tinashe).Non che il trap virato in chiave Prince di “Kiss It Better” (sorprendente la scelta di non lanciarlo come primo singolo) non mettesse in chiaro come controllo e mimica siano ormai concetti assodati per l'artista.
E' una boccata d'aria sentirla sfoderare gli artigli e mandare all'aria ogni forma di bieco perfezionismo in un numero come “Love On The Brain” oppure preferire sottacere ogni tipo di enfasi, e lasciare che una torch-song dal tocco soft-jazz come “Close To You” si esprima senza bisogno di particolari prove di diaframma (comunque pienamente funzionante nel disperato swing da camera di “Higher”).In questo senso, la capacità di appropriazione e di adattamento proprie di una “Same Ol' Mistakes”, posta strategicamente a raccordo tra i due segmenti dell'album, rappresenta l'occasione migliore per constatare la statura acquisita da un'interprete ormai davvero capace di far ciò che più le pare. Lungi dall'essere la cover-karaoke del quasi omonimo brano dei Tame Impala, Rihanna non soltanto lo arricchisce di nuovi significa(n)ti ma si addentra nelle dinamiche del brano rendendolo perfettamente coerente alla sua vocalità, alle proprie cadenze. Per una non propriamente avvezza al circondario della psichedelia, è un traguardo non di poco conto.Successo o non successo, quel che è certo è che, finalmente, un lavoro di Rihanna riesce a rimanere saldo sui suoi piedi per tutta la durata, senza scivoloni imbarazzanti. Poi potrà dare fastidio a molti che a uscirsene con una prova del genere sia lei, e non qualche protetta della critica internazionale; classici pregiudizi snob a parte, si spera che la strada imboccata con questo ottavo album non sia una semplice deviazione estemporanea.
ACROBATI - Daniele Silvestri.
di Valeria Piras
Un album maturo da ascoltare d'un fiato.Complimenti a Daniele Silvestri.
Daniele Silvestri torna sulle scene con quello che lui stesso ha definito il suo album più bello e profondo.Un album allo stesso tempo omogeneo, in cui in ogni canzone è ben riconoscibile la firma di Silvestri, ma anche estremamente eterogeneo per storie e racconti. Si intitola Acrobati ed è un titolo perfetto perchè l'artista come un vero acrobata si muove e mescola jazz, pop e mille altre cose, e si presenta con canzoni oneste, le canzoni di un uomo che si avvicina a quella fase della vita in cui viene spontaneo prendere una bilancia e farsi due conti. Insieme a una band messa su per l’occasione di circa 15 elementi, ha deciso di dedicare l’intero lavoro al suo “maestro”, Lucio Dalla, che ha definito “una fonte inesauribile di stimolo.. e libertà espressiva”. Un album pieno, forse fin troppo: un’ora e un quarto, tempo alquanto anacronistico, in cui ci si immerge totalmente nella trasparenza con la quale Daniele Silvestri affronta temi come l’emigrazione, l’instabilità umana, i dolori e le piccole gioie della vita. Se non può essere considerato un album concettuale, gli si avvicina comunque tantissimo.Ma chi sono gli “acrobati”?
Be’, chiunque non si ribella alla propria creatività e la segue (e la insegue) permettendole di tenerlo in equilibrio su un filo sottilissimo, ma sincero. Tutti noi, quindi, in un certo senso siamo acrobati della vita, sempre in cerca di un modo per tenerci in piedi nel marasma della vita che ci spinge via da quel piccolo, piccolissimo spago su cui camminiamo da sempre. Lavoro ironico, schietto, pulito, conferma ancora una volta la validità del cantautore romano.La politica entra a gamba tesa in questo CD, anche se con una chiave di lettura priva di compassione a differenza delle precedenti canzoni. Il singolo che ha preceduto l’uscita dell’album “Quali alibi”, di cui abbiamo già parlato in un articolo a parte, attraverso giochi di parole e allitterazioni, è una forte critica ai governi di seconda mano ed è collegata a “La guerra del sale” che, attraverso altri giochi di parole (“Siamo il sale della Terra, sempre sia iodato”) e l’aiuto di Caparezza, ne diventa praticamente il sequel.
Portandosi dietro la sua anima artistica, il cantautore ci porta con lui a dare un’occhiata al nostro modo di essere acrobati, di lasciare che la creatività ci insegni l’equilibrio. Un equilibrio perso, come in “La mia casa” che ci ricorda l’importanza del modo di dire “tutto il mondo è paese”; l’equilibrio incredibilmente ritrovato di “Così vicina”, nonostante il sordido dolore delle fine note e già conosciute; un equilibrio caotico, ma presente come in “Un altro bicchiere” in cui la routine del bere il sabato sera diventa l’àncora di salvezza.Dopo l'attento ascolto del disco il risultato è quello di essere diventati più critici e attenti verso il mondo, alla fine Daniele Silvestri merita applausi convinti per un lavoro musicale davvero ottimo,punto massimo del suo talento artistico.
Daniele Silvestri torna sulle scene con quello che lui stesso ha definito il suo album più bello e profondo.Un album allo stesso tempo omogeneo, in cui in ogni canzone è ben riconoscibile la firma di Silvestri, ma anche estremamente eterogeneo per storie e racconti. Si intitola Acrobati ed è un titolo perfetto perchè l'artista come un vero acrobata si muove e mescola jazz, pop e mille altre cose, e si presenta con canzoni oneste, le canzoni di un uomo che si avvicina a quella fase della vita in cui viene spontaneo prendere una bilancia e farsi due conti. Insieme a una band messa su per l’occasione di circa 15 elementi, ha deciso di dedicare l’intero lavoro al suo “maestro”, Lucio Dalla, che ha definito “una fonte inesauribile di stimolo.. e libertà espressiva”. Un album pieno, forse fin troppo: un’ora e un quarto, tempo alquanto anacronistico, in cui ci si immerge totalmente nella trasparenza con la quale Daniele Silvestri affronta temi come l’emigrazione, l’instabilità umana, i dolori e le piccole gioie della vita. Se non può essere considerato un album concettuale, gli si avvicina comunque tantissimo.Ma chi sono gli “acrobati”?
Be’, chiunque non si ribella alla propria creatività e la segue (e la insegue) permettendole di tenerlo in equilibrio su un filo sottilissimo, ma sincero. Tutti noi, quindi, in un certo senso siamo acrobati della vita, sempre in cerca di un modo per tenerci in piedi nel marasma della vita che ci spinge via da quel piccolo, piccolissimo spago su cui camminiamo da sempre. Lavoro ironico, schietto, pulito, conferma ancora una volta la validità del cantautore romano.La politica entra a gamba tesa in questo CD, anche se con una chiave di lettura priva di compassione a differenza delle precedenti canzoni. Il singolo che ha preceduto l’uscita dell’album “Quali alibi”, di cui abbiamo già parlato in un articolo a parte, attraverso giochi di parole e allitterazioni, è una forte critica ai governi di seconda mano ed è collegata a “La guerra del sale” che, attraverso altri giochi di parole (“Siamo il sale della Terra, sempre sia iodato”) e l’aiuto di Caparezza, ne diventa praticamente il sequel.
Portandosi dietro la sua anima artistica, il cantautore ci porta con lui a dare un’occhiata al nostro modo di essere acrobati, di lasciare che la creatività ci insegni l’equilibrio. Un equilibrio perso, come in “La mia casa” che ci ricorda l’importanza del modo di dire “tutto il mondo è paese”; l’equilibrio incredibilmente ritrovato di “Così vicina”, nonostante il sordido dolore delle fine note e già conosciute; un equilibrio caotico, ma presente come in “Un altro bicchiere” in cui la routine del bere il sabato sera diventa l’àncora di salvezza.Dopo l'attento ascolto del disco il risultato è quello di essere diventati più critici e attenti verso il mondo, alla fine Daniele Silvestri merita applausi convinti per un lavoro musicale davvero ottimo,punto massimo del suo talento artistico.
FOREVER YOUNG
di Valeria Piras
Una pura e divertente commedia italiana.Applauso a Brizzi.
Nelle sale il nono film del regista Fausto Brizzi.La sua carriera partì con Notte prima degli esami, e oggi il suo nuovo lavoro è Forever Young, sono passati dieci anni esatti. Molte cose sono successe,crescite e cadute ma questo film racchiude bene tutte le peculiarità del cinema del miglior Brizzi, quello dell’esordio e dei suoi passaggi più invitanti e persuasivi.Il tema è nel titolo. Che da lontano parte da un mito, quello dell’eterna giovinezza. E da vicino resta nei paraggi dell’illusione. A volte della nostalgia. Poi c’è il rovescio, quello generato dalla paura d’invecchiare e dalla guerra di posizione con lo specchio, avversario da schivare, pericolo da scongiurare nello scorrere sanguinante del tempo. Si tratta quindi di temi molto seri che danno uno sfondo importante alla commedia pur restando sottotraccia.Fondamentalmente quindi ci si diverte: sui cinquantenni (e oltre) di oggi che, rispetto a quelli di ieri, hanno molti strumenti – look in primo piano - per alimentare la vocazione alla loro stagione primaverile.
Commedia corale, come è evidente.Dove sono i giovani, quelli realmente tali, a dettare le conclusioni e agire in funzione di quel “nemico” chiamato specchio. Con personaggi ventilati e luminosi, risoluzioni di dialogo brillanti e una struttura decisamente fuori schema nelle misure narrative cui da sempre Brizzi si applica nell’originalità della sua sfera creativa. I vari Franco, Diego, Angela, Sonia e Giorgio vengono pedinati con curiosità. Sono perfettamente convinti dei loro atteggiamenti, insomma “ci credono”. Il ridicolo o il patetico si realizzano per induzione e la “resa” è conseguente. Più inesorabile che consapevole, frutto degli eventi e non di una scelta. Si ride molto, grazie all’estrema compatibilità degli attori con le loro parti e alle situazioni che attorno a loro si realizzano, ora in climi di equivoci ora con sapide trovate di sceneggiatura.
Divertono le performance rotonde di Bentivoglio e Lillo (qua con autonome incombenze rispetto al consueto operare col partner Greg), del fragoroso Teocoli, del duetto Ferilli-Ranieri che nella sua vagante animazione ormonale/umorale un pò ricorda l’intreccio di Prime con Uma Thurman innamorata del figlio ventitreenne della sua psicanalista Meryl Streep. Un racconto fatto di segmenti diversi armonicamente e spassosamente combinati, con una freschezza che disegna nel continuo gioco di contrasti un colorato ritratto di irriducibili generazionali. Né realismo né caricatura, solo vivace e sana commedia.
Nelle sale il nono film del regista Fausto Brizzi.La sua carriera partì con Notte prima degli esami, e oggi il suo nuovo lavoro è Forever Young, sono passati dieci anni esatti. Molte cose sono successe,crescite e cadute ma questo film racchiude bene tutte le peculiarità del cinema del miglior Brizzi, quello dell’esordio e dei suoi passaggi più invitanti e persuasivi.Il tema è nel titolo. Che da lontano parte da un mito, quello dell’eterna giovinezza. E da vicino resta nei paraggi dell’illusione. A volte della nostalgia. Poi c’è il rovescio, quello generato dalla paura d’invecchiare e dalla guerra di posizione con lo specchio, avversario da schivare, pericolo da scongiurare nello scorrere sanguinante del tempo. Si tratta quindi di temi molto seri che danno uno sfondo importante alla commedia pur restando sottotraccia.Fondamentalmente quindi ci si diverte: sui cinquantenni (e oltre) di oggi che, rispetto a quelli di ieri, hanno molti strumenti – look in primo piano - per alimentare la vocazione alla loro stagione primaverile.
Commedia corale, come è evidente.Dove sono i giovani, quelli realmente tali, a dettare le conclusioni e agire in funzione di quel “nemico” chiamato specchio. Con personaggi ventilati e luminosi, risoluzioni di dialogo brillanti e una struttura decisamente fuori schema nelle misure narrative cui da sempre Brizzi si applica nell’originalità della sua sfera creativa. I vari Franco, Diego, Angela, Sonia e Giorgio vengono pedinati con curiosità. Sono perfettamente convinti dei loro atteggiamenti, insomma “ci credono”. Il ridicolo o il patetico si realizzano per induzione e la “resa” è conseguente. Più inesorabile che consapevole, frutto degli eventi e non di una scelta. Si ride molto, grazie all’estrema compatibilità degli attori con le loro parti e alle situazioni che attorno a loro si realizzano, ora in climi di equivoci ora con sapide trovate di sceneggiatura.
Divertono le performance rotonde di Bentivoglio e Lillo (qua con autonome incombenze rispetto al consueto operare col partner Greg), del fragoroso Teocoli, del duetto Ferilli-Ranieri che nella sua vagante animazione ormonale/umorale un pò ricorda l’intreccio di Prime con Uma Thurman innamorata del figlio ventitreenne della sua psicanalista Meryl Streep. Un racconto fatto di segmenti diversi armonicamente e spassosamente combinati, con una freschezza che disegna nel continuo gioco di contrasti un colorato ritratto di irriducibili generazionali. Né realismo né caricatura, solo vivace e sana commedia.
THE DANISH GIRL.
di Valeria Piras
Una storia vera di infinita dignità e amore.
Nelle sale da alcuni giorni il film The Danish Girl, che racconta la vita di Mogens Einar Wegener divenuto poi Lili Elbe prima persona nella Storia ad essere identificata come transessuale e prima ad essersi sottoposta a una serie di interventi chirurgici per cambiare sesso. Siamo agli inizi del Novecento, in Danimarca, immersi negli ambienti dell’Arte del tempo. Nel 2001 David Ebershoff scrisse un libro sulla storia che dà anche il nome al film diretto da Tom Hopper ( Il Discorso del Re, I Miserabili ) e interpretato da Eddie Redmayne e Alicia Vikander entrambi in corsa per gli Oscar 2016 nelle categorie miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista, inoltre la pellicola è nominata per la Scenografia e i Costumi. Nelle due ore di The Danish Girl sembra di stare in un ritratto in movimento. C’è un incredibile cura nella ricostruzione d’epoca e le nomination per Ewe Stewart e Paco Delgado sembrano quasi obbligate. Ci immergiano nelle trame degli splendidi costumi anni Venti oggi ancora modernissimi, riusciamo quasi a sentire l’odore del decor del tempo, degli ambienti altolocati dove il passaggio da Copenhagen a Parigi è sottolineato da un elegante scarto cromatico, nel salto di gamma di colori. Insomma, lezioni di scenografia.Se questo aspetto serve ad esaltare i continui ritratti di The Danish Girl la parte del movimento è data dalla regia di Tom Hopper sempre pronta a farsi notare: cambi di fuoco all’interno della stessa inquadratura, frequenti cambi di ottica che talvolta schiacciano i protagonisti in una realtà che li opprime, talvolta li rendono più distanti, come se fossero isolati.
È una regia sapiente anche se troppo spesso compiaciuta.Parlando dei protagonisti di questo raffinato ritratto in moto un forte applauso va fatto per i due attori, Redmayne e Vikander, che ci regalano due prove di pregio, forti. È evidente la bravura di Redmayne che dopo l’Hawking de La Teoria del Tutto che gli è valso l’Oscar l’anno scorso, ora è chiamato a un'altra classica prova di “trasformazione”.Alicia Vikander e la sua prova sono le parti più belle del film, il valido motivo per cui vale la pena guardare The Danish Girl.
E siamo d’accordo con chi afferma che lei meriti l’Oscar più di Redmayne che sì ha dato una bella prova ma tradizionale nella sua logica. La Vikander scrive tutto col suo viso, il passaggio e il paesaggio della sua sofferenza è tutto in quei suoi occhi scuri incastonati nel viso piccolo ed espressivo. Esprime tutti gli accenti dell’amore, non un sentimento per i cantautori ma un sacrificio che ci definisce nelle azioni. In lei c’è tutto il conflitto del voler bene, come comportarsi con chi si ama: aiutarlo nella propria strada pure se questa prevede un allontanamento oppure tenere l’amato stretto a sè creandogli dolore? Gerda la risposta la conosce ma è il modo in cui risponde che è una grande testimonianza di vita.
Nelle sale da alcuni giorni il film The Danish Girl, che racconta la vita di Mogens Einar Wegener divenuto poi Lili Elbe prima persona nella Storia ad essere identificata come transessuale e prima ad essersi sottoposta a una serie di interventi chirurgici per cambiare sesso. Siamo agli inizi del Novecento, in Danimarca, immersi negli ambienti dell’Arte del tempo. Nel 2001 David Ebershoff scrisse un libro sulla storia che dà anche il nome al film diretto da Tom Hopper ( Il Discorso del Re, I Miserabili ) e interpretato da Eddie Redmayne e Alicia Vikander entrambi in corsa per gli Oscar 2016 nelle categorie miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista, inoltre la pellicola è nominata per la Scenografia e i Costumi. Nelle due ore di The Danish Girl sembra di stare in un ritratto in movimento. C’è un incredibile cura nella ricostruzione d’epoca e le nomination per Ewe Stewart e Paco Delgado sembrano quasi obbligate. Ci immergiano nelle trame degli splendidi costumi anni Venti oggi ancora modernissimi, riusciamo quasi a sentire l’odore del decor del tempo, degli ambienti altolocati dove il passaggio da Copenhagen a Parigi è sottolineato da un elegante scarto cromatico, nel salto di gamma di colori. Insomma, lezioni di scenografia.Se questo aspetto serve ad esaltare i continui ritratti di The Danish Girl la parte del movimento è data dalla regia di Tom Hopper sempre pronta a farsi notare: cambi di fuoco all’interno della stessa inquadratura, frequenti cambi di ottica che talvolta schiacciano i protagonisti in una realtà che li opprime, talvolta li rendono più distanti, come se fossero isolati.
È una regia sapiente anche se troppo spesso compiaciuta.Parlando dei protagonisti di questo raffinato ritratto in moto un forte applauso va fatto per i due attori, Redmayne e Vikander, che ci regalano due prove di pregio, forti. È evidente la bravura di Redmayne che dopo l’Hawking de La Teoria del Tutto che gli è valso l’Oscar l’anno scorso, ora è chiamato a un'altra classica prova di “trasformazione”.Alicia Vikander e la sua prova sono le parti più belle del film, il valido motivo per cui vale la pena guardare The Danish Girl.
E siamo d’accordo con chi afferma che lei meriti l’Oscar più di Redmayne che sì ha dato una bella prova ma tradizionale nella sua logica. La Vikander scrive tutto col suo viso, il passaggio e il paesaggio della sua sofferenza è tutto in quei suoi occhi scuri incastonati nel viso piccolo ed espressivo. Esprime tutti gli accenti dell’amore, non un sentimento per i cantautori ma un sacrificio che ci definisce nelle azioni. In lei c’è tutto il conflitto del voler bene, come comportarsi con chi si ama: aiutarlo nella propria strada pure se questa prevede un allontanamento oppure tenere l’amato stretto a sè creandogli dolore? Gerda la risposta la conosce ma è il modo in cui risponde che è una grande testimonianza di vita.
PERFETTI SCONOSCIUTI
di Valeria Piras
Una bella commedia italiana che fa riflettere su noi stessi.
Nelle sale da pochi giorni il nuovo film di Paolo Genovese dal titolo Perfetti Sconosciuti.Una bella commedia brillante corale che indaga sulla vita segreta che ognuno di noi volente e nolente possiede.Conosciamo tutto del nostro partner?Questa è la domanda che domina il film dall'inizio.Si tratta certamente di una commedia dolce-amara sui rapporti sociali legati indissolubilmente dalla tecnologia. La trama ci parla di un gruppo di solidi amici di lunga data che si incontrano per una cena che dovrebbe regalare vecchi e piacevoli ricordi, ma che invece si trasforma in un gioco pericoloso, destinato a rimettere in discussione i rapporti sentimentali dei presenti. Così decidono di mettere sul tavolo tutti i propri cellulari e lasciarli allo scoperto: chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social diventano alla portata di tutti e svelano la loro natura più velenosa. E appena il gioco inizia, tra flirt, incomprensioni, e provocazioni, tutti iniziano a rendersi conto che la scatola nera – il proprio smartphone – li porterà a conseguenze inaspettate. Perfetti Sconosciuti possiede un bel cast di attori bravi e in sintonia tra loro: si parte da Marco Giallini, nel ruolo del buon padre e marito di famiglia, sposato con Kasia Smutniak, madre alle prese con la figlia adolescente, Edoardo Leo, affascinante e innamorato dell’ingenua Alba Rohrwacher fino al buon amico Giuseppe Battiston e concludendo con la coppia sposata, ormai stanca e spenta, composta da Valerio Mastrandrea e Anna Foglietta. Lo spunto di Genovese appare chiaro: parte dalla commedia all’italiana, riunendo un gruppo di persone in una stanza e poi passa all’arte e al teatro, e inizia a massacrare ciascun personaggio fino all’osso.
In un gioco ‘moderno’ in cui la scatola nera – il cellulare – rivela noi stessi agli altri, Perfetti Sconosciuti non è altro che il racconto della società di oggi e di noi, troppi presi dai nostri smartphone per renderci conto delle persone che abbiamo intorno. Le tre coppie rappresentano infatti l’emblema delle relazioni sociali: Bianca e Cosimo (Rohrwacher e Leo), appena sposati e innamoratissimi; Rocco ed Eva (Giallini e Smutniak), una coppia apparentemente perfetta, uno troppo umano e sensibile, l’altra complicata; e infine, gli estremi Lele e Carlotta (Mastrandrea e Foglietta), con un matrimonio arrivato al capolinea e tanti segreti dietro il loro comportamento sospetto.
Infine, il single (ma solo per la serata) del gruppo, Peppe (Battinston) che la sera della cena si presenta solo perché la nuova fidanzata è ammalata.Paolo Genovese adotta un tono non troppo comico né drammatico, ma si attiene su entrambi i lati per intrattenere il pubblico, fino al finale inaspettato, quasi shakesperiano, che apre parecchie domande. Prima fra queste: quante coppie si sfascerebbero se quella minuscola schedina del nostro cellulare si mettesse a parlare? Perfetti Sconosciuti non sarà la commedia dell’anno ma certamente pone molti spunti di riflessione sulle relazioni sociali e su come la tecnologia ci abbia reso tangibili.
Nelle sale da pochi giorni il nuovo film di Paolo Genovese dal titolo Perfetti Sconosciuti.Una bella commedia brillante corale che indaga sulla vita segreta che ognuno di noi volente e nolente possiede.Conosciamo tutto del nostro partner?Questa è la domanda che domina il film dall'inizio.Si tratta certamente di una commedia dolce-amara sui rapporti sociali legati indissolubilmente dalla tecnologia. La trama ci parla di un gruppo di solidi amici di lunga data che si incontrano per una cena che dovrebbe regalare vecchi e piacevoli ricordi, ma che invece si trasforma in un gioco pericoloso, destinato a rimettere in discussione i rapporti sentimentali dei presenti. Così decidono di mettere sul tavolo tutti i propri cellulari e lasciarli allo scoperto: chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social diventano alla portata di tutti e svelano la loro natura più velenosa. E appena il gioco inizia, tra flirt, incomprensioni, e provocazioni, tutti iniziano a rendersi conto che la scatola nera – il proprio smartphone – li porterà a conseguenze inaspettate. Perfetti Sconosciuti possiede un bel cast di attori bravi e in sintonia tra loro: si parte da Marco Giallini, nel ruolo del buon padre e marito di famiglia, sposato con Kasia Smutniak, madre alle prese con la figlia adolescente, Edoardo Leo, affascinante e innamorato dell’ingenua Alba Rohrwacher fino al buon amico Giuseppe Battiston e concludendo con la coppia sposata, ormai stanca e spenta, composta da Valerio Mastrandrea e Anna Foglietta. Lo spunto di Genovese appare chiaro: parte dalla commedia all’italiana, riunendo un gruppo di persone in una stanza e poi passa all’arte e al teatro, e inizia a massacrare ciascun personaggio fino all’osso.
In un gioco ‘moderno’ in cui la scatola nera – il cellulare – rivela noi stessi agli altri, Perfetti Sconosciuti non è altro che il racconto della società di oggi e di noi, troppi presi dai nostri smartphone per renderci conto delle persone che abbiamo intorno. Le tre coppie rappresentano infatti l’emblema delle relazioni sociali: Bianca e Cosimo (Rohrwacher e Leo), appena sposati e innamoratissimi; Rocco ed Eva (Giallini e Smutniak), una coppia apparentemente perfetta, uno troppo umano e sensibile, l’altra complicata; e infine, gli estremi Lele e Carlotta (Mastrandrea e Foglietta), con un matrimonio arrivato al capolinea e tanti segreti dietro il loro comportamento sospetto.
Infine, il single (ma solo per la serata) del gruppo, Peppe (Battinston) che la sera della cena si presenta solo perché la nuova fidanzata è ammalata.Paolo Genovese adotta un tono non troppo comico né drammatico, ma si attiene su entrambi i lati per intrattenere il pubblico, fino al finale inaspettato, quasi shakesperiano, che apre parecchie domande. Prima fra queste: quante coppie si sfascerebbero se quella minuscola schedina del nostro cellulare si mettesse a parlare? Perfetti Sconosciuti non sarà la commedia dell’anno ma certamente pone molti spunti di riflessione sulle relazioni sociali e su come la tecnologia ci abbia reso tangibili.
SKUNK ANANSIE - Anarchytecture
di Valeria Piras
Skin torna con un nuovo album cupo ma pieno di dolcezza.
Il classico impatto stordente di alcuni anni fa è forse diminuito ma Skin e la sua band restano una ventata sempre nuova e fresca nel panorama rock europeo grazie soprattutto ai temi scottanti di cui parla come sessualità, religione, politica.Anche il suo nuovo disco uscito il mese scorso dal titolo “Anarchytecture” non si esime da ciò.Questo Sesto album, il terzo da quando laformazione inglese s’è riunita nel 2009, mette assieme programmazioni e riff d’altri tempi, quando la chitarra elettrica era il feticcio intoccabile del rock e già si pensava che la modernità passasse attraverso l’elettronica. Skin usa questi strumenti per cantare per lo più d’amore in una serie di canzoni dal tono cupo che sembrerebbero riflettere il tumulto cui è stata sottoposta la sua vita privata dopo la separazione dall’americana Christiana Wyly cui era legata da civil partnership. Ecco allora una serie di canzoni – non tutte, ma una parte significativa sì – che riflettono sulla natura instabile delle relazioni sentimentali, sull'caos e ordine: anarchia e architettura, appunto. Come “Beauty is your curse” con l’immagine della donna che si scrolla di dosso i pezzetti di vita della cantante come ci si spazza la polvere dalla giacca. In una canzone l’amore è una droga, in un’altra una luce accecante, altrove è una mancanza che rende impossibile la vita. In fondo alla scaletta, in un pezzo delicato con l’accompagnamento di chitarra acustica intitolato “I’ll let you down”, Skin sembra assumersi ogni colpa, ma non è dato sapere se stia cantando in prima persona della sua relazione.
È in ogni caos un finale accorato per un album che fin dall'ossimoro del titolo, mira a raccontare come il disordine possa sconvolgere vite che sembravano perfette. Pezzi dal carattere politico come “Bullets” o “We are the flames” fanno sembrare quel titolo, “Anarchytecture”, una metafora dei nostri tempi ed è la lettura che ha guadagnato i titoli dei quotidiani italiani.Prodotto ai RAK Studios di Londra da Tom Dalgety (Royal Blood, Band of Skulls, Killing Joke), “Anarchytecture” è costruito per inquietare nella prima parte e per aggredire nella seconda. Strizza l’occhio alla dance nel singolo “Love someone else”, sfiora il trip-hop nel beat della ballata “Death to the lovers”, mischia disco e rock per “In the back room”, si fa gracchiante e cupo in “Bullets”. Se già “Beauty is your curse” ha un riff molto anni ’70, “That sinking feeling” ha quel po’ di energia rock’n’roll che manca al resto dell’album. Ed è un peccato che l’altrettanto promettente “Suckers!” sia solo un riffone mostruoso alla Rage Against The Machine che dura un minuto e venti. L’album “potrebbe piacere agli italiani”, ha scritto maliziosamente l’inglese Evening Standard. E in effetti, dato il successo che ottengono soprattutto da noi più che altrove, gli Skunk Anansie un po’ italiani lo sono diventati, a sufficienza da vedere gente ai firmacopie dell'album che fa il verso a Skin urlandole “Attacca!”.
L’unione di rock ed elettronica di “Anarchytecture” riflette un modo di fare musica tipico dei tardi anni ’90 che gli Skunk Anansie sperimentano dai tempi di “Charlie big potato”. Gli amanti delle ballate della band non troveranno una nuova “Hedonism”. C’è “Death to the lovers” dove la band costruisce strofa e bridge dai toni melodrammatici, ma decide di non cavalcarli con un ritornello memorabile, il punto di forza resta Skin. Dagli acuti di “Victim” al grido accorato di “Beauty is your curse” all’aggressività frenetica di “That sinking feeling”, dimostra d’essere una cantante espressiva e versatile. Mette in queste canzoni il mix di dolcezza e aggressività e ci aggiunge quel po’ di vulnerabilità che rende il suo personaggio meno marziano e più simile a noi.
Il classico impatto stordente di alcuni anni fa è forse diminuito ma Skin e la sua band restano una ventata sempre nuova e fresca nel panorama rock europeo grazie soprattutto ai temi scottanti di cui parla come sessualità, religione, politica.Anche il suo nuovo disco uscito il mese scorso dal titolo “Anarchytecture” non si esime da ciò.Questo Sesto album, il terzo da quando laformazione inglese s’è riunita nel 2009, mette assieme programmazioni e riff d’altri tempi, quando la chitarra elettrica era il feticcio intoccabile del rock e già si pensava che la modernità passasse attraverso l’elettronica. Skin usa questi strumenti per cantare per lo più d’amore in una serie di canzoni dal tono cupo che sembrerebbero riflettere il tumulto cui è stata sottoposta la sua vita privata dopo la separazione dall’americana Christiana Wyly cui era legata da civil partnership. Ecco allora una serie di canzoni – non tutte, ma una parte significativa sì – che riflettono sulla natura instabile delle relazioni sentimentali, sull'caos e ordine: anarchia e architettura, appunto. Come “Beauty is your curse” con l’immagine della donna che si scrolla di dosso i pezzetti di vita della cantante come ci si spazza la polvere dalla giacca. In una canzone l’amore è una droga, in un’altra una luce accecante, altrove è una mancanza che rende impossibile la vita. In fondo alla scaletta, in un pezzo delicato con l’accompagnamento di chitarra acustica intitolato “I’ll let you down”, Skin sembra assumersi ogni colpa, ma non è dato sapere se stia cantando in prima persona della sua relazione.
È in ogni caos un finale accorato per un album che fin dall'ossimoro del titolo, mira a raccontare come il disordine possa sconvolgere vite che sembravano perfette. Pezzi dal carattere politico come “Bullets” o “We are the flames” fanno sembrare quel titolo, “Anarchytecture”, una metafora dei nostri tempi ed è la lettura che ha guadagnato i titoli dei quotidiani italiani.Prodotto ai RAK Studios di Londra da Tom Dalgety (Royal Blood, Band of Skulls, Killing Joke), “Anarchytecture” è costruito per inquietare nella prima parte e per aggredire nella seconda. Strizza l’occhio alla dance nel singolo “Love someone else”, sfiora il trip-hop nel beat della ballata “Death to the lovers”, mischia disco e rock per “In the back room”, si fa gracchiante e cupo in “Bullets”. Se già “Beauty is your curse” ha un riff molto anni ’70, “That sinking feeling” ha quel po’ di energia rock’n’roll che manca al resto dell’album. Ed è un peccato che l’altrettanto promettente “Suckers!” sia solo un riffone mostruoso alla Rage Against The Machine che dura un minuto e venti. L’album “potrebbe piacere agli italiani”, ha scritto maliziosamente l’inglese Evening Standard. E in effetti, dato il successo che ottengono soprattutto da noi più che altrove, gli Skunk Anansie un po’ italiani lo sono diventati, a sufficienza da vedere gente ai firmacopie dell'album che fa il verso a Skin urlandole “Attacca!”.
L’unione di rock ed elettronica di “Anarchytecture” riflette un modo di fare musica tipico dei tardi anni ’90 che gli Skunk Anansie sperimentano dai tempi di “Charlie big potato”. Gli amanti delle ballate della band non troveranno una nuova “Hedonism”. C’è “Death to the lovers” dove la band costruisce strofa e bridge dai toni melodrammatici, ma decide di non cavalcarli con un ritornello memorabile, il punto di forza resta Skin. Dagli acuti di “Victim” al grido accorato di “Beauty is your curse” all’aggressività frenetica di “That sinking feeling”, dimostra d’essere una cantante espressiva e versatile. Mette in queste canzoni il mix di dolcezza e aggressività e ci aggiunge quel po’ di vulnerabilità che rende il suo personaggio meno marziano e più simile a noi.
REVENANT
di Valeria Piras
Inarritu e Di Caprio,una coppia incredibile per un film che lascerà il segno.
Il nuovo filn di Alejandro González Iñárritu Revenant lascerà sicuramente il segno in questo 2016 cinematografico.E' un attesissimo ritorno quello di Iñárritu dopo i 3 Oscar vinti con Birdman (film, regia e sceneggiatura) e il regista ha deciso di fare un ritorno eccezionale scegliendo come suo protagonista Leonardo DiCaprio, miglior 40enne su piazza ormai ossessionato da quella statuetta che l'Academy ancora non gli ha donato.Il film tratta della leggendaria storia di Hugh Glass, esploratore e cacciatore di pellicce che nel 1822 intraprese un viaggio di tremila miglia, attraverso le condizioni più estreme,sopravvivendo ai pericoli e alle minacce della natura e degli uomini, mosso unicamente dalla più incrollabile delle volontà: quella di un uomo che cerca la sua vendetta. Ingredienti accattivanti resi ancor più straordinari dalla sbalorditiva regia di un Inarritu che ha fatto suo un posto nella storia del cinema contemporaneo. Perché Revenant è un'opera stupefacente, e non solo per i motivi sopra elencati.
Liberamente ispirato allo splendido nonché omonimo libro di Michael Punke.145 minuti nella natura selvaggia, quella vera, pericolosa, sudicia e incontaminata, che trasuda gelo, paura e sangue, illuminata da una fotografia celestiale nella sua autenticità. 2 ore e mezza di film percorse da scene grandiose, che più e più volte lasciano sbigottito chi osserva, sin da quei primissimi minuti di battaglia tra cacciatori di pellicce e indiani. Era dai tempi dello spilberghiano sbarco in Normandia che non vedevamo al cinema uno scontro bellico tanto cruento e credibile, tra frecce che trafiggono teste, fucilate a bruciapelo, cavalli abbattuti, coltellate, asce impazzite e alberi in fiamme. Un incipit da brividi che Inarritu dirige come se fosse un coreografo, danzando tra morti e sopravvissuti. Tra questi spicca lui, un mastodontico Leonardo DiCaprio che per oltre metà film non dice una parola, perché impossibilitato a parlare.
Recitazione corporea, fatta di sguardi e piccoli gesti, grugniti e spasmi. L'ennesima prova del più grande attore della propria generazione.Un'opera viscerale e travolgente, grandiosa dal punto di vista tecnico e memorabile in ambito produttivo, imperfetta e innegabilmente 'scarna' tanto nell'evoluzione quanto nella caratterizzazione della sua trama, ma visivamente parlando epocale.
Il nuovo filn di Alejandro González Iñárritu Revenant lascerà sicuramente il segno in questo 2016 cinematografico.E' un attesissimo ritorno quello di Iñárritu dopo i 3 Oscar vinti con Birdman (film, regia e sceneggiatura) e il regista ha deciso di fare un ritorno eccezionale scegliendo come suo protagonista Leonardo DiCaprio, miglior 40enne su piazza ormai ossessionato da quella statuetta che l'Academy ancora non gli ha donato.Il film tratta della leggendaria storia di Hugh Glass, esploratore e cacciatore di pellicce che nel 1822 intraprese un viaggio di tremila miglia, attraverso le condizioni più estreme,sopravvivendo ai pericoli e alle minacce della natura e degli uomini, mosso unicamente dalla più incrollabile delle volontà: quella di un uomo che cerca la sua vendetta. Ingredienti accattivanti resi ancor più straordinari dalla sbalorditiva regia di un Inarritu che ha fatto suo un posto nella storia del cinema contemporaneo. Perché Revenant è un'opera stupefacente, e non solo per i motivi sopra elencati.
Liberamente ispirato allo splendido nonché omonimo libro di Michael Punke.145 minuti nella natura selvaggia, quella vera, pericolosa, sudicia e incontaminata, che trasuda gelo, paura e sangue, illuminata da una fotografia celestiale nella sua autenticità. 2 ore e mezza di film percorse da scene grandiose, che più e più volte lasciano sbigottito chi osserva, sin da quei primissimi minuti di battaglia tra cacciatori di pellicce e indiani. Era dai tempi dello spilberghiano sbarco in Normandia che non vedevamo al cinema uno scontro bellico tanto cruento e credibile, tra frecce che trafiggono teste, fucilate a bruciapelo, cavalli abbattuti, coltellate, asce impazzite e alberi in fiamme. Un incipit da brividi che Inarritu dirige come se fosse un coreografo, danzando tra morti e sopravvissuti. Tra questi spicca lui, un mastodontico Leonardo DiCaprio che per oltre metà film non dice una parola, perché impossibilitato a parlare.
Recitazione corporea, fatta di sguardi e piccoli gesti, grugniti e spasmi. L'ennesima prova del più grande attore della propria generazione.Un'opera viscerale e travolgente, grandiosa dal punto di vista tecnico e memorabile in ambito produttivo, imperfetta e innegabilmente 'scarna' tanto nell'evoluzione quanto nella caratterizzazione della sua trama, ma visivamente parlando epocale.
THE HATEFUL EIGHT.
di Valeria Piras
Altra prova magistrale del grande Quentin Tarantino.
È appena uscita in America The Hateful Eight, l’ultimo film di Quentin Tarantino, in Europa e quindi in Italia il film arriverà i primi giorni del mese di Febbraio.I critici di settore hanno dato opinione decisamente positiva: l’esperimento del regista e sceneggiatore è pienamente riuscito, ossia mescolare sapientemente atmosfere e situazioni western all’interno di una trama tipicamente da giallo. La trama è sostanzialmente semplice, ma la sceneggiatura di Tarantino si mostra impeccabile nel costruire eventi e situazioni che ruotano intorno a soggetti ancora una volta sapientemente caratterizzati.Il tema del dubbio che assale tutti i protagonisti della pellicola, la rende una sorta di giallo da camera. Gran parte del film, infatti, è ambientato all’interno della locanda e, ad eccezione di poche scene d’azione, è fortemente caratterizzato da dialoghi molto lunghi e coinvolgenti.
Le musiche sono come sempre del maestro Ennio Morricone, mentre gli effetti speciali del duo Nicotero-Berger.The Hateful Eight sarà secondo molti esperti uno dei film più belli di questa stagione cinematografica. Tarantino riesce a portare Agatha Christie nelle atmosfere da saloon tipiche del vecchio west. Ancora una volta, uno dei temi pregnanti dell’opera tarantiniana è quello del razzismo che ha caratterizzato lo sviluppo e la cultura americane. Stavolta, però, a prevalere sull’odio razziale è la ragione: logica deduttiva messa in campo per dissipare tutti i dubbi che attanagliano i personaggi dell’opera, e che si fa poi vendetta nello splendido finale che naturalmente non vi spoileremo.Per quasi 3 ore, Quentin ci lascia incollati allo schermo, grazie ad un film avvincente e soprattutto coinvolgente che sembra davvero non avere difetti.
In ogni suo lavoro cinematografico, Tarantino sembra riuscire a superarsi, infatti a fine pellicola anche gli spettatori sono assaliti dal dubbio: si tratta del miglior film del regista statunitense? Difficile dirlo visto il curriculum, ma sicuramente è uno dei più belli . Magistrali anche la prove degli attori, tutti bravi nel rappresentare personaggi odiosi ed al contempo estremamente carismatici.
È appena uscita in America The Hateful Eight, l’ultimo film di Quentin Tarantino, in Europa e quindi in Italia il film arriverà i primi giorni del mese di Febbraio.I critici di settore hanno dato opinione decisamente positiva: l’esperimento del regista e sceneggiatore è pienamente riuscito, ossia mescolare sapientemente atmosfere e situazioni western all’interno di una trama tipicamente da giallo. La trama è sostanzialmente semplice, ma la sceneggiatura di Tarantino si mostra impeccabile nel costruire eventi e situazioni che ruotano intorno a soggetti ancora una volta sapientemente caratterizzati.Il tema del dubbio che assale tutti i protagonisti della pellicola, la rende una sorta di giallo da camera. Gran parte del film, infatti, è ambientato all’interno della locanda e, ad eccezione di poche scene d’azione, è fortemente caratterizzato da dialoghi molto lunghi e coinvolgenti.
Le musiche sono come sempre del maestro Ennio Morricone, mentre gli effetti speciali del duo Nicotero-Berger.The Hateful Eight sarà secondo molti esperti uno dei film più belli di questa stagione cinematografica. Tarantino riesce a portare Agatha Christie nelle atmosfere da saloon tipiche del vecchio west. Ancora una volta, uno dei temi pregnanti dell’opera tarantiniana è quello del razzismo che ha caratterizzato lo sviluppo e la cultura americane. Stavolta, però, a prevalere sull’odio razziale è la ragione: logica deduttiva messa in campo per dissipare tutti i dubbi che attanagliano i personaggi dell’opera, e che si fa poi vendetta nello splendido finale che naturalmente non vi spoileremo.Per quasi 3 ore, Quentin ci lascia incollati allo schermo, grazie ad un film avvincente e soprattutto coinvolgente che sembra davvero non avere difetti.
In ogni suo lavoro cinematografico, Tarantino sembra riuscire a superarsi, infatti a fine pellicola anche gli spettatori sono assaliti dal dubbio: si tratta del miglior film del regista statunitense? Difficile dirlo visto il curriculum, ma sicuramente è uno dei più belli . Magistrali anche la prove degli attori, tutti bravi nel rappresentare personaggi odiosi ed al contempo estremamente carismatici.
IL SAPORE DEL SUCCESSO
di Valeria Piras
C'è sempre una seconda possibilità.In cucina e nella vita.
Arriva nelle sale Il Sapore del Successo nuovo film girato da John Wells che vede protagonista assoluto Bradley Cooper nei panni di uno chef folle e geniale. La trama è particolare e ricca di sorprese. Lo chef in questione è Adam Jones, protagonista della scena gastronomica parigina, è riuscito a conquistare anche due stelle Michelin, fino a quando a causa del suo carattere difficile, dell’alcol e della droga perde tutto. Insieme al suo obiettivo di raggiungere la terza stella Michelin e affermarsi come miglior cuoco in circolazione, svaniscono anche i sogni di chi lavorava con lui, cuochi e responsabili di sala. Dopo anni dal grande misfatto, Adam torna sulla scena londinese, sobrio, concentrato e con l’obiettivo finale di conquistare la terza stella Michelin e avere un ristorante tutto suo. All’inizio non è facile per lui, trovare un ristorante che lo accetti e riconquistare la fiducia di quella stessa brigata che anni prima aveva deluso mandando all’aria i sogni di tutti. Ma grazie al suo talento in cucina e al suo carisma alla fine conquista tutti di nuovo e qualcuno per la prima volta, come la bellissima cuoca Helene (Sienna Miller) che lui vuole a tutti i costi nella sua brigata e che alla fine gli sarà molto d’aiuto non solo dal punto di vista professionale.
Il film è girato principalmente in cucina dove con attenzione doviziosa viene mostrato ogni dettaglio del processo con cui i cuochi capitanati dallo chef Adam Jones preparano i piatti che sono molto più vicini a delle opere d’arte visiva più che a dei semplici cibi. I cuochi infatti sono degli artisti, totalmente immersi nel piatto che stanno preparando e componendo, ci mettono tutta la loro attenzione e tutta la loro passione con una precisione quasi chirurgica. Insieme alla cucina grande enfasi viene data alla location dove si muovono questi cuochi stellati, Londra, una città che più del solito sembra essere un trampolino di lancio per tutti quelli che hanno una grande ambizione. Un film incentrato principalmente sulla cucina, sulla creazione dei piatti e sulla passione che questi cuochi mettono in questo lavoro che appare come estenuante, con orari massacranti e ritmi serratissimi sotto pressione e dentro il caldo di una cucina che talvolta sembra troppo piccola per ospitare tutti.
Il sapore del successo è un film che attraverso la cucina, racconta della vita, di come dopo una grande sconfitta bisogna trovare la forza di rialzarsi e ricominciare da capo e di come le seconde occasioni bisogna andare a cercarsele con le unghie e con gran fatica.La dimostrazione che le soddisfazioni non arrivano mai per caso e solo dopo aver vissuto davvero la disfatta e cosa significa perdere tutto. Adam Jones dopo aver perso tutto per causa sua, trova la forza di ricominciare letteralmente da capo, fatica a ritrovare la fiducia nelle persone che un tempo aveva deluso e soprattutto a ritrovare fiducia in sé stesso. Perché quando si arriva al fallimento totale i primi che dobbiamo riconquistare siamo proprio noi stessi e tutto con le nostre forze e le nostre capacità. Un film che con attenzione chirurgica mette in luce la fatica che si compie ogni giorno al lavoro, non soltanto in cucina e la fatica che si prova quando decidiamo di ricominciare da zero.Da zero Adam Jones si ritrova a voler riconquistare la vetta, con tanti sacrifici, ma non è da solo perché quando si ha passione e convinzione alla fine si riesce anche a conquistare gli altri, a coinvolgerli nel proprio progetto e a creare una grande squadra che insieme riesce a raggiungere risultati migliori.Il sapore del successo è un film che attraverso la cucina e la sfida della ricerca della terza stella racconta una bella storia di chi vuole guadagnarsi una seconda possibilità nella vita e di come ci si può sempre riuscire se ci si mette l’anima e lo si vuole veramente, nonostante la fatica e i sacrifici.
Arriva nelle sale Il Sapore del Successo nuovo film girato da John Wells che vede protagonista assoluto Bradley Cooper nei panni di uno chef folle e geniale. La trama è particolare e ricca di sorprese. Lo chef in questione è Adam Jones, protagonista della scena gastronomica parigina, è riuscito a conquistare anche due stelle Michelin, fino a quando a causa del suo carattere difficile, dell’alcol e della droga perde tutto. Insieme al suo obiettivo di raggiungere la terza stella Michelin e affermarsi come miglior cuoco in circolazione, svaniscono anche i sogni di chi lavorava con lui, cuochi e responsabili di sala. Dopo anni dal grande misfatto, Adam torna sulla scena londinese, sobrio, concentrato e con l’obiettivo finale di conquistare la terza stella Michelin e avere un ristorante tutto suo. All’inizio non è facile per lui, trovare un ristorante che lo accetti e riconquistare la fiducia di quella stessa brigata che anni prima aveva deluso mandando all’aria i sogni di tutti. Ma grazie al suo talento in cucina e al suo carisma alla fine conquista tutti di nuovo e qualcuno per la prima volta, come la bellissima cuoca Helene (Sienna Miller) che lui vuole a tutti i costi nella sua brigata e che alla fine gli sarà molto d’aiuto non solo dal punto di vista professionale.
Il film è girato principalmente in cucina dove con attenzione doviziosa viene mostrato ogni dettaglio del processo con cui i cuochi capitanati dallo chef Adam Jones preparano i piatti che sono molto più vicini a delle opere d’arte visiva più che a dei semplici cibi. I cuochi infatti sono degli artisti, totalmente immersi nel piatto che stanno preparando e componendo, ci mettono tutta la loro attenzione e tutta la loro passione con una precisione quasi chirurgica. Insieme alla cucina grande enfasi viene data alla location dove si muovono questi cuochi stellati, Londra, una città che più del solito sembra essere un trampolino di lancio per tutti quelli che hanno una grande ambizione. Un film incentrato principalmente sulla cucina, sulla creazione dei piatti e sulla passione che questi cuochi mettono in questo lavoro che appare come estenuante, con orari massacranti e ritmi serratissimi sotto pressione e dentro il caldo di una cucina che talvolta sembra troppo piccola per ospitare tutti.
Il sapore del successo è un film che attraverso la cucina, racconta della vita, di come dopo una grande sconfitta bisogna trovare la forza di rialzarsi e ricominciare da capo e di come le seconde occasioni bisogna andare a cercarsele con le unghie e con gran fatica.La dimostrazione che le soddisfazioni non arrivano mai per caso e solo dopo aver vissuto davvero la disfatta e cosa significa perdere tutto. Adam Jones dopo aver perso tutto per causa sua, trova la forza di ricominciare letteralmente da capo, fatica a ritrovare la fiducia nelle persone che un tempo aveva deluso e soprattutto a ritrovare fiducia in sé stesso. Perché quando si arriva al fallimento totale i primi che dobbiamo riconquistare siamo proprio noi stessi e tutto con le nostre forze e le nostre capacità. Un film che con attenzione chirurgica mette in luce la fatica che si compie ogni giorno al lavoro, non soltanto in cucina e la fatica che si prova quando decidiamo di ricominciare da zero.Da zero Adam Jones si ritrova a voler riconquistare la vetta, con tanti sacrifici, ma non è da solo perché quando si ha passione e convinzione alla fine si riesce anche a conquistare gli altri, a coinvolgerli nel proprio progetto e a creare una grande squadra che insieme riesce a raggiungere risultati migliori.Il sapore del successo è un film che attraverso la cucina e la sfida della ricerca della terza stella racconta una bella storia di chi vuole guadagnarsi una seconda possibilità nella vita e di come ci si può sempre riuscire se ci si mette l’anima e lo si vuole veramente, nonostante la fatica e i sacrifici.
HONEYMOON - Lana Del Rey
di Valeria Piras
Lana ritorna con un nuovo raffinato disco.E l'amore si fonde nel dolore.
Arriva nei negozi il nuovissimo album di inediti della splendida cantante-modella Lana De Rey,intitolato HoneyMoon.Una miscela dolce di archi che disegnano linee eleganti e acute, cariche di glamour e senso di minaccia, una musica perfetta per la scena di un film noir.Poi c'è la sua voce, che ricorda la migliore imitazione di una diva d’altri tempi, donna bella e pericolosa e ferita.Lana Del Rey usa “Honeymoon” per fornire una versione autentica di sé. Non va oltre i temi musicali dei dischi precedenti “Born to die” e “Ultraviolence”, trova piuttosto un equilibrio fra ammiccamenti al pop contemporaneo e richiami passatisti. Il senso di riscatto s’aggiunge ai temi che lei da sempre predilige, ragazzi cattivi da cui è fatalmente attratta, dolore e tristezza, il carattere fugace della felicità – il tutto sullo sfondo dei panorami della California meridionale. “Honeymoon” è il disco di una donna sola che sublima nella musica la sensazione d’accerchiamento. Anche quando canta d’amore, Lana Del Rey sembra impegnata in un soliloquio. Si sente come l’astronauta di “Space oddity” sperduto nello spazio e che lei cita in “Terrence loves you”. In copertina, Lana Del Rey posa tra rose rosse col suo viso americano che porta dentro segni di angosce.“Honeymoon” sembra una vera escursione nell’immaginario di una piccola celebrità, fra uomini affascinanti e violenti, felicità passeggere, corse in automobile lungo le arterie di Los Angeles, fenicotteri rosa e notti blu. Come nella traccia “The blackest day”, una canzone d’amore perduto che coglie Nostra Signora della Sofferenza al suo meglio: un dolore da lenire, i segni della depressione, Billie Holiday mandata in loop.
Nella pianistica “Terrence loves you” Del Rey tratteggia il ritratto di donna che preferisce, ovvero la partner che soffre, ma non pretende di cambiare il suo uomo, nemmeno quando lui “dà fuori di matto”. E poi c’è “Salvatore”, dove la melodia da romanza donizettiana disegna un’atmosfera irreale per raccontare una storia d’amore ambientata a Miami, ma piena d’italianismi che alle nostre orecchie hanno qualcosa di kitsch: “Cacciatore… limousine… ciao amore… soft ice cream”. Le canzoni di “Honeymoon” sembrano fotografie d’istanti e come tutte le fotografie sono statiche. Aggiungete una vocalità non particolarmente versatile e otterrete un album cui molti assoceranno l’aggettivo “noioso”. Effettivamente il conto dei pezzi di “Honeymoon” vagamente movimentati è presto fatto. C’è “High by the beach”, un pop semplice e ammaliante nel cui video Del Rey abbatte con un lanciamissili un elicottero con a bordo un paparazzo, c’è “Music to watch boys to”, c’è l’invito ad andare in California di “Freak”, e poco altro. Affiancata dal co-autore e produttore Rick Nowels e occasionalmente da Kieron Menzies, Del Rey mette assieme archi cinematici, beat elettronici, un filo di jazz, chitarre twangy, qua e là armonie vocali d’altri tempi, a metà strada una poesia di T.S. Eliot (“Burnt Norton”), e insomma niente di sostanzialmente diverso dal repertorio passato. Melodrammatica eppure distante quanto lo è la sua autrice, romantico e al tempo stesso dolente, “Honeymoon” dissimula il tormento interiore con la narcolessia delle sue atmosfere.
È il perfezionamento di una formula, non il suo superamento. Segna un confine: quanto a lungo Del Rey può continuare a recitare il medesimo copione?“Honeymoon” non regala molti momenti di svago. Conduce in un luogo buio dove la cantante ammette di non avere “grandi motivi per vivere da quando ho trovato la fama”, un verso che riecheggia la frase “vorrei essere già morta” raccolta da un giornalista del Guardian. Quando le cose si mettono male, disse anni fa a The Quietus, non puoi che metterti a pregare. E così, se in “Religion” l’amore sconfina nella devozione religiosa e l’atto di inginocchiarsi in preghiera allude alla fellatio, nella languida e tormentata “God knows I tried” Lana Del Rey supplica Iddio di illuminarle la via. Lo fa cantando nel suo registro più alto, così alto da sembrare manipolato digitalmente in un misto di verità e finzione, di realtà e fantasia che è la cifra stilistica dell’artista. È la cosa più simile a una preghiera che Lana Del Rey abbia mai inciso.
Arriva nei negozi il nuovissimo album di inediti della splendida cantante-modella Lana De Rey,intitolato HoneyMoon.Una miscela dolce di archi che disegnano linee eleganti e acute, cariche di glamour e senso di minaccia, una musica perfetta per la scena di un film noir.Poi c'è la sua voce, che ricorda la migliore imitazione di una diva d’altri tempi, donna bella e pericolosa e ferita.Lana Del Rey usa “Honeymoon” per fornire una versione autentica di sé. Non va oltre i temi musicali dei dischi precedenti “Born to die” e “Ultraviolence”, trova piuttosto un equilibrio fra ammiccamenti al pop contemporaneo e richiami passatisti. Il senso di riscatto s’aggiunge ai temi che lei da sempre predilige, ragazzi cattivi da cui è fatalmente attratta, dolore e tristezza, il carattere fugace della felicità – il tutto sullo sfondo dei panorami della California meridionale. “Honeymoon” è il disco di una donna sola che sublima nella musica la sensazione d’accerchiamento. Anche quando canta d’amore, Lana Del Rey sembra impegnata in un soliloquio. Si sente come l’astronauta di “Space oddity” sperduto nello spazio e che lei cita in “Terrence loves you”. In copertina, Lana Del Rey posa tra rose rosse col suo viso americano che porta dentro segni di angosce.“Honeymoon” sembra una vera escursione nell’immaginario di una piccola celebrità, fra uomini affascinanti e violenti, felicità passeggere, corse in automobile lungo le arterie di Los Angeles, fenicotteri rosa e notti blu. Come nella traccia “The blackest day”, una canzone d’amore perduto che coglie Nostra Signora della Sofferenza al suo meglio: un dolore da lenire, i segni della depressione, Billie Holiday mandata in loop.
Nella pianistica “Terrence loves you” Del Rey tratteggia il ritratto di donna che preferisce, ovvero la partner che soffre, ma non pretende di cambiare il suo uomo, nemmeno quando lui “dà fuori di matto”. E poi c’è “Salvatore”, dove la melodia da romanza donizettiana disegna un’atmosfera irreale per raccontare una storia d’amore ambientata a Miami, ma piena d’italianismi che alle nostre orecchie hanno qualcosa di kitsch: “Cacciatore… limousine… ciao amore… soft ice cream”. Le canzoni di “Honeymoon” sembrano fotografie d’istanti e come tutte le fotografie sono statiche. Aggiungete una vocalità non particolarmente versatile e otterrete un album cui molti assoceranno l’aggettivo “noioso”. Effettivamente il conto dei pezzi di “Honeymoon” vagamente movimentati è presto fatto. C’è “High by the beach”, un pop semplice e ammaliante nel cui video Del Rey abbatte con un lanciamissili un elicottero con a bordo un paparazzo, c’è “Music to watch boys to”, c’è l’invito ad andare in California di “Freak”, e poco altro. Affiancata dal co-autore e produttore Rick Nowels e occasionalmente da Kieron Menzies, Del Rey mette assieme archi cinematici, beat elettronici, un filo di jazz, chitarre twangy, qua e là armonie vocali d’altri tempi, a metà strada una poesia di T.S. Eliot (“Burnt Norton”), e insomma niente di sostanzialmente diverso dal repertorio passato. Melodrammatica eppure distante quanto lo è la sua autrice, romantico e al tempo stesso dolente, “Honeymoon” dissimula il tormento interiore con la narcolessia delle sue atmosfere.
È il perfezionamento di una formula, non il suo superamento. Segna un confine: quanto a lungo Del Rey può continuare a recitare il medesimo copione?“Honeymoon” non regala molti momenti di svago. Conduce in un luogo buio dove la cantante ammette di non avere “grandi motivi per vivere da quando ho trovato la fama”, un verso che riecheggia la frase “vorrei essere già morta” raccolta da un giornalista del Guardian. Quando le cose si mettono male, disse anni fa a The Quietus, non puoi che metterti a pregare. E così, se in “Religion” l’amore sconfina nella devozione religiosa e l’atto di inginocchiarsi in preghiera allude alla fellatio, nella languida e tormentata “God knows I tried” Lana Del Rey supplica Iddio di illuminarle la via. Lo fa cantando nel suo registro più alto, così alto da sembrare manipolato digitalmente in un misto di verità e finzione, di realtà e fantasia che è la cifra stilistica dell’artista. È la cosa più simile a una preghiera che Lana Del Rey abbia mai inciso.
BY THE SEA
di Valeria Piras
Una pellicola intensa e controversa per il ritorno alla regia della Jolie.
Angelina Jolie torna dietro la macchina da presa nella sua terza pellicola cinematografica e questa volta decide anche di mettere i panni della protagonista insieme a suo marito Brad Pitt.By The Sea è il titolo della sua ultima fatica ed il risultato è un'opera molto controversa ricca di spunti e situazioni artistiche. C'è qualcosa di spudorato, quasi di splendidamente osceno, nel modo in cui Angelina Jolie mette in scena By the Sea, la sua storia, i suoi protagonisti. Nel modo in cui si mette in scena: fisicamente, psicologicamente, metaforicamente.Con Brad Pitt torna a lavorare per la seconda volta con un film che non potrebbe essere più diverso rispetto alla galeotta commedia Mr. & Mrs. Smith.Tutto è bellissimo, in By the Sea, che è ambientato in un luogo bellissimo (un'isola maltese che fa da paradossale controfigura al sud della Francia), tutto attorno a un'insenatura bellissima e isolata dove sorgono un albergo bellissimo, e un bistrot bellissimo nel suo essere rifugio caratteristico gestito da un uomo umanamente bellissimo, ed è lì che arrivano i due bellissimi protagonisti, vestiti con abiti bellissimi.
Vanessa e Roland - la coppia interpretata dai protagonisti è caratterizzata da un'infelicità latente, dai piccoli e grandi egoismi, dalla voglia di ferirsi per provare qualcosa. Lui, scrittore in crisi d'ispirazione, beve e fuma oltre ogni limite secondo i peggiori cliché; lei, ex ballerina che porta nella mente i segni di un misterioso trauma, passa dalle pillole al letto secondo le più efficaci linee guida della depressione, respinge il marito in ogni modo, annega gli occhi nelle lacrime e nel mare che osserva solo da lontano, per non cedere a tentazioni suicide.E perché la strada per tentare di riconquistare l'intimità e la felicità perdute passerà letteralmente sopra quelle di un'altra coppia, più giovane e armoniosa, che Vanessa prenderà di mira, voyeuristicamente, nella maniera più scontata, coinvolgendo Roland e poi spingendo il gioco verso conseguenze quasi estreme.Alla fine ne esce un tentativo di omaggiare il cinema francese degli anni Sessanta e Settanta, una sorta di revisione dello stile del grande Antonioni.Ma c'è anche dell'altro,c'è una rilettura della grande letteratura americana degli Hemingway e dei Fitzgerald che da al film una patina finale retrò, implosa, laconica, anacronistica, che osa nell'estetica.
Alcuni ci potrebbero vedere una sorta di autoanalisi della regista, che si mostra in primo piano, in tutta la sua bellezza, in tutta la sua magrezza. Mostra il seno, mostra gli occhi, enormi, sgranati, alla ricerca di qualcosa o semplicemente di sé stessi, della loro stessa immagine sul grande schermo.Spudorata, oltraggiosa nelle ambizioni e nell'autorefenzialità Angelina fa quello che vuole, e alla fine fa davvero un film artistico e migliore dei suoi precedenti.Tutti noi restiamo qui affascinati dalla determinazione e ipnotizzati dalla sua bellezza, disposti perfino a perdonare gli eccessi dell'ego e della vanità che si evincono in alcuni momenti del film.
Angelina Jolie torna dietro la macchina da presa nella sua terza pellicola cinematografica e questa volta decide anche di mettere i panni della protagonista insieme a suo marito Brad Pitt.By The Sea è il titolo della sua ultima fatica ed il risultato è un'opera molto controversa ricca di spunti e situazioni artistiche. C'è qualcosa di spudorato, quasi di splendidamente osceno, nel modo in cui Angelina Jolie mette in scena By the Sea, la sua storia, i suoi protagonisti. Nel modo in cui si mette in scena: fisicamente, psicologicamente, metaforicamente.Con Brad Pitt torna a lavorare per la seconda volta con un film che non potrebbe essere più diverso rispetto alla galeotta commedia Mr. & Mrs. Smith.Tutto è bellissimo, in By the Sea, che è ambientato in un luogo bellissimo (un'isola maltese che fa da paradossale controfigura al sud della Francia), tutto attorno a un'insenatura bellissima e isolata dove sorgono un albergo bellissimo, e un bistrot bellissimo nel suo essere rifugio caratteristico gestito da un uomo umanamente bellissimo, ed è lì che arrivano i due bellissimi protagonisti, vestiti con abiti bellissimi.
Vanessa e Roland - la coppia interpretata dai protagonisti è caratterizzata da un'infelicità latente, dai piccoli e grandi egoismi, dalla voglia di ferirsi per provare qualcosa. Lui, scrittore in crisi d'ispirazione, beve e fuma oltre ogni limite secondo i peggiori cliché; lei, ex ballerina che porta nella mente i segni di un misterioso trauma, passa dalle pillole al letto secondo le più efficaci linee guida della depressione, respinge il marito in ogni modo, annega gli occhi nelle lacrime e nel mare che osserva solo da lontano, per non cedere a tentazioni suicide.E perché la strada per tentare di riconquistare l'intimità e la felicità perdute passerà letteralmente sopra quelle di un'altra coppia, più giovane e armoniosa, che Vanessa prenderà di mira, voyeuristicamente, nella maniera più scontata, coinvolgendo Roland e poi spingendo il gioco verso conseguenze quasi estreme.Alla fine ne esce un tentativo di omaggiare il cinema francese degli anni Sessanta e Settanta, una sorta di revisione dello stile del grande Antonioni.Ma c'è anche dell'altro,c'è una rilettura della grande letteratura americana degli Hemingway e dei Fitzgerald che da al film una patina finale retrò, implosa, laconica, anacronistica, che osa nell'estetica.
Alcuni ci potrebbero vedere una sorta di autoanalisi della regista, che si mostra in primo piano, in tutta la sua bellezza, in tutta la sua magrezza. Mostra il seno, mostra gli occhi, enormi, sgranati, alla ricerca di qualcosa o semplicemente di sé stessi, della loro stessa immagine sul grande schermo.Spudorata, oltraggiosa nelle ambizioni e nell'autorefenzialità Angelina fa quello che vuole, e alla fine fa davvero un film artistico e migliore dei suoi precedenti.Tutti noi restiamo qui affascinati dalla determinazione e ipnotizzati dalla sua bellezza, disposti perfino a perdonare gli eccessi dell'ego e della vanità che si evincono in alcuni momenti del film.
SUBURRA
di Valeria Piras
In una Roma tesa e ruvida il crimine abbraccia il potere.
Suburra è la nuova opera cinematografica del regista Stefano Sollima reduce dal grande successo della serie Gomorra. Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, uscito prima della nota inchiesta scandalo “Mafia Capitale”. Il titolo deriva dalla parola latina “Suburra” che nell’ antica Roma indicava il quartiere dove potere e criminalità si incontravano in segreto. Per Sollima il tempo non è cambiato, dalla tunica magari si è passati a giacche e cravatte di seta, tatuaggi che intarsiano la pelle di giovani malviventi troppo desiderosi di avanzare nella catena di comando del male. Sollima, coadiuvato dalla penna del duo Rulli & Petraglia sceneggiatori importanti del nostro cinema (sopratutto di genere e impegno), legge la città come un centro del male. Un letto di un fiume pieno di acqua fognaria che ristagna e si ricambia ma non smorza mai i toni del marcio. Piove sempre in Suburra ma non è pioggia di redenzione o quella purificatrice di manzoniana memoria. Ma una pioggia metafora simbolica di quanto il male possa intasare le città e gli uomini sin dagli albori del Tempo.
A far funzionare ancora di più questa metafora visiva, diretta in modo eccellente dal regista romano, e poi la scelta del cast. In Suburra c’è un’operazione semplice, sembrerebbe banale, ma che non lo è affatto per il fare cinema in in Italia. Cioè che per un film su una determinata città, si prendano attori del posto, arricchendo così l’espressività delle interpretazioni. Per carità, Sollima è stato anche fortunato ad avere vasta scelta, ma questo non sminuisce come sia venuto fuori, e bene, il mosaico di caratteri sfumati e malati che affollano questa Suburra di noir e crime story. Sempre gigantesco Pierfrancesco Favino, bravo Amendola che interpreta il potente boss “Samurai” l’unico pacato negli atteggiamenti quanto letale nelle azioni. Romano è anche Elio Germano in una delle interpretazioni più curiose e insolite della sua carriera, è un P.R. pusillanime cattivissimo nella sua viscidità insalivata. Applausi anche per l’irascibile “numero 8” di Alessandro Borghi già folgorante in Non essere cattivo. Bellissimo anche il parterre di donne, nessuna qui nel ruolo stereotipato della dama servile del boss: parliamo di Greta Scarano, romana classe ‘86, e di Giulia Elettra Gorietti, capitolina anche lei.
Suburra è un ottimo film esteticamente parlando, narrativamente è molto teso e nasconde significati anche di denuncia sociale che in alcuni casi sorprendono.Concetti che come detto hanno anticipato poi i fatti della corruzione romana svelati dai giudici.Tutto questo però non scalfisce significativamente un film molto potente, declinato sui neri dell’abile fotografia di Paolo Carnera. Con un segnale forte anche per il cinema come attività commerciale e creativa. Sollima dedica il film al padre Sergio, grande regista del nostro cinema di genere. È una mancanza che ha una doppia valenza: affettuosa ma anche di più. Mancano molto i film del genere visivo e narrativo di Sollima o, di Damiani per esempio, oggi il Sollima figlio dimostra con Suburra che si può fare dell’ottimo cinema medio. Di qualità, creativo, non vacuo o stereotipato che ha storie coinvolgenti che possono funzionare in Italia ma anche all’estero. Proprio quello che manca(va).
Suburra è la nuova opera cinematografica del regista Stefano Sollima reduce dal grande successo della serie Gomorra. Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, uscito prima della nota inchiesta scandalo “Mafia Capitale”. Il titolo deriva dalla parola latina “Suburra” che nell’ antica Roma indicava il quartiere dove potere e criminalità si incontravano in segreto. Per Sollima il tempo non è cambiato, dalla tunica magari si è passati a giacche e cravatte di seta, tatuaggi che intarsiano la pelle di giovani malviventi troppo desiderosi di avanzare nella catena di comando del male. Sollima, coadiuvato dalla penna del duo Rulli & Petraglia sceneggiatori importanti del nostro cinema (sopratutto di genere e impegno), legge la città come un centro del male. Un letto di un fiume pieno di acqua fognaria che ristagna e si ricambia ma non smorza mai i toni del marcio. Piove sempre in Suburra ma non è pioggia di redenzione o quella purificatrice di manzoniana memoria. Ma una pioggia metafora simbolica di quanto il male possa intasare le città e gli uomini sin dagli albori del Tempo.
A far funzionare ancora di più questa metafora visiva, diretta in modo eccellente dal regista romano, e poi la scelta del cast. In Suburra c’è un’operazione semplice, sembrerebbe banale, ma che non lo è affatto per il fare cinema in in Italia. Cioè che per un film su una determinata città, si prendano attori del posto, arricchendo così l’espressività delle interpretazioni. Per carità, Sollima è stato anche fortunato ad avere vasta scelta, ma questo non sminuisce come sia venuto fuori, e bene, il mosaico di caratteri sfumati e malati che affollano questa Suburra di noir e crime story. Sempre gigantesco Pierfrancesco Favino, bravo Amendola che interpreta il potente boss “Samurai” l’unico pacato negli atteggiamenti quanto letale nelle azioni. Romano è anche Elio Germano in una delle interpretazioni più curiose e insolite della sua carriera, è un P.R. pusillanime cattivissimo nella sua viscidità insalivata. Applausi anche per l’irascibile “numero 8” di Alessandro Borghi già folgorante in Non essere cattivo. Bellissimo anche il parterre di donne, nessuna qui nel ruolo stereotipato della dama servile del boss: parliamo di Greta Scarano, romana classe ‘86, e di Giulia Elettra Gorietti, capitolina anche lei.
Suburra è un ottimo film esteticamente parlando, narrativamente è molto teso e nasconde significati anche di denuncia sociale che in alcuni casi sorprendono.Concetti che come detto hanno anticipato poi i fatti della corruzione romana svelati dai giudici.Tutto questo però non scalfisce significativamente un film molto potente, declinato sui neri dell’abile fotografia di Paolo Carnera. Con un segnale forte anche per il cinema come attività commerciale e creativa. Sollima dedica il film al padre Sergio, grande regista del nostro cinema di genere. È una mancanza che ha una doppia valenza: affettuosa ma anche di più. Mancano molto i film del genere visivo e narrativo di Sollima o, di Damiani per esempio, oggi il Sollima figlio dimostra con Suburra che si può fare dell’ottimo cinema medio. Di qualità, creativo, non vacuo o stereotipato che ha storie coinvolgenti che possono funzionare in Italia ma anche all’estero. Proprio quello che manca(va).
IO E LEI
di Valeria Piras
Un tema complicato e duro trattato con serenità e romanticismo.
Nelle sale arriva il nuovissimo film di Maria Sole Tognazzi Io e Lei realizzato con le sue due grandi amiche M.Buy e S.Ferilli; un film voluto fortemente per raccontare una normale storia d’amore, per parlare di omosessualità per analogie e non per differenze, per mostrare senza scandalizzare.È insomma un film che, dichiaratamente, senza nascondersi dietro un dito, vuole borghesizzare l’omosessualità rendendola presentabile e commestibile anche per quelle generazioni che, anagraficamente, possono avere oggi più difficoltà di altre a riconoscere l’ovvietà mascherata dietro a questi concetti di normalità e uguaglianza.Operazione legittima, volendo anche meritevole; anche se è normale che un atto del genere di vera omogeneizzazione di un tema rischia di far perdere le istanze più personali e identitarie, quelle spinte energetiche e polemiche. Certo, il cinema non è necessariamente politica; il merito di Io e Lei è di dare al pubblico qualcosa di morbido che gli sia familiare, è magari utile, senza scandalizzarlo.
Il progetto di regista e sceneggiatori è stato quello di fare un film normale con dentro una coppia gay al posto di quella etero presente in tante commedie romantiche. Ma questo accento sulla differenza stona allora con la questione della normalizzazione.Diciamo la verità: se al centro della sua narrazione avessimo trovato una coppia etero, Io e lei sarebbe stato di una banalità colossale. E allora, un po’ di originalità in più sarebbe stata apprezzata: provocare col cinema, e non col sesso, che bella trovata sarebbe stata.Certo, poi nel film di Maria Sole Tognazzi funzionano bene le parti in cui emerge l’aria ruspante e spiccia di Sabrina Ferilli e della sua famiglia, molto più dei patinati contesti borghesi riservati alla Buy e fatti di studi d’architettura, bistrot biologici, case a due piani con terrazze e filippini. Funzionano perché fanno irrompere dentro al film una vita più reale e capace soprattutto di mettere da parte le ansie di correttezza politica di tutto ciò che le circonda.
E funziona anche, sebbene tirato troppo per le lunghe, e troppo pateticamente, il patema identitario di una Buy che deve ancora accettare del tutto la sua relazione, perché capace di un discreto equilibrio tra specifico gay e universalità sentimentale.L’impressione generale è quello di un bel film italiano con un significato forte.L’occasione di gettare nell’agone del cinema e in quello della politica la possibilità di parlare di omosessualità senza accesi strappi militanti e rivoluzionari, ma cercando di addomesticare tutto e tutti, forma e contenuto, per non traumatizzare le anime sensibili.Un film gentile su un tema duro.
Nelle sale arriva il nuovissimo film di Maria Sole Tognazzi Io e Lei realizzato con le sue due grandi amiche M.Buy e S.Ferilli; un film voluto fortemente per raccontare una normale storia d’amore, per parlare di omosessualità per analogie e non per differenze, per mostrare senza scandalizzare.È insomma un film che, dichiaratamente, senza nascondersi dietro un dito, vuole borghesizzare l’omosessualità rendendola presentabile e commestibile anche per quelle generazioni che, anagraficamente, possono avere oggi più difficoltà di altre a riconoscere l’ovvietà mascherata dietro a questi concetti di normalità e uguaglianza.Operazione legittima, volendo anche meritevole; anche se è normale che un atto del genere di vera omogeneizzazione di un tema rischia di far perdere le istanze più personali e identitarie, quelle spinte energetiche e polemiche. Certo, il cinema non è necessariamente politica; il merito di Io e Lei è di dare al pubblico qualcosa di morbido che gli sia familiare, è magari utile, senza scandalizzarlo.
Il progetto di regista e sceneggiatori è stato quello di fare un film normale con dentro una coppia gay al posto di quella etero presente in tante commedie romantiche. Ma questo accento sulla differenza stona allora con la questione della normalizzazione.Diciamo la verità: se al centro della sua narrazione avessimo trovato una coppia etero, Io e lei sarebbe stato di una banalità colossale. E allora, un po’ di originalità in più sarebbe stata apprezzata: provocare col cinema, e non col sesso, che bella trovata sarebbe stata.Certo, poi nel film di Maria Sole Tognazzi funzionano bene le parti in cui emerge l’aria ruspante e spiccia di Sabrina Ferilli e della sua famiglia, molto più dei patinati contesti borghesi riservati alla Buy e fatti di studi d’architettura, bistrot biologici, case a due piani con terrazze e filippini. Funzionano perché fanno irrompere dentro al film una vita più reale e capace soprattutto di mettere da parte le ansie di correttezza politica di tutto ciò che le circonda.
E funziona anche, sebbene tirato troppo per le lunghe, e troppo pateticamente, il patema identitario di una Buy che deve ancora accettare del tutto la sua relazione, perché capace di un discreto equilibrio tra specifico gay e universalità sentimentale.L’impressione generale è quello di un bel film italiano con un significato forte.L’occasione di gettare nell’agone del cinema e in quello della politica la possibilità di parlare di omosessualità senza accesi strappi militanti e rivoluzionari, ma cercando di addomesticare tutto e tutti, forma e contenuto, per non traumatizzare le anime sensibili.Un film gentile su un tema duro.
TUTTE LO VOGLIONO
di Valeria Piras
Commedia degli equivoci sul tema dell'orgasmo femminile.
Appena passata l'estate la cinematografia italiana torna a produrre film interessanti e questa volta si tratta di una commedia brillante con venature romantiche.Tutte lo Vogliono il titolo, diretto da Alessio Maria Federici già regista di Lezioni di Cioccolato 2, Fratelli Unici e Stai Lontana da Me, pellicola interpretata da Ambra Angiolini ed Enrico Brignano. Proprio da quest'ultimo Federici è ripartito per dar vita al suo 4° lungometraggio, Tutte lo Vogliono, che per fortuna non si basa solo sul travolgente 'fascino' del comico televisivo, come volutamente fatto credere dall'allusivo titolo, bensì tratta il tema delicato dell'orgasmo femminile che quasi una donna su due finge di raggiungere al termine di un amplesso.La protagonista femminile è l'allegra Vanessa Incontrada, bella e credibile protagonista, che indossa infatti gli abiti di una ricca e professionalmente appagata donna che sembrerebbe aver tutto dalla vita. Una famiglia agiata, un casa da urlo nel cuore di Roma, una fisicità da sballo e un principe azzurro con i lineamenti di Giulio Berruti al proprio fianco. Ma qualcosa le manca,ovvero sono anni che a letto,la bella Vanessa,non raggiunge il piacere.
Provare a parlare di sesso dal punto di vista della donna, solitamente dipinta come puro e semplice 'oggetto maschile' all'interno del genere nostrano. Alessio Maria Federici, co-sceneggiatore del film insieme ad altre 4 mani, ha innegabilmente provato a far qualcosa di diverso nella solitamente piatta e ripetitiva commedia tricolore, andando così oltre il puro e semplice remake del 2013 (Stai Lontana da Me). Abusando fino all'estremo della facile carta del doppio-senso, in questo caso da abbinare all'immancabile sequela di equivoci, il regista ha dato vita ad una pellicola solo concettualmente spudorata, raccontando verità 'femminili' tendenzialmente 'censurate', anche se in questo caso visibilmente edulcorate. Non sia mai che si esageri.
Affidata la parola a Brignano,il film procede particolarmente spedito tra divertenti gag e particolari svolte, perché tutto quel che immaginate possa accadere, ovviamente, accadrà. Omaggiato Jim Carrey (Ace Ventura) con tanto di camioncino-cane Federici dipinge uno spaccato sessuale reale ma con venature fiabesche, regalandoci una protagonista che dinanzi alla bellezza di Berruti, tenetevi stretti alla sedia, preferisce la dolcezza di Enrico, neanche a dirlo orso fuori ma panterone dentro. Praticamente un film ben fatto,a tratti divertente ma tendenzialmente frenato da quel politicamente corretto che dinanzi ad un'idea simile avrebbe potuto e dovuto 'strabordare'. Perché non ha senso parlare di sesso mordi-e-fuggi, orgasmi recitati e/o mancati, giocattoli erotici femminili e iniziazione al piacere senza provare ad 'eccedere', ad uscir fuori dal seminato e dal mostruoso limite del doppio-senso sessuale.Presi singolarmente Brignano e la Incontrada funzionano, anche se in coppia la loro verve recitatica un pò zoppica. Lui troppo ancorato al tipico 'one-man-show' da sketch televisivo, vista la comica ingenuità che darà il via a tutta una serie di forzati fraintendimenti di coppia. Nel mezzo un problema effettivo, quello del mancato raggiungimento dell'orgasmo da parte della donna a cui solitamente l'egoista uomo medio risponde in modo laconico, tutto viene risolto con l'ingrediente più scontato e clinicamente meno testato. L'amore.
Appena passata l'estate la cinematografia italiana torna a produrre film interessanti e questa volta si tratta di una commedia brillante con venature romantiche.Tutte lo Vogliono il titolo, diretto da Alessio Maria Federici già regista di Lezioni di Cioccolato 2, Fratelli Unici e Stai Lontana da Me, pellicola interpretata da Ambra Angiolini ed Enrico Brignano. Proprio da quest'ultimo Federici è ripartito per dar vita al suo 4° lungometraggio, Tutte lo Vogliono, che per fortuna non si basa solo sul travolgente 'fascino' del comico televisivo, come volutamente fatto credere dall'allusivo titolo, bensì tratta il tema delicato dell'orgasmo femminile che quasi una donna su due finge di raggiungere al termine di un amplesso.La protagonista femminile è l'allegra Vanessa Incontrada, bella e credibile protagonista, che indossa infatti gli abiti di una ricca e professionalmente appagata donna che sembrerebbe aver tutto dalla vita. Una famiglia agiata, un casa da urlo nel cuore di Roma, una fisicità da sballo e un principe azzurro con i lineamenti di Giulio Berruti al proprio fianco. Ma qualcosa le manca,ovvero sono anni che a letto,la bella Vanessa,non raggiunge il piacere.
Provare a parlare di sesso dal punto di vista della donna, solitamente dipinta come puro e semplice 'oggetto maschile' all'interno del genere nostrano. Alessio Maria Federici, co-sceneggiatore del film insieme ad altre 4 mani, ha innegabilmente provato a far qualcosa di diverso nella solitamente piatta e ripetitiva commedia tricolore, andando così oltre il puro e semplice remake del 2013 (Stai Lontana da Me). Abusando fino all'estremo della facile carta del doppio-senso, in questo caso da abbinare all'immancabile sequela di equivoci, il regista ha dato vita ad una pellicola solo concettualmente spudorata, raccontando verità 'femminili' tendenzialmente 'censurate', anche se in questo caso visibilmente edulcorate. Non sia mai che si esageri.
Affidata la parola a Brignano,il film procede particolarmente spedito tra divertenti gag e particolari svolte, perché tutto quel che immaginate possa accadere, ovviamente, accadrà. Omaggiato Jim Carrey (Ace Ventura) con tanto di camioncino-cane Federici dipinge uno spaccato sessuale reale ma con venature fiabesche, regalandoci una protagonista che dinanzi alla bellezza di Berruti, tenetevi stretti alla sedia, preferisce la dolcezza di Enrico, neanche a dirlo orso fuori ma panterone dentro. Praticamente un film ben fatto,a tratti divertente ma tendenzialmente frenato da quel politicamente corretto che dinanzi ad un'idea simile avrebbe potuto e dovuto 'strabordare'. Perché non ha senso parlare di sesso mordi-e-fuggi, orgasmi recitati e/o mancati, giocattoli erotici femminili e iniziazione al piacere senza provare ad 'eccedere', ad uscir fuori dal seminato e dal mostruoso limite del doppio-senso sessuale.Presi singolarmente Brignano e la Incontrada funzionano, anche se in coppia la loro verve recitatica un pò zoppica. Lui troppo ancorato al tipico 'one-man-show' da sketch televisivo, vista la comica ingenuità che darà il via a tutta una serie di forzati fraintendimenti di coppia. Nel mezzo un problema effettivo, quello del mancato raggiungimento dell'orgasmo da parte della donna a cui solitamente l'egoista uomo medio risponde in modo laconico, tutto viene risolto con l'ingrediente più scontato e clinicamente meno testato. L'amore.
IL BELLO DI ESSERE BRUTTI - J-Ax
di Valeria Piras
Un percorso nuovo per J AX fatto di ironia e tanta voglia di riderci su.
J-Ax è una delle stelle della musica rap italiana, anzi potremmo affermare che fu proprio lui con gli Articolo 31 a diffondere la musica rap in Italia.Da alcuni mesi è nei negozio il suo nuovo album da solista dal titolo Il Bello di Essere Brutti.Si tratta di un disco rischioso, il primo album autoprodotto per l’etichetta Newtopia, avventura impenditoriale che condivide con l’amico Fedez.La partecipazione come giudice di The Voice ha dato nuova linfa alla carriera di uno dei padri putativi dell’hip hop italiano, che negli anni Novanta ha portato per primo, una canzone rap in vetta alle classifiche.
J-Ax apre così un capitolo nuovo della sua vita artistica, dove si definisce arrivato, ancora, per una seconda volta. Ha raggiunto di nuovo le vette delle classifiche ed il successo mediatico, riempiendo club e piazze di tutta Italia. Una forma di autoironia, che non è nuova in Ax, ma che in questo disco viene fuori prorompente.Fedez diventa il suo nuovo compagno di viaggio discografico, il giovane socio. L’Intro di Il Bello D’Esser Brutti suona con un pianoforte rappato docilmente, carta vincente proprio di Fedez. Bimbiminkia4ever è il pezzo che i due si concedono assieme, parlando di quanto si sentano giovani e di come i ‘vecchi’ parlino da sempre male delle nuove leve. L’altro personaggio da cui Ax prende molto è Neffa.Il quale ha scritto anche il ritornello del singolo Uno di Quei Giorni cantato assieme a Nina Zilli, ma è presente anche nel vero pezzo d’amore del disco Caramelle, sdolcinato e confidenziale.
Un punto fermo con il passato il suo, si guarda indietro, ma senza più astio, con la lucidità di chi si sa analizzare e così parla di se, ancora una volta. Lo fa partendo dall’Intro di questo lavoro, fino all’ultimo brano L’Uomo Col Cappello, dove dichiara la sua maniera di essere ‘diverso’. Si rinnova la formula di Ax, differente tra i diversi, outsider tra gli ‘alternativi’, ma con grande capacità di piacere a tutti, in fondo. Una chiave vincente la sua, che lo porta a empatizzare sempre di più con molti degli italiani, che, come lui, si lamentano di come vanno le cose e in fondo non cambiano mai.
J-Ax è una delle stelle della musica rap italiana, anzi potremmo affermare che fu proprio lui con gli Articolo 31 a diffondere la musica rap in Italia.Da alcuni mesi è nei negozio il suo nuovo album da solista dal titolo Il Bello di Essere Brutti.Si tratta di un disco rischioso, il primo album autoprodotto per l’etichetta Newtopia, avventura impenditoriale che condivide con l’amico Fedez.La partecipazione come giudice di The Voice ha dato nuova linfa alla carriera di uno dei padri putativi dell’hip hop italiano, che negli anni Novanta ha portato per primo, una canzone rap in vetta alle classifiche.
J-Ax apre così un capitolo nuovo della sua vita artistica, dove si definisce arrivato, ancora, per una seconda volta. Ha raggiunto di nuovo le vette delle classifiche ed il successo mediatico, riempiendo club e piazze di tutta Italia. Una forma di autoironia, che non è nuova in Ax, ma che in questo disco viene fuori prorompente.Fedez diventa il suo nuovo compagno di viaggio discografico, il giovane socio. L’Intro di Il Bello D’Esser Brutti suona con un pianoforte rappato docilmente, carta vincente proprio di Fedez. Bimbiminkia4ever è il pezzo che i due si concedono assieme, parlando di quanto si sentano giovani e di come i ‘vecchi’ parlino da sempre male delle nuove leve. L’altro personaggio da cui Ax prende molto è Neffa.Il quale ha scritto anche il ritornello del singolo Uno di Quei Giorni cantato assieme a Nina Zilli, ma è presente anche nel vero pezzo d’amore del disco Caramelle, sdolcinato e confidenziale.
Un punto fermo con il passato il suo, si guarda indietro, ma senza più astio, con la lucidità di chi si sa analizzare e così parla di se, ancora una volta. Lo fa partendo dall’Intro di questo lavoro, fino all’ultimo brano L’Uomo Col Cappello, dove dichiara la sua maniera di essere ‘diverso’. Si rinnova la formula di Ax, differente tra i diversi, outsider tra gli ‘alternativi’, ma con grande capacità di piacere a tutti, in fondo. Una chiave vincente la sua, che lo porta a empatizzare sempre di più con molti degli italiani, che, come lui, si lamentano di come vanno le cose e in fondo non cambiano mai.
FRASI & FUMO - Nina Zilli
di Valeria Piras
Il blues italiano ha la sua regina.Nina Zilli si conferma ancora.
Nina Zilli è da sempre una delle voci più talentuose ed originali del panorama musicale italiano.La cantante emiliana è da alcuni mesi in tour per promuovere il suo ultimo lavoro in studio dal titola Frasi e Fumo.Dopo la sua ennesima partecipazione a SanRemo Nina si presenta con un disco ricco di influssi blues,dal sound caldo e avvolgente come la sua bellissima voce. Frasi & fumo, il terzo lavoro di Nina Zilli, è una piacevolissima conferma. Se agli esordi si poteva sospettare una furba operazione di marketing per ricalcare successi internazionali, oggi sembra più corretto dire che l’artista si è sempre trovata al posto giusto nel momento giusto e adesso si è costruita una meritata carriera. Non sarebbe ancora qui, se fosse stata solo una questione di mode.
Nel suo nuovo album sono sempre presenti da una parte i riferimenti alla musica nera, le citazioni di Nina Simone, dall’altra un occhiolino alla tradizione italiana tra ’60 e ’70. I modelli a cui si rifà Zilli, quindi, restano immutati, ma rispetto all’album precedente, il suo spirito “retromaniaco” esce ancora meglio. A tratti, il precedente “L’amore è femmina” veniva schiacciato dal perfezionismo delle produzioni di Michele Canova, mentre qui la presenza di Mauro Pagani assicura un risultato ugualmente pregevole ma forse più rispettoso verso gli impulsi dell’artista e le sue ispirazioni.
“Frasi & Fumo” è un album di grande varietà che sa toccare tanti generi, dal sopraccitato blues al reggae, dal soul a brani che potrebbero appartenere alle dive italiane di un tempo, come le ottime “Cadevo piano” e “Luna spenta”. Ci sono addirittura momenti in cui la filologia di Zilli è tale da lasciar pensare che si stia ascoltando la cover di un classico perduto e riscoperto. Lo si può considerare come un aspetto negativo, oppure si può apprezzare l’incredibile lavoro di ricerca fatto non solo sui suoni, ma anche sulle parole (insieme a Kaballà e Neffa).Sarebbe interessante, in futuro, se l’artista rinunciasse a uno di questi due aspetti: se nei suoni si lasciasse guidare da un produttore con un occhio all’elettronica, per esempio, o se per le parole si affidasse a una penna dal sapore più contemporaneo. Ma “Frasi & Fumo” è senza dubbio un disco che rispecchia l'anima di Nina e che serviva a sottolineare che non era solo una furba operazione di marketing:lei ha talento e il blues è il suo universo sonoro.
Nina Zilli è da sempre una delle voci più talentuose ed originali del panorama musicale italiano.La cantante emiliana è da alcuni mesi in tour per promuovere il suo ultimo lavoro in studio dal titola Frasi e Fumo.Dopo la sua ennesima partecipazione a SanRemo Nina si presenta con un disco ricco di influssi blues,dal sound caldo e avvolgente come la sua bellissima voce. Frasi & fumo, il terzo lavoro di Nina Zilli, è una piacevolissima conferma. Se agli esordi si poteva sospettare una furba operazione di marketing per ricalcare successi internazionali, oggi sembra più corretto dire che l’artista si è sempre trovata al posto giusto nel momento giusto e adesso si è costruita una meritata carriera. Non sarebbe ancora qui, se fosse stata solo una questione di mode.
Nel suo nuovo album sono sempre presenti da una parte i riferimenti alla musica nera, le citazioni di Nina Simone, dall’altra un occhiolino alla tradizione italiana tra ’60 e ’70. I modelli a cui si rifà Zilli, quindi, restano immutati, ma rispetto all’album precedente, il suo spirito “retromaniaco” esce ancora meglio. A tratti, il precedente “L’amore è femmina” veniva schiacciato dal perfezionismo delle produzioni di Michele Canova, mentre qui la presenza di Mauro Pagani assicura un risultato ugualmente pregevole ma forse più rispettoso verso gli impulsi dell’artista e le sue ispirazioni.
“Frasi & Fumo” è un album di grande varietà che sa toccare tanti generi, dal sopraccitato blues al reggae, dal soul a brani che potrebbero appartenere alle dive italiane di un tempo, come le ottime “Cadevo piano” e “Luna spenta”. Ci sono addirittura momenti in cui la filologia di Zilli è tale da lasciar pensare che si stia ascoltando la cover di un classico perduto e riscoperto. Lo si può considerare come un aspetto negativo, oppure si può apprezzare l’incredibile lavoro di ricerca fatto non solo sui suoni, ma anche sulle parole (insieme a Kaballà e Neffa).Sarebbe interessante, in futuro, se l’artista rinunciasse a uno di questi due aspetti: se nei suoni si lasciasse guidare da un produttore con un occhio all’elettronica, per esempio, o se per le parole si affidasse a una penna dal sapore più contemporaneo. Ma “Frasi & Fumo” è senza dubbio un disco che rispecchia l'anima di Nina e che serviva a sottolineare che non era solo una furba operazione di marketing:lei ha talento e il blues è il suo universo sonoro.
VERO - Guè Pequeno
di Valeria Piras
Nuovo disco di Guè.Tra glamour e America il passo riesce a metà.
Il rap italiano è da anni un pò malato di provincialismo.I nostri artisti cercano troppo spesso di imitare i rapper americani con risultati non sempre positivi,anzi davvero non si riesce a capire cosa si possa assorbire da un paese e da un mondo musicale così molto lontano dai nostri tempi e dalle nostre caratteristiche di italiani.Fatto sta che tutto è soggettivo e negli ultimi anni tra la nebbia di Milano e dei suoi club è forse uscita la musica hip hop migliore. Pure lo stesso Gué Pequeno sembra aver cercato di imitare il fascino american style ed è comprensibilmente fiero che il suo nuovo album esca anche sotto marchio Def Jam, un'etichetta che ha scritto pagine fondamentali della storia del rap U.S.A. Orgoglio raddoppiato anche grazie alla collaborazione con Akon, "uno che non dice di sì a tutti", tiene a precisare Gué.Venendo al suo nuovo lavoro forse la critica maggiore che si può muovere è la mancanza di collegamento tra intenzioni e realtà.
È un CD che vorrebbe fare due passi avanti rispetto al precedente "Bravo ragazzo " ma alla fine non aggiunge molto di nuovo al percorso di Guè.Perché il disco precedente sorprendeva per la qualità della produzione internazionale e hit come "Rose nere". mentre "Vero" affida il suo biglietto da visita a "Squalo", singolo debole e scontato con un Gué che sfoggia finti denti d'oro come se fosse a South Central e cade nel cliché di un video tutto sesso e culi troppo kitch per essere vero, dove lui è il protagonista pronto ad uccidere il nemico.
E' giusto affermare che la precisa sovrapponibilità tra vissuto e narrato non è un requisito necessario per essere credibili e per saper raccontare la realtà, non è però nemmeno una qualità ripetere e rovistare sugli stessi temi da ben 15 anni di carriera.Vero non è certo privo di brani gradevoli (il secondo singolo "Le bimbe piangono", per esempio, è un bel pezzo) ma avrebbe potuto avere di certo più applausi se, anziché esserne il successore, fosse stato un lavoro totalmente nuovo e diverso da "Bravo ragazzo". Nelle intenzioni Gué ha cercato insomma di mettersi alla prova per alzare l'asta e tentare il record italiano per presentarsi così a una platea internazionale, ma alla fine il suo salto è troppo rischioso e non avviene completamente.Ha cercato di fare l'americanata ma forse solo nella ricerca della realtà italiana di sempre avrebbe potuto davvero dire qualcosa di più nuovo.
Il rap italiano è da anni un pò malato di provincialismo.I nostri artisti cercano troppo spesso di imitare i rapper americani con risultati non sempre positivi,anzi davvero non si riesce a capire cosa si possa assorbire da un paese e da un mondo musicale così molto lontano dai nostri tempi e dalle nostre caratteristiche di italiani.Fatto sta che tutto è soggettivo e negli ultimi anni tra la nebbia di Milano e dei suoi club è forse uscita la musica hip hop migliore. Pure lo stesso Gué Pequeno sembra aver cercato di imitare il fascino american style ed è comprensibilmente fiero che il suo nuovo album esca anche sotto marchio Def Jam, un'etichetta che ha scritto pagine fondamentali della storia del rap U.S.A. Orgoglio raddoppiato anche grazie alla collaborazione con Akon, "uno che non dice di sì a tutti", tiene a precisare Gué.Venendo al suo nuovo lavoro forse la critica maggiore che si può muovere è la mancanza di collegamento tra intenzioni e realtà.
È un CD che vorrebbe fare due passi avanti rispetto al precedente "Bravo ragazzo " ma alla fine non aggiunge molto di nuovo al percorso di Guè.Perché il disco precedente sorprendeva per la qualità della produzione internazionale e hit come "Rose nere". mentre "Vero" affida il suo biglietto da visita a "Squalo", singolo debole e scontato con un Gué che sfoggia finti denti d'oro come se fosse a South Central e cade nel cliché di un video tutto sesso e culi troppo kitch per essere vero, dove lui è il protagonista pronto ad uccidere il nemico.
E' giusto affermare che la precisa sovrapponibilità tra vissuto e narrato non è un requisito necessario per essere credibili e per saper raccontare la realtà, non è però nemmeno una qualità ripetere e rovistare sugli stessi temi da ben 15 anni di carriera.Vero non è certo privo di brani gradevoli (il secondo singolo "Le bimbe piangono", per esempio, è un bel pezzo) ma avrebbe potuto avere di certo più applausi se, anziché esserne il successore, fosse stato un lavoro totalmente nuovo e diverso da "Bravo ragazzo". Nelle intenzioni Gué ha cercato insomma di mettersi alla prova per alzare l'asta e tentare il record italiano per presentarsi così a una platea internazionale, ma alla fine il suo salto è troppo rischioso e non avviene completamente.Ha cercato di fare l'americanata ma forse solo nella ricerca della realtà italiana di sempre avrebbe potuto davvero dire qualcosa di più nuovo.
GIOVANI SI DIVENTA
di Valeria Piras
Le mille sfaccettature della vita di coppia tra giovani e meno giovani.
Il regista americano Noah Baumbach dopo aver raccontato in modo perfetto il vario mondo delle esistenze, mettendo in risalto da un lato le stravaganze (Lo stravagante mondo di Greenberg) e, dall'altro, le interessanti ordinarietà (Frances Ha) che lo caratterizzano è oggi nelle sale con il suo ultimo film in cui sceglie di raccontare il tema del confronto generazionale, sfruttando anche la componente ‘documentaristica' dell'opera per riflettere sull'importanza della verità e dell'autenticità applicate al mondo delle coppie. Attraverso la storia della non più così giovane coppia di protagonisti e il confronto con il loro negativo o complementare giovane, Baumbach tratteggia così lo yin e lo yang del relazionarsi, un equilibrio in perenne movimento che sconfitte e successi, nuovi limiti o inattese potenzialità tendono costantemente a mutare.
Lo stato di crisi o forse di estrema solidità di coppia è dunque messo a fuoco attraverso il ‘gioco' di similitudini e differenze dei protagonisti in campo, filtrato attraverso la presenza ingombrante ma bonaria del Josh di Ben Stiller e quella sorniona e più subdola del Jamie di Adam Driver. Leggermente a margine e più neutrale si muove invece il comparto femminile delle comunque brave comprimarie Naomi Watts e Amanda Seyfried, all'interno di una commedia generazionale sofisticata e fluida, capace di centrare alcune delle 'storture' tipiche dello stato della coppia nella sua continua evoluzione.
Il regista americano realizza insomma un ritratto transgenerazionale che si nutre di una certa vivacità intellettuale e con un buon cast fatto di star come Ben Stille, Naomi Watts e Amanda Syfried riesce ad intrecciare la riflessione esistenziale sul tempo che passa con la riflessione sull’oggettività dell’arte (documentaristica e non solo). Quanto di noi stessi e del nostro io possiamo nascondere agli altri per raggiungere i nostri obiettivi, prima che il tempo passi lasciandoci la sensazione di non aver sfruttato al meglio la nostra energia migliore? Una domanda davvero incredibilmente complicata ma sempre valida alla quale Baumbach risponde con l’ironia di sempre, ma anche il cinismo e la freschezza narrative che hanno sin dagli esordi contraddistinto le sue opere.
Il regista americano Noah Baumbach dopo aver raccontato in modo perfetto il vario mondo delle esistenze, mettendo in risalto da un lato le stravaganze (Lo stravagante mondo di Greenberg) e, dall'altro, le interessanti ordinarietà (Frances Ha) che lo caratterizzano è oggi nelle sale con il suo ultimo film in cui sceglie di raccontare il tema del confronto generazionale, sfruttando anche la componente ‘documentaristica' dell'opera per riflettere sull'importanza della verità e dell'autenticità applicate al mondo delle coppie. Attraverso la storia della non più così giovane coppia di protagonisti e il confronto con il loro negativo o complementare giovane, Baumbach tratteggia così lo yin e lo yang del relazionarsi, un equilibrio in perenne movimento che sconfitte e successi, nuovi limiti o inattese potenzialità tendono costantemente a mutare.
Lo stato di crisi o forse di estrema solidità di coppia è dunque messo a fuoco attraverso il ‘gioco' di similitudini e differenze dei protagonisti in campo, filtrato attraverso la presenza ingombrante ma bonaria del Josh di Ben Stiller e quella sorniona e più subdola del Jamie di Adam Driver. Leggermente a margine e più neutrale si muove invece il comparto femminile delle comunque brave comprimarie Naomi Watts e Amanda Seyfried, all'interno di una commedia generazionale sofisticata e fluida, capace di centrare alcune delle 'storture' tipiche dello stato della coppia nella sua continua evoluzione.
Il regista americano realizza insomma un ritratto transgenerazionale che si nutre di una certa vivacità intellettuale e con un buon cast fatto di star come Ben Stille, Naomi Watts e Amanda Syfried riesce ad intrecciare la riflessione esistenziale sul tempo che passa con la riflessione sull’oggettività dell’arte (documentaristica e non solo). Quanto di noi stessi e del nostro io possiamo nascondere agli altri per raggiungere i nostri obiettivi, prima che il tempo passi lasciandoci la sensazione di non aver sfruttato al meglio la nostra energia migliore? Una domanda davvero incredibilmente complicata ma sempre valida alla quale Baumbach risponde con l’ironia di sempre, ma anche il cinismo e la freschezza narrative che hanno sin dagli esordi contraddistinto le sue opere.
BUSH - SNOOP DOGG
di Valeria Piras
Torna Snoop con un album tra rap e funky che spiazza.
Non sembra vero ma è così.La musica rap tra rime e drammi,tra ghetto e gangsta ha compiuto 40 anni suonati.Da ciò si deduce che adesso assisteremo ad una vera lotta tra gli emergenti e le star della vecchia guardia che non intendono abdicare. Molte superstar della cosiddetta old school sonogià andayi in pensione e si sono tramutati in business man ricchi e talentuosi.Adesso è il turno dei rap degli anni '90 provare a rinnovarsi o a trovare un nuovo ruolo sul mercato musicale.Il simbolo di tutto questo è Snoop Dogg.Nel corso degli ultimi anni non solo ha cambiato nome, (all'inizio era Snoop Doggy Dog) ma ha diversificato il proprio business - produttore di film porno, venture capitalist per investire sulla marijuana, protagonista di un reality – come pure genere musicale e identità. La sua ultima trasformazione è stata nel 2013 con la conversione al rastafarianesimo, la pubblicazione di un disco reggae e il cambio di nome in Snoop Lion; la notizia ha fatto il giro dei colonnini del mondo, ma alla fine l'operazione si è rivelata un mezzo flop. Così Snoop ha deciso di tornare all'ovile del rap e con il suo nuovo album “Bush” è tornato alle origini, o meglio, alle cose che in passato hanno avuto più successo come “Beautiful” o “Drop like it hot”.Ha deciso inoltre di farsi produrre da Pharrell Williams, suo sodale al tempo delle due hits e ora riconosciuto Re Mida del pop.Di ritorno vero e proprio all'hip-hop in realtà non si può proprio parlare, per una serie di motivi.
Primo, il 43enne Snoop Dogg qui rappa pochissimo e quando lo fa, come nel singolo “Peaches N Cream”, mette in fila una serie di citazione di rime altrui.Preferisce invece passare la palla a T.I. (“Edibles” una delle tracce migliori) o a pesi massimi come Kendrick Lamar e Rick Ross (deludenti in “I'm Ya Dogg”). Anche la musica è piuttosto lontana dell'hip-hop e più vicino a quel hip-pop in cui si è specializzato Pharrell con ampie citazioni al funk e alla disco anni 70. E questo è il punto di forza e insieme di debolezza del disco, che è gradevole, leggero e ben prodotto, ma che dopo i Daft Punk, i Chromeo, Mayer Hawthorne (anche nel suo side project Tuxedo), Mark Ronson e il ritorno di Nile Rodgers non ha più molto da dire.
E pensare che il disco parte davvero bene con la fantasiosa ed orecchiabile “California Roll” sull'uso terapeutico della cannabis con la voce di Pharrell (presente un po' in tutto il disco) che si incrocia con quella di Stevie Wonder e della sua armonica. Altri pezzi come “Run Away” con Gwen Stefani o “So Many Pros” sembrano usciti dal disco solista di Pharrell.Insomma, se lo stile laid back e il ritorno al funk sono perfetti per Snoop, l'impressione che se ne ricava dal disco è di aver voluto giocare troppo sul sicuro.Forse una spinta più sul territorio più hard funk stile Funkadelic e Parliament - come erano le intenzioni, secondo le dichiarazioni dello stesso rapper - avrebbe giovato al disco.I pezzi comunque ci sono e sarà divertente sentirli suonare dal vivo quest'estate, con il tour che passa anche dall'Italia.
Non sembra vero ma è così.La musica rap tra rime e drammi,tra ghetto e gangsta ha compiuto 40 anni suonati.Da ciò si deduce che adesso assisteremo ad una vera lotta tra gli emergenti e le star della vecchia guardia che non intendono abdicare. Molte superstar della cosiddetta old school sonogià andayi in pensione e si sono tramutati in business man ricchi e talentuosi.Adesso è il turno dei rap degli anni '90 provare a rinnovarsi o a trovare un nuovo ruolo sul mercato musicale.Il simbolo di tutto questo è Snoop Dogg.Nel corso degli ultimi anni non solo ha cambiato nome, (all'inizio era Snoop Doggy Dog) ma ha diversificato il proprio business - produttore di film porno, venture capitalist per investire sulla marijuana, protagonista di un reality – come pure genere musicale e identità. La sua ultima trasformazione è stata nel 2013 con la conversione al rastafarianesimo, la pubblicazione di un disco reggae e il cambio di nome in Snoop Lion; la notizia ha fatto il giro dei colonnini del mondo, ma alla fine l'operazione si è rivelata un mezzo flop. Così Snoop ha deciso di tornare all'ovile del rap e con il suo nuovo album “Bush” è tornato alle origini, o meglio, alle cose che in passato hanno avuto più successo come “Beautiful” o “Drop like it hot”.Ha deciso inoltre di farsi produrre da Pharrell Williams, suo sodale al tempo delle due hits e ora riconosciuto Re Mida del pop.Di ritorno vero e proprio all'hip-hop in realtà non si può proprio parlare, per una serie di motivi.
Primo, il 43enne Snoop Dogg qui rappa pochissimo e quando lo fa, come nel singolo “Peaches N Cream”, mette in fila una serie di citazione di rime altrui.Preferisce invece passare la palla a T.I. (“Edibles” una delle tracce migliori) o a pesi massimi come Kendrick Lamar e Rick Ross (deludenti in “I'm Ya Dogg”). Anche la musica è piuttosto lontana dell'hip-hop e più vicino a quel hip-pop in cui si è specializzato Pharrell con ampie citazioni al funk e alla disco anni 70. E questo è il punto di forza e insieme di debolezza del disco, che è gradevole, leggero e ben prodotto, ma che dopo i Daft Punk, i Chromeo, Mayer Hawthorne (anche nel suo side project Tuxedo), Mark Ronson e il ritorno di Nile Rodgers non ha più molto da dire.
E pensare che il disco parte davvero bene con la fantasiosa ed orecchiabile “California Roll” sull'uso terapeutico della cannabis con la voce di Pharrell (presente un po' in tutto il disco) che si incrocia con quella di Stevie Wonder e della sua armonica. Altri pezzi come “Run Away” con Gwen Stefani o “So Many Pros” sembrano usciti dal disco solista di Pharrell.Insomma, se lo stile laid back e il ritorno al funk sono perfetti per Snoop, l'impressione che se ne ricava dal disco è di aver voluto giocare troppo sul sicuro.Forse una spinta più sul territorio più hard funk stile Funkadelic e Parliament - come erano le intenzioni, secondo le dichiarazioni dello stesso rapper - avrebbe giovato al disco.I pezzi comunque ci sono e sarà divertente sentirli suonare dal vivo quest'estate, con il tour che passa anche dall'Italia.
NO PLACE IN HEAVEN - Mika
di Valeria Piras
Nuovo album per Mika ed è un'esplosione di colori e suoni.
E' tornato Mika,è tornato il suo modo di fare musica pop,allegra e di spessore.Di pop in giro ce n'è sempre molto,dalla usica banale,a quella tipo tormantone,a quella intellettuale sulla scia dell'indie.E poi c'è il pop di Mika.Canzoni semplici ma non noiose, arrangiate in maniera pulita, cantate bene, che mirano alla melodia, alla piacevolezza, alla freschezza.Il suo nuovo lavoro di inediti si intitola No Place In Heaven ed è un vero pantheon di colori, non a caso in mezzo c'è Andy Wharol, perché in questo disco, come nella pop art, si mischiano i colori, i suoni, da ovunque arrivino: l’allegria, con la malinconia, l’alto con il basso. La copertina del disco è già un'anticipazione,è vivace, le canzoni sono spesso dritte, melodiche, ma le foto di Mika sono sempre in bianco e nero, un po’ ombrose, e nelle canzoni c’è una vena riflessiva nelle storie, un sottotesto introverso che è tipico di certo pop-rock, quello a cui si ispira Mika: gli anni ’70, il primo Elton John, il primo Billy Joel, Carole King e il Laurel Canyon dove questo disco è stato scritto.
Per il suo nuovo disco l'artista anglo-libanese ha scelto un suono retrò, aperto, fatto di strumenti ben riconoscibili, a sostenere melodie immediate: lo si capisce fin dalla prima canzone - almeno in Italia, perché l’album esce in 8 versioni con tracklist diverse a seconda dei paesi. “Talk about you” parte con un basso pulsante, piano, ritmica sostenuta, una chitarra acustica.Davvero un'atmosfera che coinvolge e stupisce nel sonoro.Splendida la traccia “Good guys”, che è più malinconica: decisamente più Rufus Wainwright che Bowie, per rimanere tra i nomi citati nel brano.
Il disco continua veloce espedito con canzoni ritmate (“All she wants”) e ballate malinconiche (“Hurts”, “Let’s party”, che a dispetto del titolo si apre solo alla fine), tra riferimenti alla chanson (ben quattro le canzoni in francese, nella nostra edizione), e riferimenti alla storia del pop: “No place in heaven” sembra citare direttamente “Cecilia” di Simon & Garfunkel (con quel “I’m down on my knees, I’m begging you please”), il “L’amour, la la la l’amour" di “L’amour fait ce qui’il veut” ricorda “Can’t get you out of my head” di Kylie Minogue, “Rio” ha un giro di chitarra che sembra quello di “Faith” di George Michael (che a sua volta ricordava certo rock ’n’ roll delle origini).I critici potrebbero obiettare che ogni tanto le canzoni ricordano qualche classico della musica pop, qualche melodia entrata nell’immaginario, anche se magari non la riconosci subito. “No place like heaven” non è un classico, ma è un album di "classic pop", e di classe: avvolgenti melodie, piacevoli ma mai banali, e poi con la splendida voce espressiva e impeccabile di Mika.Bentornato ad uno degli artisti più talentuosi della scena musicale contemporanea.
E' tornato Mika,è tornato il suo modo di fare musica pop,allegra e di spessore.Di pop in giro ce n'è sempre molto,dalla usica banale,a quella tipo tormantone,a quella intellettuale sulla scia dell'indie.E poi c'è il pop di Mika.Canzoni semplici ma non noiose, arrangiate in maniera pulita, cantate bene, che mirano alla melodia, alla piacevolezza, alla freschezza.Il suo nuovo lavoro di inediti si intitola No Place In Heaven ed è un vero pantheon di colori, non a caso in mezzo c'è Andy Wharol, perché in questo disco, come nella pop art, si mischiano i colori, i suoni, da ovunque arrivino: l’allegria, con la malinconia, l’alto con il basso. La copertina del disco è già un'anticipazione,è vivace, le canzoni sono spesso dritte, melodiche, ma le foto di Mika sono sempre in bianco e nero, un po’ ombrose, e nelle canzoni c’è una vena riflessiva nelle storie, un sottotesto introverso che è tipico di certo pop-rock, quello a cui si ispira Mika: gli anni ’70, il primo Elton John, il primo Billy Joel, Carole King e il Laurel Canyon dove questo disco è stato scritto.
Per il suo nuovo disco l'artista anglo-libanese ha scelto un suono retrò, aperto, fatto di strumenti ben riconoscibili, a sostenere melodie immediate: lo si capisce fin dalla prima canzone - almeno in Italia, perché l’album esce in 8 versioni con tracklist diverse a seconda dei paesi. “Talk about you” parte con un basso pulsante, piano, ritmica sostenuta, una chitarra acustica.Davvero un'atmosfera che coinvolge e stupisce nel sonoro.Splendida la traccia “Good guys”, che è più malinconica: decisamente più Rufus Wainwright che Bowie, per rimanere tra i nomi citati nel brano.
Il disco continua veloce espedito con canzoni ritmate (“All she wants”) e ballate malinconiche (“Hurts”, “Let’s party”, che a dispetto del titolo si apre solo alla fine), tra riferimenti alla chanson (ben quattro le canzoni in francese, nella nostra edizione), e riferimenti alla storia del pop: “No place in heaven” sembra citare direttamente “Cecilia” di Simon & Garfunkel (con quel “I’m down on my knees, I’m begging you please”), il “L’amour, la la la l’amour" di “L’amour fait ce qui’il veut” ricorda “Can’t get you out of my head” di Kylie Minogue, “Rio” ha un giro di chitarra che sembra quello di “Faith” di George Michael (che a sua volta ricordava certo rock ’n’ roll delle origini).I critici potrebbero obiettare che ogni tanto le canzoni ricordano qualche classico della musica pop, qualche melodia entrata nell’immaginario, anche se magari non la riconosci subito. “No place like heaven” non è un classico, ma è un album di "classic pop", e di classe: avvolgenti melodie, piacevoli ma mai banali, e poi con la splendida voce espressiva e impeccabile di Mika.Bentornato ad uno degli artisti più talentuosi della scena musicale contemporanea.
Y O U T H
di Valeria Piras
Estetismo ed avanguardia visiva si fondono con la regia di Sorrentino.
Nelle sale in questo mese di Giugno il nuovo capolavoro del grande regista Paolo Sorrentino,intitolato Youth - La Giovinezza.Molti potrebbero credere che sotto gli strati di sovrastrutture, sotto l'accumulo di esercizi estetici barocchi, sotto il suo provocatorio (e affascinante) sensazionalismo visivo, in Youth non ci sia altro. E invece è una specie di gioco del mistero quello di Sorrentino, un viaggio raffinato poichè il regista, sotto quell'accumulo, sotto l'apparenza nasconde una complessità sovrabbondante di contenuto che fa il paio con quella della forma. In questo nuovo film è provocatorio, Sorrentino, con i suoi spettatori si nasconde e poi riemerge, indica la luna per vedere se siamo tutti così polli da guardare il dito invece di quel che il regista allestisce con l'altra mano sfruttando la luce argentea del satellite e abbagliandoci con essa. Il percorso estetico viene estremizzato in modo avanguardistico, un vero e proprio guanto di sfida lanciato in faccia a chi guarda, ne mette alla prova la resistenza e la capacità di perdersi in quella sublimazione, di abbandonarsi a un godimento estetico che via via è del tutto slegato dal contenuto e dalle meccaniche del desiderio.Un puro godimento paradossalmente asessuato provato da Michael Caine e Harvey Keitel che, immersi in una piscina, osservano sfilare davanti a loro e adagiarsi mollemente tra le acque una Madalina Ghenea vestita solo di sé.
Un godimento senza brame e senza illusioni che avvicina al nirvana, quel nirvana suggerito dalla figura del monaco buddista ospite dell'albergo sulle alpi svizzere che è teatro di Youth, e che ospita sosia di Maradona, coppie silenziose, giovani irrequieti e anziani spaventati, donne velate e alpinisti timidi e barbuti. Sorrentino mente, spudoratamente, e si diverte come un matto a farlo. O forse non mente, e si diverte semplicemente a abbracciare la contraddizione, il paradosso della vita, la compresenza di opposti che è un po' il motore immoto dell'esistenza. Caine e Keitel, amici di vecchissima data perché parlano tra loro solo “delle cose belle”, non parlano affatto solo di cose belle.
Sono sinceri fra di loro e con sé stessi, eppure si dicono bugie, si nascondono le piccole e grandi cose, mettono costantemente sul piatto la scommessa della verità e della fiducia: ma come un gioco, senza agonismi o cattiverie. Agire senza l'illusione del piacere, senza brame, senza passioni e senza dolore inutile, per il raggiungimento di quel piccolo nirvana che è rappresentato, ancora, dal perdersi dentro la bellezza del gesto, dell'opera stessa, assaporando la vertigine della libertà. Alla fine, quindi, Youth non è solo un film sulla vita, sulla vecchiaia, sullo spettro della morte, ma anche sull'eterna giovinezza dell'arte, di quel cinema e quella musica che rimbombano e ridondano tanto attraverso i suoni e le immagini sullo schermo, quanto nelle parole dei protagonisti, mescolando alto e basso, sacro e profano, sublime e grottesco. È questo, forse, che a Sorrentino non verrà perdonato: questa sua ribellione alle convenzioni, questo suo mirare altissimo rimestando nel torbido, il suo approccio epidermico. Il suo essere, per dirla con il Fred Ballinger di Michael Caine, uno che è tutta la vita che cerca di non diventare un intellettuale.
Nelle sale in questo mese di Giugno il nuovo capolavoro del grande regista Paolo Sorrentino,intitolato Youth - La Giovinezza.Molti potrebbero credere che sotto gli strati di sovrastrutture, sotto l'accumulo di esercizi estetici barocchi, sotto il suo provocatorio (e affascinante) sensazionalismo visivo, in Youth non ci sia altro. E invece è una specie di gioco del mistero quello di Sorrentino, un viaggio raffinato poichè il regista, sotto quell'accumulo, sotto l'apparenza nasconde una complessità sovrabbondante di contenuto che fa il paio con quella della forma. In questo nuovo film è provocatorio, Sorrentino, con i suoi spettatori si nasconde e poi riemerge, indica la luna per vedere se siamo tutti così polli da guardare il dito invece di quel che il regista allestisce con l'altra mano sfruttando la luce argentea del satellite e abbagliandoci con essa. Il percorso estetico viene estremizzato in modo avanguardistico, un vero e proprio guanto di sfida lanciato in faccia a chi guarda, ne mette alla prova la resistenza e la capacità di perdersi in quella sublimazione, di abbandonarsi a un godimento estetico che via via è del tutto slegato dal contenuto e dalle meccaniche del desiderio.Un puro godimento paradossalmente asessuato provato da Michael Caine e Harvey Keitel che, immersi in una piscina, osservano sfilare davanti a loro e adagiarsi mollemente tra le acque una Madalina Ghenea vestita solo di sé.
Un godimento senza brame e senza illusioni che avvicina al nirvana, quel nirvana suggerito dalla figura del monaco buddista ospite dell'albergo sulle alpi svizzere che è teatro di Youth, e che ospita sosia di Maradona, coppie silenziose, giovani irrequieti e anziani spaventati, donne velate e alpinisti timidi e barbuti. Sorrentino mente, spudoratamente, e si diverte come un matto a farlo. O forse non mente, e si diverte semplicemente a abbracciare la contraddizione, il paradosso della vita, la compresenza di opposti che è un po' il motore immoto dell'esistenza. Caine e Keitel, amici di vecchissima data perché parlano tra loro solo “delle cose belle”, non parlano affatto solo di cose belle.
Sono sinceri fra di loro e con sé stessi, eppure si dicono bugie, si nascondono le piccole e grandi cose, mettono costantemente sul piatto la scommessa della verità e della fiducia: ma come un gioco, senza agonismi o cattiverie. Agire senza l'illusione del piacere, senza brame, senza passioni e senza dolore inutile, per il raggiungimento di quel piccolo nirvana che è rappresentato, ancora, dal perdersi dentro la bellezza del gesto, dell'opera stessa, assaporando la vertigine della libertà. Alla fine, quindi, Youth non è solo un film sulla vita, sulla vecchiaia, sullo spettro della morte, ma anche sull'eterna giovinezza dell'arte, di quel cinema e quella musica che rimbombano e ridondano tanto attraverso i suoni e le immagini sullo schermo, quanto nelle parole dei protagonisti, mescolando alto e basso, sacro e profano, sublime e grottesco. È questo, forse, che a Sorrentino non verrà perdonato: questa sua ribellione alle convenzioni, questo suo mirare altissimo rimestando nel torbido, il suo approccio epidermico. Il suo essere, per dirla con il Fred Ballinger di Michael Caine, uno che è tutta la vita che cerca di non diventare un intellettuale.
SAN ANDREAS
di Valeria Piras
Disaster movie in salsa americana che però non convince abbastanza.
In America lo chiamano il Big One ed è l’incubo e allo stesso tempo il sogno di tutti i sismologi,ovvero il più grande terremoto che il pianeta Terra abbia mai subito.Si tratta del sisma che si svilupperebbe dall’eventuale spostamento della faglia di sant’Andrea presente sotto lo Stato della California e che potrebbe deflagrare in una scossa di magnitudo devastante. La più forte di sempre, per intenderci. Una possibilità allarmante sui cui un bel filmone americano è perfetto.A cogliere la palla al balzo è il regista Brad Peyton, che dopo Viaggio nell’isola misteriosa, in San Andreas torna a dirigere Dwayne Johnson affidandogli il ruolo di Ray, pilota di elicottero della squadra di soccorso dei pompieri di Los Angeles, impegnato a portare la sua famiglia – la moglie (quasi ex) Emma (Carla Gugino) e la figlia Blake (Alexandra Daddario) – in salvo dal sisma.
Strizzando l’occhio a Roland Emmerich, maestro del genere, il film procede secondo uno schema molto classico: i protagonisti viaggiano su due percorsi paralleli (figlia da una parte e genitori dall’altra) in attesa del ricongiungimento finale, tutto ciò che può andar male va anche peggio (l’anticlimax culmina con uno tsunami che si abbatte su San Francisco) e le scene di distruzione di massa, efficaci e imponenti, riescono a trasmettere il senso di impotenza dell’uomo verso simili calamità naturali. Davvero ottima la parte del grande attore Paul Giamatti che, nel ruolo del capo sismologo Lawrence Hayes, avvisa l’America dell’imminente catastrofe.Purtroppo aldilà del tema suggestivo il film si poggia su una sceneggiatura davvero debole e gli stessi dialoghi tra i protagonisti sono ridotti ai minimi termini e molto elementari,quasi come se il regista avesse voluto shockare solo con le immagini della catastrofe.Gli snodi narrativi sono pochissimi e in molti casi davvero ingenui.
Ancora più fuori luogo è la figura drammatica del personaggio di The Rock, eroe e padre tormentato che cerca di rimettere insieme i pezzi della sua famiglia. Dwayne Johnson è il volto simbolo del blockbuster ipermuscolare contemporaneo, che funziona nella parte dell’eroe imperturbabile e invincibile (anche qui, non c’è situazione che lo metta davvero in difficoltà), ma è davvero poco adatto quando il regista gli chiede di comunicare emozioni e sofferenze che sono ancora lontanissime dalla sua capacità di essere anche attore.Senza contare le improvvisate lezioni di sopravvivenza da “capo dei boy scout” e il brusco calo di qualità della sceneggiatura nella parte finale del film dove si nota una certa fretta nel attesa della chiusura del film. Insomma San Andreas non convince per nulla e a differenza di film come Fast & Furious non riesce a giocare con i topos del genere,anzi si prende troppo sul serio in maniera non adatta.La struttura del film potrebbe piacere all'universo adolescenziale non certo a spettatori di un certo livello.È puro intrattenimento all'americana dove possiamo staccare il cervello per un paio d'ore e ammirare le grazie della bella e giovane Alexandra Daddario.
In America lo chiamano il Big One ed è l’incubo e allo stesso tempo il sogno di tutti i sismologi,ovvero il più grande terremoto che il pianeta Terra abbia mai subito.Si tratta del sisma che si svilupperebbe dall’eventuale spostamento della faglia di sant’Andrea presente sotto lo Stato della California e che potrebbe deflagrare in una scossa di magnitudo devastante. La più forte di sempre, per intenderci. Una possibilità allarmante sui cui un bel filmone americano è perfetto.A cogliere la palla al balzo è il regista Brad Peyton, che dopo Viaggio nell’isola misteriosa, in San Andreas torna a dirigere Dwayne Johnson affidandogli il ruolo di Ray, pilota di elicottero della squadra di soccorso dei pompieri di Los Angeles, impegnato a portare la sua famiglia – la moglie (quasi ex) Emma (Carla Gugino) e la figlia Blake (Alexandra Daddario) – in salvo dal sisma.
Strizzando l’occhio a Roland Emmerich, maestro del genere, il film procede secondo uno schema molto classico: i protagonisti viaggiano su due percorsi paralleli (figlia da una parte e genitori dall’altra) in attesa del ricongiungimento finale, tutto ciò che può andar male va anche peggio (l’anticlimax culmina con uno tsunami che si abbatte su San Francisco) e le scene di distruzione di massa, efficaci e imponenti, riescono a trasmettere il senso di impotenza dell’uomo verso simili calamità naturali. Davvero ottima la parte del grande attore Paul Giamatti che, nel ruolo del capo sismologo Lawrence Hayes, avvisa l’America dell’imminente catastrofe.Purtroppo aldilà del tema suggestivo il film si poggia su una sceneggiatura davvero debole e gli stessi dialoghi tra i protagonisti sono ridotti ai minimi termini e molto elementari,quasi come se il regista avesse voluto shockare solo con le immagini della catastrofe.Gli snodi narrativi sono pochissimi e in molti casi davvero ingenui.
Ancora più fuori luogo è la figura drammatica del personaggio di The Rock, eroe e padre tormentato che cerca di rimettere insieme i pezzi della sua famiglia. Dwayne Johnson è il volto simbolo del blockbuster ipermuscolare contemporaneo, che funziona nella parte dell’eroe imperturbabile e invincibile (anche qui, non c’è situazione che lo metta davvero in difficoltà), ma è davvero poco adatto quando il regista gli chiede di comunicare emozioni e sofferenze che sono ancora lontanissime dalla sua capacità di essere anche attore.Senza contare le improvvisate lezioni di sopravvivenza da “capo dei boy scout” e il brusco calo di qualità della sceneggiatura nella parte finale del film dove si nota una certa fretta nel attesa della chiusura del film. Insomma San Andreas non convince per nulla e a differenza di film come Fast & Furious non riesce a giocare con i topos del genere,anzi si prende troppo sul serio in maniera non adatta.La struttura del film potrebbe piacere all'universo adolescenziale non certo a spettatori di un certo livello.È puro intrattenimento all'americana dove possiamo staccare il cervello per un paio d'ore e ammirare le grazie della bella e giovane Alexandra Daddario.
F U R Y
di Valeria Piras
Raccontare la guerra tra azione e grande dramma.Applausi.
Arriva finalmente nelle sale italiane il film Fury con protagonista lo splendido e bravissimo Brad Pitt.La regia è di David Ayer,visto al cinema in piccoli capolavori come Sabotage; End of Watch – Tolleranza zero; Street Kings – La notte non aspetta; Harsh Times – I giorni dell’odio), che in 120 minuti di film catapulta lo spettatore in una ricostruzione fedele della ferocia della guerra.La 58° edizione del “London Film Festival” ha visto il successo nella proiezione del film con molti minuti di applausi.Raramente un film è riesciuto a bilanciare così bene il dramma umano con le sequenze d’azione estremamente realistiche. E’ proprio questo perfetto equilibrio a caratterizzare Fury. Brad Pitt è bravissimo nel regalare allo spettatore un personaggio a tutto tondo, schiavo del ruolo di leader che deve ricoprire presso i suoi sottoposti ma assediato da fantasmi interiori che riemergono in forma variabile e angosciosa durante il film.
Tanti applausi anche per Shia La Boeuf, che col suo ritratto del riflessivo, a tratti spirituale Boyd “Bible” Swan tocca vette interpretative tra le più alte della sua carriera. Non manca di sorprendere anche il giovanissimo Logan Lerman, che dimostra di essere attore duttile e molto espressivo, scrollandosi di dosso qualsiasi imbarazzante retaggio di Percy Jackson o, peggio, del dimenticabile Noah aronofskiano. Anche Michael Peña e Jon Bernthal non sono da meno, in due ruoli che riescono a staccarsi ben presto dal rischio macchiettistico che alcune situazioni avrebbero potuto rappresentare; la paura e il rimorso rendono entrambi tridimensionali e veri, arricchendoli di una profondità che è una boccata di ossigeno per il pubblico abituato ai cliché.C’è una grande classicità tematica, in questo Fury: a dispetto dei corpi brutalmente spappolati dal passaggio dei cingolati e degli arti saltati per le mine (impeccabili gli effetti speciali e visivi), il film raccoglie l’eredità dei grandi racconti di guerra cui il cinema ci ha abituati, smaltandoli con una vernice rosso sangue di realismo contemporaneo. Ma la formazione dei protagonisti rimane quella tradizionale: il leader paterno ma autoritario, il giovane che deve imparare a vivere, il filosofo, il buontempone, la potenziale serpe in seno.
Limitandosi a guardare l’idea di base, non offrirebbe poi molti motivi di interesse; eppure, grazie a scelte di casting quantomai azzeccate e a una regia che sceglie di immergersi – e immergere il pubblico – nel fango dei terreni fatti d’argilla e carne decomposta, Fury spicca il volo e scende in picchiata, colpendo allo stomaco senza soluzione di continuità.A metà strada tra il dramma e il film d’azione tout court Fury è arricchito dall’alternanza di momenti contrastanti, nei quali le scene cruenti dei combattimenti cedono il passo a quelle che esaltano la fragilità emotiva. Feroce, agghiacciante, doloroso, dal ritmo serrato ma anche emozionante e profondamente umano, l’opera di Ayer racconta la guerra brutale, così com’è. Brad Pitt, più bravo che bello in questa pellicola, da vita ad un eroe imperfetto e credibile. Il suo sergente Wardaddy è spietato e duro, incapace di manifestare le sue debolezze, nasconde i suoi momenti di sconforto e paura. E’ un leader e deve guidare i suoi uomini alla vittoria o alla morte. La guerra non ammette incertezze, tutto si paga con il dolore, persino una breve parentesi di normalità. Un film dal successo annunciato che però ha tutte le carte in regola per ottenerlo. Da plauso come detto tutto il suo cast stellare composto da Shia LaBeouf; Logan Lerman; Micheal Pena; Jon Bernthal.Un gran bel film bellico che ben descrive la tragedia umana della guerra.
Arriva finalmente nelle sale italiane il film Fury con protagonista lo splendido e bravissimo Brad Pitt.La regia è di David Ayer,visto al cinema in piccoli capolavori come Sabotage; End of Watch – Tolleranza zero; Street Kings – La notte non aspetta; Harsh Times – I giorni dell’odio), che in 120 minuti di film catapulta lo spettatore in una ricostruzione fedele della ferocia della guerra.La 58° edizione del “London Film Festival” ha visto il successo nella proiezione del film con molti minuti di applausi.Raramente un film è riesciuto a bilanciare così bene il dramma umano con le sequenze d’azione estremamente realistiche. E’ proprio questo perfetto equilibrio a caratterizzare Fury. Brad Pitt è bravissimo nel regalare allo spettatore un personaggio a tutto tondo, schiavo del ruolo di leader che deve ricoprire presso i suoi sottoposti ma assediato da fantasmi interiori che riemergono in forma variabile e angosciosa durante il film.
Tanti applausi anche per Shia La Boeuf, che col suo ritratto del riflessivo, a tratti spirituale Boyd “Bible” Swan tocca vette interpretative tra le più alte della sua carriera. Non manca di sorprendere anche il giovanissimo Logan Lerman, che dimostra di essere attore duttile e molto espressivo, scrollandosi di dosso qualsiasi imbarazzante retaggio di Percy Jackson o, peggio, del dimenticabile Noah aronofskiano. Anche Michael Peña e Jon Bernthal non sono da meno, in due ruoli che riescono a staccarsi ben presto dal rischio macchiettistico che alcune situazioni avrebbero potuto rappresentare; la paura e il rimorso rendono entrambi tridimensionali e veri, arricchendoli di una profondità che è una boccata di ossigeno per il pubblico abituato ai cliché.C’è una grande classicità tematica, in questo Fury: a dispetto dei corpi brutalmente spappolati dal passaggio dei cingolati e degli arti saltati per le mine (impeccabili gli effetti speciali e visivi), il film raccoglie l’eredità dei grandi racconti di guerra cui il cinema ci ha abituati, smaltandoli con una vernice rosso sangue di realismo contemporaneo. Ma la formazione dei protagonisti rimane quella tradizionale: il leader paterno ma autoritario, il giovane che deve imparare a vivere, il filosofo, il buontempone, la potenziale serpe in seno.
Limitandosi a guardare l’idea di base, non offrirebbe poi molti motivi di interesse; eppure, grazie a scelte di casting quantomai azzeccate e a una regia che sceglie di immergersi – e immergere il pubblico – nel fango dei terreni fatti d’argilla e carne decomposta, Fury spicca il volo e scende in picchiata, colpendo allo stomaco senza soluzione di continuità.A metà strada tra il dramma e il film d’azione tout court Fury è arricchito dall’alternanza di momenti contrastanti, nei quali le scene cruenti dei combattimenti cedono il passo a quelle che esaltano la fragilità emotiva. Feroce, agghiacciante, doloroso, dal ritmo serrato ma anche emozionante e profondamente umano, l’opera di Ayer racconta la guerra brutale, così com’è. Brad Pitt, più bravo che bello in questa pellicola, da vita ad un eroe imperfetto e credibile. Il suo sergente Wardaddy è spietato e duro, incapace di manifestare le sue debolezze, nasconde i suoi momenti di sconforto e paura. E’ un leader e deve guidare i suoi uomini alla vittoria o alla morte. La guerra non ammette incertezze, tutto si paga con il dolore, persino una breve parentesi di normalità. Un film dal successo annunciato che però ha tutte le carte in regola per ottenerlo. Da plauso come detto tutto il suo cast stellare composto da Shia LaBeouf; Logan Lerman; Micheal Pena; Jon Bernthal.Un gran bel film bellico che ben descrive la tragedia umana della guerra.
IL RACCONTO DEI RACCOTI
di Valeria Piras
Un viaggio fantastico che lascia tutti a bocca aperta.
Arriva finalmente nelle sale la nuova opera cinematografica del grande regista italiano Matteo Garrone che per l'occasione recupera una dimenticata opera del rinascimento letterario italiano dello scrittore napoletano Basile Lo cunto de li cunti. Il film si intitola Il Racconto dei Racconti e presenta davvero moltissimi motivi di interesse. La cosa che va maggiormente sottolineata del progetto fantasy portato avanti dal regista italiano è il suo enorme coraggio: da tempo, in Italia, si parla di riscoperta dei "generi", di costruzione di un'industria che sappia guardare al pubblico, che possa coniugare sostanza e intrattenimento, attenzione alle proprie peculiarità e respiro internazionale. Garrone,decide con questo progetto di rischiare: lo fa, innanzitutto, scegliendo un filone (il fantasy) che non ha una solida tradizione all'interno della nostra cinematografia, almeno non quanto altri maggiormente frequentati .La selezione delle tre storie tratta dall'opera letteraria di cui il film si compone, sulle cinquanta contenute nell'originale raccolta dev'essere stata tutt'altro che facile.
Tuttavia, malgrado lo stesso regista abbia ammesso essersi trattato di lavoro travagliato, e di aver persino iniziato ad adattare, per poi scartarle, alcune delle altre storie del libro, la scelta finale mostra senso e compattezza. Garrone ha sottolineato, presentando il film, che Il racconto dei racconti è opera pensata essenzialmente per il pubblico, che si pone come scopo principale quello di intrattenere. E proprio il pubblico viene facilmente irretito dalla complessità della costruzione visiva, facilitato nell'empatia dalla sempre presente dimensione realistica dei tre drammi presentati.Tuttavia, malgrado l'iniziale macchinosità, e la tendenza alla lungaggine che il film mostra nella sua prima metà, lentamente le tre storie acquistano quella consistenza inizialmente solo invocata, scavando nella materia viva (immagine che, nel caso specifico, risulta un po' più di una metafora) del loro carattere popolare, restituendo quella passionalità che, pur virata alla cupezza e al pessimismo, rappresenta il più importante trait d'union tra il film e i racconti originali.
Una presa che alla fine, pur non facendo dimenticare i limiti e le sbavature che quest'opera mostra, fa pendere la bilancia dal lato positivo, nella valutazione di questa nuova operazione di Garrone: se è vero che il coraggio non manca, lo stesso risultato, pur imperfetto, risulta ricco di suggestioni, motivi di interesse e fascino. L'averlo raggiunto in un'opera (a suo modo) tanto radicale, specie se vista nel contesto di una cinematografia come quella italiana attuale, è senz'altro motivo di merito.
Arriva finalmente nelle sale la nuova opera cinematografica del grande regista italiano Matteo Garrone che per l'occasione recupera una dimenticata opera del rinascimento letterario italiano dello scrittore napoletano Basile Lo cunto de li cunti. Il film si intitola Il Racconto dei Racconti e presenta davvero moltissimi motivi di interesse. La cosa che va maggiormente sottolineata del progetto fantasy portato avanti dal regista italiano è il suo enorme coraggio: da tempo, in Italia, si parla di riscoperta dei "generi", di costruzione di un'industria che sappia guardare al pubblico, che possa coniugare sostanza e intrattenimento, attenzione alle proprie peculiarità e respiro internazionale. Garrone,decide con questo progetto di rischiare: lo fa, innanzitutto, scegliendo un filone (il fantasy) che non ha una solida tradizione all'interno della nostra cinematografia, almeno non quanto altri maggiormente frequentati .La selezione delle tre storie tratta dall'opera letteraria di cui il film si compone, sulle cinquanta contenute nell'originale raccolta dev'essere stata tutt'altro che facile.
Tuttavia, malgrado lo stesso regista abbia ammesso essersi trattato di lavoro travagliato, e di aver persino iniziato ad adattare, per poi scartarle, alcune delle altre storie del libro, la scelta finale mostra senso e compattezza. Garrone ha sottolineato, presentando il film, che Il racconto dei racconti è opera pensata essenzialmente per il pubblico, che si pone come scopo principale quello di intrattenere. E proprio il pubblico viene facilmente irretito dalla complessità della costruzione visiva, facilitato nell'empatia dalla sempre presente dimensione realistica dei tre drammi presentati.Tuttavia, malgrado l'iniziale macchinosità, e la tendenza alla lungaggine che il film mostra nella sua prima metà, lentamente le tre storie acquistano quella consistenza inizialmente solo invocata, scavando nella materia viva (immagine che, nel caso specifico, risulta un po' più di una metafora) del loro carattere popolare, restituendo quella passionalità che, pur virata alla cupezza e al pessimismo, rappresenta il più importante trait d'union tra il film e i racconti originali.
Una presa che alla fine, pur non facendo dimenticare i limiti e le sbavature che quest'opera mostra, fa pendere la bilancia dal lato positivo, nella valutazione di questa nuova operazione di Garrone: se è vero che il coraggio non manca, lo stesso risultato, pur imperfetto, risulta ricco di suggestioni, motivi di interesse e fascino. L'averlo raggiunto in un'opera (a suo modo) tanto radicale, specie se vista nel contesto di una cinematografia come quella italiana attuale, è senz'altro motivo di merito.
9 - Negrita
di Valeria Piras
Ritorno alle loro origini rock per la band italiana.
Dopo vari lavori prodotti in giro per il mondo,attraversando paesi come Argentina,Brasile e Cile adesso i Negrita si concentrano al nord,per la precisione in Irlanda e l' la band aretina da vita al loro nono disco, intitolato semplicemente "9".Il grosso del lavoro è stato fatto presso lo studio Grouse Lodge (in passato frequentato da artisti del calibro di Michael Jackson e da band quali i R.E.M. e i Muse), circondato da mucche, pecore e galline.In questa pace la band rock italiana ha registrato i tredici brani contenuti all'interno di "9".Insomma i Negrita hanno riscoperto le radici del rock e si sono anche riscoperti come band:la lavorazione di questo nuovo disco ha visto Pau, Drigo e Mac tornare all'approccio tradizionale della presa diretta.Come dicevamo "9" ha visto i Negrita recuperare le loro radici rock; l'album è nato nel periodo in cui la band era impegnata nel musical "Jesus Chris Superstar", per il quale Pau fu chiamato ad interpretare il ruolo di Ponzio Pilato mentre Drigo e Mac furono chiamati a far parte dell'orchestra dal vivo: proprio grazie al noto musical, i Negrita si sono avvicinati alle sonorità degli anni '60 e alle rock band in voga in quegli anni, che hanno ispirato il sound di gran parte delle canzoni contenute all'interno della loro nuova fatica discografica.
Se c'è un minimo comun denominatore in grado di legare tra loro i tredici episodi di questo "9", esso è rappresentato proprio dagli ingredienti di base del rock anni '60 e '70: batteria incisiva, chitarre elettriche, coretti accattivanti. Questi elementi accomunano non solo i brani che aprono l'ascolto del disco, il singolo "Il gioco" (testo scritto da Pau in collaborazione con Il Cile, che aveva collaborato con i Negrita già in occasione della scrittura di alcuni brani inclusi in "Dannato vivere") e "Poser", ma anche in "1989" (scritto, appunto, nel 1989 e rimasto chiuso in un cassetto fino ad oggi, il brano sintetizza l'atmosfera che si respirava in quel periodo denso di avvenimenti storici: la protesta di piazza Tienanmen, la vittoria del sindacato "Solidarnosc" alle elezioni in Polonia, il crollo del Muro di Berlino).
Un rock più ironico e giocoso è quello proposto invece con "Il nostro tempo è adesso", "Baby I'm in love" e "L'eutanasia del fine settimana" (brano, quest'ultimo, condito pure da sprazzi di musica funky); e se le atmosfere si fanno più controllate in "Mondo politico" e "Se sei l'amore" (dal respiro più orchestrale), fino a smorzarsi nella suggestiva "Niente è per caso", "Ritmo umano" si presenta invece come una canzone dalle sonorità più sbarazzine e vivaci (con una ritmica in 5/4, per niente convenzionale). Non manca una sorta di divertissement, rappresentato dal brano che chiude il disco, "Non è colpa tua": nato sulla scena di "Jesus Christ Superstar", si tratta di uno scherzo rivolto a Shel Shapiro (nel musical interpretava il ruolo di Caifa), che compare come ospite e che spesso dimenticava una parte del suo testo (si ripete, a mo' di mantra, "Shel Shapiro non è colpa tua"). Ne viene fuori un disco piacevole all'ascolto, che vede i Negrita cimentarsi sì con sonorità rock a loro molto care, senza però fossilizzarsi in un unico genere e concedendosi anche la libertà di sporcarsi - quando serve - le mani: come in "Vola via con me", ad esempio, che è un mix di funk, psichedelia e rock progressive, una jam incisa in presa diretta e nata più come strumentale che come canzone in sé. A margine ricordiamo che "9" è uno degli ultimi progetti a cui ha lavorato il produttore Carlo Ubaldo Rossi (ne ha curato le registrazioni e il missaggio), scomparso pochi giorni prima della pubblicazione del disco in seguito ad un incidente stradale.
Dopo vari lavori prodotti in giro per il mondo,attraversando paesi come Argentina,Brasile e Cile adesso i Negrita si concentrano al nord,per la precisione in Irlanda e l' la band aretina da vita al loro nono disco, intitolato semplicemente "9".Il grosso del lavoro è stato fatto presso lo studio Grouse Lodge (in passato frequentato da artisti del calibro di Michael Jackson e da band quali i R.E.M. e i Muse), circondato da mucche, pecore e galline.In questa pace la band rock italiana ha registrato i tredici brani contenuti all'interno di "9".Insomma i Negrita hanno riscoperto le radici del rock e si sono anche riscoperti come band:la lavorazione di questo nuovo disco ha visto Pau, Drigo e Mac tornare all'approccio tradizionale della presa diretta.Come dicevamo "9" ha visto i Negrita recuperare le loro radici rock; l'album è nato nel periodo in cui la band era impegnata nel musical "Jesus Chris Superstar", per il quale Pau fu chiamato ad interpretare il ruolo di Ponzio Pilato mentre Drigo e Mac furono chiamati a far parte dell'orchestra dal vivo: proprio grazie al noto musical, i Negrita si sono avvicinati alle sonorità degli anni '60 e alle rock band in voga in quegli anni, che hanno ispirato il sound di gran parte delle canzoni contenute all'interno della loro nuova fatica discografica.
Se c'è un minimo comun denominatore in grado di legare tra loro i tredici episodi di questo "9", esso è rappresentato proprio dagli ingredienti di base del rock anni '60 e '70: batteria incisiva, chitarre elettriche, coretti accattivanti. Questi elementi accomunano non solo i brani che aprono l'ascolto del disco, il singolo "Il gioco" (testo scritto da Pau in collaborazione con Il Cile, che aveva collaborato con i Negrita già in occasione della scrittura di alcuni brani inclusi in "Dannato vivere") e "Poser", ma anche in "1989" (scritto, appunto, nel 1989 e rimasto chiuso in un cassetto fino ad oggi, il brano sintetizza l'atmosfera che si respirava in quel periodo denso di avvenimenti storici: la protesta di piazza Tienanmen, la vittoria del sindacato "Solidarnosc" alle elezioni in Polonia, il crollo del Muro di Berlino).
Un rock più ironico e giocoso è quello proposto invece con "Il nostro tempo è adesso", "Baby I'm in love" e "L'eutanasia del fine settimana" (brano, quest'ultimo, condito pure da sprazzi di musica funky); e se le atmosfere si fanno più controllate in "Mondo politico" e "Se sei l'amore" (dal respiro più orchestrale), fino a smorzarsi nella suggestiva "Niente è per caso", "Ritmo umano" si presenta invece come una canzone dalle sonorità più sbarazzine e vivaci (con una ritmica in 5/4, per niente convenzionale). Non manca una sorta di divertissement, rappresentato dal brano che chiude il disco, "Non è colpa tua": nato sulla scena di "Jesus Christ Superstar", si tratta di uno scherzo rivolto a Shel Shapiro (nel musical interpretava il ruolo di Caifa), che compare come ospite e che spesso dimenticava una parte del suo testo (si ripete, a mo' di mantra, "Shel Shapiro non è colpa tua"). Ne viene fuori un disco piacevole all'ascolto, che vede i Negrita cimentarsi sì con sonorità rock a loro molto care, senza però fossilizzarsi in un unico genere e concedendosi anche la libertà di sporcarsi - quando serve - le mani: come in "Vola via con me", ad esempio, che è un mix di funk, psichedelia e rock progressive, una jam incisa in presa diretta e nata più come strumentale che come canzone in sé. A margine ricordiamo che "9" è uno degli ultimi progetti a cui ha lavorato il produttore Carlo Ubaldo Rossi (ne ha curato le registrazioni e il missaggio), scomparso pochi giorni prima della pubblicazione del disco in seguito ad un incidente stradale.
MIA MADRE
di Valeria Piras
Una lunga e intima catarsi per il mio miglior regista italiano.
Da pochi giorni è nelle sale il nuovissimo ed atteso film di Nanni Moretti,Mia Madre.Si tratta di un film di Nanni Moretti e già questo ci sintetizza molto,quasi come una metafora cinematografica.Un film in cui l'attore si sente accanto al personaggio e viceversa.Un film dove c'è sempre qualcuno accanto a qualcosa. Accanto a Margherita (Buy), la protagonista, c'è Nanni Moretti, attore (mai così bravo) che sta al fianco del personaggio che ne è un chiaro ma trattenuto alter ego. Un Moretti che sta sempre, silenziosamente, accanto al suo film, autobiografico quanto basta o forse no, che lo guarda e lo accompagna tanto da dentro quanto da fuori, alla ricerca di quella giusta distanza che anestetizzi il dolore senza sopprimerlo. In Mia madre il bello è che il dolore è accanto alla risata, la vita accanto alla morte, il lavoro al privato, l'inglese all'italiano, la sicurezza alla confusione, la giovinezza alla vecchiaia. Il sogno accanto alla realtà, costantemente confusi da Margherita e da sua madre Ada. E tutti questi elementi si fondono uno sull'altro, si collegano e queste cose scivolano via veloci creando fluidità e incertezza, quella fluidità e quella incertezza che sono proprie della vita e di Margherita, che non è mai con la mente e con lo spirito nello stesso luogo.
Mia madre è un film che vola via lontano con le musiche di Olafur Arnalds e la voce di Leonard Cohen e come l'acqua che scorre lascia i segni più profondi, i segni di un dolore ineludibile, di un peso insopportabile sotto il quale perfino gli angeli sono condannato a perdere le ali e le parole.In Mia Madre c'è un dolore che spezza il fiato,quel dolore che Moretti, con una scena di straziante bellezza e cristallina semplicità, fa tirar fuori in tutte le sue lacrime solo alla piccola Lidia, dopo una fatidica telefonata arrivata nel cuore della notte e ascoltata da sotto le coperte di un letto da bambina.
Toglie il fiato questo film ma non toglie le risate, che arrivano numerose attraverso le nevrosi morettiane messe in scena dalla Buy, attraverso gli scambi con il bizzoso e incompetente divo americano chiamato sul suo set. Una specie d'(in)consapevole richiesta d'aiuto di Moretti e dei suoi personaggi, prigionieri dell'incubo di quel che stanno vivendo e di un film che ne è sublimazione e catarsi, e che per Moretti stesso è una sorta di auto-analisi.La realtà di quello che siamo, di quel che vediamo realmente quando ci guardiamo allo specchio, come Moretti ha voluto fare con Margherita, prendendosela con sé stesso, come dice lui, prima che con gli altri. La realtà di un domani che non ci sarà, una realtà che spezza il cuore, che lascia casse di libri, ricordi, testimonianze e gesta in un corridoio in attesa che venga faticosamente sistemato.Con nuovi amori e nuove realtà.
Da pochi giorni è nelle sale il nuovissimo ed atteso film di Nanni Moretti,Mia Madre.Si tratta di un film di Nanni Moretti e già questo ci sintetizza molto,quasi come una metafora cinematografica.Un film in cui l'attore si sente accanto al personaggio e viceversa.Un film dove c'è sempre qualcuno accanto a qualcosa. Accanto a Margherita (Buy), la protagonista, c'è Nanni Moretti, attore (mai così bravo) che sta al fianco del personaggio che ne è un chiaro ma trattenuto alter ego. Un Moretti che sta sempre, silenziosamente, accanto al suo film, autobiografico quanto basta o forse no, che lo guarda e lo accompagna tanto da dentro quanto da fuori, alla ricerca di quella giusta distanza che anestetizzi il dolore senza sopprimerlo. In Mia madre il bello è che il dolore è accanto alla risata, la vita accanto alla morte, il lavoro al privato, l'inglese all'italiano, la sicurezza alla confusione, la giovinezza alla vecchiaia. Il sogno accanto alla realtà, costantemente confusi da Margherita e da sua madre Ada. E tutti questi elementi si fondono uno sull'altro, si collegano e queste cose scivolano via veloci creando fluidità e incertezza, quella fluidità e quella incertezza che sono proprie della vita e di Margherita, che non è mai con la mente e con lo spirito nello stesso luogo.
Mia madre è un film che vola via lontano con le musiche di Olafur Arnalds e la voce di Leonard Cohen e come l'acqua che scorre lascia i segni più profondi, i segni di un dolore ineludibile, di un peso insopportabile sotto il quale perfino gli angeli sono condannato a perdere le ali e le parole.In Mia Madre c'è un dolore che spezza il fiato,quel dolore che Moretti, con una scena di straziante bellezza e cristallina semplicità, fa tirar fuori in tutte le sue lacrime solo alla piccola Lidia, dopo una fatidica telefonata arrivata nel cuore della notte e ascoltata da sotto le coperte di un letto da bambina.
Toglie il fiato questo film ma non toglie le risate, che arrivano numerose attraverso le nevrosi morettiane messe in scena dalla Buy, attraverso gli scambi con il bizzoso e incompetente divo americano chiamato sul suo set. Una specie d'(in)consapevole richiesta d'aiuto di Moretti e dei suoi personaggi, prigionieri dell'incubo di quel che stanno vivendo e di un film che ne è sublimazione e catarsi, e che per Moretti stesso è una sorta di auto-analisi.La realtà di quello che siamo, di quel che vediamo realmente quando ci guardiamo allo specchio, come Moretti ha voluto fare con Margherita, prendendosela con sé stesso, come dice lui, prima che con gli altri. La realtà di un domani che non ci sarà, una realtà che spezza il cuore, che lascia casse di libri, ricordi, testimonianze e gesta in un corridoio in attesa che venga faticosamente sistemato.Con nuovi amori e nuove realtà.
SQUALLOR - Fabri Fibra
di Valeria Piras
Grande ritorno di Fabri Fibra.E il rap si infiamma.
Il 7 Aprile scorso è uscito a sorpresa il nuovo lavoro discografico di Fabri Fibra.Un'operazione studiata,come accade in America,fatta per spiazzare fans e critica,tecnica usata in passato anche da band leggenda come U2 e Radiohead.Si intitola Squallor, il suo ottavo album,e solo un piccolo tweet del rapper aveva anticipato di un giorno la notizia.Nel suo nuovo lavoro l'artista di Senigallia è irriverente come al solito ma dietro al disco c'è moltissimo altro.Un'opera grande dove c'è mixata tutta la sua essenza fatta di concetti e critiche, accuse a giudizi, paure e volgarità,cinismo becero a perle in prosa. Forse il sunto del disco è il pezzo "Il Rap Nel Mio Paese", primo estratto video dove il vecchio uomo di mare che rappava con dj Lato mostra come lo stile e le idee riescano a produrre innovazione pura con un retrogusto di bei tempi più che di tempi duri.
Squallor non rivoluzia il mondo del rap ma certamente rielabora alcuni punti cardine di una musica che troppo spesso (ma solo in Italia) è stata messa in secondo piano. Ecco perché la prima cosa dell'album che emerge e schiaffeggia è un flow da cineteca che riporta al Fibra di Mr. Simpatia, ai rapper veri, quelli che non hanno bisogno di crearsi un personaggio per far muovere le mani.Proprio a loro è dedicato il singolo, critica schifata e annoiata al rapper moderno, figlio dei talent e del recording budget da sogno, troppo ammiccante al pop per lavorare sulla tecnica, sulle rime che fanno saltare.
L'album è molto denso con ben 21 tracce tutte d'un fiato in cui Fibra affronta i temi che più ama e che per gli amanti dell'Hip-hop sembreranno troppo poche.Dopo Guerra e Pace del 2013 il rapper è tornato ancor più incazzato del solito. Dalle solite amenità difficili da giustificare ad un pubblico di teen fino agli sfoghi che viaggiano sul flusso dei beat veicolando verità taglienti come "il 99 per cento della scena rap è finzione" nel brano Alieno e "Ora tutti muovono la testa sul beat ma in pochi hanno capito oltre a questo cosa c'è" in Rock that shit con il francese Youssoupha. La musica italiana era in attesa del ritorno di Fabri Fibra, la scena hip hop e rap ne aveva bisogno per ricaricare l'energia e capire che negli ultimi mesi gli artisti rap hanno forse passato più tempo in tv e nei talent che in sala di incisione. Un gran bentornato per Fabri Fibra.
Il 7 Aprile scorso è uscito a sorpresa il nuovo lavoro discografico di Fabri Fibra.Un'operazione studiata,come accade in America,fatta per spiazzare fans e critica,tecnica usata in passato anche da band leggenda come U2 e Radiohead.Si intitola Squallor, il suo ottavo album,e solo un piccolo tweet del rapper aveva anticipato di un giorno la notizia.Nel suo nuovo lavoro l'artista di Senigallia è irriverente come al solito ma dietro al disco c'è moltissimo altro.Un'opera grande dove c'è mixata tutta la sua essenza fatta di concetti e critiche, accuse a giudizi, paure e volgarità,cinismo becero a perle in prosa. Forse il sunto del disco è il pezzo "Il Rap Nel Mio Paese", primo estratto video dove il vecchio uomo di mare che rappava con dj Lato mostra come lo stile e le idee riescano a produrre innovazione pura con un retrogusto di bei tempi più che di tempi duri.
Squallor non rivoluzia il mondo del rap ma certamente rielabora alcuni punti cardine di una musica che troppo spesso (ma solo in Italia) è stata messa in secondo piano. Ecco perché la prima cosa dell'album che emerge e schiaffeggia è un flow da cineteca che riporta al Fibra di Mr. Simpatia, ai rapper veri, quelli che non hanno bisogno di crearsi un personaggio per far muovere le mani.Proprio a loro è dedicato il singolo, critica schifata e annoiata al rapper moderno, figlio dei talent e del recording budget da sogno, troppo ammiccante al pop per lavorare sulla tecnica, sulle rime che fanno saltare.
L'album è molto denso con ben 21 tracce tutte d'un fiato in cui Fibra affronta i temi che più ama e che per gli amanti dell'Hip-hop sembreranno troppo poche.Dopo Guerra e Pace del 2013 il rapper è tornato ancor più incazzato del solito. Dalle solite amenità difficili da giustificare ad un pubblico di teen fino agli sfoghi che viaggiano sul flusso dei beat veicolando verità taglienti come "il 99 per cento della scena rap è finzione" nel brano Alieno e "Ora tutti muovono la testa sul beat ma in pochi hanno capito oltre a questo cosa c'è" in Rock that shit con il francese Youssoupha. La musica italiana era in attesa del ritorno di Fabri Fibra, la scena hip hop e rap ne aveva bisogno per ricaricare l'energia e capire che negli ultimi mesi gli artisti rap hanno forse passato più tempo in tv e nei talent che in sala di incisione. Un gran bentornato per Fabri Fibra.
SE DIO VUOLE
di Valeria Piras
Delicata e divertente commedia italiana.Applausi.
Il giovane regista Edoardo Falcone arriva nelle sale con una divertente commedia,Se Dio Vuole.I protagonisti sono il romano Marco Giallini,nei panni di un rigido cardiochirurgo che scopre la voglia del figlio di divenire prete,un pimpante Alessandro Gassmann nei panni di un prete di città moderno e cool e una Laura Morante dolce ma nevrotica moglie divisa tra le voglie del figlio e la rabbia del marito.Se Dio vuole è un film davvero ben centrato, dove per centrato si intende una storia vivace, gentile e profonda, senza scene inutili, con personaggi ben caratterizzati e interpretazioni superbe, che in un arco di novanta minuti non smette mai di crescere raggiungendo nel finale quel senso di appagamento narrativo che pochi film sanno produrre.La sceneggiatura è creata a quattro mani da Edoardo Falcone e Marco Martani, racconta di due mondi che entrano in collisione e il destino che da tale scontro si svilupperà veloce.
Molto ben delineato il ruolo di Gassmann,un prete davvero fenomenale, disponibile con chiunque, gronda carisma da tutti i pori, eppure ci sarà un modo per screditarlo?Nasconde scheletri segreti?Questo è lo scopo che si prefiggerà Giallini-medico per tutta la durata del film.Anziché medico e prete, i protagonisti potevano essere falegname e ballerino, informatico e parrucchiere, geologo e musicista. Con un copione così, i due sceneggiatori l’avrebbero fatto funzionare ugualmente.Gli eventi si susseguono con grande naturalezza e la storia ne trae benefici acquisendo forza gradualmente. La commedia dà il meglio di sé in situazioni che in altri film abbiamo già vissuto come forzate, come parentesi di risate imposte, mentre in Se Dio vuole le scene esilaranti sono frutto della perfetta costruzione narrativa che, con altrettanta spontaneità, fa commuovere quando è il momento.
Nel film di Edoardo Falcone tutti cambiano, tutti i personaggi che orbitano nel mondo narrativo del prete-Gassmann, lui incluso, vengono moralmente trafitti e, allo stesso modo, lo è il pubblico. Unanime il parere di una brillante regia,sensibile e riflessiva ma che riesce anche spesso a spiazzare senza spostare il fuoco dal racconto. Di storie del genere il mondo del cinema è ricco ma la leggerezza e la sensibilità di questa storia ci lasciano a bocca aperta.Ottimo film italiano.
Il giovane regista Edoardo Falcone arriva nelle sale con una divertente commedia,Se Dio Vuole.I protagonisti sono il romano Marco Giallini,nei panni di un rigido cardiochirurgo che scopre la voglia del figlio di divenire prete,un pimpante Alessandro Gassmann nei panni di un prete di città moderno e cool e una Laura Morante dolce ma nevrotica moglie divisa tra le voglie del figlio e la rabbia del marito.Se Dio vuole è un film davvero ben centrato, dove per centrato si intende una storia vivace, gentile e profonda, senza scene inutili, con personaggi ben caratterizzati e interpretazioni superbe, che in un arco di novanta minuti non smette mai di crescere raggiungendo nel finale quel senso di appagamento narrativo che pochi film sanno produrre.La sceneggiatura è creata a quattro mani da Edoardo Falcone e Marco Martani, racconta di due mondi che entrano in collisione e il destino che da tale scontro si svilupperà veloce.
Molto ben delineato il ruolo di Gassmann,un prete davvero fenomenale, disponibile con chiunque, gronda carisma da tutti i pori, eppure ci sarà un modo per screditarlo?Nasconde scheletri segreti?Questo è lo scopo che si prefiggerà Giallini-medico per tutta la durata del film.Anziché medico e prete, i protagonisti potevano essere falegname e ballerino, informatico e parrucchiere, geologo e musicista. Con un copione così, i due sceneggiatori l’avrebbero fatto funzionare ugualmente.Gli eventi si susseguono con grande naturalezza e la storia ne trae benefici acquisendo forza gradualmente. La commedia dà il meglio di sé in situazioni che in altri film abbiamo già vissuto come forzate, come parentesi di risate imposte, mentre in Se Dio vuole le scene esilaranti sono frutto della perfetta costruzione narrativa che, con altrettanta spontaneità, fa commuovere quando è il momento.
Nel film di Edoardo Falcone tutti cambiano, tutti i personaggi che orbitano nel mondo narrativo del prete-Gassmann, lui incluso, vengono moralmente trafitti e, allo stesso modo, lo è il pubblico. Unanime il parere di una brillante regia,sensibile e riflessiva ma che riesce anche spesso a spiazzare senza spostare il fuoco dal racconto. Di storie del genere il mondo del cinema è ricco ma la leggerezza e la sensibilità di questa storia ci lasciano a bocca aperta.Ottimo film italiano.
LA SCELTA
di Valeria Piras
Un tema lacerante in cui Placido fa l'esteta.
La Scelta è il nuovo film da regista di Michele Placido autore di opere tese e vibranti come Romanzo criminale e Vallanzasca , ma anche di ambiziose esperienze artistiche e teatrali, nel cui solco si colloca questa sua undicesima regia.La trama del film parte da una rara piece teatrale di Luigi Pirandello conosciuta solo tra gli addetti ai lavori e quasi mai rappresentata: L’innesto, una commedia drammatica in tre atti del 1919.In questa opera minore del suo repertorio il grande scrittore siciliano affrontava il tema dello stupro subito da una donna della borghesia romana mentre si trovava a dipingere a Villa Giulia e le sue conseguenze sul matrimonio e sulla società ristretta a lei vicina, rappresentata dalla madre, dalla sorella e dal medico di famiglia (assente nel film e sostituito dalla figura del maresciallo dei carabinieri interpretato dallo stesso Placido).
Su questa pièce Placido crea un bel film intenso dalla struttura essenziale e trasporta i suoi attori in un contesto contemporaneo e provinciale, seguendo fin troppo fedelmente la fonte: non, va detto, nelle battute pronunciate da una bravissima Ambra Angiolini e da un serioso Raoul Bova, entrambi coraggiosamente alle prove con ruoli drammatici molto complessi. Il limite del film non è nella prova attoriale ma forse nella decisione del regista di applicare una forma estetica troppo ricercata ad un tema ed una storia così dura e lacerante.Tale decisione forse poco aiuta lo spettatore a comprendere i personaggi e le loro motivazioni. In questo senso La scelta vista da uno spettatore attuale diventa un'opera antica ma forse proprio tale era la decisione del regista,dare questa sensazione quasi da opera anti-realistica in cui una coppia litiga e parla sussurrando, in privato o in pubblico, e dove invece di seguire passo passo i personaggi nel loro sviluppo drammaturgico li si contorna di immagini, panorami e particolari che non aggiungono verità ai loro sentimenti.
Questo impatto estetico è la caratteristica del film La Scelta che resta comunque un coraggioso tentativo di fare un cinema altro e diverso pure rischiando la poca compresione da parte dello spettatore medio.
La Scelta è il nuovo film da regista di Michele Placido autore di opere tese e vibranti come Romanzo criminale e Vallanzasca , ma anche di ambiziose esperienze artistiche e teatrali, nel cui solco si colloca questa sua undicesima regia.La trama del film parte da una rara piece teatrale di Luigi Pirandello conosciuta solo tra gli addetti ai lavori e quasi mai rappresentata: L’innesto, una commedia drammatica in tre atti del 1919.In questa opera minore del suo repertorio il grande scrittore siciliano affrontava il tema dello stupro subito da una donna della borghesia romana mentre si trovava a dipingere a Villa Giulia e le sue conseguenze sul matrimonio e sulla società ristretta a lei vicina, rappresentata dalla madre, dalla sorella e dal medico di famiglia (assente nel film e sostituito dalla figura del maresciallo dei carabinieri interpretato dallo stesso Placido).
Su questa pièce Placido crea un bel film intenso dalla struttura essenziale e trasporta i suoi attori in un contesto contemporaneo e provinciale, seguendo fin troppo fedelmente la fonte: non, va detto, nelle battute pronunciate da una bravissima Ambra Angiolini e da un serioso Raoul Bova, entrambi coraggiosamente alle prove con ruoli drammatici molto complessi. Il limite del film non è nella prova attoriale ma forse nella decisione del regista di applicare una forma estetica troppo ricercata ad un tema ed una storia così dura e lacerante.Tale decisione forse poco aiuta lo spettatore a comprendere i personaggi e le loro motivazioni. In questo senso La scelta vista da uno spettatore attuale diventa un'opera antica ma forse proprio tale era la decisione del regista,dare questa sensazione quasi da opera anti-realistica in cui una coppia litiga e parla sussurrando, in privato o in pubblico, e dove invece di seguire passo passo i personaggi nel loro sviluppo drammaturgico li si contorna di immagini, panorami e particolari che non aggiungono verità ai loro sentimenti.
Questo impatto estetico è la caratteristica del film La Scelta che resta comunque un coraggioso tentativo di fare un cinema altro e diverso pure rischiando la poca compresione da parte dello spettatore medio.
REBEL HEART - Madonna
di Valeria Piras
In mezzo a mille generi torna la regina.Torna la diva Madonna.
Da poche settimane nei negozi è arrivato Rebel Heart il nuovo album di inediti della reginadel pop, Madonna.La Ciccone ha da sempre spiazzato i suoi milioni di fan,sempre pronta a gettarsi in generi e contaminazioni nuove e diverse.Trent’anni di carriera all’insegna del trasformismo in cui Madonna ha guadagnato uno stuolo di ammiratori così vasto e variegato (per generazione, gusti e background), tanto che ognuno è arrivato a sviluppare un’idea ben precisa sulla veste sonora che meglio le si addirebbe.C’è chi la vorrebbe sempre regina delle piste da ballo, chi la vedrebbe più adatta nelle vesti di cantautrice, chi la preferirebbe più sperimentatrice, e chi si accontenterebbe di un più semplice intrattenimento pop. E invece la Ciccone ha sempre deciso di cambiare in base alle voghe del momento elemento essenziale per durare decenni nel mainstream mondiale da vera protagonista.Adesso Madonna continua a fare le sue scelte stilistiche incurante delle aspettative, consapevole di non poter accontentare tutti e che azzeccare il desiderio di molti equivale a scontentare quello di altrettanti.
In questo nuovo disco la prova offerta è davvero imponente,ben 19 tracce nella versione deluxe! A tal punto che chiunque potrà scovare in “Rebel Heart” qualche brano che a sprazzi gli farà tornare in mente la sua Madonna preferita.Sul tema dance l'unico collegamento è il pezzo Living For Love che, insieme a Route 99 e Clean Bandit, guarda all’attuale revival house britannico,poi si passa al country spirituale di “Devil Pray” e dell’autobiografica title track.Molto apprezzati anche alcuni dolci electro-ballad come le intense “Inside Out” e “Ghost town”. Un progetto quello di Madonna che non decide di seguire una linea unica ma sorprendere ad ogni angolo con qualche virata in generi diversi tra loro.Un album con molte coordinate che si posiziona bene tra la musica urban e r’n’b contemporaneo.
Anche la musica rap è presente nel progetto con la fattiva collaborazione di gente come Nas e la recidiva Nicki Minaj senza scordare l’astro nascente Chance The Rapper.Un influsso rap tangibile non soltanto nelle tracce featuring ma anche in altre con la voce della sola Madona.Alla fine ne esce una Madonna insolitamente austera, quella che si ascolta tra i solchi di ballate (tante e introspettive come non accadeva da anni) quali una drammatica “HeartBreakCity” tinta di gospel, una “Messiah” sfarzosamente orchestrale e un’elegiaca “Wash All Over Me”, accompagnata da una marcia ritmica notevole.Il senso di malinconia resta sempre anche durante le varie divagazioni etniche di “Body Shop”, delicatamente folkloristica, e nella più sensuale e orientaleggiante “Best Night”.Il disco insomma ha una prima parte più luminosa in cui è prevalentemente grazie alla mano del dj Diplo che dà una notevole mano alla Ciccone a farsi un bel lifting sonoro.Operazione non priva di qualche sbavatura, diluita in una scaletta fin troppo schizofrenica e in cui buoni costrutti melodici si perdono un po’ tra il generico (“Hold Tight”) e il lezioso (“Joan Of Arc”). La linearità forse avrebbe aiutato di più a capire il disco ma con Madonna è tutto inutile,lei vive di istinto e preferisce muoversi forte e senza delicatezze.Dopotutto cos’altro aspettarsi da una che si auto definisce una cantante molto stronza?Inevitabilmente Madonna.
Da poche settimane nei negozi è arrivato Rebel Heart il nuovo album di inediti della reginadel pop, Madonna.La Ciccone ha da sempre spiazzato i suoi milioni di fan,sempre pronta a gettarsi in generi e contaminazioni nuove e diverse.Trent’anni di carriera all’insegna del trasformismo in cui Madonna ha guadagnato uno stuolo di ammiratori così vasto e variegato (per generazione, gusti e background), tanto che ognuno è arrivato a sviluppare un’idea ben precisa sulla veste sonora che meglio le si addirebbe.C’è chi la vorrebbe sempre regina delle piste da ballo, chi la vedrebbe più adatta nelle vesti di cantautrice, chi la preferirebbe più sperimentatrice, e chi si accontenterebbe di un più semplice intrattenimento pop. E invece la Ciccone ha sempre deciso di cambiare in base alle voghe del momento elemento essenziale per durare decenni nel mainstream mondiale da vera protagonista.Adesso Madonna continua a fare le sue scelte stilistiche incurante delle aspettative, consapevole di non poter accontentare tutti e che azzeccare il desiderio di molti equivale a scontentare quello di altrettanti.
In questo nuovo disco la prova offerta è davvero imponente,ben 19 tracce nella versione deluxe! A tal punto che chiunque potrà scovare in “Rebel Heart” qualche brano che a sprazzi gli farà tornare in mente la sua Madonna preferita.Sul tema dance l'unico collegamento è il pezzo Living For Love che, insieme a Route 99 e Clean Bandit, guarda all’attuale revival house britannico,poi si passa al country spirituale di “Devil Pray” e dell’autobiografica title track.Molto apprezzati anche alcuni dolci electro-ballad come le intense “Inside Out” e “Ghost town”. Un progetto quello di Madonna che non decide di seguire una linea unica ma sorprendere ad ogni angolo con qualche virata in generi diversi tra loro.Un album con molte coordinate che si posiziona bene tra la musica urban e r’n’b contemporaneo.
Anche la musica rap è presente nel progetto con la fattiva collaborazione di gente come Nas e la recidiva Nicki Minaj senza scordare l’astro nascente Chance The Rapper.Un influsso rap tangibile non soltanto nelle tracce featuring ma anche in altre con la voce della sola Madona.Alla fine ne esce una Madonna insolitamente austera, quella che si ascolta tra i solchi di ballate (tante e introspettive come non accadeva da anni) quali una drammatica “HeartBreakCity” tinta di gospel, una “Messiah” sfarzosamente orchestrale e un’elegiaca “Wash All Over Me”, accompagnata da una marcia ritmica notevole.Il senso di malinconia resta sempre anche durante le varie divagazioni etniche di “Body Shop”, delicatamente folkloristica, e nella più sensuale e orientaleggiante “Best Night”.Il disco insomma ha una prima parte più luminosa in cui è prevalentemente grazie alla mano del dj Diplo che dà una notevole mano alla Ciccone a farsi un bel lifting sonoro.Operazione non priva di qualche sbavatura, diluita in una scaletta fin troppo schizofrenica e in cui buoni costrutti melodici si perdono un po’ tra il generico (“Hold Tight”) e il lezioso (“Joan Of Arc”). La linearità forse avrebbe aiutato di più a capire il disco ma con Madonna è tutto inutile,lei vive di istinto e preferisce muoversi forte e senza delicatezze.Dopotutto cos’altro aspettarsi da una che si auto definisce una cantante molto stronza?Inevitabilmente Madonna.
NESSUNO SI SALVA DA SOLO
di Valeria Piras
La storia d'amore vista con gli occhi dell'instabile presente.
Sergio Castelitto torna per la terza volta a dirigere una sceneggiatura creata dalla moglie e romanziera Margaret Mazzantini e sceglie come interpreti Jasmine Trinca e Riccardo Scamarcio per dare voce a una generazione di trenta-quarantenni che la crisi ha depresso e fatto sentire inadeguati. Il suo nuovo film si intitola Nessuno Si Salva da Solo e racconta di Delia (Jasmine Trinca) una nutrizionista con un passato da anoressica scatenato dal rapporto conflittuale con una madre eccentrica. Gaetano (Riccardo Scamarcio) un aspirante sceneggiatore che sogna di fare lo scrittore e si vergogna delle umili origini della famiglia.La loro storia è fatta di travolgente passione e complicità, e pare fondamentale per salvare le loro stesse esistenze. L'esuberanza e l'euforia della loro relazione porta i due a sposarsi e fare due figli, ma, dopo quasi dieci anni di vita passata insieme, quella che sembrava una relazione come tante e allo stesso tempo unica e speciale, si trasforma in una serie di ripicche e tradimenti, di frustrazioni e rancori. La coppia, ormai separata, si incontra al tavolo di un ristorante per discutere il proprio rapporto: la cena finisce per essere il momento di svolta, e forse di chiusura definitiva, della loro storia.
Castellitto è alla sua quinta prova registica e come detto sceglie di portare sullo schermo il romanzo Nessuno si salva da solo della moglie Margaret Mazzantini, autrice di tutte le sceneggiature dei suoi film, qui alla terza opera tratta dai libri diretta dal marito. Il loro è un vero sodalizi artistico che ha dato ottimi frutti negli anni prediligendo il dramma esistenziale fatto di situazioni strappalacrime e ricco di parole e prose ad effetto che restano nella mente dello spettatore fino alla fine.Nessuno si salva da solo è un dramma domestico in cui una coppia di ragazzi come tanti si trasforma in adulti che ormai sono cambiati e non hanno nulla da dirsi. Una storia classica aggiornata con l'instabilità odierna della crisi economica che impone alle coppie giovani un forte senso di angoscia, distratte anche nell'ambito della sessualità, che non è più un momento di intimità con la persona che si ama ma una grigia abitudine, se non una perdita di tempo.
La scrittuta della bravissima Mazzantini è ricca e sopra le righe ed impone agli attori di correre e impegnarsi nel rendere vivi i sentimenti densi.Il protagonista maschile è un bravissimo Riccardo Scamarcio che dimostra di avere varie frecce al suo arco artistico e risulta molto convincente nel suo ruolo di uomo superficiale e cinico ma forse animato da sentimenti più concreti.Forse delude un pò Jasmine Trinca che non riesce a rendere emotivamente chiara l'instabilità emozionale della sua protagonista, un'ex anoressica animata da forti contrasti interni. Alla fine la sua recitazione risulta molto frenata e artefatta, non veritiera, lontana dal dramma che il suo personaggio racconta,la sua Delia alla fine diventa un involucro vuoto, di cui non si riesce a vivere il dramma,a poco servono le urla e i pianti se gli occhi dicono altro.Castellitto convince ancora una volta,aiutato dalla solida e talentuosa scrittura della moglie ci regala un film attuale che emoziona spesso.Applauso.
Sergio Castelitto torna per la terza volta a dirigere una sceneggiatura creata dalla moglie e romanziera Margaret Mazzantini e sceglie come interpreti Jasmine Trinca e Riccardo Scamarcio per dare voce a una generazione di trenta-quarantenni che la crisi ha depresso e fatto sentire inadeguati. Il suo nuovo film si intitola Nessuno Si Salva da Solo e racconta di Delia (Jasmine Trinca) una nutrizionista con un passato da anoressica scatenato dal rapporto conflittuale con una madre eccentrica. Gaetano (Riccardo Scamarcio) un aspirante sceneggiatore che sogna di fare lo scrittore e si vergogna delle umili origini della famiglia.La loro storia è fatta di travolgente passione e complicità, e pare fondamentale per salvare le loro stesse esistenze. L'esuberanza e l'euforia della loro relazione porta i due a sposarsi e fare due figli, ma, dopo quasi dieci anni di vita passata insieme, quella che sembrava una relazione come tante e allo stesso tempo unica e speciale, si trasforma in una serie di ripicche e tradimenti, di frustrazioni e rancori. La coppia, ormai separata, si incontra al tavolo di un ristorante per discutere il proprio rapporto: la cena finisce per essere il momento di svolta, e forse di chiusura definitiva, della loro storia.
Castellitto è alla sua quinta prova registica e come detto sceglie di portare sullo schermo il romanzo Nessuno si salva da solo della moglie Margaret Mazzantini, autrice di tutte le sceneggiature dei suoi film, qui alla terza opera tratta dai libri diretta dal marito. Il loro è un vero sodalizi artistico che ha dato ottimi frutti negli anni prediligendo il dramma esistenziale fatto di situazioni strappalacrime e ricco di parole e prose ad effetto che restano nella mente dello spettatore fino alla fine.Nessuno si salva da solo è un dramma domestico in cui una coppia di ragazzi come tanti si trasforma in adulti che ormai sono cambiati e non hanno nulla da dirsi. Una storia classica aggiornata con l'instabilità odierna della crisi economica che impone alle coppie giovani un forte senso di angoscia, distratte anche nell'ambito della sessualità, che non è più un momento di intimità con la persona che si ama ma una grigia abitudine, se non una perdita di tempo.
La scrittuta della bravissima Mazzantini è ricca e sopra le righe ed impone agli attori di correre e impegnarsi nel rendere vivi i sentimenti densi.Il protagonista maschile è un bravissimo Riccardo Scamarcio che dimostra di avere varie frecce al suo arco artistico e risulta molto convincente nel suo ruolo di uomo superficiale e cinico ma forse animato da sentimenti più concreti.Forse delude un pò Jasmine Trinca che non riesce a rendere emotivamente chiara l'instabilità emozionale della sua protagonista, un'ex anoressica animata da forti contrasti interni. Alla fine la sua recitazione risulta molto frenata e artefatta, non veritiera, lontana dal dramma che il suo personaggio racconta,la sua Delia alla fine diventa un involucro vuoto, di cui non si riesce a vivere il dramma,a poco servono le urla e i pianti se gli occhi dicono altro.Castellitto convince ancora una volta,aiutato dalla solida e talentuosa scrittura della moglie ci regala un film attuale che emoziona spesso.Applauso.
FOCUS - Niente è Come Sembra
di Valeria Piras
Nuovo film di Will Smith.Ladro-gentiluomo del XXI secolo.
Dopo il grosso insuccesso del film After Earth, da lui stesso riconosciuto, Will Smith torna sugli schermi con Focus – Niente è come sembra. Una specie di Ocean's attualizzato ma con meno, ostentata brillantezza ed uno Smith forse un pò trattenuto nel suo carisma.Essere ladri e gentiluomini al tempo stesso oggi risulta quanto mai difficile. Ci prova Will, o meglio, Mellow, nome in codice di Nicky Spurgeon (Will Smith), uno dei migliori truffatori di Los Angeles.Nella storia Nick non è un semplice baro, uno di quelli che rischia la pelle per poco o nulla; quella di Nick è un’organizzazione ben rodata, che mette a segno colpi ad altissimi livelli. D’altronde, figlio d’arte com’è, con lui è la terza generazione degli Spurgeon a tenere alta la bandiera.Nella sua vita irrompe Jess,bellissima e spigliata.Grazie ad un bel montaggio incalzante, assistiamo al tutorial della giovane che è poi anche un espediente per dare modo a noi spettatori di prendere confidenza col mondo di Nick, fatto di ladri professionisti dediti alle più disparate specialità: dall’apparentemente semplice furto di portafogli, allo smercio di collane preziose. Nick e soci commerciano in tutto. Ma tutto cambia e diventa tremendamente pericoloso quando viene preso di mira un determinato personaggio.
Ovvero un ricco asiatico che assiste al Super Bowl all’interno di un’ala dello stadio super accessoriata, con tanto di roulotte russe, russe, e catering di lusso. Il punto è che da qui, da questo snodo, Focus rallenta nel suo ritmo.Dimenticate la scena al cardiopalma per le vie di New Orleans, ritmata e col mood giusto.Per seguire un filo diverso la brillantezza del film cala e la storia ne risente.Ed è d’altra parte ciò che avviene al protagonista, dato che da quel punto in avanti Focus procede su un doppio binario: Nick, innamorato perso di Jess, cede qualcosa in termini di brillantezza, per cui, oltre al colpo del momento, c’è da concludere quello più importante: conquistare l’oggetto del suo amore.
È chiaro che si sarebbe trattato di un'altra operazione, ma passare dall'azione all'amore non è semplice e gli effetti si notano tutti.Una parte consistente di pubblico avrebbe guardato con favore all'ostentazione di un lusso a tal punto sfrenato. Una specie di grande elogio del lusso, dalle automobili alla tecnologia, passando per capi d'abbigliamento e location, è in ogni caso la risposta giusta.Un viaggio nella ricchezza che tutti desiderano e verso cui Nicky tende.Insomma, alla fine Will Smith ha il suo da fare con una storia à la Ocean’s, solo che qui, a parte la bellissima co-protagonista, tutti scompaiono e alla fine lui è praticamente solo. E come già sottolineato il principale difetto di Focus – Niente è come sembra,tutto poggia sulle muscolose spalla di Will.Appena lui cala il film sbanda salvo poi tentare di riprendersi, se così si può dire, poco prima della conclusione, quando oramai è troppo tardi.Focus si fa apprezzare per il ritmo e la storia ma oggi,nel 2015,esistono ancora ladri gentiluomini come Nicky?Ne dubitiamo.
Dopo il grosso insuccesso del film After Earth, da lui stesso riconosciuto, Will Smith torna sugli schermi con Focus – Niente è come sembra. Una specie di Ocean's attualizzato ma con meno, ostentata brillantezza ed uno Smith forse un pò trattenuto nel suo carisma.Essere ladri e gentiluomini al tempo stesso oggi risulta quanto mai difficile. Ci prova Will, o meglio, Mellow, nome in codice di Nicky Spurgeon (Will Smith), uno dei migliori truffatori di Los Angeles.Nella storia Nick non è un semplice baro, uno di quelli che rischia la pelle per poco o nulla; quella di Nick è un’organizzazione ben rodata, che mette a segno colpi ad altissimi livelli. D’altronde, figlio d’arte com’è, con lui è la terza generazione degli Spurgeon a tenere alta la bandiera.Nella sua vita irrompe Jess,bellissima e spigliata.Grazie ad un bel montaggio incalzante, assistiamo al tutorial della giovane che è poi anche un espediente per dare modo a noi spettatori di prendere confidenza col mondo di Nick, fatto di ladri professionisti dediti alle più disparate specialità: dall’apparentemente semplice furto di portafogli, allo smercio di collane preziose. Nick e soci commerciano in tutto. Ma tutto cambia e diventa tremendamente pericoloso quando viene preso di mira un determinato personaggio.
Ovvero un ricco asiatico che assiste al Super Bowl all’interno di un’ala dello stadio super accessoriata, con tanto di roulotte russe, russe, e catering di lusso. Il punto è che da qui, da questo snodo, Focus rallenta nel suo ritmo.Dimenticate la scena al cardiopalma per le vie di New Orleans, ritmata e col mood giusto.Per seguire un filo diverso la brillantezza del film cala e la storia ne risente.Ed è d’altra parte ciò che avviene al protagonista, dato che da quel punto in avanti Focus procede su un doppio binario: Nick, innamorato perso di Jess, cede qualcosa in termini di brillantezza, per cui, oltre al colpo del momento, c’è da concludere quello più importante: conquistare l’oggetto del suo amore.
È chiaro che si sarebbe trattato di un'altra operazione, ma passare dall'azione all'amore non è semplice e gli effetti si notano tutti.Una parte consistente di pubblico avrebbe guardato con favore all'ostentazione di un lusso a tal punto sfrenato. Una specie di grande elogio del lusso, dalle automobili alla tecnologia, passando per capi d'abbigliamento e location, è in ogni caso la risposta giusta.Un viaggio nella ricchezza che tutti desiderano e verso cui Nicky tende.Insomma, alla fine Will Smith ha il suo da fare con una storia à la Ocean’s, solo che qui, a parte la bellissima co-protagonista, tutti scompaiono e alla fine lui è praticamente solo. E come già sottolineato il principale difetto di Focus – Niente è come sembra,tutto poggia sulle muscolose spalla di Will.Appena lui cala il film sbanda salvo poi tentare di riprendersi, se così si può dire, poco prima della conclusione, quando oramai è troppo tardi.Focus si fa apprezzare per il ritmo e la storia ma oggi,nel 2015,esistono ancora ladri gentiluomini come Nicky?Ne dubitiamo.
LE LEGGI DEL DESIDERIO
di Valeria Piras
Nuovo film da regista e attore per Silvio Muccino.Il risultato però non convince.
Da alcuni giorni nelle sale italiane c'è il nuovo film di Silvio Muccino,la storia è ambientata nella Roma d'oggi. Il 34enne Giovanni Canton è un affermato 'trainer motivazionale'. Il suo carisma è forte ed è amato da molti ma anche odiato come cialtrone da molti.Per dimostare le sue capacità organizza un concorso dove scegliendo tre persone cercherà di cambiare la loro vita.Deciso a mostrare l'autenticità delle proprie teorie.Le persone scelte sono Matilde, 32enne assistente dell'editore e anche sua amante; Ernesto, 60enne che nasconde alla moglie sulla sedia a rotelle di essere stato licenziato; Luciana, segretaria di un Vescovo in Vaticano e autrice in segreto di romanzi molto espliciti. Giovanni cercherà di realizzare i loro desideri motivandoli a dovere ma alla fine grosse sorprese sia per i tre che per lo stesso motivatore.
Al terzo film come regista (dopo Parlami d'amore, 2008; Un altro mondo, 2010), Silvio Muccino si ispira alla realtà estremamente diffusa dei motivatori psicologici molto in voga negli USA,forse meno conosciuti in Italia. Una sorta di tentativo di ammorbidire lo spaesamento di oggi: i 'life coach' sono i veri figli della crisi, in un mondo in cui nessuno sa come realizzare i propri sogni, si propongono come coloro che hanno la risposta pronta. Per la prima ora del film tutto questo si nota molto,Canton usa un cinismo neutro e ferreo per convincere i tre ad andare avanti verso il traguardo. Ma di fronte all'ostinazione, ai dubbi, agli ostacoli non superabili, alla necessità di scelte che significano rinunce definitive, qualcosa si incrina.Alla fine della storia quindi è il sentimento che prevale e induce i protagonisti a guardare le cose con un altro occhio.
Insomma la lezione che captiamo è che alla fine non servono coach ma semplicemente essere se stessi sempre e trovare negli altri la giusta armonia. Arriva quindi un lieto fine da racconto romantico, poggiato su una regia nelle intenzioni più varia e aggressiva, con troppi sbalzi di tecnica e un uso registico del mezzo troppo manieristico e costruito.Non sempre la tecnica paga e il film verso il finale diventa molto dispersivo e poco compatto.Muccino si dimostra smaliziato e furbo, pronto ad usare uno sguardo obliquo di patinata ambiguità, fintamente cattivo e altrettanto fintamente buono. Un applauso agli interpreti da Nicole Grimaudo a Maurizio Mattioli da Carla Signoris a Muccino stesso che ben delineano i loro protagonisti.Muccino come attore e regista forse pretende troppo da se,in questo film insomma è molto meglio da attore,non bisogna eccedere nelle pretese,come nella vita.
Da alcuni giorni nelle sale italiane c'è il nuovo film di Silvio Muccino,la storia è ambientata nella Roma d'oggi. Il 34enne Giovanni Canton è un affermato 'trainer motivazionale'. Il suo carisma è forte ed è amato da molti ma anche odiato come cialtrone da molti.Per dimostare le sue capacità organizza un concorso dove scegliendo tre persone cercherà di cambiare la loro vita.Deciso a mostrare l'autenticità delle proprie teorie.Le persone scelte sono Matilde, 32enne assistente dell'editore e anche sua amante; Ernesto, 60enne che nasconde alla moglie sulla sedia a rotelle di essere stato licenziato; Luciana, segretaria di un Vescovo in Vaticano e autrice in segreto di romanzi molto espliciti. Giovanni cercherà di realizzare i loro desideri motivandoli a dovere ma alla fine grosse sorprese sia per i tre che per lo stesso motivatore.
Al terzo film come regista (dopo Parlami d'amore, 2008; Un altro mondo, 2010), Silvio Muccino si ispira alla realtà estremamente diffusa dei motivatori psicologici molto in voga negli USA,forse meno conosciuti in Italia. Una sorta di tentativo di ammorbidire lo spaesamento di oggi: i 'life coach' sono i veri figli della crisi, in un mondo in cui nessuno sa come realizzare i propri sogni, si propongono come coloro che hanno la risposta pronta. Per la prima ora del film tutto questo si nota molto,Canton usa un cinismo neutro e ferreo per convincere i tre ad andare avanti verso il traguardo. Ma di fronte all'ostinazione, ai dubbi, agli ostacoli non superabili, alla necessità di scelte che significano rinunce definitive, qualcosa si incrina.Alla fine della storia quindi è il sentimento che prevale e induce i protagonisti a guardare le cose con un altro occhio.
Insomma la lezione che captiamo è che alla fine non servono coach ma semplicemente essere se stessi sempre e trovare negli altri la giusta armonia. Arriva quindi un lieto fine da racconto romantico, poggiato su una regia nelle intenzioni più varia e aggressiva, con troppi sbalzi di tecnica e un uso registico del mezzo troppo manieristico e costruito.Non sempre la tecnica paga e il film verso il finale diventa molto dispersivo e poco compatto.Muccino si dimostra smaliziato e furbo, pronto ad usare uno sguardo obliquo di patinata ambiguità, fintamente cattivo e altrettanto fintamente buono. Un applauso agli interpreti da Nicole Grimaudo a Maurizio Mattioli da Carla Signoris a Muccino stesso che ben delineano i loro protagonisti.Muccino come attore e regista forse pretende troppo da se,in questo film insomma è molto meglio da attore,non bisogna eccedere nelle pretese,come nella vita.
NOI E LA GIULIA
di Valeria Piras
Ridere e riflettere.Leo fa ancora una volta centro.
Nelle sale da pochi giorni il nuovo film dell'attore-regista Edoardo Leo dal titolo Noi e La Giulia.Come le commedie italiane di un tempo che raccontavano il nostro Paese, in maniera ironica, amara, tragicomica, sognante o realistica, anche il nuovo film di Leo è sulla falsa riga delle classiche commedie all'italiana.Il regista romano è alla terza esperienza da regista e adesso sembra davvero aver centrato il bersaglio.Non che Diciotto anni dopo (2010) e Buongiorno papà (2013) fossero film deprecabili ma stavolta siamo di fronte a un felice connubio di ogni possibile elemento preso in considerazione. Certo, tutto parte da una sceneggiatura di base e da una storia finalmente realistica e coinvolgente.
Leo mostra una certa propensione per la sensibilità moderna ed esistenziale e questo suo nuovo film somiglia per dinamiche al precedente Smetto quando voglio, ma in questo caso possiede una maggior profondità e ampiezza tematica tanto spingere molti a parlare di una sorta di versione aggiornata dei Soliti Ignoti dell'immenso Monicelli. Ci troviamo dinanzi a figure tipiche del nostro paese e del momento storico unito a quel senso di speranza disperata che rischia di scontrarsi contro il fallimento.Un'ambiguità forte che però il regista Leo gestisce in maniera equilibrata, con pochi cali e grazie alle scelte di cast. Su tutti quelle di due colonne come Claudio Amendola, spettacolare nel rude nostalgico Sergio, e Carlo Buccirosso, continua fonte di sorprese nell'impiegatizio Vito, capaci di dare spessore al racconto e di fornire ora la sponda ora la spinta per le dinamiche narrative incentrate sul terzetto di quarantenni insoddisfatti e disperati completato da un preciso e gradevole Luca Argentero.
La storia narra diun gruppo di quarantenni che finalmente hanno hanno abbandonato la chimera del Chiringuito sulla spiaggià e ora cercano di ricreare un'esistenza degna tra rustici e paesaggi rilassanti, nel sogno di aprire un agriturismo.A ogni costo. Un pregio di questo film è anche questo, di saper parlare di piaghe profonde, come la Camorra, rendendola ridicola, semplice, banale, insensata (geniale in questo senso l'utilizzo dei ragazzi di Gomorra in una veste completamente diversa); facendoci scoprire a riderne, pur preoccupati. E se non bastasse,ecco il corto circuito che scaturisce dall'incontro della generazione 'del Piano B' con l'Italia che non è mai uscita di scena,quella dei padri instancabili e testardi.Una commedia azzeccata che fa ridere e pensare.Ottimo film davvero.
Nelle sale da pochi giorni il nuovo film dell'attore-regista Edoardo Leo dal titolo Noi e La Giulia.Come le commedie italiane di un tempo che raccontavano il nostro Paese, in maniera ironica, amara, tragicomica, sognante o realistica, anche il nuovo film di Leo è sulla falsa riga delle classiche commedie all'italiana.Il regista romano è alla terza esperienza da regista e adesso sembra davvero aver centrato il bersaglio.Non che Diciotto anni dopo (2010) e Buongiorno papà (2013) fossero film deprecabili ma stavolta siamo di fronte a un felice connubio di ogni possibile elemento preso in considerazione. Certo, tutto parte da una sceneggiatura di base e da una storia finalmente realistica e coinvolgente.
Leo mostra una certa propensione per la sensibilità moderna ed esistenziale e questo suo nuovo film somiglia per dinamiche al precedente Smetto quando voglio, ma in questo caso possiede una maggior profondità e ampiezza tematica tanto spingere molti a parlare di una sorta di versione aggiornata dei Soliti Ignoti dell'immenso Monicelli. Ci troviamo dinanzi a figure tipiche del nostro paese e del momento storico unito a quel senso di speranza disperata che rischia di scontrarsi contro il fallimento.Un'ambiguità forte che però il regista Leo gestisce in maniera equilibrata, con pochi cali e grazie alle scelte di cast. Su tutti quelle di due colonne come Claudio Amendola, spettacolare nel rude nostalgico Sergio, e Carlo Buccirosso, continua fonte di sorprese nell'impiegatizio Vito, capaci di dare spessore al racconto e di fornire ora la sponda ora la spinta per le dinamiche narrative incentrate sul terzetto di quarantenni insoddisfatti e disperati completato da un preciso e gradevole Luca Argentero.
La storia narra diun gruppo di quarantenni che finalmente hanno hanno abbandonato la chimera del Chiringuito sulla spiaggià e ora cercano di ricreare un'esistenza degna tra rustici e paesaggi rilassanti, nel sogno di aprire un agriturismo.A ogni costo. Un pregio di questo film è anche questo, di saper parlare di piaghe profonde, come la Camorra, rendendola ridicola, semplice, banale, insensata (geniale in questo senso l'utilizzo dei ragazzi di Gomorra in una veste completamente diversa); facendoci scoprire a riderne, pur preoccupati. E se non bastasse,ecco il corto circuito che scaturisce dall'incontro della generazione 'del Piano B' con l'Italia che non è mai uscita di scena,quella dei padri instancabili e testardi.Una commedia azzeccata che fa ridere e pensare.Ottimo film davvero.
N A I F - Malika Ayane
di Valeria Piras
Nuovo album per una voce unica della canzone italiana.
Dopo la performance di San Remo,dopo essere stata come al solito la vincitrice morale del Festival,la talentuosa Malika Ayane pubblica un nuovo album di inediti.Il titolo è Naif, molto rappresentativo del suo stesso stile di vita.Già la cover con il suo viso in primo piano, dietro un vetro appannato, fa capire la venatura di malinconia che vela il suo disco.Si tratta di un lavoro sincero ed omogeneo, dai toni tenui e dal suono ben definito, tutt'altro che ingenuo come il titolo lascia presagire. Un album realizzato in modo esperto,prodotto prima a Berlino e poi a Parigi, con la produzione Axel Reinemer e Stefan Leisering dei Jazzanova, con testi scritti dal cantautore Pacifico assieme alla stessa Malika. Una squadra forte e la decisione di voltare pagina con le tante collaborazioni e le tante mani del lavoro precedente. E i risultati so chiari e netti. "Adesso e qui", la canzone sanremese, è in parte diversa da come è stata cantata al Festival e fa capire il lavoro dei Jazzanova: una forte ritmica di sottofondo che si inserisce su una struttura melodica fatta di suoni tradizionali: soprattutto il piano.
In ogni traccia c'è una coloritura elettronica tenue ma presente, che dà un'altra dimensione e profondità a brani,una sorte di elaborato jazz italiano.Il gioco di "Naif" è proprio questo: dare un ritmo e uno spessore a canzoni leggere.Alla fine tutto funziona, anche se non sempre così bene come in "Adesso e qui". In alcuni casi la delicatezza elettronica è pressoché perfetta, come nel valzer iniziale, "Lentissimo", o nel ritmo sincompato di "Cose che ho capito di me". In altri pezzi forse la spinta è troppo evidente o ripetitiva (l'attacco iniziale di "Tempesta" e "Blu" sono molto simili).Il lavoro di Malika è stato un lavoro di ricerca tra equilibrio,tradizione e modernità, l'esperimento importante di dare un vestito nuovo e non banale alle canzoni, con suoni collegamenti alla canzone italiana d'autore.
La collaborazione coi Jazzanova è davvero promettente,soprattutto per la diversità di origini.Malika arriva dalla canzone raffinata, e la sua voce pastosa non la scopriamo certo oggi: anche in questo disco l'interpretazione è personale, riconoscibile, impeccabile.L'incontro tra questi due mondi funziona: il risultato è un disco davvero bello che si ascolta leggero e fresco come gocce d'acqua che scivolano leggere sul vetro e lascia una piacevole sensazione addosso con la voglia di riascoltarlo ancora.Ottimo lavoro Malika.
Dopo la performance di San Remo,dopo essere stata come al solito la vincitrice morale del Festival,la talentuosa Malika Ayane pubblica un nuovo album di inediti.Il titolo è Naif, molto rappresentativo del suo stesso stile di vita.Già la cover con il suo viso in primo piano, dietro un vetro appannato, fa capire la venatura di malinconia che vela il suo disco.Si tratta di un lavoro sincero ed omogeneo, dai toni tenui e dal suono ben definito, tutt'altro che ingenuo come il titolo lascia presagire. Un album realizzato in modo esperto,prodotto prima a Berlino e poi a Parigi, con la produzione Axel Reinemer e Stefan Leisering dei Jazzanova, con testi scritti dal cantautore Pacifico assieme alla stessa Malika. Una squadra forte e la decisione di voltare pagina con le tante collaborazioni e le tante mani del lavoro precedente. E i risultati so chiari e netti. "Adesso e qui", la canzone sanremese, è in parte diversa da come è stata cantata al Festival e fa capire il lavoro dei Jazzanova: una forte ritmica di sottofondo che si inserisce su una struttura melodica fatta di suoni tradizionali: soprattutto il piano.
In ogni traccia c'è una coloritura elettronica tenue ma presente, che dà un'altra dimensione e profondità a brani,una sorte di elaborato jazz italiano.Il gioco di "Naif" è proprio questo: dare un ritmo e uno spessore a canzoni leggere.Alla fine tutto funziona, anche se non sempre così bene come in "Adesso e qui". In alcuni casi la delicatezza elettronica è pressoché perfetta, come nel valzer iniziale, "Lentissimo", o nel ritmo sincompato di "Cose che ho capito di me". In altri pezzi forse la spinta è troppo evidente o ripetitiva (l'attacco iniziale di "Tempesta" e "Blu" sono molto simili).Il lavoro di Malika è stato un lavoro di ricerca tra equilibrio,tradizione e modernità, l'esperimento importante di dare un vestito nuovo e non banale alle canzoni, con suoni collegamenti alla canzone italiana d'autore.
La collaborazione coi Jazzanova è davvero promettente,soprattutto per la diversità di origini.Malika arriva dalla canzone raffinata, e la sua voce pastosa non la scopriamo certo oggi: anche in questo disco l'interpretazione è personale, riconoscibile, impeccabile.L'incontro tra questi due mondi funziona: il risultato è un disco davvero bello che si ascolta leggero e fresco come gocce d'acqua che scivolano leggere sul vetro e lascia una piacevole sensazione addosso con la voglia di riascoltarlo ancora.Ottimo lavoro Malika.
Cinquanta Sfumature Di Grigio.
di Valeria Piras
Il nuovo romanzo metropolitano in rime di Marracash.
E' uscito da poco nei negozi Status l'ultimo album di Marracash il rapper milanese che tanto aveva fatto parlare di se negli ultimi anni.Un disco che ha avuto ben tre anni per essere elaborato e alla fine mixato nientemeno che a Los Angeles nei DFM Studios del grande Joe Fraey.Già dalla prima traccia si è capito che si tratta di un disco diverso che infatti ha subito alimentato le due opposte fazioni dei pro e dei contro Marracash. La critica pare dividersi equamente tra chi crede che sarà forse il disco rap dell'anno e chi invece che si tratta di un un mega flop. Ma solo ascoltando bene il lavoro di Marracash si può emettere un giudizio vero che rimane comunque personalissimo. Ci sono ben 18 tracce, 75 minuti di pensieri, storie, incastri metrici, un vero lusso per un disco hip hop italiano e non.
Nonostante tre anni di silenzi il rapper milanese partorisce pezzi belli,pregni di parole e significati dimostrando che anche godendosi macchine,soldi e donne quando poi si chiude in studio nascono splendide tracce in stile street.Il pregio di molti pezzi di Status è l'alto livello di metrica,ricca di incastri arditi,a volte complicati anche per un ascoltatore abituato.Il disco segna un amichevole allontanamento produttivo dal vecchio beatmaker Deleterio che in “Status” firma solo una base.
La parte maggiore delle tracce sono autografate da Don Joe, l'anima dei Club Dogo ma molte sono le collaborazioni con artisti diversi proprio per evidenziare percorsi sempre nuovi.Passando ai testi si rimane sorpresi.Sembrano elaborate pagine di un lungo romanzo metropolitano,un' unica storia di strada, di una periferia che ha avuto pochi privilegi e che ha fame di riscatto sociale e di simboli del benessere.Alla fine si notano tutti i pregi di Status : il primo è quello di non avere l'ossessione della ricerca a tutti i costi della hit commerciale. "In radio" è la traccia capofila che ha nella voce femminile la marcia in più; "Senza un posto nel mondo" con intro di Tiziano Ferro non potrà non essere un singolo data l'importanza dell'ospite. Il disco però non cerca di conquistare le ragazzine che adorano Emis Killa e Fedez, ma cerca di lanciare messaggi anche crudi. Gli ospiti sono tanti e prestigiosi: Fabri Fibra (di cui si attende l'album), Gue Pequeno, Coez, Achille Lauro, Salmo, Luchè.Molti pezzi necessitano di più ascolti ma l'acidità del suono è splendida e le parole sempre aggressive e chiare. Dopo tre anni Marracash torna e dimostra di essere ancora avanti rispetto alla maggior arte della scena rap italiana. Ha idee, tecnica, flow, voglia di sperimentare e di stupire, alterna con bravura ironia e serietà.Un pò troppo di auto-compiacimento forse ma sembra impossibile trovare qualcuno oggi capace di scrivere 18 tracce rap migliori di queste.Status conquisterà, ne siamo sicuri.
E' uscito da poco nei negozi Status l'ultimo album di Marracash il rapper milanese che tanto aveva fatto parlare di se negli ultimi anni.Un disco che ha avuto ben tre anni per essere elaborato e alla fine mixato nientemeno che a Los Angeles nei DFM Studios del grande Joe Fraey.Già dalla prima traccia si è capito che si tratta di un disco diverso che infatti ha subito alimentato le due opposte fazioni dei pro e dei contro Marracash. La critica pare dividersi equamente tra chi crede che sarà forse il disco rap dell'anno e chi invece che si tratta di un un mega flop. Ma solo ascoltando bene il lavoro di Marracash si può emettere un giudizio vero che rimane comunque personalissimo. Ci sono ben 18 tracce, 75 minuti di pensieri, storie, incastri metrici, un vero lusso per un disco hip hop italiano e non.
Nonostante tre anni di silenzi il rapper milanese partorisce pezzi belli,pregni di parole e significati dimostrando che anche godendosi macchine,soldi e donne quando poi si chiude in studio nascono splendide tracce in stile street.Il pregio di molti pezzi di Status è l'alto livello di metrica,ricca di incastri arditi,a volte complicati anche per un ascoltatore abituato.Il disco segna un amichevole allontanamento produttivo dal vecchio beatmaker Deleterio che in “Status” firma solo una base.
La parte maggiore delle tracce sono autografate da Don Joe, l'anima dei Club Dogo ma molte sono le collaborazioni con artisti diversi proprio per evidenziare percorsi sempre nuovi.Passando ai testi si rimane sorpresi.Sembrano elaborate pagine di un lungo romanzo metropolitano,un' unica storia di strada, di una periferia che ha avuto pochi privilegi e che ha fame di riscatto sociale e di simboli del benessere.Alla fine si notano tutti i pregi di Status : il primo è quello di non avere l'ossessione della ricerca a tutti i costi della hit commerciale. "In radio" è la traccia capofila che ha nella voce femminile la marcia in più; "Senza un posto nel mondo" con intro di Tiziano Ferro non potrà non essere un singolo data l'importanza dell'ospite. Il disco però non cerca di conquistare le ragazzine che adorano Emis Killa e Fedez, ma cerca di lanciare messaggi anche crudi. Gli ospiti sono tanti e prestigiosi: Fabri Fibra (di cui si attende l'album), Gue Pequeno, Coez, Achille Lauro, Salmo, Luchè.Molti pezzi necessitano di più ascolti ma l'acidità del suono è splendida e le parole sempre aggressive e chiare. Dopo tre anni Marracash torna e dimostra di essere ancora avanti rispetto alla maggior arte della scena rap italiana. Ha idee, tecnica, flow, voglia di sperimentare e di stupire, alterna con bravura ironia e serietà.Un pò troppo di auto-compiacimento forse ma sembra impossibile trovare qualcuno oggi capace di scrivere 18 tracce rap migliori di queste.Status conquisterà, ne siamo sicuri.
STATUS - Marracash
di Valeria Piras
Il nuovo romanzo metropolitano in rime di Marracash.
E' uscito da poco nei negozi Status l'ultimo album di Marracash il rapper milanese che tanto aveva fatto parlare di se negli ultimi anni.Un disco che ha avuto ben tre anni per essere elaborato e alla fine mixato nientemeno che a Los Angeles nei DFM Studios del grande Joe Fraey.Già dalla prima traccia si è capito che si tratta di un disco diverso che infatti ha subito alimentato le due opposte fazioni dei pro e dei contro Marracash. La critica pare dividersi equamente tra chi crede che sarà forse il disco rap dell'anno e chi invece che si tratta di un un mega flop. Ma solo ascoltando bene il lavoro di Marracash si può emettere un giudizio vero che rimane comunque personalissimo. Ci sono ben 18 tracce, 75 minuti di pensieri, storie, incastri metrici, un vero lusso per un disco hip hop italiano e non.
Nonostante tre anni di silenzi il rapper milanese partorisce pezzi belli,pregni di parole e significati dimostrando che anche godendosi macchine,soldi e donne quando poi si chiude in studio nascono splendide tracce in stile street.Il pregio di molti pezzi di Status è l'alto livello di metrica,ricca di incastri arditi,a volte complicati anche per un ascoltatore abituato.Il disco segna un amichevole allontanamento produttivo dal vecchio beatmaker Deleterio che in “Status” firma solo una base.
La parte maggiore delle tracce sono autografate da Don Joe, l'anima dei Club Dogo ma molte sono le collaborazioni con artisti diversi proprio per evidenziare percorsi sempre nuovi.Passando ai testi si rimane sorpresi.Sembrano elaborate pagine di un lungo romanzo metropolitano,un' unica storia di strada, di una periferia che ha avuto pochi privilegi e che ha fame di riscatto sociale e di simboli del benessere.Alla fine si notano tutti i pregi di Status : il primo è quello di non avere l'ossessione della ricerca a tutti i costi della hit commerciale. "In radio" è la traccia capofila che ha nella voce femminile la marcia in più; "Senza un posto nel mondo" con intro di Tiziano Ferro non potrà non essere un singolo data l'importanza dell'ospite. Il disco però non cerca di conquistare le ragazzine che adorano Emis Killa e Fedez, ma cerca di lanciare messaggi anche crudi. Gli ospiti sono tanti e prestigiosi: Fabri Fibra (di cui si attende l'album), Gue Pequeno, Coez, Achille Lauro, Salmo, Luchè.Molti pezzi necessitano di più ascolti ma l'acidità del suono è splendida e le parole sempre aggressive e chiare. Dopo tre anni Marracash torna e dimostra di essere ancora avanti rispetto alla maggior arte della scena rap italiana. Ha idee, tecnica, flow, voglia di sperimentare e di stupire, alterna con bravura ironia e serietà.Un pò troppo di auto-compiacimento forse ma sembra impossibile trovare qualcuno oggi capace di scrivere 18 tracce rap migliori di queste.Status conquisterà, ne siamo sicuri.
E' uscito da poco nei negozi Status l'ultimo album di Marracash il rapper milanese che tanto aveva fatto parlare di se negli ultimi anni.Un disco che ha avuto ben tre anni per essere elaborato e alla fine mixato nientemeno che a Los Angeles nei DFM Studios del grande Joe Fraey.Già dalla prima traccia si è capito che si tratta di un disco diverso che infatti ha subito alimentato le due opposte fazioni dei pro e dei contro Marracash. La critica pare dividersi equamente tra chi crede che sarà forse il disco rap dell'anno e chi invece che si tratta di un un mega flop. Ma solo ascoltando bene il lavoro di Marracash si può emettere un giudizio vero che rimane comunque personalissimo. Ci sono ben 18 tracce, 75 minuti di pensieri, storie, incastri metrici, un vero lusso per un disco hip hop italiano e non.
Nonostante tre anni di silenzi il rapper milanese partorisce pezzi belli,pregni di parole e significati dimostrando che anche godendosi macchine,soldi e donne quando poi si chiude in studio nascono splendide tracce in stile street.Il pregio di molti pezzi di Status è l'alto livello di metrica,ricca di incastri arditi,a volte complicati anche per un ascoltatore abituato.Il disco segna un amichevole allontanamento produttivo dal vecchio beatmaker Deleterio che in “Status” firma solo una base.
La parte maggiore delle tracce sono autografate da Don Joe, l'anima dei Club Dogo ma molte sono le collaborazioni con artisti diversi proprio per evidenziare percorsi sempre nuovi.Passando ai testi si rimane sorpresi.Sembrano elaborate pagine di un lungo romanzo metropolitano,un' unica storia di strada, di una periferia che ha avuto pochi privilegi e che ha fame di riscatto sociale e di simboli del benessere.Alla fine si notano tutti i pregi di Status : il primo è quello di non avere l'ossessione della ricerca a tutti i costi della hit commerciale. "In radio" è la traccia capofila che ha nella voce femminile la marcia in più; "Senza un posto nel mondo" con intro di Tiziano Ferro non potrà non essere un singolo data l'importanza dell'ospite. Il disco però non cerca di conquistare le ragazzine che adorano Emis Killa e Fedez, ma cerca di lanciare messaggi anche crudi. Gli ospiti sono tanti e prestigiosi: Fabri Fibra (di cui si attende l'album), Gue Pequeno, Coez, Achille Lauro, Salmo, Luchè.Molti pezzi necessitano di più ascolti ma l'acidità del suono è splendida e le parole sempre aggressive e chiare. Dopo tre anni Marracash torna e dimostra di essere ancora avanti rispetto alla maggior arte della scena rap italiana. Ha idee, tecnica, flow, voglia di sperimentare e di stupire, alterna con bravura ironia e serietà.Un pò troppo di auto-compiacimento forse ma sembra impossibile trovare qualcuno oggi capace di scrivere 18 tracce rap migliori di queste.Status conquisterà, ne siamo sicuri.
SEI MAI STATA SULLA LUNA?
di Valeria Piras
Città contro campagna in un allegra commedia di genere.
Esce in questi giorni nelle sale il nuovo film di Paolo Genovese dal titolo Sei mai stata sulla Luna? Si tratta di una romantica commedia che ben intrattiene e fa riflettere sui veri valori della vita moderna,valori che spesso si perdono di vista.La storia è quella di una persona che si sposta dalla città alla provincia, dal Nord al Sud, dalla vita pienamente moderna (grattacieli, auto di lusso, tecnologia, moda) ad una il più possibile rurale e antica (campi da coltivare, dinamiche da paese) e anche in questo caso l’opposizione tra i due stili di vita, e quindi tra due dimensioni dell’Italia, è il centro vero del film.In Sei mai stata sulla Luna? sembra che ogni personaggio sia descritto in base al suo rapporto con la modernità: la protagonista,una sexy e simpatica Liz Solari, è la moderna per eccellenza, così la sua amica, mentre i comprimari che incontra nel suo viaggio nella provincia meridionale oscillano tra il pienamente tradizionale e il tradizionale con comiche velleità di modernità.
Protagonista maschile Raoul Bova nei panni del rude fattore prima in urto e poi innamorato della frivola cittadina.Presenti nel film grandi attori come Emilio Solfrizzi,Neri Marcorè,un ottimo Sergio Rubini e tanti altri come G.Michelini,Nino Frassica,S.Impacciatore e Dino Abbrescia.Insomma un cast che ben promette e che mantiene.Alla fine nel duello tra città e provincia trionfa la seconda,unico luogo in cui è possibile trovare i propri veri sentimenti. Bella critica alla tecnologia vista come inutile e fonte di ridicolo,alla fretta lavorativa che stressa e indurisce il cuore e l'elogio della lentezza e della spontaneità della provincia.Lo stile con cui la commedia traccia la sua parabola è quello di Paolo Genovese (più Immaturi che Una famiglia perfetta), sempre pronto a sacrificare un po’ di sofisticazione per un po’ di estetica, mai eccessivamente legato alla risata forzata e più incline ad usare il linguaggio della commedia sofisticata americana.
Unica pecca di Sei mai stata sulla Luna? è forse un ritmo non esaltante, come una macchina che si ingolfa e riparte di continuo. La sceneggiatura è scandita con grande linearità tecnica ma con pochi picchi veramente unici,come se il regista avesse avuto paura di osare per non rischiare troppo e deludere i suoi consolidati fans precedenti.Una piccola occasione mancata ma il film resta divertente e ottimo nell'intrattenere svolgendo appieno il suo compito principale di commedia.
Esce in questi giorni nelle sale il nuovo film di Paolo Genovese dal titolo Sei mai stata sulla Luna? Si tratta di una romantica commedia che ben intrattiene e fa riflettere sui veri valori della vita moderna,valori che spesso si perdono di vista.La storia è quella di una persona che si sposta dalla città alla provincia, dal Nord al Sud, dalla vita pienamente moderna (grattacieli, auto di lusso, tecnologia, moda) ad una il più possibile rurale e antica (campi da coltivare, dinamiche da paese) e anche in questo caso l’opposizione tra i due stili di vita, e quindi tra due dimensioni dell’Italia, è il centro vero del film.In Sei mai stata sulla Luna? sembra che ogni personaggio sia descritto in base al suo rapporto con la modernità: la protagonista,una sexy e simpatica Liz Solari, è la moderna per eccellenza, così la sua amica, mentre i comprimari che incontra nel suo viaggio nella provincia meridionale oscillano tra il pienamente tradizionale e il tradizionale con comiche velleità di modernità.
Protagonista maschile Raoul Bova nei panni del rude fattore prima in urto e poi innamorato della frivola cittadina.Presenti nel film grandi attori come Emilio Solfrizzi,Neri Marcorè,un ottimo Sergio Rubini e tanti altri come G.Michelini,Nino Frassica,S.Impacciatore e Dino Abbrescia.Insomma un cast che ben promette e che mantiene.Alla fine nel duello tra città e provincia trionfa la seconda,unico luogo in cui è possibile trovare i propri veri sentimenti. Bella critica alla tecnologia vista come inutile e fonte di ridicolo,alla fretta lavorativa che stressa e indurisce il cuore e l'elogio della lentezza e della spontaneità della provincia.Lo stile con cui la commedia traccia la sua parabola è quello di Paolo Genovese (più Immaturi che Una famiglia perfetta), sempre pronto a sacrificare un po’ di sofisticazione per un po’ di estetica, mai eccessivamente legato alla risata forzata e più incline ad usare il linguaggio della commedia sofisticata americana.
Unica pecca di Sei mai stata sulla Luna? è forse un ritmo non esaltante, come una macchina che si ingolfa e riparte di continuo. La sceneggiatura è scandita con grande linearità tecnica ma con pochi picchi veramente unici,come se il regista avesse avuto paura di osare per non rischiare troppo e deludere i suoi consolidati fans precedenti.Una piccola occasione mancata ma il film resta divertente e ottimo nell'intrattenere svolgendo appieno il suo compito principale di commedia.
E X O D U S
di Valeria Piras
Tra Bibbia ed epiche battaglie Ridley Scott conquista gli occhi.
Ecco un ennesimo tentativo cinematografico di narrare l'epica vicenda di Mosé e dell'Esodo del popolo ebraico in fuga dalla schiavitù d'Egitto, una storia che ha sempre avuto un fascino epico indiscutibile e che il cinema non ha mancato di raccontare.Il nuovo filmone è firmato dal grande regista Ridley Scott e da celebri sceneggiatori accreditati, tra cui il premio Oscar Steven Zaillian, e racconta la storia partendo dalla consegna delle Tavole della Legge e dalla partenza per il lungo viaggio verso casa con l'Arca dell'Alleanza (bypassando la vicenda dell'Idolo d'oro e dell'ira di Mosé). Il regista non ha voluto cancellare lo spirito biblico della storia e l'ispirazione religiosa, ma ha cercato di dare una concretezza e una sostanza umana che forse sono la cosa più riuscita.
Ottima davvero la scelta dei due protagonisti, non solo perché Christian Bale e Joel Edgerton sono due ottimi attori, ma soprattutto perchè la loro fisicità ben esprime la forza di una naturale rivalità tra fratelli che arrivano ad odiarsi: il primo che sa di essere nel giusto e il secondo che si arrocca ostinatamente nell'insensibilità arrogante di chi si è sempre considerato incarnazione divina e non vuole arrendersi al cambiamento.Rimane l'eterna lotta tra due diversi modi di intendere il potere,tra due visioni della vita, e al di là del fatto che Dio parteggi in questo caso spudoratamente per una delle parti in lotta, è evidente come la storia sia tremendamente attuale, una storia che parla di riscatto e libertà.La narrazione forse zoppica per qualche squilibrio, soprattutto nella parte centrale, ma è un miracolo che il film in sole due ore e mezza riesca a non essere prolisso e pesante ma semplicemente denso di fatti.
Nel film ci sono anche Sigourney Weaver,John Turturro e l'ottimo Ben Kingsley,ma il centro del film sono quasi sempre i due protagonisti. Davvero spettacolari come da copione le sequenze iniziali di battaglia, le piaghe (con una variazione sul tema), l'inseguimento dei carri guidati da Ramses e il passaggio sul mar Rosso con annessa divisione del mare e tsunami voluto da Dio. Bale da a Mosè un'aria forte e guerriera ma anche pieno di compassione, che non ha bisogno del fratello Aronne e del bastone per scatenare l'ira di Dio ma è addolorato degli estremi rimedi a cui deve ricorrere e non ha timore di esprimere alla divinità che gli parla il proprio disaccordo.Exodus non è un capolavoro cinematografico ma sicuramente è molto più riuscito del precedente film Noah. Anche la versione 3D promette davvero bene con un'esperienza visiva incredibile grazie all'imponente lavoro tecnico dietro alla sua realizzazione.
Ecco un ennesimo tentativo cinematografico di narrare l'epica vicenda di Mosé e dell'Esodo del popolo ebraico in fuga dalla schiavitù d'Egitto, una storia che ha sempre avuto un fascino epico indiscutibile e che il cinema non ha mancato di raccontare.Il nuovo filmone è firmato dal grande regista Ridley Scott e da celebri sceneggiatori accreditati, tra cui il premio Oscar Steven Zaillian, e racconta la storia partendo dalla consegna delle Tavole della Legge e dalla partenza per il lungo viaggio verso casa con l'Arca dell'Alleanza (bypassando la vicenda dell'Idolo d'oro e dell'ira di Mosé). Il regista non ha voluto cancellare lo spirito biblico della storia e l'ispirazione religiosa, ma ha cercato di dare una concretezza e una sostanza umana che forse sono la cosa più riuscita.
Ottima davvero la scelta dei due protagonisti, non solo perché Christian Bale e Joel Edgerton sono due ottimi attori, ma soprattutto perchè la loro fisicità ben esprime la forza di una naturale rivalità tra fratelli che arrivano ad odiarsi: il primo che sa di essere nel giusto e il secondo che si arrocca ostinatamente nell'insensibilità arrogante di chi si è sempre considerato incarnazione divina e non vuole arrendersi al cambiamento.Rimane l'eterna lotta tra due diversi modi di intendere il potere,tra due visioni della vita, e al di là del fatto che Dio parteggi in questo caso spudoratamente per una delle parti in lotta, è evidente come la storia sia tremendamente attuale, una storia che parla di riscatto e libertà.La narrazione forse zoppica per qualche squilibrio, soprattutto nella parte centrale, ma è un miracolo che il film in sole due ore e mezza riesca a non essere prolisso e pesante ma semplicemente denso di fatti.
Nel film ci sono anche Sigourney Weaver,John Turturro e l'ottimo Ben Kingsley,ma il centro del film sono quasi sempre i due protagonisti. Davvero spettacolari come da copione le sequenze iniziali di battaglia, le piaghe (con una variazione sul tema), l'inseguimento dei carri guidati da Ramses e il passaggio sul mar Rosso con annessa divisione del mare e tsunami voluto da Dio. Bale da a Mosè un'aria forte e guerriera ma anche pieno di compassione, che non ha bisogno del fratello Aronne e del bastone per scatenare l'ira di Dio ma è addolorato degli estremi rimedi a cui deve ricorrere e non ha timore di esprimere alla divinità che gli parla il proprio disaccordo.Exodus non è un capolavoro cinematografico ma sicuramente è molto più riuscito del precedente film Noah. Anche la versione 3D promette davvero bene con un'esperienza visiva incredibile grazie all'imponente lavoro tecnico dietro alla sua realizzazione.
AMERICAN SNIPER
di Valeria Piras
Lungo i sentieri di un'anima americana tormentata.
American Sniper è il nuovo film di Clint Eastwood da oggi nelle sale.Bradley Cooper,attore rivelazione degli ultmi anni si era riuscito ad aggiudicare come produttore i diritti del libro sulla vita di Chris Kyle, cecchino americano dei Navy Seals, eroe militare della recente guerra in Iraq e tragicamente morto assassinato da un suo ex commilitone in circostanze ancora poco chiare.Bradley Cooper impersona il giovane soldato americano in una prova cinematografica molto intensa e convincente.Il film secondo molti critici,porta il marchio di Eastwood,una sorta di "glorificazione problematica" del protagonista. Seguendo fedelmente il sentiero emotivo di Chris, Eastwood non mette mai in dubbio la legittimità degli interventi militari, nè la necessità della guerra, nè l'inevitabilità del male necessario.
Non si tratta di una semplice ideologia personale, ma anche di rispetto per un uomo che in quegli ideali ha creduto. Allo stesso tempo, Kyle viene descritto in modo chiaro,senza arroganza e l'ottimo Cooper interpreta questo aspetto con molta accortezza.Chris Kyle viene raccontato come la macchina per uccidere con la coscienza dell'essere umano, ma Eastwood in maniera semplice e diretta,come sempre nei suoi film fa emergere l'enorme cupezza di fondo, una battaglia claustrofobica di emozioni, di cui nè lo spettatore nè lo stesso Kyle riescono più a liberarsi fino alla fine del film.La cupezza del film non è un difetto, anzi, è un mezzo necessario per meglio capire la deriva esistenziale del protagonista.
Nel film si descrive semplicemente un sacrificio dell'anima, tanto più devastante quanto più viene accettato senza ripensamenti: l'efficacia di Chris sul campo di battaglia, preziosa e indispensabile per i suoi commilitoni, è inversamente proporzionale alla sua capacità di rapportarsi con la normalità della vita civile.L'unico difetto del film è forse quella eccessiva retorica che Eastwood inserisce spesso nei suoi film ma si tratta di un piccolissimo neo.Il film è una fotografia onesta ed esplosiva sull'esistenza di un soldato americano, un quadro lucido e razionale di come una nazione giochi con la morte in nome della libertà e della vita umana.
American Sniper è il nuovo film di Clint Eastwood da oggi nelle sale.Bradley Cooper,attore rivelazione degli ultmi anni si era riuscito ad aggiudicare come produttore i diritti del libro sulla vita di Chris Kyle, cecchino americano dei Navy Seals, eroe militare della recente guerra in Iraq e tragicamente morto assassinato da un suo ex commilitone in circostanze ancora poco chiare.Bradley Cooper impersona il giovane soldato americano in una prova cinematografica molto intensa e convincente.Il film secondo molti critici,porta il marchio di Eastwood,una sorta di "glorificazione problematica" del protagonista. Seguendo fedelmente il sentiero emotivo di Chris, Eastwood non mette mai in dubbio la legittimità degli interventi militari, nè la necessità della guerra, nè l'inevitabilità del male necessario.
Non si tratta di una semplice ideologia personale, ma anche di rispetto per un uomo che in quegli ideali ha creduto. Allo stesso tempo, Kyle viene descritto in modo chiaro,senza arroganza e l'ottimo Cooper interpreta questo aspetto con molta accortezza.Chris Kyle viene raccontato come la macchina per uccidere con la coscienza dell'essere umano, ma Eastwood in maniera semplice e diretta,come sempre nei suoi film fa emergere l'enorme cupezza di fondo, una battaglia claustrofobica di emozioni, di cui nè lo spettatore nè lo stesso Kyle riescono più a liberarsi fino alla fine del film.La cupezza del film non è un difetto, anzi, è un mezzo necessario per meglio capire la deriva esistenziale del protagonista.
Nel film si descrive semplicemente un sacrificio dell'anima, tanto più devastante quanto più viene accettato senza ripensamenti: l'efficacia di Chris sul campo di battaglia, preziosa e indispensabile per i suoi commilitoni, è inversamente proporzionale alla sua capacità di rapportarsi con la normalità della vita civile.L'unico difetto del film è forse quella eccessiva retorica che Eastwood inserisce spesso nei suoi film ma si tratta di un piccolissimo neo.Il film è una fotografia onesta ed esplosiva sull'esistenza di un soldato americano, un quadro lucido e razionale di come una nazione giochi con la morte in nome della libertà e della vita umana.
SI ACCETTANO MIRACOLI
di Valeria Piras
Nuovo film per il comico napoletano.Sufficienza appena raggiunta.
Dopo il notevole successo avuto con Il principe abusivo Alessandro Siani torna al cinema da regista ed interprete con la commedia Si Accettano Miracoli. Se nel film precedente la storia era concentrata sulle differenze tra l'essere popolare e l'essere nobile,una sorta di favola classica fatta di principesse e castelli, in Si accettano miracoli Siani dimostra altre ambizioni, si allontana dalla classica favola a favore di un tono fiabesco si ma molto più leggero anche se alla ricerca di un filo narrativo molto più complesso. La storia dei tre fratelli protagonisti sembra giusta e permette alle tre personalità di elevare la loro storia e comunicare emozioni profonde. Dei tre fratelli protagonisti però nessuno ha un’identità chiara e definita e alla fine la comicità sembra un pò frenata.Siani è lo spietato tagliatore di teste convertito a buon paesano di Siani, Fabio De Luigi è il simpatico prete di campagna mentre la sorella con problemi matrimoniali è una perfetta e divertente Serena Autieri.
Non potendosi affidare al carattere dei personaggi ogni battuta è più generica, basata più sulla fisicità che sui dialoghi. L'ambiente è particolare e va da una parrocchia in crisi a una truffa perpetrata per generare un po’ d’incasso che però il Vaticano vuole verificare. Al centro della storia c'è anche una divertente vicenda d’amore narrata però forse troppo in fretta e sommariamente.Una specie di prolissità non supportata da ritmo che uccide ogni voglia di proseguire la visione.Si scopre così che probabilmente senza una vera caratterizzazione forte anche Alessandro Siani inciampa un pò nel reggere le scene della storia.Confinato in una generica bontà d’animo il suo protagonista Fulvio Canfora non diventa indimenticabile, non si erge ad archetipo di comicità,non incarna nessuna tipologia umana riconoscibile nè, ma questo era chiaro, riesce a dare vita ad un personaggio comico veramente inedito. Si Accettano Miracoli, scena dopo scena, diventa un tentativo di descrivere un piccolo mondo più che le storie comiche dei personaggi che in esso si muovono.
Alla fine resta la convinzione che mescolando la sua comicità alla favola Alessandro Siani riesca comunque a separarsi dalla massa di altri comici che si trasferiscono nelle sale, ma forse manca qualcosa per fare un passo in avanti rispetto al suo film precedente.Si Accettano Miracoli, non facendo scelte decise, si adagia sul passato comico e mette in scena uno scenario solo parzialmente fiabesco senza quell'anima trascinante che invece è alla base della comicità napoletana di Siani.
Dopo il notevole successo avuto con Il principe abusivo Alessandro Siani torna al cinema da regista ed interprete con la commedia Si Accettano Miracoli. Se nel film precedente la storia era concentrata sulle differenze tra l'essere popolare e l'essere nobile,una sorta di favola classica fatta di principesse e castelli, in Si accettano miracoli Siani dimostra altre ambizioni, si allontana dalla classica favola a favore di un tono fiabesco si ma molto più leggero anche se alla ricerca di un filo narrativo molto più complesso. La storia dei tre fratelli protagonisti sembra giusta e permette alle tre personalità di elevare la loro storia e comunicare emozioni profonde. Dei tre fratelli protagonisti però nessuno ha un’identità chiara e definita e alla fine la comicità sembra un pò frenata.Siani è lo spietato tagliatore di teste convertito a buon paesano di Siani, Fabio De Luigi è il simpatico prete di campagna mentre la sorella con problemi matrimoniali è una perfetta e divertente Serena Autieri.
Non potendosi affidare al carattere dei personaggi ogni battuta è più generica, basata più sulla fisicità che sui dialoghi. L'ambiente è particolare e va da una parrocchia in crisi a una truffa perpetrata per generare un po’ d’incasso che però il Vaticano vuole verificare. Al centro della storia c'è anche una divertente vicenda d’amore narrata però forse troppo in fretta e sommariamente.Una specie di prolissità non supportata da ritmo che uccide ogni voglia di proseguire la visione.Si scopre così che probabilmente senza una vera caratterizzazione forte anche Alessandro Siani inciampa un pò nel reggere le scene della storia.Confinato in una generica bontà d’animo il suo protagonista Fulvio Canfora non diventa indimenticabile, non si erge ad archetipo di comicità,non incarna nessuna tipologia umana riconoscibile nè, ma questo era chiaro, riesce a dare vita ad un personaggio comico veramente inedito. Si Accettano Miracoli, scena dopo scena, diventa un tentativo di descrivere un piccolo mondo più che le storie comiche dei personaggi che in esso si muovono.
Alla fine resta la convinzione che mescolando la sua comicità alla favola Alessandro Siani riesca comunque a separarsi dalla massa di altri comici che si trasferiscono nelle sale, ma forse manca qualcosa per fare un passo in avanti rispetto al suo film precedente.Si Accettano Miracoli, non facendo scelte decise, si adagia sul passato comico e mette in scena uno scenario solo parzialmente fiabesco senza quell'anima trascinante che invece è alla base della comicità napoletana di Siani.
IN CILE VERITAS - Il Cile
di Valeria Piras
Splendido secondo album per il giovane cantautore italiano.
Dopo solo due anni dal suo ultimo album di inediti il giovane e talentuoso Cile torna con un disco nuovo di zecca, “In Cile veritas” che segue il sorprendente successo dell’album d’esordio che nel 2012 ha debuttato al 5° posto della classifica nazionale dei dischi più venduti e ottenuto molti riconoscimenti dalla critica anche dopo la sua partecipazione al Festival di Sanremo 2013.Il disco, prodotto da Fabrizio Barbacci e distribuito dalla Universal Music, contiene 10 tracce belle e profonde per 40 minuti di buona musica italiana.Si apre col pezzo “Sapevi di me“, brano scelto dal cantante anche come singolo e che è stato accompagnato da un videoclip a cui hanno partecipato decine di fans inviando le loro polaroid che sono state usate nel video.
L'inizio del disco è davvero ottimo anzi si può dire che il ritorno de Il Cile è un ritorno alla grande: al di là della musica, sempre piacevole e ben suonata, sono i testi il vero tesoro delle canzoni de Il Cile, pezzi profondi ricchi di metafore sempre a dir poco spiazzanti pieni di figure allegoriche meravigliose, ai limiti della poesia.Dopo troviamo la canzone “Ascoltando i tuoi passi“, pezzo in perfetto “stile Il Cile”, con un particolare connubio tra musica e testi, poi c'è “Liberi di vivere”, brano dominato da una potente batteria e dalla chitarra acustica e che suona come un ritratto di un certo tipo di generazione.“L’amore è un suicidio” ci colpisce con il suo forte animo rock con tanto di citazione Beatle iniziale e con una storia d’amore a dir poco comica e piena di situazioni paradossali.
Le chitarre distorte introducono “Baron Samedi“, una specie di canzone voodoo dove la chitarra funky è eccezionale e la donna di cui si parla è la stessa fidanzata del cantante.Il filone del disco viene interrotto da “Sole cuore alta gradazione“, canzone che è una sorta di speciale singolo, che ha spopolato nei mesi scorsi in radio e che parla delle solite estati a base di alcool di una gioventù che traballa al ritmo delle lattine che finiscono per terra.Il disco si avvia verso la fine con “Maryjane“, una canzone su una storia d’amore passata dove il ritmo delle tastiere e dell’organo rimangono nella testa per ore e che narra di una certa gioventù di “sinistra chardonnay” piena solo di illusioni e dove non sempre chi sbaglia paga. La batteria del pezzo “Vorrei chiederti” ci dimostra che Il Cile riesce a parlare di argomenti importanti anche con una base musicale molto cool infine l’intro psichedelico di “Un’altra aurora” segna la fine di questo disco che ci lascia stupiti e ammirati dallo stile che emerge dall'album. Canzoni mai banali e mai stucchevoli, un disco capace di parafrasi e paragoni a dir poco originali, pieno di metafore brillanti, un album suonato e cantato in maniera eccellente da cui si capisce come la scena musicale italiana abbia trovato un suo grande interprete giovane e originale.Un secondo disco che migliora la bellezza contenuta nel primo.Un meritato applauso per Il Cile,con lui c'è speranza nella musica italiana.Ci voleva.
Dopo solo due anni dal suo ultimo album di inediti il giovane e talentuoso Cile torna con un disco nuovo di zecca, “In Cile veritas” che segue il sorprendente successo dell’album d’esordio che nel 2012 ha debuttato al 5° posto della classifica nazionale dei dischi più venduti e ottenuto molti riconoscimenti dalla critica anche dopo la sua partecipazione al Festival di Sanremo 2013.Il disco, prodotto da Fabrizio Barbacci e distribuito dalla Universal Music, contiene 10 tracce belle e profonde per 40 minuti di buona musica italiana.Si apre col pezzo “Sapevi di me“, brano scelto dal cantante anche come singolo e che è stato accompagnato da un videoclip a cui hanno partecipato decine di fans inviando le loro polaroid che sono state usate nel video.
L'inizio del disco è davvero ottimo anzi si può dire che il ritorno de Il Cile è un ritorno alla grande: al di là della musica, sempre piacevole e ben suonata, sono i testi il vero tesoro delle canzoni de Il Cile, pezzi profondi ricchi di metafore sempre a dir poco spiazzanti pieni di figure allegoriche meravigliose, ai limiti della poesia.Dopo troviamo la canzone “Ascoltando i tuoi passi“, pezzo in perfetto “stile Il Cile”, con un particolare connubio tra musica e testi, poi c'è “Liberi di vivere”, brano dominato da una potente batteria e dalla chitarra acustica e che suona come un ritratto di un certo tipo di generazione.“L’amore è un suicidio” ci colpisce con il suo forte animo rock con tanto di citazione Beatle iniziale e con una storia d’amore a dir poco comica e piena di situazioni paradossali.
Le chitarre distorte introducono “Baron Samedi“, una specie di canzone voodoo dove la chitarra funky è eccezionale e la donna di cui si parla è la stessa fidanzata del cantante.Il filone del disco viene interrotto da “Sole cuore alta gradazione“, canzone che è una sorta di speciale singolo, che ha spopolato nei mesi scorsi in radio e che parla delle solite estati a base di alcool di una gioventù che traballa al ritmo delle lattine che finiscono per terra.Il disco si avvia verso la fine con “Maryjane“, una canzone su una storia d’amore passata dove il ritmo delle tastiere e dell’organo rimangono nella testa per ore e che narra di una certa gioventù di “sinistra chardonnay” piena solo di illusioni e dove non sempre chi sbaglia paga. La batteria del pezzo “Vorrei chiederti” ci dimostra che Il Cile riesce a parlare di argomenti importanti anche con una base musicale molto cool infine l’intro psichedelico di “Un’altra aurora” segna la fine di questo disco che ci lascia stupiti e ammirati dallo stile che emerge dall'album. Canzoni mai banali e mai stucchevoli, un disco capace di parafrasi e paragoni a dir poco originali, pieno di metafore brillanti, un album suonato e cantato in maniera eccellente da cui si capisce come la scena musicale italiana abbia trovato un suo grande interprete giovane e originale.Un secondo disco che migliora la bellezza contenuta nel primo.Un meritato applauso per Il Cile,con lui c'è speranza nella musica italiana.Ci voleva.
UN NATALE STUPEFACENTE
di Valeria Piras
Lillo & Greg cambiano il cinepanettone.Finalmente.
Arriva nelle sale il nuovo film natalizio di Aurelio De Laurentiis che si intitola Un Natale Stupefacente.E' un film importante essendo il primo film natalizio dopo 14 anni senza il regista Neri Parenti.La regia in questo caso è affidata al talentuoso Volfgango De Biasi classe '72 autore di un esordio col botto con la commedia Come tu mi vuoi e qui impegnato a confermare le sue doti.Un Natale stupefacente è una commedia familiare per storia e target che si ricollega alla celebre etichetta di cinepanettone, per indicare un film di Natale italiano; possiamo comunque dire che funziona.Ovviamente non è un capolavoro di commedia nè una rivoluzione del genere, ma una sorta di cambiamento sì. E in meglio. Lasciando da parte le critiche nazional-popolari sul cinepanettone scollacciato, è chiaro che dopo tanti anni di riproposta di uno stesso meccanismo qualcosa deve pur cambiare e Un Natale stupefacente ci riesce.
Il punto di forza sono certamente i protagonisti e il fatto che agiscano in una storia.Lillo & Greg si erano già dimostrati bravi in Colpi di fortuna e Colpi di fulmine, ora gli viene finalmente dato un film tutto loro. Da un punto di vista comico, sono unici nel panorama italiano: giocano con il nonsense, il surreale, contorsionisti dei giochi di parole, hanno grandi tempi comici affiatatissimi e sanno sempre bene come essere diretti a tutti senza banalità e volgarità. In questo film, ripropongono i loro meccanismi ma non si limitano a dare una gag continua, come accade in milioni di commedie con comici nostrani. La storia, anche se lenta in alcuni aspetti funziona e scorre e loro la fanno progredire grazie anche ad un cast centrato.Ambra Angiolini per le vecchie formule cinepanettoniane sarebbe stata la bellona. Quì invece è provocante per gioco e per ruolo ma ha uno spazio narrativo sua nella storia, non è mai secondaria.
Ottime anche le due spalle comiche Paola Minaccioni e Paolo Calabresi che gioca di nuovo sulle note del grezzo modello "Biascica", il suo personaggio dalla serie Boris. Un Natale stupefacente sorpende per il ritmo e per una bella idea di storia, un percorso irriverente e la voglia di essere buoni e per tutti.I difetti sono i soliti dei cinepanettoni ovvero una messinscena al minimo sindacale e un lavoro fotografico piatto, dall'altro lato però ci sono dei pregi evidenti come il tentativo riuscito di una commedia carina, lenta un po', sì, ma comunque con un'idea, e con dei protagonisti che la tengono sempre in piedi. Insomma sembra essere un nuovo percorso per rinfrescare il genere della commedia natalizia-Un Natale Stupefacente merita di essere visto.
Arriva nelle sale il nuovo film natalizio di Aurelio De Laurentiis che si intitola Un Natale Stupefacente.E' un film importante essendo il primo film natalizio dopo 14 anni senza il regista Neri Parenti.La regia in questo caso è affidata al talentuoso Volfgango De Biasi classe '72 autore di un esordio col botto con la commedia Come tu mi vuoi e qui impegnato a confermare le sue doti.Un Natale stupefacente è una commedia familiare per storia e target che si ricollega alla celebre etichetta di cinepanettone, per indicare un film di Natale italiano; possiamo comunque dire che funziona.Ovviamente non è un capolavoro di commedia nè una rivoluzione del genere, ma una sorta di cambiamento sì. E in meglio. Lasciando da parte le critiche nazional-popolari sul cinepanettone scollacciato, è chiaro che dopo tanti anni di riproposta di uno stesso meccanismo qualcosa deve pur cambiare e Un Natale stupefacente ci riesce.
Il punto di forza sono certamente i protagonisti e il fatto che agiscano in una storia.Lillo & Greg si erano già dimostrati bravi in Colpi di fortuna e Colpi di fulmine, ora gli viene finalmente dato un film tutto loro. Da un punto di vista comico, sono unici nel panorama italiano: giocano con il nonsense, il surreale, contorsionisti dei giochi di parole, hanno grandi tempi comici affiatatissimi e sanno sempre bene come essere diretti a tutti senza banalità e volgarità. In questo film, ripropongono i loro meccanismi ma non si limitano a dare una gag continua, come accade in milioni di commedie con comici nostrani. La storia, anche se lenta in alcuni aspetti funziona e scorre e loro la fanno progredire grazie anche ad un cast centrato.Ambra Angiolini per le vecchie formule cinepanettoniane sarebbe stata la bellona. Quì invece è provocante per gioco e per ruolo ma ha uno spazio narrativo sua nella storia, non è mai secondaria.
Ottime anche le due spalle comiche Paola Minaccioni e Paolo Calabresi che gioca di nuovo sulle note del grezzo modello "Biascica", il suo personaggio dalla serie Boris. Un Natale stupefacente sorpende per il ritmo e per una bella idea di storia, un percorso irriverente e la voglia di essere buoni e per tutti.I difetti sono i soliti dei cinepanettoni ovvero una messinscena al minimo sindacale e un lavoro fotografico piatto, dall'altro lato però ci sono dei pregi evidenti come il tentativo riuscito di una commedia carina, lenta un po', sì, ma comunque con un'idea, e con dei protagonisti che la tengono sempre in piedi. Insomma sembra essere un nuovo percorso per rinfrescare il genere della commedia natalizia-Un Natale Stupefacente merita di essere visto.
THE WAY - Macy Gray
di Valeria Piras
Nuovo disco per Macy Gray.Un'esplosione di vitalità.
Ben quindici anni fa esordiva Macy Gray,una strana ragazza di Canton, Ohio, con la voce atomica e bellissima che si era sempre sentita un clown.In pochi mesi conquistò il mondo con un timbro graffiante e strozzato, perfetto per i testi esistenziali e romantici delle sue canzoni.Da allora si sono susseguiti milioni di dischi venduti (On How Life Is, The Id), esperienze al cinema (Training Days, Shadowboxer, The Paperboy) e anche nella moda.Ma anche depressione, improvvisi smarrimenti personali e professionali, e l'amore grande per la musica jazz grazie all'amicizia con David Murray. Come tutti ha imparato dai suoi errori ed è riuscita a rialzarsi sempre e a costruirsi il suo castello dove vivere e sentirsi regina.Questa nuova serenità si nota nel suo nuovo album di inediti dal titolo The Way dove Macy torna alle origini,con più consapevolezza ma senza guardare al passato.
The Way è indubbiamente un disco per adulti, per persone che hanno vissuto e la sanno lunga sull'amore, sul suo alzarsi e abbassarsi come le maree, sulle presenze e le assenze, su passioni e legami.Un disco che parla di anime che, nonostante tutto, hanno ancora un'incredibile sete di vita, di contatto, di esperienza. Proprio come Macy, madre single di tre figli adolescenti, che sa che le crisi esistenziali sono sempre dietro la porta ma che combatte senza sedersi sul divano a piangere. Il viaggio verso la felicità per lei non è ancora concluso e, ora che ha raggiunto la consapevolezza e soprattutto la maturità interiore che dà luce e benessere le sembra addirittura più semplice arrivare alla mèta.
E allora, il suo nuovo album è irriverente e ammiccante, con spruzzate di puro R'n'B su cui avanza come un rullo compressore, tra le nebbie delle percussioni - acustiche di splendidi pezzi come Stoned; l'esplosione letterale di Bang Bang, un trionfo di suoni nuovi e distorsioni che stringono in un solo abbraccio disco music, hip-hop, funk e rock; ci sono riff scoppiettanti e melodie appiccicose come in Hands; il raffreddamento elettronico misuratamente patinato di I Miss The Sex; i sinuosi singhiozzi jazz della title track; il soul ipnotico di Queen Of The Big Hurt. La sua voce è sempre vivace, energica ed elegante, invita a spogliarsi e correre in strada con lei, ad avvolgersi in vestiti ricchi di colori e luccicanti e lasciarsi andare. Insomma Macy ci travolge con la sua grande voglia di vita,ce lo canta in modo bellissimo,ce lo urla se serve.Grazie Macy,questo disco è un piccolo capolavoro.
Ben quindici anni fa esordiva Macy Gray,una strana ragazza di Canton, Ohio, con la voce atomica e bellissima che si era sempre sentita un clown.In pochi mesi conquistò il mondo con un timbro graffiante e strozzato, perfetto per i testi esistenziali e romantici delle sue canzoni.Da allora si sono susseguiti milioni di dischi venduti (On How Life Is, The Id), esperienze al cinema (Training Days, Shadowboxer, The Paperboy) e anche nella moda.Ma anche depressione, improvvisi smarrimenti personali e professionali, e l'amore grande per la musica jazz grazie all'amicizia con David Murray. Come tutti ha imparato dai suoi errori ed è riuscita a rialzarsi sempre e a costruirsi il suo castello dove vivere e sentirsi regina.Questa nuova serenità si nota nel suo nuovo album di inediti dal titolo The Way dove Macy torna alle origini,con più consapevolezza ma senza guardare al passato.
The Way è indubbiamente un disco per adulti, per persone che hanno vissuto e la sanno lunga sull'amore, sul suo alzarsi e abbassarsi come le maree, sulle presenze e le assenze, su passioni e legami.Un disco che parla di anime che, nonostante tutto, hanno ancora un'incredibile sete di vita, di contatto, di esperienza. Proprio come Macy, madre single di tre figli adolescenti, che sa che le crisi esistenziali sono sempre dietro la porta ma che combatte senza sedersi sul divano a piangere. Il viaggio verso la felicità per lei non è ancora concluso e, ora che ha raggiunto la consapevolezza e soprattutto la maturità interiore che dà luce e benessere le sembra addirittura più semplice arrivare alla mèta.
E allora, il suo nuovo album è irriverente e ammiccante, con spruzzate di puro R'n'B su cui avanza come un rullo compressore, tra le nebbie delle percussioni - acustiche di splendidi pezzi come Stoned; l'esplosione letterale di Bang Bang, un trionfo di suoni nuovi e distorsioni che stringono in un solo abbraccio disco music, hip-hop, funk e rock; ci sono riff scoppiettanti e melodie appiccicose come in Hands; il raffreddamento elettronico misuratamente patinato di I Miss The Sex; i sinuosi singhiozzi jazz della title track; il soul ipnotico di Queen Of The Big Hurt. La sua voce è sempre vivace, energica ed elegante, invita a spogliarsi e correre in strada con lei, ad avvolgersi in vestiti ricchi di colori e luccicanti e lasciarsi andare. Insomma Macy ci travolge con la sua grande voglia di vita,ce lo canta in modo bellissimo,ce lo urla se serve.Grazie Macy,questo disco è un piccolo capolavoro.
OGNI MALEDETTO NATALE
di Valeria Piras
Una commedia per un Natale davvero diverso.
Ogni maledetto Natale è una commedia natalizia particolarissima dove gli sceneggiatori hanno dato sfogo alle loro smanie creative e surreali.Nel film i vari personaggi non vanno da nessuna parte ma a differenza delle altre commedie, le situazioni fanno ridere parecchio e gli attori brillano il doppio grazie alla geniale idea dei doppi ruoli. Alessandro Cattelan e Alessandra Mastronardi si incontrano, si innamorano e decidono di passare il Natale insieme alla famiglia di lei. In meno di dieci minuti la premessa è esaurita, il che è un bene. L’inizio veloce permette di entrare immediatamente nel primo dei due gironi parentali. La famiglia Colardo vive nei boschi del viterbese, in un casale isolato. Sono rozzi e cafoni e lo spaesamento di Cattelan con la sua prima prova cinematografica (rispetto all’impeccabile professionalità che esibisce quando conduce X- Factor) ci sta a fagiolo. Alcuni attori sono irresistibili: Valerio Mastandrea (con parrucca e sguardo Neanderthal), Corrado Guzzanti (trasformato in un inedito inetto uomo di provincia), Andrea Sartoretti che sembra uscito da Un tranquillo weekend di paura) e Laura Morante quasi irriconoscibile che riesce a dare eleganza e personalità anche a questa primitiva donna di casa.
Tra una partita a carte, una caccia al cinghiale in notturna e un goccio di grappa allucinogena, il giovane ospite finisce per dire la cosa sbagliata al momento sbagliato ed è invitato ad andarsene. Prima del secondo girone parentale, il suo, Cattelan si ferma alle luci dell’alba in un bar lungo la strada e si fa rubare la macchina. Questa scena rimane mozza forse a causa di successive sequenze tagliate, perché di quel furto non si parla più (la macchina era della Mastronardi).La famiglia di lui, i Marinelli Lops, sono miliardari, proprietari di aziende che muovono il mercato e proprioome ci si aspetterebbe, sono cinici e avidi. Uno dei loro numerosi filippini compie il gesto estremo e gettandosi dalla finestra della villa.
La tragedia tiene in scacco l’intera famiglia che non sa se deve annullare il pranzo di Natale oppure no. Solo alcuni ruoli sono speculari rispetto ai Colardo (Francesco Pannofino è sempre il patriarca, così come Mastandrea e Caterina Guzzanti sono i figli) e la distribuzione della parti è diversa: emerge la Morante, Cattelan e Mastronardi indietreggiano, ma soprattutto è Corrado Guzzanti a scavare il maggiore solco nella memoria dello spettatore con l’interpretazione dell'irresistibile filippino a capo della servitù.I tre registi/autori Luca Vendruscolo, Mattia Torre e Giacomo Ciarrapico hanno il pregio di portare al cinema un’ironia diversa, alla quale anche il gruppo di attori con cui lavorano abitualmente è affezionato. Sebbene anche il loro film in fin dei conti si riduca a una cena e a un pranzo di Natale in famiglia, nelle situazioni create quegli attori si muovono con grande agio regalando molto del loro repertorio brillante. Ogni maledetto Natale, come fu per Boris con le fiction, irride le commedie natalizie e francamente non sarebbe male se potesse dare origine a una serie TV con le famiglie Colardo e Marinelli viste al di fuori delle festività.
Ogni maledetto Natale è una commedia natalizia particolarissima dove gli sceneggiatori hanno dato sfogo alle loro smanie creative e surreali.Nel film i vari personaggi non vanno da nessuna parte ma a differenza delle altre commedie, le situazioni fanno ridere parecchio e gli attori brillano il doppio grazie alla geniale idea dei doppi ruoli. Alessandro Cattelan e Alessandra Mastronardi si incontrano, si innamorano e decidono di passare il Natale insieme alla famiglia di lei. In meno di dieci minuti la premessa è esaurita, il che è un bene. L’inizio veloce permette di entrare immediatamente nel primo dei due gironi parentali. La famiglia Colardo vive nei boschi del viterbese, in un casale isolato. Sono rozzi e cafoni e lo spaesamento di Cattelan con la sua prima prova cinematografica (rispetto all’impeccabile professionalità che esibisce quando conduce X- Factor) ci sta a fagiolo. Alcuni attori sono irresistibili: Valerio Mastandrea (con parrucca e sguardo Neanderthal), Corrado Guzzanti (trasformato in un inedito inetto uomo di provincia), Andrea Sartoretti che sembra uscito da Un tranquillo weekend di paura) e Laura Morante quasi irriconoscibile che riesce a dare eleganza e personalità anche a questa primitiva donna di casa.
Tra una partita a carte, una caccia al cinghiale in notturna e un goccio di grappa allucinogena, il giovane ospite finisce per dire la cosa sbagliata al momento sbagliato ed è invitato ad andarsene. Prima del secondo girone parentale, il suo, Cattelan si ferma alle luci dell’alba in un bar lungo la strada e si fa rubare la macchina. Questa scena rimane mozza forse a causa di successive sequenze tagliate, perché di quel furto non si parla più (la macchina era della Mastronardi).La famiglia di lui, i Marinelli Lops, sono miliardari, proprietari di aziende che muovono il mercato e proprioome ci si aspetterebbe, sono cinici e avidi. Uno dei loro numerosi filippini compie il gesto estremo e gettandosi dalla finestra della villa.
La tragedia tiene in scacco l’intera famiglia che non sa se deve annullare il pranzo di Natale oppure no. Solo alcuni ruoli sono speculari rispetto ai Colardo (Francesco Pannofino è sempre il patriarca, così come Mastandrea e Caterina Guzzanti sono i figli) e la distribuzione della parti è diversa: emerge la Morante, Cattelan e Mastronardi indietreggiano, ma soprattutto è Corrado Guzzanti a scavare il maggiore solco nella memoria dello spettatore con l’interpretazione dell'irresistibile filippino a capo della servitù.I tre registi/autori Luca Vendruscolo, Mattia Torre e Giacomo Ciarrapico hanno il pregio di portare al cinema un’ironia diversa, alla quale anche il gruppo di attori con cui lavorano abitualmente è affezionato. Sebbene anche il loro film in fin dei conti si riduca a una cena e a un pranzo di Natale in famiglia, nelle situazioni create quegli attori si muovono con grande agio regalando molto del loro repertorio brillante. Ogni maledetto Natale, come fu per Boris con le fiction, irride le commedie natalizie e francamente non sarebbe male se potesse dare origine a una serie TV con le famiglie Colardo e Marinelli viste al di fuori delle festività.
ANIMAL AMBITION - 50 Cent
di Valeria Piras
Ritorno per 50 Cent tra auto celebrazione e poche novità.
50 Cent ce l'ha fatta e dopo due anni di travaglio dà alla luce Animal Ambition il suo nuovo album di inediti. The Funeral è stata la prima traccia ascoltata e probabilmente è proprio la migliore,grazie anche all'apporto di Jake One che dona al pezzo un'aria cupa e profonda. il problema è che nei mesi precedenti alla pubblicazione del disco sono stati lanciati in radio ben otto singoli che hanno smorzato la sorpresa sugli inediti dell'album.Il numero di brani inediti è quindi sceso a soli due (quattro se prendiamo in considerazione l’edizione deluxe). Forse una scelta strategica non azzeccatissima.Tornando all’album vero e proprio, Animal Ambition musicalmente sembra voler seguire il sentiero tracciato a suo tempo da Before I Self Destruct, provando a compiere quei passi in avanti necessari e legati anche allo scorrere del tempo. Alla fine la missione è realizzata solo in parte da 50 Cent poichè il disco rimane troppo dominato da un vento anacronistico e auto celebrativo.
Prendiamo la canzone Smoke,con Trey Songz prodotto dalla premiata ditta Dre / Batson. Una traccia del genere, sei o sette anni fa, avrebbe letteralmente trascinato in pista la gente per mesi interi.Oggi invece una traccia così ha una data di scadenza e rischia di essere dimenticata dopo poche settimane.Lo stesso discorso, a suo modo, si può applicare a brani come Irregular Heartbeat o Chase The Paper, che di per sé non sono brutti, ma sono nel tipico ed immutato stile del gangsta rap che forse ha dato il suo meglio. Non si può quindi parlare propriamente di bassa qualità, quanto piuttosto di stagnante qualità.50 Cent insomma rimane uguale a prima, ancora intrappolato nel suo personaggio. Le uniche differenze stanno nel fatto che ormai è prossimo ai quarant’anni e i temi trattati sono in parte più maturi e riflessivi ed inoltre ha deciso di allontanare i cattivi amici,molti dei quali già allontanati negli anni con scontri e liti anche fisiche.
In conclusione possiamo dire che Animal Ambition di 50 Cent è un disco per gli amanti del genere hip hop, un proseguo sulla strada del gangsta rap che non vuole abdicare al trascorrere degli anni.I fan di Curtis Jackson lo ameranno per le auto-celebrazioni,chi invece cerca un vento nuovo sulla via dll'hip hop devi scegliere altro. Senza dubbio un' occasione mancata per Fifty.
50 Cent ce l'ha fatta e dopo due anni di travaglio dà alla luce Animal Ambition il suo nuovo album di inediti. The Funeral è stata la prima traccia ascoltata e probabilmente è proprio la migliore,grazie anche all'apporto di Jake One che dona al pezzo un'aria cupa e profonda. il problema è che nei mesi precedenti alla pubblicazione del disco sono stati lanciati in radio ben otto singoli che hanno smorzato la sorpresa sugli inediti dell'album.Il numero di brani inediti è quindi sceso a soli due (quattro se prendiamo in considerazione l’edizione deluxe). Forse una scelta strategica non azzeccatissima.Tornando all’album vero e proprio, Animal Ambition musicalmente sembra voler seguire il sentiero tracciato a suo tempo da Before I Self Destruct, provando a compiere quei passi in avanti necessari e legati anche allo scorrere del tempo. Alla fine la missione è realizzata solo in parte da 50 Cent poichè il disco rimane troppo dominato da un vento anacronistico e auto celebrativo.
Prendiamo la canzone Smoke,con Trey Songz prodotto dalla premiata ditta Dre / Batson. Una traccia del genere, sei o sette anni fa, avrebbe letteralmente trascinato in pista la gente per mesi interi.Oggi invece una traccia così ha una data di scadenza e rischia di essere dimenticata dopo poche settimane.Lo stesso discorso, a suo modo, si può applicare a brani come Irregular Heartbeat o Chase The Paper, che di per sé non sono brutti, ma sono nel tipico ed immutato stile del gangsta rap che forse ha dato il suo meglio. Non si può quindi parlare propriamente di bassa qualità, quanto piuttosto di stagnante qualità.50 Cent insomma rimane uguale a prima, ancora intrappolato nel suo personaggio. Le uniche differenze stanno nel fatto che ormai è prossimo ai quarant’anni e i temi trattati sono in parte più maturi e riflessivi ed inoltre ha deciso di allontanare i cattivi amici,molti dei quali già allontanati negli anni con scontri e liti anche fisiche.
In conclusione possiamo dire che Animal Ambition di 50 Cent è un disco per gli amanti del genere hip hop, un proseguo sulla strada del gangsta rap che non vuole abdicare al trascorrere degli anni.I fan di Curtis Jackson lo ameranno per le auto-celebrazioni,chi invece cerca un vento nuovo sulla via dll'hip hop devi scegliere altro. Senza dubbio un' occasione mancata per Fifty.
LA SCUOLA PIU' BELLA DEL MONDO
di Valeria Piras
Tornano le divertenti differenze tra nord e sud.Questa volta a scuola.
La nuovissima commedia di Luca Miniero, non vuole essere un'ennesima replica del clichè nord-sud come il precedente dittico Benvenuti al Sud / Benvenuti al Nord, che il regista aveva dedicato alle differenze tra le realtà territoriali italiane. Lo schema dei precedenti film viene in parte riproposto ma con temi e ricalibrazioni nuove, spostando tutto sul piano di una realtà come quella scolastica.Rimangono le particolarità in senso locale dei personaggi, gli inevitabili luoghi comuni (la mania del caffè del protagonista, la sua affermazione che "il nord comincia da sopra Mondragone").Il fine della commedia sembra evidente ovvero rappresentare lo specchio di tic, stereotipi e idiosincrasie del mondo adulto, propagato dall'istituzione scolastica, sulla società davanti ai loro piccoli allievi; allievi che comunque sembrano spesso più adulti delle loro età.
Si tratta di una specie di esperimento di analisi antropologica, in forma di commedia, che spesso al film è stato compiuto ma che viene quindi riportato in un contesto come quello scolastico.Il film mette in luce peculiarità e problemi, a nord come a sud, e mette in scena un doppio confronto (generazionale e territoriale) da risolvere con gli strumenti dello scambio e della reciproca "formazione".Venendo alla commedia da un primo sguardo sommario all'intreccio e ai suoi personaggi, si riesce a capire che La scuola più bella del mondo forse manca del quid dei predecessori. Se infatti questi ultimi, pur nella semplicità delle loro premesse, possedevano una certa solidità nell'idea originale di partenza (comunque mutuata dalla commedia francese Giù al Nord) qui le fondamenta sembrano esili e pretestuose. L'allegoria del regista difetta di originalità e unita all'errore del poco uso della tecnologia, seguito dalle banali situazioni da commedia degli equivoci rendono il film strutturalmente debolissimo.
Sembrano esserci difetti di concept, ma il film di Miniero funziona almeno in parte come una pura e divertente commedia, almeno laddove si affida alla simpatia e all'efficacia dei suoi due interpreti principali (oltre a loro, da segnalare anche un bravo e carismatico Lello Arena). De Sica cerca, almeno in parte, di svecchiare un repertorio ormai sclerotizzatosi, pur senza tagliare con esso completamente i ponti (le sue "facce", e qualche gag, tengono vivo il passato); Papaleo è un evidente talento comico naturale, in grado di sopperire anche ai limiti di una scrittura del personaggio abbastanza superficiale. I tempi comici ci sono, il rapporto scenico tra i due funziona a sufficienza; meno, invece, le rispettive storie d'amore, coi personaggi di Angela Finocchiaro e Miriam Leone che appaiono davvero fuori ruolo nei loro personaggi superficiali.Un lavoro insomma fatto solo a metà da Miniero.
La nuovissima commedia di Luca Miniero, non vuole essere un'ennesima replica del clichè nord-sud come il precedente dittico Benvenuti al Sud / Benvenuti al Nord, che il regista aveva dedicato alle differenze tra le realtà territoriali italiane. Lo schema dei precedenti film viene in parte riproposto ma con temi e ricalibrazioni nuove, spostando tutto sul piano di una realtà come quella scolastica.Rimangono le particolarità in senso locale dei personaggi, gli inevitabili luoghi comuni (la mania del caffè del protagonista, la sua affermazione che "il nord comincia da sopra Mondragone").Il fine della commedia sembra evidente ovvero rappresentare lo specchio di tic, stereotipi e idiosincrasie del mondo adulto, propagato dall'istituzione scolastica, sulla società davanti ai loro piccoli allievi; allievi che comunque sembrano spesso più adulti delle loro età.
Si tratta di una specie di esperimento di analisi antropologica, in forma di commedia, che spesso al film è stato compiuto ma che viene quindi riportato in un contesto come quello scolastico.Il film mette in luce peculiarità e problemi, a nord come a sud, e mette in scena un doppio confronto (generazionale e territoriale) da risolvere con gli strumenti dello scambio e della reciproca "formazione".Venendo alla commedia da un primo sguardo sommario all'intreccio e ai suoi personaggi, si riesce a capire che La scuola più bella del mondo forse manca del quid dei predecessori. Se infatti questi ultimi, pur nella semplicità delle loro premesse, possedevano una certa solidità nell'idea originale di partenza (comunque mutuata dalla commedia francese Giù al Nord) qui le fondamenta sembrano esili e pretestuose. L'allegoria del regista difetta di originalità e unita all'errore del poco uso della tecnologia, seguito dalle banali situazioni da commedia degli equivoci rendono il film strutturalmente debolissimo.
Sembrano esserci difetti di concept, ma il film di Miniero funziona almeno in parte come una pura e divertente commedia, almeno laddove si affida alla simpatia e all'efficacia dei suoi due interpreti principali (oltre a loro, da segnalare anche un bravo e carismatico Lello Arena). De Sica cerca, almeno in parte, di svecchiare un repertorio ormai sclerotizzatosi, pur senza tagliare con esso completamente i ponti (le sue "facce", e qualche gag, tengono vivo il passato); Papaleo è un evidente talento comico naturale, in grado di sopperire anche ai limiti di una scrittura del personaggio abbastanza superficiale. I tempi comici ci sono, il rapporto scenico tra i due funziona a sufficienza; meno, invece, le rispettive storie d'amore, coi personaggi di Angela Finocchiaro e Miriam Leone che appaiono davvero fuori ruolo nei loro personaggi superficiali.Un lavoro insomma fatto solo a metà da Miniero.
INTERSTELLAR
di Valeria Piras
Ecco il nuovo film di Nolan.Una vera esperienza visiva.
Il nuovo film di Cristopher Nolan è un piccolo capolavoro del genere,un film futuristico ma con una trama antica,il rapporto padre-figlia.Il nostro mondo sta morendo. L’uomo ha offeso per secoli la natura, e negli ultimi decenni è riuscito a dargli il colpo di grazia definitivo. La vera emergenza però non è il disastro naturale e la fine delle risorse ma la mancanza di cibo. L’umanità è condannata perché non riesce più a coltivare i campi, e non è più riuscita a creare il sostentamento minimo per miliardi di persone.Questo è l'ambiente di Interstellar, che ci descrive un mondo futuro (ma non troppo) dove i sopravvissuti non vivono nelle grandi città, ma sono tornati a fare i contadini nelle zone rurali, continuamente colpite da terribili tempeste di polvere e sabbia. Non ci sono più Stati ed eserciti, a scuola si studia agricoltura intensiva, al college vanno solo piccole elites. Tutti devono essere concentrati e focalizzare le proprie energie su un unico obiettivo: far sopravvivere la razza umana.
Anche Cooper, ex-pilota della NASA, ha abbandonato i suoi sogni e si è dedicato all’agricoltura insieme ai due figli e al suocero. Ma il suo destino gli riserverà una grande sorpresa che lo mette davanti ad una scelta tra le più ardue: decidere di lasciare la sua famiglia per dare una possibilità alla nostra specie. Grazie al viaggio interstellare, sfruttando i wormhole (le curvature dello spazio-tempo) è infatti possibile andare a cercare pianeti abitabili in altre galassie, per trovare una nuova casa per la nostra specie. Sarà solo l’inizio di un incredibile avventura.Il film di Nolan gode di un cast eccellente, ci sono infatti M.McConaughey,Anne Hathaway,J.Chastain ed uno splendido M.Caine,effetti visivi spettacolari (invisibili i loro confini) e se possibile ancor più integrati al fine della storia e mai gratuiti. Uno dei pregi di Interstellar, oltre alle numerose sorprese nascoste nel film in ogni istante è il fatto di essere spettacolari ma senza mai avere il senso dell’artefatto: saremo avvolti da grande stupore di fronte agli eventi cosmici che appaiono reali e tangibili, proprio perché il tutto è stato creato con estremo realismo e rispetto delle leggi della fisica.
La storia del film rimane semplice, non aspettiamoci elevati livelli di intreccio alla Inception, ma la trama resta sempre appassionante anche quando il ritmo rallenta, e non a caso le due ore e quarantacinque di film volano in un lampo.Interstellar rappresenta una vera e propria esperienza cinematografica da vivere intensamente, che conquista gli occhi ma lascia anche alcune riflessioni nella mente quando si riaccendono le luci.
Il nuovo film di Cristopher Nolan è un piccolo capolavoro del genere,un film futuristico ma con una trama antica,il rapporto padre-figlia.Il nostro mondo sta morendo. L’uomo ha offeso per secoli la natura, e negli ultimi decenni è riuscito a dargli il colpo di grazia definitivo. La vera emergenza però non è il disastro naturale e la fine delle risorse ma la mancanza di cibo. L’umanità è condannata perché non riesce più a coltivare i campi, e non è più riuscita a creare il sostentamento minimo per miliardi di persone.Questo è l'ambiente di Interstellar, che ci descrive un mondo futuro (ma non troppo) dove i sopravvissuti non vivono nelle grandi città, ma sono tornati a fare i contadini nelle zone rurali, continuamente colpite da terribili tempeste di polvere e sabbia. Non ci sono più Stati ed eserciti, a scuola si studia agricoltura intensiva, al college vanno solo piccole elites. Tutti devono essere concentrati e focalizzare le proprie energie su un unico obiettivo: far sopravvivere la razza umana.
Anche Cooper, ex-pilota della NASA, ha abbandonato i suoi sogni e si è dedicato all’agricoltura insieme ai due figli e al suocero. Ma il suo destino gli riserverà una grande sorpresa che lo mette davanti ad una scelta tra le più ardue: decidere di lasciare la sua famiglia per dare una possibilità alla nostra specie. Grazie al viaggio interstellare, sfruttando i wormhole (le curvature dello spazio-tempo) è infatti possibile andare a cercare pianeti abitabili in altre galassie, per trovare una nuova casa per la nostra specie. Sarà solo l’inizio di un incredibile avventura.Il film di Nolan gode di un cast eccellente, ci sono infatti M.McConaughey,Anne Hathaway,J.Chastain ed uno splendido M.Caine,effetti visivi spettacolari (invisibili i loro confini) e se possibile ancor più integrati al fine della storia e mai gratuiti. Uno dei pregi di Interstellar, oltre alle numerose sorprese nascoste nel film in ogni istante è il fatto di essere spettacolari ma senza mai avere il senso dell’artefatto: saremo avvolti da grande stupore di fronte agli eventi cosmici che appaiono reali e tangibili, proprio perché il tutto è stato creato con estremo realismo e rispetto delle leggi della fisica.
La storia del film rimane semplice, non aspettiamoci elevati livelli di intreccio alla Inception, ma la trama resta sempre appassionante anche quando il ritmo rallenta, e non a caso le due ore e quarantacinque di film volano in un lampo.Interstellar rappresenta una vera e propria esperienza cinematografica da vivere intensamente, che conquista gli occhi ma lascia anche alcune riflessioni nella mente quando si riaccendono le luci.
LA SPIA
di Valeria Piras
Uno splendido thriller opera ultima di un grande attore.
Dopo l'avvincente film La talpa, adesso un nuovo romanzo di John le Carré viene reso al cinema nella sua bellezza,si tratta di La spia - A Most Wanted Man. E' senz'altro una notevole operazione mediatica collegata anche alla recente tragica scomparsa dell'attore protagonista,il bravo P.S.Hoffman. La produzione ha pensato bene di affidare il compito al regista Anton Corbijn, uno il cui ultimo lavoro The American non aveva certamente brillato.Il film è molto fedele al romanzo ed è dotato quindi di una forte eleganza intrinseca pressoché indipendente dalle vicende. La storia parla di Günther Bachmann (ottimo Philip Seymour Hoffman), agente dell’intelligence tedesca, alle prese con un affare di terrorismo locale ma su scala internazionale. Un noto filantropo che risiede in zona, tale Dr. Abdullah (Homayoun Ershadi), pare sia invischiato nel supporto di alcune frange di terroristi, e che dunque sotto le sue imprese umanitarie si celino traffici tutt’alto che chiari.
L’escalation ha inizio quando un neo-convertito all’Islam di origini cecene, Issa Karpov (Grigoriy Dobrygin), entra illegalmente ad Amburgo, per una trama che nel suo dipanarsi vede coinvolti anche un avvocato donna (Rachel McAdams) nonché attivista, un membro dei servizi segreti americani (Robin Wright) e per finire un banchiere (Willem Dafoe). Il film possiede un forte ritmo costante, senza divagazioni o esasperazioni, né di tono né d’intensità, i vari cambiamenti avvengono con distacco che però non è mai troppo analitico. In questo emerge con maggior chiarezza la fonte, laddove un romanzo si dice riesca meglio di un’opera plastica a descrivere le ansie e i conflitti di ciascun personaggio, sui quali Corbijn riesce stavolta a soffermarsi il giusto. Molto suggestiva anche la particolare ed algida ambientazione, una Amburgo grigia, nebbiosa e quindi molto misteriosa.
Perché importante era filtrare il disincanto, se non il cinismo, di una storia che si dipana come una partita a scacchi; ed in questo fa buon gioco la buona ed azzeccata fotografia, che si serve piuttosto bene di una location così opportuna. In La Spia - A Most Wanted Man, come in molti libri di le Carré, troviamo ingredienti sempre interessanti: politica, complesse dinamiche d’intelligence, continui mescolamenti di menzogna e verità. E come tutto ciò incida sul quotidiano, riversandosi sul vissuto di coloro che sperimentano certi scenari più da marionette che da manovratori. Questo perchè spesso tutto appare dominato da gruppi di potere occulti; perciò il clima opprimente che ci attraversa nel corso del film, frutto di questa visione così tetra di un’esistenza da cui però, pare suggerirci le Carré, ci sono cose che non sono ancora state effettivamente scoperte.Tra queste anche quelle più importanti per l'uomo stesso.
Dopo l'avvincente film La talpa, adesso un nuovo romanzo di John le Carré viene reso al cinema nella sua bellezza,si tratta di La spia - A Most Wanted Man. E' senz'altro una notevole operazione mediatica collegata anche alla recente tragica scomparsa dell'attore protagonista,il bravo P.S.Hoffman. La produzione ha pensato bene di affidare il compito al regista Anton Corbijn, uno il cui ultimo lavoro The American non aveva certamente brillato.Il film è molto fedele al romanzo ed è dotato quindi di una forte eleganza intrinseca pressoché indipendente dalle vicende. La storia parla di Günther Bachmann (ottimo Philip Seymour Hoffman), agente dell’intelligence tedesca, alle prese con un affare di terrorismo locale ma su scala internazionale. Un noto filantropo che risiede in zona, tale Dr. Abdullah (Homayoun Ershadi), pare sia invischiato nel supporto di alcune frange di terroristi, e che dunque sotto le sue imprese umanitarie si celino traffici tutt’alto che chiari.
L’escalation ha inizio quando un neo-convertito all’Islam di origini cecene, Issa Karpov (Grigoriy Dobrygin), entra illegalmente ad Amburgo, per una trama che nel suo dipanarsi vede coinvolti anche un avvocato donna (Rachel McAdams) nonché attivista, un membro dei servizi segreti americani (Robin Wright) e per finire un banchiere (Willem Dafoe). Il film possiede un forte ritmo costante, senza divagazioni o esasperazioni, né di tono né d’intensità, i vari cambiamenti avvengono con distacco che però non è mai troppo analitico. In questo emerge con maggior chiarezza la fonte, laddove un romanzo si dice riesca meglio di un’opera plastica a descrivere le ansie e i conflitti di ciascun personaggio, sui quali Corbijn riesce stavolta a soffermarsi il giusto. Molto suggestiva anche la particolare ed algida ambientazione, una Amburgo grigia, nebbiosa e quindi molto misteriosa.
Perché importante era filtrare il disincanto, se non il cinismo, di una storia che si dipana come una partita a scacchi; ed in questo fa buon gioco la buona ed azzeccata fotografia, che si serve piuttosto bene di una location così opportuna. In La Spia - A Most Wanted Man, come in molti libri di le Carré, troviamo ingredienti sempre interessanti: politica, complesse dinamiche d’intelligence, continui mescolamenti di menzogna e verità. E come tutto ciò incida sul quotidiano, riversandosi sul vissuto di coloro che sperimentano certi scenari più da marionette che da manovratori. Questo perchè spesso tutto appare dominato da gruppi di potere occulti; perciò il clima opprimente che ci attraversa nel corso del film, frutto di questa visione così tetra di un’esistenza da cui però, pare suggerirci le Carré, ci sono cose che non sono ancora state effettivamente scoperte.Tra queste anche quelle più importanti per l'uomo stesso.
SONGS OF INNOCENCE - U2
Bono e soci tornano voltando verso il pop.
Songs of Innocence è il nuovo album di inediti degli U2. Un disco atteso e molto faticato che segue gli ultimi lavori della band non certo indimenticabili."No Line on the Horizon” mancava di un certo spessore, mentre il precedente “How to Dismantle an Atomic Bomb” sembrava avesse contribuito a riportare in auge gli U2. “Songs of Innocence” non è un disco che serve ad un ritorno alle origini, ma piuttosto una specie di spartiacque tra vecchio e nuovo.Grande merito va al produttore Danger Mouse, che dona a quest’album compattezza, linearità e semplicità.
Il disco parte forte con il pezzo “The Miracle (of Joey Ramone): forti vocalizzi in apertura con la chitarra di Joey Ramone ad urlare rabbia.Tutto sommato il pezzo non dispiace. E mentre riflettiamo ecco che nella tracklist di “Songs of Innocence” arriva “California (There is No End to Love)”.Evitiamo inutili paragoni, si tratta comunque di un “pop in stile U2″ in un album che sancisce due tributi al frontman dei Ramones a quello dei Clash, Joe Strummer. Complimenti.Una canzone che merita un secondo ascolto.
Nel nuovo disco gli U2 si allontanano dal rock e si avvicinano ammiccanti al pop moderno tanto che ad un certo punto ci si chiede se siano stati i Coldplay a prendere in prestito il sound dagli U2 o viceversa. Basta ascoltare con un po’ più di attenzione “Song for Someone”, “Iris (Hold Me Close)” e “Volcano”.Tutte canzoni poppeggianti che si avvicinano al sound di Chris Martin.“Songs of Innocence” è un album che sarà (ri)valutato postumo perché, come tutto ciò che riguarda le grandi band, ha bisogno del tempo per essere metabolizzato. Gli U2 restano un simbolo musicale enorme,questo disco non rivoluziona la loro storia ma dà un contributo in più; un applauso poi alla mega operazione di marketing con la Apple,che ha permesso di scaricare dallo store l'album gratuitamente.Rimane grande l’impatto che una band di tale spessore ha suscitato, suscita e susciterà nel pubblico.Tutto cambia nella vita, ma gruppi come gli U2 sono una costante immutabile.Questo non sarà il loro album migliore ma la vita è fatta anche di cose normali e noi ce le godiamo nella loro semplicità musicale.
Songs of Innocence è il nuovo album di inediti degli U2. Un disco atteso e molto faticato che segue gli ultimi lavori della band non certo indimenticabili."No Line on the Horizon” mancava di un certo spessore, mentre il precedente “How to Dismantle an Atomic Bomb” sembrava avesse contribuito a riportare in auge gli U2. “Songs of Innocence” non è un disco che serve ad un ritorno alle origini, ma piuttosto una specie di spartiacque tra vecchio e nuovo.Grande merito va al produttore Danger Mouse, che dona a quest’album compattezza, linearità e semplicità.
Il disco parte forte con il pezzo “The Miracle (of Joey Ramone): forti vocalizzi in apertura con la chitarra di Joey Ramone ad urlare rabbia.Tutto sommato il pezzo non dispiace. E mentre riflettiamo ecco che nella tracklist di “Songs of Innocence” arriva “California (There is No End to Love)”.Evitiamo inutili paragoni, si tratta comunque di un “pop in stile U2″ in un album che sancisce due tributi al frontman dei Ramones a quello dei Clash, Joe Strummer. Complimenti.Una canzone che merita un secondo ascolto.
Nel nuovo disco gli U2 si allontanano dal rock e si avvicinano ammiccanti al pop moderno tanto che ad un certo punto ci si chiede se siano stati i Coldplay a prendere in prestito il sound dagli U2 o viceversa. Basta ascoltare con un po’ più di attenzione “Song for Someone”, “Iris (Hold Me Close)” e “Volcano”.Tutte canzoni poppeggianti che si avvicinano al sound di Chris Martin.“Songs of Innocence” è un album che sarà (ri)valutato postumo perché, come tutto ciò che riguarda le grandi band, ha bisogno del tempo per essere metabolizzato. Gli U2 restano un simbolo musicale enorme,questo disco non rivoluziona la loro storia ma dà un contributo in più; un applauso poi alla mega operazione di marketing con la Apple,che ha permesso di scaricare dallo store l'album gratuitamente.Rimane grande l’impatto che una band di tale spessore ha suscitato, suscita e susciterà nel pubblico.Tutto cambia nella vita, ma gruppi come gli U2 sono una costante immutabile.Questo non sarà il loro album migliore ma la vita è fatta anche di cose normali e noi ce le godiamo nella loro semplicità musicale.
SOAP OPERA
di Valeria Piras
Nuovo film di Genovesi.Garanzia di leggerezza.
Esce nelle sale il nuovissimo film di Alessandro Genovesi dal titolo Soap Opera.Una commedia surreale e brillante.Tutto e ambientato in una città qualunque, in una strada qualunque, e tanta tanta neve. Sembra tutto normale all'esterno del piccolo palazzo all'angolo della strada di un tranquillo quartiere, ma appena si varca la soglia del portone, ecco che la normalità si trasforma in qualcosa di completamente diverso. Non bastavano La peggior settimana della mia vita e Il peggior Natale della mia vita, il milanese Alessandro Genovesi decide di rappresentare in una folle vigilia di Capodanno tutte le angosce di una certa umanità e raccontarla in modo grottesco e comico. Il film nasce da una pièce teatrale scritta anni fa dallo stesso Genovesi e mai portata in scena, Soap opera, scelto per aprire la nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, è una strana creatura. Ci si aspetterebbe una commedia degli equivoci "esilarante", ricca di colpi di scena e battute a raffica, invece la storia sembra voler contraddire la sua natura di opera leggera, per assestarsi in una terra di mezzo,molto interessante.
Questo non significa che il film non faccia sorridere,anzi di situazioni divertenti ne riusciremo a trovare molte anche se è altrettanto vero che vi sono presenze che bloccano le potenzialità della storia, piccoli macigni che in qualche modo ne frenano la naturale verve. L'ambientazione smaccatamente teatrale, ricostruita, fittizia, sarebbe un buon punto di partenza per un film che già dal suo titolo fa appello agli intrecci irreali delle telenovelas, quasi a dimostrare che la vita vera sia più incredibile di qualsiasi sceneggiato televisivo. L'accumulazione delle storie, che toccano tutti i momenti cardine della vita umana, nascita, morte e, ovviamente, amore, sembra quindi il meccanismo più naturale per costruire una trama sopra le righe; senza un vero e proprio centro narrativo, perso tra gli otto punti di vista dei personaggi in campo, il film si sviluppa incerto sulle vicende dei protagonisti, tutte rigorosamente bigger than life, raccontate con un registro indeciso tra pochade e commedia sentimentale.
Gli attori fanno del loro meglio per interpretare con coerenza i rispettivi ruoli. Se Fabio De Luigi è garanzia di successo, visto che riesce ad incarnare sempre in maniera credibile le peregrinazioni morali del suo alter ego, Ale & Franz danno vita ad un rapporto fraternamente sadomasochistico sfruttando al meglio l'affinità conquistata in anni di lavoro in teatro e in televisione. Per le "belle" del gruppo, Cristiana Capotondi, Elisa Sednaoui e Chiara Francini, c'è poca gloria, mentre ci è sembrato fuori ruolo Ricky Memphis, troppo misurato e controllato a dispetto di un personaggio, l'irrequieto Paolo, che sarebbe dovuto esplodere nella sua potenza comica.Un film leggero e divertente che avrebbe potuto essere spassosissimo,ma non lo è.
Esce nelle sale il nuovissimo film di Alessandro Genovesi dal titolo Soap Opera.Una commedia surreale e brillante.Tutto e ambientato in una città qualunque, in una strada qualunque, e tanta tanta neve. Sembra tutto normale all'esterno del piccolo palazzo all'angolo della strada di un tranquillo quartiere, ma appena si varca la soglia del portone, ecco che la normalità si trasforma in qualcosa di completamente diverso. Non bastavano La peggior settimana della mia vita e Il peggior Natale della mia vita, il milanese Alessandro Genovesi decide di rappresentare in una folle vigilia di Capodanno tutte le angosce di una certa umanità e raccontarla in modo grottesco e comico. Il film nasce da una pièce teatrale scritta anni fa dallo stesso Genovesi e mai portata in scena, Soap opera, scelto per aprire la nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, è una strana creatura. Ci si aspetterebbe una commedia degli equivoci "esilarante", ricca di colpi di scena e battute a raffica, invece la storia sembra voler contraddire la sua natura di opera leggera, per assestarsi in una terra di mezzo,molto interessante.
Questo non significa che il film non faccia sorridere,anzi di situazioni divertenti ne riusciremo a trovare molte anche se è altrettanto vero che vi sono presenze che bloccano le potenzialità della storia, piccoli macigni che in qualche modo ne frenano la naturale verve. L'ambientazione smaccatamente teatrale, ricostruita, fittizia, sarebbe un buon punto di partenza per un film che già dal suo titolo fa appello agli intrecci irreali delle telenovelas, quasi a dimostrare che la vita vera sia più incredibile di qualsiasi sceneggiato televisivo. L'accumulazione delle storie, che toccano tutti i momenti cardine della vita umana, nascita, morte e, ovviamente, amore, sembra quindi il meccanismo più naturale per costruire una trama sopra le righe; senza un vero e proprio centro narrativo, perso tra gli otto punti di vista dei personaggi in campo, il film si sviluppa incerto sulle vicende dei protagonisti, tutte rigorosamente bigger than life, raccontate con un registro indeciso tra pochade e commedia sentimentale.
Gli attori fanno del loro meglio per interpretare con coerenza i rispettivi ruoli. Se Fabio De Luigi è garanzia di successo, visto che riesce ad incarnare sempre in maniera credibile le peregrinazioni morali del suo alter ego, Ale & Franz danno vita ad un rapporto fraternamente sadomasochistico sfruttando al meglio l'affinità conquistata in anni di lavoro in teatro e in televisione. Per le "belle" del gruppo, Cristiana Capotondi, Elisa Sednaoui e Chiara Francini, c'è poca gloria, mentre ci è sembrato fuori ruolo Ricky Memphis, troppo misurato e controllato a dispetto di un personaggio, l'irrequieto Paolo, che sarebbe dovuto esplodere nella sua potenza comica.Un film leggero e divertente che avrebbe potuto essere spassosissimo,ma non lo è.
STRUT - Lenny Ktavitz
di Valeria Piras
Torna la sexy icona di Lenny e questa volta è un gran ritorno.
E' dal lontano 1998 quando pubblicò l'album 5 che Lenny Kravitz non spiazza e sorprende.Quel disco fece innamorare tutti grazie a sonorità pop e moderne, levigate, non più analogiche insomma. Una vera novità (solo) per uno come lui, appassionato di modernariato. Fu subito un successo e diversi mesi dopo, grazie al suo singolo più rozzo (“Fly Away”) e alla poco fantasiosa cover di “American Woman”, il disco raggiunse grandi numeri, diventando il suo maggior successo discografico e trasformando per sempre la sua carriera. Da allora il buon Lenny si è impegnato molto cercando di ripetersi si quei livelli rispettando la sua icona di sex symbol e dimostrare di essere ancora, nonostante tutto, un rocker duro e puro.I suoi lavori successivi , (“Lenny” e “Baptims”) non sono stati esaltanti, scadendo spesso nel puro citazionismo senza slanci nè sonori nè creativi.
Il nuovo lavoro uscito in questi giorni si intitola Strut.Con esso Kravitz ci prova di nuovo ad avvicinarsi al suo mitico best-seller.Ed in effetti la patina vintage è decisamente più accentuata stavolta, i due dischi sembrano condividere lo stesso dinamismo sonoro, la stessa luminosità e ariosità melodica. “Strut” è insomma il suo lavoro più divistico di sempre, quello in cui, ormai fuori tempo massimo, non si avverte più la pressione di dimostrare qualcosa se non quella di voler intrattenere e divertire, strizzando l’occhio alle sue fan. Il risultato? Curatissimo, altalenante come sempre ma finalmente meno dispersivo con l’agile funk-rock retrofuturista di “Sex” e della title track a dettare le coordinate di un lavoro che dà il suo meglio nelle sensuali sinuosità di “Frankenstein”, negli umori ottantini e metropolitani di “New York City” (probabilmente una nuova “Mr. Cab Driver” nelle intenzioni) e nel furbo ed efficace singolo di lancio, “The Chamber”, delle vistose influenze disco-rock alla Blondie.
Sull'argomento difetti forse dobbiamo ripeterci.Sono presenti spesso troppi rimandi, poche idee davvero originali e poche sfumature, un ingombrante senso di grandeur. Eppure nonostante le solite cose negative Lenny è finalmente riuscito a realizzare un lavoro conciso e con un dietro un concept se non altro più definito e meno dispersivo del solito (tiene addirittura fuori dalla tracklist ufficiale due brani dal sound che non avrebbero sfigurato su “Circus”, per la gioia dei primi fan), insomma finalmente dopo anni un bel disco con un’identità precisa, un disco con il profumo sincero di Lenny Kravitz.
E' dal lontano 1998 quando pubblicò l'album 5 che Lenny Kravitz non spiazza e sorprende.Quel disco fece innamorare tutti grazie a sonorità pop e moderne, levigate, non più analogiche insomma. Una vera novità (solo) per uno come lui, appassionato di modernariato. Fu subito un successo e diversi mesi dopo, grazie al suo singolo più rozzo (“Fly Away”) e alla poco fantasiosa cover di “American Woman”, il disco raggiunse grandi numeri, diventando il suo maggior successo discografico e trasformando per sempre la sua carriera. Da allora il buon Lenny si è impegnato molto cercando di ripetersi si quei livelli rispettando la sua icona di sex symbol e dimostrare di essere ancora, nonostante tutto, un rocker duro e puro.I suoi lavori successivi , (“Lenny” e “Baptims”) non sono stati esaltanti, scadendo spesso nel puro citazionismo senza slanci nè sonori nè creativi.
Il nuovo lavoro uscito in questi giorni si intitola Strut.Con esso Kravitz ci prova di nuovo ad avvicinarsi al suo mitico best-seller.Ed in effetti la patina vintage è decisamente più accentuata stavolta, i due dischi sembrano condividere lo stesso dinamismo sonoro, la stessa luminosità e ariosità melodica. “Strut” è insomma il suo lavoro più divistico di sempre, quello in cui, ormai fuori tempo massimo, non si avverte più la pressione di dimostrare qualcosa se non quella di voler intrattenere e divertire, strizzando l’occhio alle sue fan. Il risultato? Curatissimo, altalenante come sempre ma finalmente meno dispersivo con l’agile funk-rock retrofuturista di “Sex” e della title track a dettare le coordinate di un lavoro che dà il suo meglio nelle sensuali sinuosità di “Frankenstein”, negli umori ottantini e metropolitani di “New York City” (probabilmente una nuova “Mr. Cab Driver” nelle intenzioni) e nel furbo ed efficace singolo di lancio, “The Chamber”, delle vistose influenze disco-rock alla Blondie.
Sull'argomento difetti forse dobbiamo ripeterci.Sono presenti spesso troppi rimandi, poche idee davvero originali e poche sfumature, un ingombrante senso di grandeur. Eppure nonostante le solite cose negative Lenny è finalmente riuscito a realizzare un lavoro conciso e con un dietro un concept se non altro più definito e meno dispersivo del solito (tiene addirittura fuori dalla tracklist ufficiale due brani dal sound che non avrebbero sfigurato su “Circus”, per la gioia dei primi fan), insomma finalmente dopo anni un bel disco con un’identità precisa, un disco con il profumo sincero di Lenny Kravitz.
P E R E Z
In una Napoli livida,la storia dilaniata di un uomo qualunque.
Arriva nelle sale italiane Perez il secondo lungometraggio di Edoardo De Angelis (Mozzarella Stories), presentato alla 71.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.Una storia cruda sugli ambienti cinici e freddi di una Napoli priva di sole e calore, in cui si muovono personaggi asettici, algidi, in un palcoscenico spettrale, notturno, in cui va in scena la tragedia di un uomo "medio".La storia parla di Demetrio Perez un avvocato d'ufficio che non ha il fascino dei principi del Foro, le sue arringhe non sono fluviali, si limita ad annuire e a passare le carte, difendendo i casi senza speranza. L'incontro con un noto criminale del luogo, capo del clan Buglione, che lo ha scelto come difensore, dopo aver deciso di diventare un collaboratore di giustizia, fa deflagrare il suo mondo grigio. Importante dire che dopo il successo di Gomorra - La Serie e aver apprezzato il modo innovativo di raccontare i meccanismi di un certo mondo criminale, attraverso personaggi giganteschi nella loro inquietante malvagità, un film come Perez poteva sembrare un pericoloso tentativo di portare sul grande schermo quelle atmosfere malsane, con le loro logiche sovvertite.
Invece ottimo è stato il lavoro di Edoardo De Angelis,che pur con qualche affanno, è una buona rielaborazione dell'argomento, ha condotto con mano sicura e uno stile pulito ed efficace il film sfruttando al massimo la ricchezza del mezzo cinematografico. Il regista non cade nelle facili trappole del didascalismo attraverso un montaggio quanto mai efficace e dimostra bravura anche nell'uso della pericolosa voce fuori campo, che non racconta quanto vediamo sullo schermo, ma dall'alto della sua onniscienza dà voce ai pensieri del protagonista. Il film è davvero ben diretto e molto interessante, quindi, soprattutto come rilettura del noir, che qui viene declinato con piena adesione ai suoi stilemi, con tanto di colonna sonora malinconica, ma con qualche venatura particolare che ci porta ad uno stile che non si abbandona mai ad una piatta riproposizione degli schemi del genere.
Il protagonista subisce un lungo pedinamento con la macchina da presa, che si sofferma sul suo volto deluso e ferito, reso in maniera misurata da un convincente Luca Zingaretti. Questo antieroe incarna l'ambiguità di un personaggio che muovendosi tra giustizia e criminalità sceglie di stare in uno spazio intermedio, che diventa però ancor più dilaniante. Davvero molto interessante questa rielaborazione del noir, con personaggi mai del tutto limpidi, un film in cui il colpo di scena non è mai quello che ti aspetti, Perez. è un ottimo lavoro, un'opera che pur con qualche difetto,ben narra la crisi morale di un uomo in lotta tra rabbia e rassegnazione.
Arriva nelle sale italiane Perez il secondo lungometraggio di Edoardo De Angelis (Mozzarella Stories), presentato alla 71.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.Una storia cruda sugli ambienti cinici e freddi di una Napoli priva di sole e calore, in cui si muovono personaggi asettici, algidi, in un palcoscenico spettrale, notturno, in cui va in scena la tragedia di un uomo "medio".La storia parla di Demetrio Perez un avvocato d'ufficio che non ha il fascino dei principi del Foro, le sue arringhe non sono fluviali, si limita ad annuire e a passare le carte, difendendo i casi senza speranza. L'incontro con un noto criminale del luogo, capo del clan Buglione, che lo ha scelto come difensore, dopo aver deciso di diventare un collaboratore di giustizia, fa deflagrare il suo mondo grigio. Importante dire che dopo il successo di Gomorra - La Serie e aver apprezzato il modo innovativo di raccontare i meccanismi di un certo mondo criminale, attraverso personaggi giganteschi nella loro inquietante malvagità, un film come Perez poteva sembrare un pericoloso tentativo di portare sul grande schermo quelle atmosfere malsane, con le loro logiche sovvertite.
Invece ottimo è stato il lavoro di Edoardo De Angelis,che pur con qualche affanno, è una buona rielaborazione dell'argomento, ha condotto con mano sicura e uno stile pulito ed efficace il film sfruttando al massimo la ricchezza del mezzo cinematografico. Il regista non cade nelle facili trappole del didascalismo attraverso un montaggio quanto mai efficace e dimostra bravura anche nell'uso della pericolosa voce fuori campo, che non racconta quanto vediamo sullo schermo, ma dall'alto della sua onniscienza dà voce ai pensieri del protagonista. Il film è davvero ben diretto e molto interessante, quindi, soprattutto come rilettura del noir, che qui viene declinato con piena adesione ai suoi stilemi, con tanto di colonna sonora malinconica, ma con qualche venatura particolare che ci porta ad uno stile che non si abbandona mai ad una piatta riproposizione degli schemi del genere.
Il protagonista subisce un lungo pedinamento con la macchina da presa, che si sofferma sul suo volto deluso e ferito, reso in maniera misurata da un convincente Luca Zingaretti. Questo antieroe incarna l'ambiguità di un personaggio che muovendosi tra giustizia e criminalità sceglie di stare in uno spazio intermedio, che diventa però ancor più dilaniante. Davvero molto interessante questa rielaborazione del noir, con personaggi mai del tutto limpidi, un film in cui il colpo di scena non è mai quello che ti aspetti, Perez. è un ottimo lavoro, un'opera che pur con qualche difetto,ben narra la crisi morale di un uomo in lotta tra rabbia e rassegnazione.
UNDER THE SKIN
di Valeria Piras
Uno sguardo glaciale sul nostro mondo alle soglie del baratro.
Dopo ben nove anni di distanza dal suo ultimo film, Birth - io sono Sean, il regista Jonathan Glazer ritorna con un nuovo film che farà discutere.Un'opera particolare non per tutti dal titolo Under the Skin, che al recente festival di Cannes ha anche ricevuto qualche critica piuttosto dura.Allo stesso tempo sembra però essere una visione affascinante e ipnotica, nonché piuttosto originale, per coloro che non sentono la necessità di un intreccio narrativo o di alcun tipo di spiegazione. Il film pur provenendo dal romanzo, Sotto la pelle di Michel Farber, subisce una mutazione e il regista sceglie di creare un'opera astratta,dove la vicenda della misteriosa e bellissima extraterrestre interpretata da Scarlett Johansson rappresenta soltanto un semplice pretesto per raccontare la vita di tutti i giorni ed un'umanità nuova giudicandola in maniera fredda e distaccata.
Nel film non ci sono strane allegorie nè finte critiche sociali o politiche; c'è solo un alieno in un corpo da donna che tipo "mantide", attira con le sue grazie uomini soli per poi imprigionarli in un liquido vischioso.La splendida aliena però si lascia a sua volta sedurre dalle imperfezioni della nostra umanità e del nostro mondo, finendo con il commettere un unico grande errore: quello di credere che bontà e gentilezza siano elementi comuni a tutti gli esseri umani. Glazer è un talentuoso regista,maestro nell'uso della macchina da presa e soprattutto fine selettore di musiche ed effetti sonori, che così come inseriti danno all'intero film un look ed un sound nuovi,mai visti nè sentiti prima.Il merito del regista è saper mirare,con coraggio riuscire a fondere finzione e realtà, attraverso la particolare scelta di far lavorare la sua diva con attori non protagonisti, e spesso inconsapevoli, trasformando così parte del suo film in una gigantesca candid camera d'autore.
In parte tutto ciò è un pregio ma secondo alcuni critici potrebbe rivelarsi anche una sorta di limite del film poichè l'eccesso di naturalezza,lo svuota di significato, di tensione narrativa e di emozioni.Di sicuro non è un caso ma una decisione volontaria dello stesso regista che anche in tale situazione sceglie di rischiare.Probabilmente Glazer è ben consapevole che potendo fare affidamento su un'attrice carismatica e dalla bellezza magnetica quale Scarlett Johansson il suo è un rischio quasi calcolato che potrebbe donare al film quella curiosità particolare necessaria per superare l'ostruzione della critica.Film discusso ma da vedere.
Dopo ben nove anni di distanza dal suo ultimo film, Birth - io sono Sean, il regista Jonathan Glazer ritorna con un nuovo film che farà discutere.Un'opera particolare non per tutti dal titolo Under the Skin, che al recente festival di Cannes ha anche ricevuto qualche critica piuttosto dura.Allo stesso tempo sembra però essere una visione affascinante e ipnotica, nonché piuttosto originale, per coloro che non sentono la necessità di un intreccio narrativo o di alcun tipo di spiegazione. Il film pur provenendo dal romanzo, Sotto la pelle di Michel Farber, subisce una mutazione e il regista sceglie di creare un'opera astratta,dove la vicenda della misteriosa e bellissima extraterrestre interpretata da Scarlett Johansson rappresenta soltanto un semplice pretesto per raccontare la vita di tutti i giorni ed un'umanità nuova giudicandola in maniera fredda e distaccata.
Nel film non ci sono strane allegorie nè finte critiche sociali o politiche; c'è solo un alieno in un corpo da donna che tipo "mantide", attira con le sue grazie uomini soli per poi imprigionarli in un liquido vischioso.La splendida aliena però si lascia a sua volta sedurre dalle imperfezioni della nostra umanità e del nostro mondo, finendo con il commettere un unico grande errore: quello di credere che bontà e gentilezza siano elementi comuni a tutti gli esseri umani. Glazer è un talentuoso regista,maestro nell'uso della macchina da presa e soprattutto fine selettore di musiche ed effetti sonori, che così come inseriti danno all'intero film un look ed un sound nuovi,mai visti nè sentiti prima.Il merito del regista è saper mirare,con coraggio riuscire a fondere finzione e realtà, attraverso la particolare scelta di far lavorare la sua diva con attori non protagonisti, e spesso inconsapevoli, trasformando così parte del suo film in una gigantesca candid camera d'autore.
In parte tutto ciò è un pregio ma secondo alcuni critici potrebbe rivelarsi anche una sorta di limite del film poichè l'eccesso di naturalezza,lo svuota di significato, di tensione narrativa e di emozioni.Di sicuro non è un caso ma una decisione volontaria dello stesso regista che anche in tale situazione sceglie di rischiare.Probabilmente Glazer è ben consapevole che potendo fare affidamento su un'attrice carismatica e dalla bellezza magnetica quale Scarlett Johansson il suo è un rischio quasi calcolato che potrebbe donare al film quella curiosità particolare necessaria per superare l'ostruzione della critica.Film discusso ma da vedere.
A.K.A. - Jennifer Lopez
di Valeria Piras
La pantera è tornata pronta ad essere regina.
Si chiama “A.K.A.” il decimo album della carriera di Jennifer Lopez, su etichetta Capitol Records. Dopo ben 16 anni dal suo esordio musicale con “On the 6”, la sexy star 44enne ha deciso di circondarsi di grandi produttori come French Montana, Rick Ross, TI, Pitbull, Iggy Azalea, Tyga, Sia, Chantal, Kirby, Chris Brown,Max Martin e Savan, Detail, RoccStar, DJ Mustard, Diplo, Harmony, Pop e Oak, oltre al suo storico collaboratore Cory Rooney, e dare vita ad un disco esplosivo,pieno di energia e nuovi spunti nell'intenzione di riconquistare le hit musicali. Dopo circa 70 milioni di dischi venduti nel mondo non era scontato decidere di cambiare il proprio stile e la propria idea di musicalità.Invece Jennifer Lopez sceglie di rischiare, rinnovarsi e dare una nuova immagine di se senza però abbandonare le sue radici del Bronx. Dopo il primo singolo,ed il trascinante e sexy video “First love” Jennifer Lopez dà il suo meglio nelle romantiche ballate, quei brani che, lasciati da parte le agrgessività visive, i synth e gli effetti, emerge chiara la sua vibrante voce latina.
“A.K.A” sembra essere una scatola piena di J.Lo,quella vera ed essenziale, oltre alle 10 tracce della versione tradizionale del disco, sono presenti quattro nell’edizione deluxe.L'artista si mette alla prova in vari generi musicali tra cui l’ Hip Hop, il Pop, la Dance Music e l’ R&B. E' quindi una bella raccolta di canzoni dove Jennifer si dedica a mostrare la sua bravura e la sua capacità nel fare cose differenti che, molto spesso, le riescono anche incredibilmente bene. Il disco parte forte proprio con il pezzo che dà il titolo al disco “A.K.A” feat. T.I: un sound spiccatamente synth che accompagna una serie di vocalizzi, proposti in apertura, fino al raggiungimento della fluidità testuale; un sorta di magia utile anche per superare fallimenti e situazioni negative della vita.“First love” segue la stessa linea d’onda anche se l’arrangiamento è decisamente più orecchiabile, seppur meno innovativo. I testi non sono eccezionali a livello di scrittura ma si nota l'impegno vero,una maggiore profondità di emozioni e nel singolo “I luh ya Papi” featuring French Montana: la sonorità si fa innovativa,un mix perfetto di rap e hip hop che da vita ad un testo sui generis.
Davvero intensa infine è l’interpretazione di “Emotions” anche se forse la traccia più meritevole di lodi è “Let it Be me”: dolci archi disegnano le morbide linee di una vibrazione musicale delicata e sensuale, perfetto per mettere in evidenza una voce calda e sincera pulita e un’anima vogliosa di essere libera. J.Lo è quindi di nuovo sulla scena,pronta a riprendersi il palcoscenico e l'attenzione di tutti non solo per il gossip.Questo disco sarà la sua arma perfetta.
Si chiama “A.K.A.” il decimo album della carriera di Jennifer Lopez, su etichetta Capitol Records. Dopo ben 16 anni dal suo esordio musicale con “On the 6”, la sexy star 44enne ha deciso di circondarsi di grandi produttori come French Montana, Rick Ross, TI, Pitbull, Iggy Azalea, Tyga, Sia, Chantal, Kirby, Chris Brown,Max Martin e Savan, Detail, RoccStar, DJ Mustard, Diplo, Harmony, Pop e Oak, oltre al suo storico collaboratore Cory Rooney, e dare vita ad un disco esplosivo,pieno di energia e nuovi spunti nell'intenzione di riconquistare le hit musicali. Dopo circa 70 milioni di dischi venduti nel mondo non era scontato decidere di cambiare il proprio stile e la propria idea di musicalità.Invece Jennifer Lopez sceglie di rischiare, rinnovarsi e dare una nuova immagine di se senza però abbandonare le sue radici del Bronx. Dopo il primo singolo,ed il trascinante e sexy video “First love” Jennifer Lopez dà il suo meglio nelle romantiche ballate, quei brani che, lasciati da parte le agrgessività visive, i synth e gli effetti, emerge chiara la sua vibrante voce latina.
“A.K.A” sembra essere una scatola piena di J.Lo,quella vera ed essenziale, oltre alle 10 tracce della versione tradizionale del disco, sono presenti quattro nell’edizione deluxe.L'artista si mette alla prova in vari generi musicali tra cui l’ Hip Hop, il Pop, la Dance Music e l’ R&B. E' quindi una bella raccolta di canzoni dove Jennifer si dedica a mostrare la sua bravura e la sua capacità nel fare cose differenti che, molto spesso, le riescono anche incredibilmente bene. Il disco parte forte proprio con il pezzo che dà il titolo al disco “A.K.A” feat. T.I: un sound spiccatamente synth che accompagna una serie di vocalizzi, proposti in apertura, fino al raggiungimento della fluidità testuale; un sorta di magia utile anche per superare fallimenti e situazioni negative della vita.“First love” segue la stessa linea d’onda anche se l’arrangiamento è decisamente più orecchiabile, seppur meno innovativo. I testi non sono eccezionali a livello di scrittura ma si nota l'impegno vero,una maggiore profondità di emozioni e nel singolo “I luh ya Papi” featuring French Montana: la sonorità si fa innovativa,un mix perfetto di rap e hip hop che da vita ad un testo sui generis.
Davvero intensa infine è l’interpretazione di “Emotions” anche se forse la traccia più meritevole di lodi è “Let it Be me”: dolci archi disegnano le morbide linee di una vibrazione musicale delicata e sensuale, perfetto per mettere in evidenza una voce calda e sincera pulita e un’anima vogliosa di essere libera. J.Lo è quindi di nuovo sulla scena,pronta a riprendersi il palcoscenico e l'attenzione di tutti non solo per il gossip.Questo disco sarà la sua arma perfetta.
MAI COSI' VICINI
di Valeria Piras
Una bella commedia fatta con classe ed ironia vera.
Arriva nelle sale estive Mai così vicini, ennesimo esempio di come è possibile fare commedia in modo intelligente e artistico.Il regista John Reiner sa come fare ed infatti è l'uomo che con Nora Ephron ha dato vita al film cult Harry, ti presento Sally che svettava per umorismo e allegria.Questa sua nuova commedia non raggiunge tali livelli di bellezza ma il regista riesce a ben calibrare la sceneggiatura di Mark Andrus, autore di quel gioiello di film che è Qualcosa è cambiato, alle caratteristiche dei suoi attori.Michael Douglas e Diane Keaton sono una coppia perfetta, e ciò ci fa capire come il talento di grandi attori vada sempre sostenuto da un livello alto di script per ottenere risultati davvero degni. Vedere e sentire la Keaton cantare come in Io e Annie e Radio Days è un vero toccasana per ogni forma di depresisone o dolore del cuore.
Vedere Douglas che sfoggia il suo innato carisma e i suoi anni senza nascondere nulla (a differenza ad esempio di quanto successo in Last Vegas) ce lo fa piacere ancora di più e sottolinea una grande auto-ironia che davvero in pochi sospettavano.Certo il suo personaggio non è certo simpaticissimo,è uno di quelli "facili" e può contare sull'indubbio fascino che sprigiona la redenzione del cattivo; ciò non vuol dire che non risulti efficace nel suo percorso di trasformazione, reso possibile da un lungo elenco di "no" che gli ha saputo dire la sua dolce metà. L'amore tra persone anziane è un argomento molto trattato e dibattuto da decenni con risultati non sempre soddisfacenti. In questo caso, il copione rispetta la natura dei due protagonisti, arcigno lui, accogliente lei, e in più ne esaltata la goffaggine adolescenziale, come due ragazzini al primo amore,fatto di ansia e voglia di spensieratezza.
Troppo divertente la scena di seduzione di Douglas che sbaglia qualsiasi mossa di conquista verso la Keaton ma riesce alla fine ad ottenere il suo si agognato.Nonostante il suo carattere burbero alla fine verrà ricambiato da questa bellissima sessantenne,dolce e simpatica.Mai così vicini è un film di gran classe, che grazie ad una regia precisa ed esperta del genere mescola benissimo emozioni e ironia,poi grazie e due grandi attori come la Keaton e Douglas è tutto più semplice e divertente.Non è una commedia formato famiglia, ma un prodotto di qualità che conquisterà e non darà delusione ai tanti fan degli attori protagonisti.
Arriva nelle sale estive Mai così vicini, ennesimo esempio di come è possibile fare commedia in modo intelligente e artistico.Il regista John Reiner sa come fare ed infatti è l'uomo che con Nora Ephron ha dato vita al film cult Harry, ti presento Sally che svettava per umorismo e allegria.Questa sua nuova commedia non raggiunge tali livelli di bellezza ma il regista riesce a ben calibrare la sceneggiatura di Mark Andrus, autore di quel gioiello di film che è Qualcosa è cambiato, alle caratteristiche dei suoi attori.Michael Douglas e Diane Keaton sono una coppia perfetta, e ciò ci fa capire come il talento di grandi attori vada sempre sostenuto da un livello alto di script per ottenere risultati davvero degni. Vedere e sentire la Keaton cantare come in Io e Annie e Radio Days è un vero toccasana per ogni forma di depresisone o dolore del cuore.
Vedere Douglas che sfoggia il suo innato carisma e i suoi anni senza nascondere nulla (a differenza ad esempio di quanto successo in Last Vegas) ce lo fa piacere ancora di più e sottolinea una grande auto-ironia che davvero in pochi sospettavano.Certo il suo personaggio non è certo simpaticissimo,è uno di quelli "facili" e può contare sull'indubbio fascino che sprigiona la redenzione del cattivo; ciò non vuol dire che non risulti efficace nel suo percorso di trasformazione, reso possibile da un lungo elenco di "no" che gli ha saputo dire la sua dolce metà. L'amore tra persone anziane è un argomento molto trattato e dibattuto da decenni con risultati non sempre soddisfacenti. In questo caso, il copione rispetta la natura dei due protagonisti, arcigno lui, accogliente lei, e in più ne esaltata la goffaggine adolescenziale, come due ragazzini al primo amore,fatto di ansia e voglia di spensieratezza.
Troppo divertente la scena di seduzione di Douglas che sbaglia qualsiasi mossa di conquista verso la Keaton ma riesce alla fine ad ottenere il suo si agognato.Nonostante il suo carattere burbero alla fine verrà ricambiato da questa bellissima sessantenne,dolce e simpatica.Mai così vicini è un film di gran classe, che grazie ad una regia precisa ed esperta del genere mescola benissimo emozioni e ironia,poi grazie e due grandi attori come la Keaton e Douglas è tutto più semplice e divertente.Non è una commedia formato famiglia, ma un prodotto di qualità che conquisterà e non darà delusione ai tanti fan degli attori protagonisti.
ULTRAVIOLENCE - Lana del Rey
di Valeria Piras
La bella cantautrice americana torna per stupire ancora.
Adesso o mai più,è giunta l'ora delle conferme per la splendida Lana Del Rey.Il vecchio album “Born To Die” è stato un vero capolavoro musicale o si è trattato di un episodio sporadico e casuale?L'artista americana torna sulle scene con un nuovo lavoro discografico per ribadire e confermare il suo talento musicale.Ultraviolence è il titolo della sua nuovissima opera.
Il precedente disco “Born To Die” è statto un successo clamoroso e Lana è divenuta una sorta di icona glamour e ammirata,musicalmente intensa e classica ha conquistato tutti ecco perchè adesso è attesa al varco dalla critica.Lei,l'artista che ama la Simone e che è ammirata da nomi quali Pink Floyd e Radiohead ce la mette tutta e trova in Dan Auerbach dei Black Keys il collaboratore ideale per esplorare ancora più a fondo l'immaginario "Americano" che ispirò il suo alter-ego. Le icone, i luoghi ("West Coast"), i valori ("Money power glory") sono in modo saggio adoperati e mixati fra loro per ricreare epoche che, per questioni anagrafiche, Lana non può avere vissuto. Ma tutto è fatto in modo impeccabile, scenografie e oggetti di scena: nei suoi testi c'è grande attenzione sempre per personaggi dannati e tormentati che lei interpreta (lasciando ambiguo il confine tra autobiografia e finzione).
Nelle varie canzoni parla della donna vittima di un uomo violento, forse addirittura il capo di una setta ("Ultraviolence"), della ragazza che ama un tossicodipendente ("Shades of cool"), della donna che usa il sesso per arrivare al successo ("Fucked my way up to the top"). E poi arriva l'altro personaggio: dopo tanti ruoli da femme fatale, Lana entra nei panni della moglie chiusa in una casa piena di "giocattoli sparpagliati ovunque" mentre lui la tradisce – e lo fa con l'unica cover della raccolta. "The other woman", resa famosa da Nina Simone, è una delle performance vocali migliori della sua carriera.Lana adesso è fiera e possiede la grande sicurezza dell'artista consapevole e ormai avvezza alle critiche pretestuose e poco oneste; nonostante questa specie di alter-ego ingombrante e patinato,Elizabeth Grant,il vero nome di Lana,è cresciuta,è maturata e in questo disco si è mossa con libertà dimostrando di essere la vera novità pop degli ultimi anni.Forse ma solo forse riuscirà a dimostrare ai suoi detrattori di essere non solo un personaggio ma una cantautrice di purissimo talento,nonostante la sua immagine cool.
Adesso o mai più,è giunta l'ora delle conferme per la splendida Lana Del Rey.Il vecchio album “Born To Die” è stato un vero capolavoro musicale o si è trattato di un episodio sporadico e casuale?L'artista americana torna sulle scene con un nuovo lavoro discografico per ribadire e confermare il suo talento musicale.Ultraviolence è il titolo della sua nuovissima opera.
Il precedente disco “Born To Die” è statto un successo clamoroso e Lana è divenuta una sorta di icona glamour e ammirata,musicalmente intensa e classica ha conquistato tutti ecco perchè adesso è attesa al varco dalla critica.Lei,l'artista che ama la Simone e che è ammirata da nomi quali Pink Floyd e Radiohead ce la mette tutta e trova in Dan Auerbach dei Black Keys il collaboratore ideale per esplorare ancora più a fondo l'immaginario "Americano" che ispirò il suo alter-ego. Le icone, i luoghi ("West Coast"), i valori ("Money power glory") sono in modo saggio adoperati e mixati fra loro per ricreare epoche che, per questioni anagrafiche, Lana non può avere vissuto. Ma tutto è fatto in modo impeccabile, scenografie e oggetti di scena: nei suoi testi c'è grande attenzione sempre per personaggi dannati e tormentati che lei interpreta (lasciando ambiguo il confine tra autobiografia e finzione).
Nelle varie canzoni parla della donna vittima di un uomo violento, forse addirittura il capo di una setta ("Ultraviolence"), della ragazza che ama un tossicodipendente ("Shades of cool"), della donna che usa il sesso per arrivare al successo ("Fucked my way up to the top"). E poi arriva l'altro personaggio: dopo tanti ruoli da femme fatale, Lana entra nei panni della moglie chiusa in una casa piena di "giocattoli sparpagliati ovunque" mentre lui la tradisce – e lo fa con l'unica cover della raccolta. "The other woman", resa famosa da Nina Simone, è una delle performance vocali migliori della sua carriera.Lana adesso è fiera e possiede la grande sicurezza dell'artista consapevole e ormai avvezza alle critiche pretestuose e poco oneste; nonostante questa specie di alter-ego ingombrante e patinato,Elizabeth Grant,il vero nome di Lana,è cresciuta,è maturata e in questo disco si è mossa con libertà dimostrando di essere la vera novità pop degli ultimi anni.Forse ma solo forse riuscirà a dimostrare ai suoi detrattori di essere non solo un personaggio ma una cantautrice di purissimo talento,nonostante la sua immagine cool.
GHOST STORIES - Coldplay
di Valeria Piras
Nuovo album e sonorità minimaliste per la band inglese.
E siamo al sesto album.Sembra strano,sembra pochissimo che sono sulla scena ma i Coldplay sono giunti al loro sesto lavoro in studio.Il titolo molto evocativo è “Ghost stories”. La loro carriera è stata molto densa,ricca di bei dischi e coraggiose scelte musicali,di grandi canzoni e mega-hit (che spesso non coincidono) e anche molti fattori extra-musicali. Sotto alcuni aspetti hanno ben ereditato l'epica degli U2 di Bono, persi nella loro grandeur,un'eredità che può ovviamente stritolare. Sono sempre stati giovani maturi, i Coldplay, erano già "classici" fin dall'inizio.“Ghost stories” arriva all’indomani della separazione definitiva tra Chris Martin e Gwyneth Paltrow, un evento che ha inciso ovviamente sulle canzoni.Molti infatti sono i richiami all'amore e alla felicità che può finire anche all'improvviso.
A partire dal titolo, che fa riferimento ai fantasmi del passato. Volenti o nolenti, la vita privata di Martin è uno degli elementi che hanno dato massima celebrità ai Coldplay.Ma non è tutto qui, e non è questo ciò che rende interessante “Ghost stories”. L’album giunge dopo due anni da “Mylo xyloto” - l’album più pop della band, un disco forse troppo ricco di contrasti musicali. “Ghost stories” si allontana fin proprio dalla copertina, dai colori tenui, notturni (Opera di Mila Fürstová’).“Ghost stories”, in sostanza, è un album minimalista, per quanto minimalisti possono essere i Coldplay. Alla bese c'è una produzione molto più omogenea di “Mylo Xyloto” - opera in gran parte di Paul Epworth. Anzi forse possiamo dire che fra tutti e sei si tratta del disco più omogeneo della produzione recente della band, forse più pure di “Viva la vida”. Tutto ciò lo si intuisce anche dalle prime tracce come “Always in my head”, cori angelici su cui parte un beat e una chitarra appena accennata - e così via fino alla chiusura per piano, voce (ed effetti “ambient”) di “O”.
Scatti di ritmo ci sono eccome,come in “True love” dove c’è pure Timbaland, un produttore che solitamente non si fa notare per minimalismo o per understatement e per fortuna quasi non si sente, se non per un beat che colora la canzone.I Coldplay sono abilissimi a navigare lungo il confine facendo uscite alterne verso il pop e verso l'indie. Saccheggiando ora l’indie-mainstream ora dando una dimensione indie al pop più pop che c’è, minimizzando con chitarre e piano, pieni e vuoti che si riempiono e si svuotano.Insomma sembrano essere diventati dei veri artigiani della canzone e dei suoni, con una simbologia musicale propria e definitiva.Tutto come prevedevamo dall'inizio: “Ghost stories” alla fine, è un ottimo disco. Tipicamente Coldplay ma anche con toni e diversità nuove che non fanno che alimentare il mito musicale della band.
JERSEY BOYS
di Valeria Piras
Il nuovo capolavoro del grande Clint Eastwood.
Torna Clint Eastwood e torna alla grande nonostante gli ottanta passati,arriva con un nuovissimo e rischioso progetto molto diverso dai film precedenti. Ultimo tassello di questo puzzle quarantennale (il primo lungometraggio è del 1971) è Jersey Boys, opera biografica dedicata al cantante Frankie Valli e i Four Seasons, tratta dal musical di Marshall Brickman e Rick Elice. Negli anni '50 in America, mentre l'Europa si stava per innamorare dei Beatles,due ragazzi del New Jersey, Frankie Castelluccio e Tommy DeVito, sognano di fare i cantanti.Frankie è figlio di un'onesta famiglia di origini italiane mentre Tommy è un criminale di mezza tacca,trascorrono le loro giornate tra lavori saltuari e attività clandestine (furto e ricettazione). Grazie al boss musicale Gyp De Carlo, i due mettono su un gruppo che punta sulla potenza vocale di Frankie, che sogna di essere il nuovo Sinatra.
Clint Eastwood dopo aver smesso i panni di attore e mito nei film di Sergio Leone si è costruito una solida carriera registica con un marchio di fabbrica inconfondibile, unione di stile essenziale e racconto classico, soprattutto nei ritratti di musicisti. Un'empatia grande alimentata dalla forte passione del regista per il mondo delle sette note e che lo coinvolge in prima persona come autore di colonne sonore. Se nel lungometraggio di finzione Honkytonk Man, Eastwood si mette in gioco completamente interpretando un antieroe musicista country, nelle biografie musicali la sua passione esplode sincera e si mette al servizio della storia raccontata. Ad esempio il film Bird fu una raffigurazione intensa e commovente della fragilità di un musicista geniale. Jersey Boys è un film diverso,ricchissimo di vitalità in ogni scena, anche nei momenti più malinconici e crepuscolari, ed è la stessa energia che diventa il sostegno principale dello stesso Eastwood. Un artista capace di narrare storie per immagini in modo diretto e magico,rapendo l'attenzione dello spettatore e portandolo dalla sua parte, senza ipocrisie e finzioni, ma con la forza della parola. I protagonisti sono una regia chiara e senza fronzoli,un film che da del tu a chi guarda e che parla direttamente col pubblico e siglando un patto tacito, creando un forte collegamento tra film e musica.
C'è anche la risata in questo film grazie alla mitica performance di Christopher Walken, criminale-mentore dal cuore tenero e di Mike Doyle, che dà vita al discografico Bob Crewe. La regia è lineare e morbida,priva di eccessi con una magica fotografia vintage (firmata da Tom Stern), che comunica molto bene il décor dell'epoca, avvolgendo le immagini di una evidente nostalgia che è l'elemento in più del racconto.Jersey Boys diventa così uno dei film più densi di Eastwood che tocca le note giuste dell'anima raccontando bene la giovinezza che sfiorisce lentamente, delle grandi occasioni perdute, delle scelte fatte seguendo errati e orgogliosi sensi dell'onore. Restiamo di sasso davanti ad un Clint Eastwood che nonostante l'età ha ancora la forza di mettersi in gioco,rischiare e riuscire a donare al pubblico un'opera profonda e ricca di emozioni,che ci trasporta anche nella tristezza e nelle nostalgie.Una storia ben narrata che comunica il senso di perdizione che può attanagliare l'esistenza,con grandi successi e rovinose cadute, di amicizie forti ed amori infini;un film quasi perfetto,l'ennesimo di Clint Eastwood.
TUTTE CONTRO LUI
di Valeria Piras
Nuova commedia sulla figura del maschio traditore.
Tutte contro lui è una nuovissima commedia prodotto ad Hollywood che parte da una storia di base non certo originalissima. Una moglie tradita, una bella amante, rigorosamente ricca e bionda, e un marito vigliacco, mediocre e patologicamente infedele.La commedia è però firmata da un'ottimo regista Nick Cassavetes,brillante e talentuoso ed ha come sfondo una New York scintillante e agiata che si muove in modo molto frenetico dentro le sue auto di lusso. Il regista sembra aver voluto apposta usare un'ottica stereotipata che condisce tutte le scene senza esclusione di colpi e alla fine il film si riempie di divertenti clichè che rendono la pellicola una commedia tipica dl genere.Tornando alla trama,una moglie scopre di essere tradita dal marito e invece di lasciarlo diventa la migliore amica della sua amante, la bionda ed elegante Cameron Diaz, a sua volta tradita dallo stesso uomo.
Ne nasce così un allegro triangolo amoroso che diventa addirittura uno strano quadrato, poichè le due donne scopriranno dopo un pò che il marito infedele non si è limitato ad avere una sola amante. Due amanti e una moglie questa è la squadra che si forma e che decide di avere come unico scopo la distruzione del maschio traditore in un vortice di peripezie e furbizie tipicamente femminili. Forse il finale poteva essere molto più coraggioso e meno soft.Della serie tutto bene quel che finisce bene. Nella realtà, quella vera, di tutti i giorni, anche col rischio di cadere nel forte cinismo,le cose non sarebbero andate esattamente in tal modo.L’amante bionda e in carriera sarebbe diventata di certo più repellente ai sentimenti e pronta a combattere contro il maschio medio e la moglie dopo tale tradimento probabilmente avrebbe somatizzato la dleusione e chiusasi in casa a ingozzarsi di gelato.
Ma sappiamo benissimo che i film sono spesso pura fantasia e per questo ci piacciono.Pure per tale motivo ci fanno distogliere dalla solita routine. Tutte Contro Lui alla fine riesce essere una commedia divertente e ci strappa sorrisi spesso e volentieri.Per il pubblico femminile è una piccola grande vittoria riuscire alla fine a vedere il patologico uomo traditore avere la peggio.
Tutte contro lui è una nuovissima commedia prodotto ad Hollywood che parte da una storia di base non certo originalissima. Una moglie tradita, una bella amante, rigorosamente ricca e bionda, e un marito vigliacco, mediocre e patologicamente infedele.La commedia è però firmata da un'ottimo regista Nick Cassavetes,brillante e talentuoso ed ha come sfondo una New York scintillante e agiata che si muove in modo molto frenetico dentro le sue auto di lusso. Il regista sembra aver voluto apposta usare un'ottica stereotipata che condisce tutte le scene senza esclusione di colpi e alla fine il film si riempie di divertenti clichè che rendono la pellicola una commedia tipica dl genere.Tornando alla trama,una moglie scopre di essere tradita dal marito e invece di lasciarlo diventa la migliore amica della sua amante, la bionda ed elegante Cameron Diaz, a sua volta tradita dallo stesso uomo.
Ne nasce così un allegro triangolo amoroso che diventa addirittura uno strano quadrato, poichè le due donne scopriranno dopo un pò che il marito infedele non si è limitato ad avere una sola amante. Due amanti e una moglie questa è la squadra che si forma e che decide di avere come unico scopo la distruzione del maschio traditore in un vortice di peripezie e furbizie tipicamente femminili. Forse il finale poteva essere molto più coraggioso e meno soft.Della serie tutto bene quel che finisce bene. Nella realtà, quella vera, di tutti i giorni, anche col rischio di cadere nel forte cinismo,le cose non sarebbero andate esattamente in tal modo.L’amante bionda e in carriera sarebbe diventata di certo più repellente ai sentimenti e pronta a combattere contro il maschio medio e la moglie dopo tale tradimento probabilmente avrebbe somatizzato la dleusione e chiusasi in casa a ingozzarsi di gelato.
Ma sappiamo benissimo che i film sono spesso pura fantasia e per questo ci piacciono.Pure per tale motivo ci fanno distogliere dalla solita routine. Tutte Contro Lui alla fine riesce essere una commedia divertente e ci strappa sorrisi spesso e volentieri.Per il pubblico femminile è una piccola grande vittoria riuscire alla fine a vedere il patologico uomo traditore avere la peggio.
LOGICO - Cesare Cremonini
di Valeria Piras
Nuova prova matura e convincente per l'ex Lunapop.
Cesare Cremonini da anni prova a migliorarsi nelle sue produzioni musicali e anche con questo nuovo disco sembra aver compiuto un passo nuovo verso la ricerca del suono che più lo rappresenta. Ama molto le geometrie e le forme ben definite. Gli piace poter creare e smontare musica,sembra proprio esserci un legame stretto tra il precedente album “La teoria dei colori” e “Logico”.Il suo scopo è la perenne ricerca della perfetta forma-canzone,del suono ideale che fotografi il suo percorso.“Logico” è il sesto disco di Cremonini; arriva dopo due anni precisi da “La teoria dei colori”, il suo album più fortunato da solista, quello che l’ha portato ad altri livelli anche dal vivo (arrivando anche a concerti con cifre mai toccate prima). La stessa squadra di produttori accompagna Cesare anche in questo nuovo viaggio.Le persone con cui ha lavorato sono le stesse (a partire dal produttore Walter Mameli), ma alla presentazione dell’album si è detto e scritto che “Logico” è un percorso nuovo e rivoluzionario,una nuova partenza per Cremonini e la sua musica. Ed in effetti sembra proprio così. Perché nell’album Cremonini ha smontato alcuni elementi della sua musica, per poi ricomporli in modo diverso e nuovo.
Alla base ci sono il piano e la chitarra acustica. E poi un synth, che dà un senso musicale decisamente diverso: tutto molto definito dal singolo “Logico #1”, la canzone centrale dell’album. Qualcuno ha parlato di somiglianza con il suono dei Coldplay, altri han parlato di “Africa” dei Toto. In entrambi i casi è un gran complimento perchè sembra esser“Non suona come un album italiano”. Vero, anche se poi le melodie sono puro distillato di Cremonini. Grazie alle ispirazioni tratte da numerosi ascolti (l’elettronica, il pop estero) hanno dato nuova energia all'artista spingedolo verso canzoni particolari, dandole una veste nuova, uscendo dai riferimenti classici e portandolo verso uno stile marcatamente pop-rock inglese.E poi grande spazio alle storie narrate,come una lunga riflesisone sull'età che passa e sull'importanza basilare dell'amore nella vita.Un disco ricoc di domande quello di Cremonini, un incontro-scontro tra la ragione e le emozioni (“La logica non è sincera”, dice la canzone). Ma soprattutto Cesare decide di fare il narratore di vita.
Osserva e racconta storie che non sono necessariamente le sue ma anche storie delle persone intorno a lui.Si parla di un amore di una notte (“Grey goose”), di due amanti clandestini (“Io e Anna”), del sogno di fare cinema (“John Wayne”), dei genitori che si separano (“Se c'era una volta l'amore (Ho dovuto ammazzarlo)”. Si prende lmolta autonomia nel giocare con le parole (con citazioni di ogni tipo: In "Vent'anni per sempre" mette in fila Sasha Grey, gli One Direction, gli Stones, Angry Birds), e con le particolari sonorità come gli arpeggi pop (“John Wayne” richiama gli Smiths di “Panic” ), gli archi,i cori (“Fare e disfare”),e l'inseparabile piano e le coloriture che non ti aspetti. Ma l'obiettivo centrale resta la forma-canzone, in cui Cesare è uno dei più bravi in Italia.La valutazione finale da fare è proprio questa,in 15 anni di carriera, Cremonini si è creato un vero spazio unico nel nostro panorama musicale, saltellando fra generi, forme, colori, ma non abbandonando mai la sua strada personale.“Logico” è una conferma fatta di classe, originalità,nuove forme e tanta buona musica.
Cesare Cremonini da anni prova a migliorarsi nelle sue produzioni musicali e anche con questo nuovo disco sembra aver compiuto un passo nuovo verso la ricerca del suono che più lo rappresenta. Ama molto le geometrie e le forme ben definite. Gli piace poter creare e smontare musica,sembra proprio esserci un legame stretto tra il precedente album “La teoria dei colori” e “Logico”.Il suo scopo è la perenne ricerca della perfetta forma-canzone,del suono ideale che fotografi il suo percorso.“Logico” è il sesto disco di Cremonini; arriva dopo due anni precisi da “La teoria dei colori”, il suo album più fortunato da solista, quello che l’ha portato ad altri livelli anche dal vivo (arrivando anche a concerti con cifre mai toccate prima). La stessa squadra di produttori accompagna Cesare anche in questo nuovo viaggio.Le persone con cui ha lavorato sono le stesse (a partire dal produttore Walter Mameli), ma alla presentazione dell’album si è detto e scritto che “Logico” è un percorso nuovo e rivoluzionario,una nuova partenza per Cremonini e la sua musica. Ed in effetti sembra proprio così. Perché nell’album Cremonini ha smontato alcuni elementi della sua musica, per poi ricomporli in modo diverso e nuovo.
Alla base ci sono il piano e la chitarra acustica. E poi un synth, che dà un senso musicale decisamente diverso: tutto molto definito dal singolo “Logico #1”, la canzone centrale dell’album. Qualcuno ha parlato di somiglianza con il suono dei Coldplay, altri han parlato di “Africa” dei Toto. In entrambi i casi è un gran complimento perchè sembra esser“Non suona come un album italiano”. Vero, anche se poi le melodie sono puro distillato di Cremonini. Grazie alle ispirazioni tratte da numerosi ascolti (l’elettronica, il pop estero) hanno dato nuova energia all'artista spingedolo verso canzoni particolari, dandole una veste nuova, uscendo dai riferimenti classici e portandolo verso uno stile marcatamente pop-rock inglese.E poi grande spazio alle storie narrate,come una lunga riflesisone sull'età che passa e sull'importanza basilare dell'amore nella vita.Un disco ricoc di domande quello di Cremonini, un incontro-scontro tra la ragione e le emozioni (“La logica non è sincera”, dice la canzone). Ma soprattutto Cesare decide di fare il narratore di vita.
Osserva e racconta storie che non sono necessariamente le sue ma anche storie delle persone intorno a lui.Si parla di un amore di una notte (“Grey goose”), di due amanti clandestini (“Io e Anna”), del sogno di fare cinema (“John Wayne”), dei genitori che si separano (“Se c'era una volta l'amore (Ho dovuto ammazzarlo)”. Si prende lmolta autonomia nel giocare con le parole (con citazioni di ogni tipo: In "Vent'anni per sempre" mette in fila Sasha Grey, gli One Direction, gli Stones, Angry Birds), e con le particolari sonorità come gli arpeggi pop (“John Wayne” richiama gli Smiths di “Panic” ), gli archi,i cori (“Fare e disfare”),e l'inseparabile piano e le coloriture che non ti aspetti. Ma l'obiettivo centrale resta la forma-canzone, in cui Cesare è uno dei più bravi in Italia.La valutazione finale da fare è proprio questa,in 15 anni di carriera, Cremonini si è creato un vero spazio unico nel nostro panorama musicale, saltellando fra generi, forme, colori, ma non abbandonando mai la sua strada personale.“Logico” è una conferma fatta di classe, originalità,nuove forme e tanta buona musica.
GRACE DI MONACO
di Valeria Piras
Grace Kelly e la sua fragile e meravigliosa vita.
Il biopic sulla principessa Grace di Monaco ha fatto molto discutere.La famiglia Ranieri ha in parte boicottato il film ritenendolo non veritiero e il Festival di Cannes 2014 non ha calorosamente accolto la proizione del film benchè fosse stato scelto come film d'apertura della kermesse. Nelle sale è ancora presto per capire se il film sulla principessa attrice sarà un successo o meno ma il regista Olivier Dahan,si dice fiducioso perchè si tratta del racconto romanzato di una donna divenuta non solo icona di femminilità, attrice di successo conquistando l'Oscar con La ragazza di campagna nel 1954 ma soprattutto che divenne modello di principessa moderna, capace di possedere sia grazia che carisma mantenendo sempre le sue idee su ogni argomento. Il regista Olivier Dahan, già nel 2007 aveva diretto un film autobiografico sulla vita tragica della cantante Edith Piaf, torna nuovamente a dirigere un ritratto di donna complessa, sfaccettata e artisticamente impegnativo come può essere Grace Kelly, una elegante ragazza di Filadelfia divenuta prima ‘regina del cinema' e poi Principessa di Monaco, in seguito al matrimonio con il Principe Ranieri avvenuto nel 1956.
Il film di Dahan ha una certa propensione a tralasciare i dettagli prettamente storici, e si proietta subito sull'impasse vissuto dalla Kelly in quanto donna alle prese con i propri problemi, le proprie ambizioni e le proprie fragilità, ma costretta anche a subire il peso sulle sue spalle della scelta fatta di convolare a nozze diventando Principessa del piccolo ma attivo Principato di Monaco, che negli anni '50 risultava anche spesso minacciato dall'ostilità della Francia di de Gaulle. La vita di Grace cambia radicalmente perdento quell'innocenza giovanile, molte saranno le ripercussioni (positive ma anche negative) sulla sua vita ma alla fine Grace Kelly con molta eleganza accetterà di affrontare in virtù del voto fatto a quel triplice ruolo di madre, moglie e sovrana; un compito difficile ed impegnativo che risulterà,come essa stessa dirà poi in seguito,il "ruolo più grande da lei mai interpretato" diventando però una favola vera senza fine.Un applauso a Dahan va quindi fatto nell'intento di destrutturare, portare a dimensione umana Grace Kelly, ma il pericolo è quello di semplificarne e (nello stesso tempo) enfatizzarne troppo le peculiarità esteriori, per un esito finale che può trarre in inganno e violare il realismo solitamente collegato a film di questo genere delicato.
A tale critica,presente ma non evidente si affianca poi una palese nota negativa,la protagonista è impersonificata da una Nicole Kidman che ha perso tanto della sua vigoria giovanile,del suo entusiasmo interpretativo e che non riesce a ricreare quell'idea di "ghiaccio bollente" della Kelly,donandole solo un vago e flebile ricordo, non in grado di fotografare la complessità, la lotta interiore e quell'universo di perenne ed estrema fragilità in cui la principessa viveva e che Dahan aveva ben individuato ma che non riesce ad emergere dal film anche a causa di una protagonista forse non all'altezza.
Il biopic sulla principessa Grace di Monaco ha fatto molto discutere.La famiglia Ranieri ha in parte boicottato il film ritenendolo non veritiero e il Festival di Cannes 2014 non ha calorosamente accolto la proizione del film benchè fosse stato scelto come film d'apertura della kermesse. Nelle sale è ancora presto per capire se il film sulla principessa attrice sarà un successo o meno ma il regista Olivier Dahan,si dice fiducioso perchè si tratta del racconto romanzato di una donna divenuta non solo icona di femminilità, attrice di successo conquistando l'Oscar con La ragazza di campagna nel 1954 ma soprattutto che divenne modello di principessa moderna, capace di possedere sia grazia che carisma mantenendo sempre le sue idee su ogni argomento. Il regista Olivier Dahan, già nel 2007 aveva diretto un film autobiografico sulla vita tragica della cantante Edith Piaf, torna nuovamente a dirigere un ritratto di donna complessa, sfaccettata e artisticamente impegnativo come può essere Grace Kelly, una elegante ragazza di Filadelfia divenuta prima ‘regina del cinema' e poi Principessa di Monaco, in seguito al matrimonio con il Principe Ranieri avvenuto nel 1956.
Il film di Dahan ha una certa propensione a tralasciare i dettagli prettamente storici, e si proietta subito sull'impasse vissuto dalla Kelly in quanto donna alle prese con i propri problemi, le proprie ambizioni e le proprie fragilità, ma costretta anche a subire il peso sulle sue spalle della scelta fatta di convolare a nozze diventando Principessa del piccolo ma attivo Principato di Monaco, che negli anni '50 risultava anche spesso minacciato dall'ostilità della Francia di de Gaulle. La vita di Grace cambia radicalmente perdento quell'innocenza giovanile, molte saranno le ripercussioni (positive ma anche negative) sulla sua vita ma alla fine Grace Kelly con molta eleganza accetterà di affrontare in virtù del voto fatto a quel triplice ruolo di madre, moglie e sovrana; un compito difficile ed impegnativo che risulterà,come essa stessa dirà poi in seguito,il "ruolo più grande da lei mai interpretato" diventando però una favola vera senza fine.Un applauso a Dahan va quindi fatto nell'intento di destrutturare, portare a dimensione umana Grace Kelly, ma il pericolo è quello di semplificarne e (nello stesso tempo) enfatizzarne troppo le peculiarità esteriori, per un esito finale che può trarre in inganno e violare il realismo solitamente collegato a film di questo genere delicato.
A tale critica,presente ma non evidente si affianca poi una palese nota negativa,la protagonista è impersonificata da una Nicole Kidman che ha perso tanto della sua vigoria giovanile,del suo entusiasmo interpretativo e che non riesce a ricreare quell'idea di "ghiaccio bollente" della Kelly,donandole solo un vago e flebile ricordo, non in grado di fotografare la complessità, la lotta interiore e quell'universo di perenne ed estrema fragilità in cui la principessa viveva e che Dahan aveva ben individuato ma che non riesce ad emergere dal film anche a causa di una protagonista forse non all'altezza.
G O D Z I L L A
di Valeria Piras
Il mostro più longevo e terribile del cinema mondiale.
Nel lontanissimo 1954, quasi dieci anni dopo lo scoppio delle due bombe atomiche, la guerra mondiale era terminata ma una guerra subdola iniziava,la Guerra Fredda. Il terrore nucleare era palpabile così come la paura di un nuovo conflitto atomico. In questo clima giunse per la prima volta al cinema in Giappone un film che sarà simbolo per anni della cultura pop nipponica.Quel film era Godzilla di Ishirō Honda, che oggi nel 2014 torna sullo schermo grazie a Gareth Edwards.Prima di lui nel 1998 aveva tentato il passo Roland Emmerich ma il suo remake era davvero terribile e sconclusionato.C'erano molte aspettative perchè Godzilla, infatti, è molto di più che un semplice mostro gigante distruttore; dal 1954 ad oggi, la creatura si è fatta icona pop,un vero personaggio metaforico della storia del cinema fantastico.
Il regista inglese ha assorbito senza peso le aspettative e ha dato vita ad un film ottimo dove il mostro Godzilla è trattato con amore e rispetto e la sua figura è stata attentamente ideata.Edwards restituisce al mostro di Godzilla la sua natura radioattiva, ricollegandosi, così, con le sue vere origini, ovvero, l'incarnazione metaforica dell'orrore che ha sconvolto il Giappone dopo le stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Nello stesso tempo, come da tradizione, consente a Godzilla di dedicarsi ad una delle "mansioni" per la quale è più famoso: combattere altri mostri giganti. I fan duri e puri del franchise troveranno tante altre citazioni e/o rimandi con i quali sollazzarsi ed il pubblico generalista, invece, godrà dell'insieme senza, per questo, perdersi più di tanto. Un'altro punto a favore di Edwards è quello di aver compreso alla perfezione, in perfetta antitesi al deludente Pacific Rim, che l'elemento fondamentale per un buon Disaster Movie è l'attesa.
Per un'ora di film, infatti, Godzilla non si palesa e quando, finalmente, si manifesta in tutta la sua gloria roboante, l'eccitazione diventa palpabile. Anche in Monsters (suo film d'esordio) Gareth Edwards aveva proposto la stessa costruzione narrativa, ma per riproporla in un blockbuster come Godzilla ci voleva coraggio e fiducia: due qualità decisamente premiate dal risultato. Lievemente troppo lungo, il film accusa un momento di stanca nella parte centrale, anche a causa di un eroe (Aaron Taylor-Johnson) non troppo convincente, ma, nel complesso, il ritorno di Godzilla è da accogliere con felice approvazione.
Nel lontanissimo 1954, quasi dieci anni dopo lo scoppio delle due bombe atomiche, la guerra mondiale era terminata ma una guerra subdola iniziava,la Guerra Fredda. Il terrore nucleare era palpabile così come la paura di un nuovo conflitto atomico. In questo clima giunse per la prima volta al cinema in Giappone un film che sarà simbolo per anni della cultura pop nipponica.Quel film era Godzilla di Ishirō Honda, che oggi nel 2014 torna sullo schermo grazie a Gareth Edwards.Prima di lui nel 1998 aveva tentato il passo Roland Emmerich ma il suo remake era davvero terribile e sconclusionato.C'erano molte aspettative perchè Godzilla, infatti, è molto di più che un semplice mostro gigante distruttore; dal 1954 ad oggi, la creatura si è fatta icona pop,un vero personaggio metaforico della storia del cinema fantastico.
Il regista inglese ha assorbito senza peso le aspettative e ha dato vita ad un film ottimo dove il mostro Godzilla è trattato con amore e rispetto e la sua figura è stata attentamente ideata.Edwards restituisce al mostro di Godzilla la sua natura radioattiva, ricollegandosi, così, con le sue vere origini, ovvero, l'incarnazione metaforica dell'orrore che ha sconvolto il Giappone dopo le stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Nello stesso tempo, come da tradizione, consente a Godzilla di dedicarsi ad una delle "mansioni" per la quale è più famoso: combattere altri mostri giganti. I fan duri e puri del franchise troveranno tante altre citazioni e/o rimandi con i quali sollazzarsi ed il pubblico generalista, invece, godrà dell'insieme senza, per questo, perdersi più di tanto. Un'altro punto a favore di Edwards è quello di aver compreso alla perfezione, in perfetta antitesi al deludente Pacific Rim, che l'elemento fondamentale per un buon Disaster Movie è l'attesa.
Per un'ora di film, infatti, Godzilla non si palesa e quando, finalmente, si manifesta in tutta la sua gloria roboante, l'eccitazione diventa palpabile. Anche in Monsters (suo film d'esordio) Gareth Edwards aveva proposto la stessa costruzione narrativa, ma per riproporla in un blockbuster come Godzilla ci voleva coraggio e fiducia: due qualità decisamente premiate dal risultato. Lievemente troppo lungo, il film accusa un momento di stanca nella parte centrale, anche a causa di un eroe (Aaron Taylor-Johnson) non troppo convincente, ma, nel complesso, il ritorno di Godzilla è da accogliere con felice approvazione.
THE ENGLISH TEACHER
di Valeria Piras
Un film sulla scuola e sulla voglia di desiderare ancora.
Craig Zisk è stato per anni un regista di serie tv di successo.Dopo questo suo percorso ed un libro scritto all'attivo ha scelto di mettersi alla prova come regista cinematografico con sprezzo del pericolo ha optato per un genere insidioso. The English Teacher, infatti, è un film che si rifà ad una certa commedia sentimentale, incentrata su protagoniste solitarie, romanticamente imprigionate in un mondo perfetto,ma lontano dalla dura realtà.La voce fuori campo nel film ci presenta con dettaglio le azioni della nostra dolce protagonista, interpretata da Julianne Moore, ci introduce magicamente nel mondo di una donna che non ha più nulla da chiedere alla vita, serena e con il solo desiderio di essere ispirazione per i suoi studenti.Ma dentro di se vive il seme generoso della voglia di trovare il grande amore.E' quindi una sorta di gioco aperto che si esalta per un certo brio nella scrittura e che se in alcuni momenti cade nella commedia tradizionale poi subito spiazza in modo inaspettato per catturare l'attenzione.
Infatti mentre ipotizziamo una classica storia d'amore tra la protagonista e il padre dell'alunno Jason (Greg Kinnear), arriva l'amplesso focoso con il ragazzo (Michael Angarano) a a sparigliare tutto e la crisi di gelosia successiva, dovuta ad un flirt tra Jason e la prima moglie, Lily Collins, è la bomba che esplode dentro Linda, portandola ad un cambiamento totale,fatto di spensieratezza e coraggio sentimentale.Un mondo di desideri inespressi che riesce ad uscire fuori immergendola in un vorticoso fiume di passione, con tutte le conseguenze che questo porta con sé. Molto diverte la tecnica che delinea la storia, che è tutta una violazione di classiche regole e finali a sorpresa. Con leggerezza e un certo mordente Zisk riscrive la storia di una donna che non vuole più essere la classica protagonista di un romanzo di formazione e ci dona una donna allegra e passionale nonostante gli anta.Un film godibile, anche grazie alle ottime performance di tutto il cast.Julianne Moore sembra super ispirata nei panni della mecenate illuminata, la sacra mentore dell'High School, dotata in questo film di una spalla d'eccezione come Nathan Lane,comico famoso negli Usa e molto amato.New York, ovvero Broadway, e il mondo che rappresenta nel film Craig Zisk, simbolo di una vitalità esagerata, troppo mitizzata ma finta che si contrappone invece all'esuberanza sostanziale della serena Pennsylvania,che però ribolle di incroci sentimentali.
La protagonista del film è la professoressa Sinclair che vive per educare ma non ha educato le sue emozioni.Alla fine il regista ci regala una protagonista dolce e sincera,solo l'ultima tipologia di un lunghissimo elenco di professori che hanno reso meravigliosa la scuola (almeno al cinema). Come scordare l'eroico John Keating, docente di letteratura di L'attimo fuggente,capostipite dei moderni ispiratori delle giovani generazioni, seguito dalla professoressa Watson interpretata da Julia Roberts in Mona Lisa Smile, che lavorava in un mondo frustrante per le donne. Citiamo i primi che ci vengono in mente, senza spingerci oltre (ma la lista sarebbe lunghissima), ma forse questi sono i due professori più simili all'anima della Sinclair.Il film alla fine riesce a raccontare una certa femminilità nuova che sboccia, anche se in età non più giovane, e nonostante vestiti dai colori spenti,che però non silenziano la luminosa bellezza di una Julianne Moore davvero in gran forma.
Craig Zisk è stato per anni un regista di serie tv di successo.Dopo questo suo percorso ed un libro scritto all'attivo ha scelto di mettersi alla prova come regista cinematografico con sprezzo del pericolo ha optato per un genere insidioso. The English Teacher, infatti, è un film che si rifà ad una certa commedia sentimentale, incentrata su protagoniste solitarie, romanticamente imprigionate in un mondo perfetto,ma lontano dalla dura realtà.La voce fuori campo nel film ci presenta con dettaglio le azioni della nostra dolce protagonista, interpretata da Julianne Moore, ci introduce magicamente nel mondo di una donna che non ha più nulla da chiedere alla vita, serena e con il solo desiderio di essere ispirazione per i suoi studenti.Ma dentro di se vive il seme generoso della voglia di trovare il grande amore.E' quindi una sorta di gioco aperto che si esalta per un certo brio nella scrittura e che se in alcuni momenti cade nella commedia tradizionale poi subito spiazza in modo inaspettato per catturare l'attenzione.
Infatti mentre ipotizziamo una classica storia d'amore tra la protagonista e il padre dell'alunno Jason (Greg Kinnear), arriva l'amplesso focoso con il ragazzo (Michael Angarano) a a sparigliare tutto e la crisi di gelosia successiva, dovuta ad un flirt tra Jason e la prima moglie, Lily Collins, è la bomba che esplode dentro Linda, portandola ad un cambiamento totale,fatto di spensieratezza e coraggio sentimentale.Un mondo di desideri inespressi che riesce ad uscire fuori immergendola in un vorticoso fiume di passione, con tutte le conseguenze che questo porta con sé. Molto diverte la tecnica che delinea la storia, che è tutta una violazione di classiche regole e finali a sorpresa. Con leggerezza e un certo mordente Zisk riscrive la storia di una donna che non vuole più essere la classica protagonista di un romanzo di formazione e ci dona una donna allegra e passionale nonostante gli anta.Un film godibile, anche grazie alle ottime performance di tutto il cast.Julianne Moore sembra super ispirata nei panni della mecenate illuminata, la sacra mentore dell'High School, dotata in questo film di una spalla d'eccezione come Nathan Lane,comico famoso negli Usa e molto amato.New York, ovvero Broadway, e il mondo che rappresenta nel film Craig Zisk, simbolo di una vitalità esagerata, troppo mitizzata ma finta che si contrappone invece all'esuberanza sostanziale della serena Pennsylvania,che però ribolle di incroci sentimentali.
La protagonista del film è la professoressa Sinclair che vive per educare ma non ha educato le sue emozioni.Alla fine il regista ci regala una protagonista dolce e sincera,solo l'ultima tipologia di un lunghissimo elenco di professori che hanno reso meravigliosa la scuola (almeno al cinema). Come scordare l'eroico John Keating, docente di letteratura di L'attimo fuggente,capostipite dei moderni ispiratori delle giovani generazioni, seguito dalla professoressa Watson interpretata da Julia Roberts in Mona Lisa Smile, che lavorava in un mondo frustrante per le donne. Citiamo i primi che ci vengono in mente, senza spingerci oltre (ma la lista sarebbe lunghissima), ma forse questi sono i due professori più simili all'anima della Sinclair.Il film alla fine riesce a raccontare una certa femminilità nuova che sboccia, anche se in età non più giovane, e nonostante vestiti dai colori spenti,che però non silenziano la luminosa bellezza di una Julianne Moore davvero in gran forma.
FOOD - Kelis
di Valeria Piras
Ritorno alle origini per una delle stelle della black music.
Kelis dopo ben quattro anni di silenzio musicale e dopo aver iniziato una serie di numerose attività collaterali come quella di producer e imprenditrice,torna sulle scene discografiche.La pausa è stata rilassante e le è piaciuto così tanto che secondo alcuni aveva anche ipotizzato di smettere e pensare ad altro.Adesso a quattro anni di distanza da l'ultimo disco "Flesh tone", è ritornata ed il suo nuovo lavoro si chiama "Food", un disco davvero diverso che sottolinea il grande cambiamento della sua esistenza.Innanzitutto il tema della separazione da Nas,suo marito per sei anni; il primo lavoro con l'etichetta indie britannica Ninja Tune e, ovviamente il primo disco con sonorità davvero diverse dal passato. L'ultimo disco "Flesh tone", era un disco ottimo dove l'aiuto di David Guetta dava un tocco dance incredibile e che anticipava una serie di suoni e stili che per anni hanno influenzato il pop e la musica black.
Forse però Kelis non era pronta per quella strada diversa o comunque il suo pubblico sembrò non gradire subito quello stile tanto che la cantante si convinse di aver sbagliato sonorità.Oggi invece Kelis sembra molto a suo agio nell suo nuovo universo e se "Flesh tone" poteva essere un disco un po' freddo e evanescente,Food è puro fuoco,musica che viene dal cuore. Nonostante il titolo non è un album che parla di cibo,non canta le sue ricette preferite ma è innegabile che vi siano alcuni richiami,come ad esempio il pezzo "Jerk ribs" (costolette marinate) in cui parla della sua infanzia cantando tutto il suo amore per il quartiere di Harlem; la traccia "Breakfast" è il premio che la cantante da al suo amante dopo un'ottima prova a letto; il pezzo "Cobbler" è una specie di cocktail rinfrescante che sarà un bel tormentone estivo bollente. Nell'album Kelis usa una voce soffiata e roca ma decisa ed esperta, che vola sulle basi di Dave Sitek (dei TV on the Radio) senza cercare di essere perfetta ma diretta.
Il risultato di tutto ciò è un disco energico e potente dallo stile decisamente old school per rievocare i generi con cui la cantante è cresciuta. Il suo R&B, molto spesso,sa assumere forme e vari colori e mutare come un camaleonte in modo naturale.Si sentono effetti dall'eco afro-beat in "Cobbler" ma anche venature country-rock come in "Fish fry".Nel singolo "Bless the telephone" la dolce intimità di Labi Siffre esce subito fuori mentre in Runner c'è tutta la radice del gospel che Kelis ha sempre amato. In questo singolo la cantante di New York racconta della sua voglia di questi anni di correre via da tutto e tutti,fuggire dalla fama e non nasconde forse un periodo di depressione.Ora il peggio è passato il nuovo album è davvero bello,privo di veloci hits ma ricchissimo e robusto, per fortuna Kelis ha abbandonato ogni idea di ritiro e si è dedicata anima e corpo alla musica.Il risultato è Food,un disco che parla davvero di lei.
Kelis dopo ben quattro anni di silenzio musicale e dopo aver iniziato una serie di numerose attività collaterali come quella di producer e imprenditrice,torna sulle scene discografiche.La pausa è stata rilassante e le è piaciuto così tanto che secondo alcuni aveva anche ipotizzato di smettere e pensare ad altro.Adesso a quattro anni di distanza da l'ultimo disco "Flesh tone", è ritornata ed il suo nuovo lavoro si chiama "Food", un disco davvero diverso che sottolinea il grande cambiamento della sua esistenza.Innanzitutto il tema della separazione da Nas,suo marito per sei anni; il primo lavoro con l'etichetta indie britannica Ninja Tune e, ovviamente il primo disco con sonorità davvero diverse dal passato. L'ultimo disco "Flesh tone", era un disco ottimo dove l'aiuto di David Guetta dava un tocco dance incredibile e che anticipava una serie di suoni e stili che per anni hanno influenzato il pop e la musica black.
Forse però Kelis non era pronta per quella strada diversa o comunque il suo pubblico sembrò non gradire subito quello stile tanto che la cantante si convinse di aver sbagliato sonorità.Oggi invece Kelis sembra molto a suo agio nell suo nuovo universo e se "Flesh tone" poteva essere un disco un po' freddo e evanescente,Food è puro fuoco,musica che viene dal cuore. Nonostante il titolo non è un album che parla di cibo,non canta le sue ricette preferite ma è innegabile che vi siano alcuni richiami,come ad esempio il pezzo "Jerk ribs" (costolette marinate) in cui parla della sua infanzia cantando tutto il suo amore per il quartiere di Harlem; la traccia "Breakfast" è il premio che la cantante da al suo amante dopo un'ottima prova a letto; il pezzo "Cobbler" è una specie di cocktail rinfrescante che sarà un bel tormentone estivo bollente. Nell'album Kelis usa una voce soffiata e roca ma decisa ed esperta, che vola sulle basi di Dave Sitek (dei TV on the Radio) senza cercare di essere perfetta ma diretta.
Il risultato di tutto ciò è un disco energico e potente dallo stile decisamente old school per rievocare i generi con cui la cantante è cresciuta. Il suo R&B, molto spesso,sa assumere forme e vari colori e mutare come un camaleonte in modo naturale.Si sentono effetti dall'eco afro-beat in "Cobbler" ma anche venature country-rock come in "Fish fry".Nel singolo "Bless the telephone" la dolce intimità di Labi Siffre esce subito fuori mentre in Runner c'è tutta la radice del gospel che Kelis ha sempre amato. In questo singolo la cantante di New York racconta della sua voglia di questi anni di correre via da tutto e tutti,fuggire dalla fama e non nasconde forse un periodo di depressione.Ora il peggio è passato il nuovo album è davvero bello,privo di veloci hits ma ricchissimo e robusto, per fortuna Kelis ha abbandonato ogni idea di ritiro e si è dedicata anima e corpo alla musica.Il risultato è Food,un disco che parla davvero di lei.
TRANSCENDENCE
di Valeria Piras
Un thriller tecnologico che inquieta nel profondo.
In questi giorni nelle sale è presente il nuovissimo e primo film di Wally Pfister, Transcendence; Pfister è stato direttore della fotografia della maggior parte dei film di Christopher Nolan.Quindi dal punto di vista visivo la contaminazione del regista di Inception che qui è produttore esecutivo,risulta lampante. Lo sguardo scenografico complesso ed onirico di Nolan, la sua tipica inquadratura ai confini del puro formalismo, l'analisi ardita della coscienza e dell'inconscio risultano essere evidenti.Pfister che per anni si è dedicato a dar vita alle idee visive di Nolan dimostra di aver molto appreso dal maestro, e da vita ad un film fantascientifico con tutti i canoni del genere.La creazione di esseri senzienti, e i risvolti etici collegati a ciò sono il nucleo concettuale del film e ne attraversa tutta la storia risultando alla fine il topos principale. Ma il regista si concentra sull'idea di individuo e sul concetto spesso misterioso di coscienza, sull'esistenza o meno di una vera anima e sul tentativo materiale di coglierne la pura essenza.
Tutti questi argomenti degni di un saggio filosofico vengono espressi in modo elaborato ed affascinante, dando vita ad una sovralimentazione visiva che spiazza e colpisce.Fin dalle prime scene capiamo che il regista intende comunicarci il sottile legame tra la quantità di immagini che proietta ed il senso dell'invisibile, ed invadente presenza della tecnologia,che riesce a ricreare la natura e l'universo nei minimi dettagli e replicarlo elettronicamente. Alcune scelte registiche forse sembrano solo sfoggio di bravura estetica,ma nel contesto assorbono senso narrativo col procedere del film.Nonostante evidenti difetti e alcuni squilibri narrativi,il film riesce bene a rendere la cosiddetta sospensione dell'incredulità e alla fine dobbiamo riconoscere che Transcendence trasmette un'inquietudine che si insinua sottopelle e ci resta nella mente con alcune specifiche scene davvero da ricordare.L'ottimo risultato è garantito anche dalla brava interpretazione di Johnny Depp nei panni del protagonista,un dottore esperto di ciber-ingegneria che fa da cavia alla sua nuova scoperta.
Depp finalmente smette i panni dei personaggi strampalati alla Tim Burton che sinceramente stavano iniziando a divenire già visti.Riesce a dare concretezza e virtualità al suo protagonista e a renderne l'inafferrabile scarto quando la virtualità si impossessa e consuma la sua vita.Il resto del cast è molto funzionale al film diventando complessivamente efficace,da applausi la performance carismatica di Morgan Freeman e la prova complessa di Rebecca Hall,che danno alla fine un reale valore aggiunto ad un film che rimane non perfetto ma che con tutti i suoi difetti ci resta nella memoria e dona forti inquietudini anche allo spettatore più cinico.
In questi giorni nelle sale è presente il nuovissimo e primo film di Wally Pfister, Transcendence; Pfister è stato direttore della fotografia della maggior parte dei film di Christopher Nolan.Quindi dal punto di vista visivo la contaminazione del regista di Inception che qui è produttore esecutivo,risulta lampante. Lo sguardo scenografico complesso ed onirico di Nolan, la sua tipica inquadratura ai confini del puro formalismo, l'analisi ardita della coscienza e dell'inconscio risultano essere evidenti.Pfister che per anni si è dedicato a dar vita alle idee visive di Nolan dimostra di aver molto appreso dal maestro, e da vita ad un film fantascientifico con tutti i canoni del genere.La creazione di esseri senzienti, e i risvolti etici collegati a ciò sono il nucleo concettuale del film e ne attraversa tutta la storia risultando alla fine il topos principale. Ma il regista si concentra sull'idea di individuo e sul concetto spesso misterioso di coscienza, sull'esistenza o meno di una vera anima e sul tentativo materiale di coglierne la pura essenza.
Tutti questi argomenti degni di un saggio filosofico vengono espressi in modo elaborato ed affascinante, dando vita ad una sovralimentazione visiva che spiazza e colpisce.Fin dalle prime scene capiamo che il regista intende comunicarci il sottile legame tra la quantità di immagini che proietta ed il senso dell'invisibile, ed invadente presenza della tecnologia,che riesce a ricreare la natura e l'universo nei minimi dettagli e replicarlo elettronicamente. Alcune scelte registiche forse sembrano solo sfoggio di bravura estetica,ma nel contesto assorbono senso narrativo col procedere del film.Nonostante evidenti difetti e alcuni squilibri narrativi,il film riesce bene a rendere la cosiddetta sospensione dell'incredulità e alla fine dobbiamo riconoscere che Transcendence trasmette un'inquietudine che si insinua sottopelle e ci resta nella mente con alcune specifiche scene davvero da ricordare.L'ottimo risultato è garantito anche dalla brava interpretazione di Johnny Depp nei panni del protagonista,un dottore esperto di ciber-ingegneria che fa da cavia alla sua nuova scoperta.
Depp finalmente smette i panni dei personaggi strampalati alla Tim Burton che sinceramente stavano iniziando a divenire già visti.Riesce a dare concretezza e virtualità al suo protagonista e a renderne l'inafferrabile scarto quando la virtualità si impossessa e consuma la sua vita.Il resto del cast è molto funzionale al film diventando complessivamente efficace,da applausi la performance carismatica di Morgan Freeman e la prova complessa di Rebecca Hall,che danno alla fine un reale valore aggiunto ad un film che rimane non perfetto ma che con tutti i suoi difetti ci resta nella memoria e dona forti inquietudini anche allo spettatore più cinico.
MIGRANTI di Pier Mario Vello
di Valeria Piras
La nuova raccolta di un poeta moderno ma dall'anima antica.
Con il suo nuovo libro di poesie dal titolo Migranti,Vello crea in modo diretto una sorta di originale tensione epica, attraverso il quale un tema specifico come quello centrale della raccolta e da molti altri autori adoperato spesso, si mescola con la realtà corale e con le incertezze esistenziali di tutti i giorni,diventando tema senza limiti.Il suo metodo di scrittura è caratterizzato da una metrica densa, ogni poesia assomiglia ad una sorta di agglomerato folle (per citare una parola cara a un grande come Andrea Zanzotto), una fusione stilistica di elementi vari, nobili e bassi, antichi o facenti parte del mondo moderno, il tutto unito ad un contesto vibrante ma sempre credibile e plausibile.
Partendo da ciò si arriva ad apprezzare la cifra stilistica di Vello, il suo proseguire lento ma sicuro,senza ansie nè incertezze o smarrimenti,in un modo di fare poesia che diventa elevata perché elevato è l'insieme dei registri tematici e concettuali del libro e della sua voglia di raccontare e approfondire uno stato dell'animo di cui vuole farsi testimone.Il poeta diventa tramite con cui comprendere le incertezze di uomini e persone sole,immerse nei grandi movimenti migratori, che ormai sono diffusa costante della nostra epoca, una schietta realtà umanamente archetipica, e che quindi in una specie di rimembranza ciclica ritorna.Aldilà dell'argomento centrale,il libro affronta il migrare inteso anche come metafora esistenziale del morire e rinascere a nuova vita; dell'andare verso il pericolo con coraggio,nel tentare di vivere con rischio,ma provarci sempre,spingendo l'essere umano oltre i limiti e le barriere anche interiori.Un viaggio da fare verso l'ignoto e l'oscuro dell'anima nella speranza di uscirne più forti.
Uno stile nuovo che fa del mezzo poetico il vettore con cui trasmettere emozioni e stati d'animo di umorali voli interiori;una vera salvezza sapere che esistono ancora poeti anche nell'epoca moderna,la consapevolezza che l'altissimo senso del bello e dello spirito ritrova nelle pagine leggere e vaporose di un poeta italiano che per emozioni e impatto stilistico non ha nulla da invidiare alla nouvelle vague francese di inizio novecento.Sentimenti inquadrati in canoni e registri rigidi ma fluidi,un ossimoro di parole e materia che lascia il ricordo ed il sapore dolce nel cuore e nella memoria di chi legge.
Con il suo nuovo libro di poesie dal titolo Migranti,Vello crea in modo diretto una sorta di originale tensione epica, attraverso il quale un tema specifico come quello centrale della raccolta e da molti altri autori adoperato spesso, si mescola con la realtà corale e con le incertezze esistenziali di tutti i giorni,diventando tema senza limiti.Il suo metodo di scrittura è caratterizzato da una metrica densa, ogni poesia assomiglia ad una sorta di agglomerato folle (per citare una parola cara a un grande come Andrea Zanzotto), una fusione stilistica di elementi vari, nobili e bassi, antichi o facenti parte del mondo moderno, il tutto unito ad un contesto vibrante ma sempre credibile e plausibile.
Partendo da ciò si arriva ad apprezzare la cifra stilistica di Vello, il suo proseguire lento ma sicuro,senza ansie nè incertezze o smarrimenti,in un modo di fare poesia che diventa elevata perché elevato è l'insieme dei registri tematici e concettuali del libro e della sua voglia di raccontare e approfondire uno stato dell'animo di cui vuole farsi testimone.Il poeta diventa tramite con cui comprendere le incertezze di uomini e persone sole,immerse nei grandi movimenti migratori, che ormai sono diffusa costante della nostra epoca, una schietta realtà umanamente archetipica, e che quindi in una specie di rimembranza ciclica ritorna.Aldilà dell'argomento centrale,il libro affronta il migrare inteso anche come metafora esistenziale del morire e rinascere a nuova vita; dell'andare verso il pericolo con coraggio,nel tentare di vivere con rischio,ma provarci sempre,spingendo l'essere umano oltre i limiti e le barriere anche interiori.Un viaggio da fare verso l'ignoto e l'oscuro dell'anima nella speranza di uscirne più forti.
Uno stile nuovo che fa del mezzo poetico il vettore con cui trasmettere emozioni e stati d'animo di umorali voli interiori;una vera salvezza sapere che esistono ancora poeti anche nell'epoca moderna,la consapevolezza che l'altissimo senso del bello e dello spirito ritrova nelle pagine leggere e vaporose di un poeta italiano che per emozioni e impatto stilistico non ha nulla da invidiare alla nouvelle vague francese di inizio novecento.Sentimenti inquadrati in canoni e registri rigidi ma fluidi,un ossimoro di parole e materia che lascia il ricordo ed il sapore dolce nel cuore e nella memoria di chi legge.
SHAKIRA - Shakira
di Valeria Piras
utta la passione e l'energia nel nuovo disco di Shakira.
In Italia è una delle cantanti internazionali più amate e da meno di un mese è di nuovo in prima linea con il uso nuovo lavoro di inediti,parliamo ovviamente della bella e sensualissima colombiana Shakira,pronta a farci ballare con il nuovo disco che porta il suo nome “Shakira“, decimo album in studio della passionale cantante.Per la creazione di questo lavoro Shakira si è circondata di produttori e collaborazioni di altissimo spessore come John Hill, Dr. Luke,fino a Dave Clauss. Il risultano è un album veramente esplosivo che nella sua versione deluxe è ricco di 15 brani, 4 dei quali in feauturing con ospiti di fama come Rihanna e Blake Shelton su tutti.“Shakira” al primo ascolto sembra un album vario di generi musicali (Pop rock, reggae e pop latino) una specie di miscela dei vari dischi precedenti che adesso si fondono in un unico album.La trackilst parte forte con “Dare (La La La)“, il secondo singolo estratto che lascia spazio all’elettro pop, uno dei brani che sicuramente balleremo tanto quest’ estate. “Can’t Remember to Forget You” feat. Rihanna, è il primo singolo che Shakira ha usato per fare da apripista all’intero progetto. Il duetto con la cantante delle Barbados è un qualcosa di incredibile per sensualità e vibrazioni musicali.
Sembra di assistere ad un a fusione tra l'anima reggae di Rihanna ed il pop-rock di Shakira.“Empire” è forse tra le migliori canzoni dell’album; una sorta di ballata rock che si apre con un intro di pianoforte per poi esplodere in un crescendo sul finale. “You Don’t Care About Me” è un brano dal sound anni ’60 con una melodia ipnotica e dolce. Il reggae ritorna, unito a contaminazioni di tipo Ska, nella quinta traccia “Cut Me Deep“, brano che vede la collaborazione del rapper Magic.“Spotlight” è una vera battaglia di chitarre elettriche che strizzano l'occhio all’heavy rock,una specie di esperimento provato dalla cantante, mentre “Broken Record” come “Empire” è un pezzo in cui la potente voce di Shakira si esalta molto.“Medicine” è un brano che vanta il featuring di Blake Shelton, un brano pop in cui i due cantanti usano la musica come una medicina. “23” è il brano che Shakira ha dedicato al suo amore, il calciatore Gerard Pique, 23 perchè era l'età che Gerard aveva quando si sono incontrati: il brano è una ballata dolce solo voce e chitarra,solo alla fine le percussioni e gli archi arrivano a chiudere la canzone.
Certamente è il brano più intimo dell'album.Anche il figlio Milan ha avuto una canzone dedicata ed è il pezzo “The One Thing”in cui l’artista non perde occasione per raccontare la felicità per la sua vita cambiata con la maternità.“Loca Por Ti” è ancora un brano dedicato al folle amore che Shakira ha per il suo attuale compagno di vita.Il disco si chiude con “La La La” brano che Shakira ha creato anche in previsione dei prossimi Mondiali di Calcio del 2014,alla canzone collabora il compositore, percussionista e cantante brasiliano Carlinhos Brown,ed è un pezzo energico e divertente,che trascina a ballare.In questo suo ultimo disco Shakira senza dubbio fa dell’amore nelle sue molteplici forme,il tema centrale: l’amore materno, quello passionale, quello eterno.Anche se le varie contaminazioni di genere potevano essere fatali alla fine abbiamo un disco che piace,un lavoro unito e ben comunicativo con un'anima rock ben presente.Un album della maturità che si allontana dal facile pop di qualche anno fa per affiancarsi a generi di spessore come reggae e ska.Ottimo lavoro.
In Italia è una delle cantanti internazionali più amate e da meno di un mese è di nuovo in prima linea con il uso nuovo lavoro di inediti,parliamo ovviamente della bella e sensualissima colombiana Shakira,pronta a farci ballare con il nuovo disco che porta il suo nome “Shakira“, decimo album in studio della passionale cantante.Per la creazione di questo lavoro Shakira si è circondata di produttori e collaborazioni di altissimo spessore come John Hill, Dr. Luke,fino a Dave Clauss. Il risultano è un album veramente esplosivo che nella sua versione deluxe è ricco di 15 brani, 4 dei quali in feauturing con ospiti di fama come Rihanna e Blake Shelton su tutti.“Shakira” al primo ascolto sembra un album vario di generi musicali (Pop rock, reggae e pop latino) una specie di miscela dei vari dischi precedenti che adesso si fondono in un unico album.La trackilst parte forte con “Dare (La La La)“, il secondo singolo estratto che lascia spazio all’elettro pop, uno dei brani che sicuramente balleremo tanto quest’ estate. “Can’t Remember to Forget You” feat. Rihanna, è il primo singolo che Shakira ha usato per fare da apripista all’intero progetto. Il duetto con la cantante delle Barbados è un qualcosa di incredibile per sensualità e vibrazioni musicali.
Sembra di assistere ad un a fusione tra l'anima reggae di Rihanna ed il pop-rock di Shakira.“Empire” è forse tra le migliori canzoni dell’album; una sorta di ballata rock che si apre con un intro di pianoforte per poi esplodere in un crescendo sul finale. “You Don’t Care About Me” è un brano dal sound anni ’60 con una melodia ipnotica e dolce. Il reggae ritorna, unito a contaminazioni di tipo Ska, nella quinta traccia “Cut Me Deep“, brano che vede la collaborazione del rapper Magic.“Spotlight” è una vera battaglia di chitarre elettriche che strizzano l'occhio all’heavy rock,una specie di esperimento provato dalla cantante, mentre “Broken Record” come “Empire” è un pezzo in cui la potente voce di Shakira si esalta molto.“Medicine” è un brano che vanta il featuring di Blake Shelton, un brano pop in cui i due cantanti usano la musica come una medicina. “23” è il brano che Shakira ha dedicato al suo amore, il calciatore Gerard Pique, 23 perchè era l'età che Gerard aveva quando si sono incontrati: il brano è una ballata dolce solo voce e chitarra,solo alla fine le percussioni e gli archi arrivano a chiudere la canzone.
Certamente è il brano più intimo dell'album.Anche il figlio Milan ha avuto una canzone dedicata ed è il pezzo “The One Thing”in cui l’artista non perde occasione per raccontare la felicità per la sua vita cambiata con la maternità.“Loca Por Ti” è ancora un brano dedicato al folle amore che Shakira ha per il suo attuale compagno di vita.Il disco si chiude con “La La La” brano che Shakira ha creato anche in previsione dei prossimi Mondiali di Calcio del 2014,alla canzone collabora il compositore, percussionista e cantante brasiliano Carlinhos Brown,ed è un pezzo energico e divertente,che trascina a ballare.In questo suo ultimo disco Shakira senza dubbio fa dell’amore nelle sue molteplici forme,il tema centrale: l’amore materno, quello passionale, quello eterno.Anche se le varie contaminazioni di genere potevano essere fatali alla fine abbiamo un disco che piace,un lavoro unito e ben comunicativo con un'anima rock ben presente.Un album della maturità che si allontana dal facile pop di qualche anno fa per affiancarsi a generi di spessore come reggae e ska.Ottimo lavoro.
N O A H
di Valeria Piras
Un nuovo kolossal americano.Un mix tra Bibbia e Tolkien.
Noah è il nuovo film diretto dal visionario regista Darren Aronofsky che in questo preciso momento della sua carriera registica ha deciso di misurarsi con la trasposizione filmica della storia biblica del profeta Noè.In effetti in Noah c'è davvero un pò di tutto,forse troppo.Si tratta di un costoso kolossal da ben centotrenta milioni di dollari. Aronofsky ha sempre fatto un cinema coraggioso,intenso e anticonvenzionale, ma in questo caso è tutto l'opposto.Ci troviamo dinanzi ad un vero fumettone epico fantasy dove troppe sono le salse miscelate,i generi cui si è attinto e le storie mixate.Alla fine il film sembra finire fuori controllo,straripare e andare da solo.Finisce col diventare una specie di via di mezzo tra Il Gladiatore e Il Signore degli anelli con i Transformers di roccia a dare un tocco action di sana e spettacolare mostruosità e le sfavillanti scene in 3D ad equilibrare le bellissime ma sconfinate panoramiche sui paesaggi di tipo islandese che danno vita al film.Alla fine Noah distrae, disorienta e trascina lo spettatore in un'interminabile guerra contro il Male senza riuscire mai a rapire veramente l'attenzione dello spettatore sul personaggio principale,senza svelarci i dubbi e le paure intime dello stesso Noè biblico.
Sembra che Aronofsky non abbia voluto scontentare nessuno,in primis gli Studios che lo hanno finanziato e abbia quindi accettato mille compromessi,cose che in passato mai avrebbe fatto.Il risultato è un film che si ispira solo in parte alle Sacre Scritture,per poi virare sui romanzi di Tolkien e lo stile di un genere complesso e popolare come il fantasy senza riuscire però a soddisfare nessuno dei registri filmici scelti.Il regista finisce per mescolare tutto,archetipi mitologici e letterari in modo confuso in una storia che ci parla di una famiglia, l'unica sopravvissuta all'apocalisse che ha flagellato il mondo e tutte le malvagità dell'uomo.Russel Crowe e Jennifer Connelly sono un pò sprecati in questi ruoli solo abbozzati e non delineati in maniera profonda.Riescono comunque con pathos a comunicare ansia e coraggio ma è troppo poco per conquistare.Brava la giovane Emma Watson che con angelica visione affianca i protagonisti e anche lo stesso Anthony Hopkins,nonostante il peso degli anni dà prova di essere sempre un notevole attore. Ma è la sceneggiatura ad essere troppo carica e densa di argomenti e alla fine il troppo storpia come diceva il proverbio.
Il regista carica in modo troppo cupo le tonalità cromatiche e le atmosfere che diventano subito funeste e surreali, come se non ci fosse un domani, come se non ci fosse speranza né scampo ma almeno c'è un finale a lieto fine che irrompe a dare serenità agii animi e a placare le ire divine: una sorta di banale ma folgorante arcobaleno compare improvvisamente tra cielo e terra, in segno di pace, e sancisce la nuova pace tra Dio e l'uomo.
Noah è il nuovo film diretto dal visionario regista Darren Aronofsky che in questo preciso momento della sua carriera registica ha deciso di misurarsi con la trasposizione filmica della storia biblica del profeta Noè.In effetti in Noah c'è davvero un pò di tutto,forse troppo.Si tratta di un costoso kolossal da ben centotrenta milioni di dollari. Aronofsky ha sempre fatto un cinema coraggioso,intenso e anticonvenzionale, ma in questo caso è tutto l'opposto.Ci troviamo dinanzi ad un vero fumettone epico fantasy dove troppe sono le salse miscelate,i generi cui si è attinto e le storie mixate.Alla fine il film sembra finire fuori controllo,straripare e andare da solo.Finisce col diventare una specie di via di mezzo tra Il Gladiatore e Il Signore degli anelli con i Transformers di roccia a dare un tocco action di sana e spettacolare mostruosità e le sfavillanti scene in 3D ad equilibrare le bellissime ma sconfinate panoramiche sui paesaggi di tipo islandese che danno vita al film.Alla fine Noah distrae, disorienta e trascina lo spettatore in un'interminabile guerra contro il Male senza riuscire mai a rapire veramente l'attenzione dello spettatore sul personaggio principale,senza svelarci i dubbi e le paure intime dello stesso Noè biblico.
Sembra che Aronofsky non abbia voluto scontentare nessuno,in primis gli Studios che lo hanno finanziato e abbia quindi accettato mille compromessi,cose che in passato mai avrebbe fatto.Il risultato è un film che si ispira solo in parte alle Sacre Scritture,per poi virare sui romanzi di Tolkien e lo stile di un genere complesso e popolare come il fantasy senza riuscire però a soddisfare nessuno dei registri filmici scelti.Il regista finisce per mescolare tutto,archetipi mitologici e letterari in modo confuso in una storia che ci parla di una famiglia, l'unica sopravvissuta all'apocalisse che ha flagellato il mondo e tutte le malvagità dell'uomo.Russel Crowe e Jennifer Connelly sono un pò sprecati in questi ruoli solo abbozzati e non delineati in maniera profonda.Riescono comunque con pathos a comunicare ansia e coraggio ma è troppo poco per conquistare.Brava la giovane Emma Watson che con angelica visione affianca i protagonisti e anche lo stesso Anthony Hopkins,nonostante il peso degli anni dà prova di essere sempre un notevole attore. Ma è la sceneggiatura ad essere troppo carica e densa di argomenti e alla fine il troppo storpia come diceva il proverbio.
Il regista carica in modo troppo cupo le tonalità cromatiche e le atmosfere che diventano subito funeste e surreali, come se non ci fosse un domani, come se non ci fosse speranza né scampo ma almeno c'è un finale a lieto fine che irrompe a dare serenità agii animi e a placare le ire divine: una sorta di banale ma folgorante arcobaleno compare improvvisamente tra cielo e terra, in segno di pace, e sancisce la nuova pace tra Dio e l'uomo.
TI RICORDI DI ME?
di Valeria Piras
Una favola allegra che fa anche pensare.
Molto spesso,soprattutto negli ultimi anni,sembra essere molte semplice dare vita ad una bella commedia (romantica) di successo; basta avere alla base una storia interessante, con collegamenti veri con la realtà e tanta voglia di sognare,basta sviluppare la storia con i tempi giusti, creare protagonisti accattivanti, meglio ancora se impersonificati da bravi attori con grande sintonia e infine consegnare l'intero pacchetto ad un regista in grado di dare all'opera una forma plausibile e allegra. Tutto ciò accade alla perfezione nel film Ti ricordi di me?, opera seconda di Rolando Ravello che assieme a Paolo Genovese e Edoardo Falconi ha deciso di girare per il grande schermo l'omonima opera teatrale di Massimiliano Bruno, anzi decidendo anche di utilizzare gli stessi interpreti teatrali, Edoardo Leo e Ambra Angiolini. Alla prima visione del film un chiaro primo elemento salta subito all'occhio e cioè il grande lavoro di rifinitura fatto su un materiale narrativo fortemente codificato e rigido, che è stato sapientemente raddoppiato per riempire il tempo cinematografico.
Mentre a teatro erano solo in due a muoversi sul palcoscenico, parlando ad un'ipotetica psicoterapeuta, Ravello decide di dare corpo a tutte le figure di contorno, a partire naturalmente dall'analista (Pia Englebert), fino al vicino impiccione di Roberto, Francesco (Paolo Calabresi), poliziotto che fa un lavoro d'ufficio ma vuole diventare uno 007. La presenza di questo gran numero di personaggi di contorno, tutti molto ben caratterizzati e interpretati dà sostanza e forma alla storia che si sviluppa sotto i nostri occhi con un realismo che però ci permette di volare in modo magico con la fantasia. Detto questo a primo impatto potrebbe sembrare un film leggero molto simile a tanti altri (e in effetti ci sono molte somiglianze) ma Ravello dimostra la particolare capacità di tenere sotto controllo la storia, mantendnedo un punto di vista originale, senza esagerare con scene macchiettistiche o descrizioni di situazioni strane collegate alla malattia dei protagonisti, ma anzi riesce anche a ritagliare spazio per alcune perfette pause drammatiche.
Il valore aggiunto di questo film è legato alla patina volutamente favolistica della storia con un principe azzurro molto particolare e una bella addormentata che ogni tanto si risveglia, strane fate turchine e grilli molto parlanti.Ravello azzarda spesso riflessioni in maniera però mai dogmatica o noiosa ma sfruttando al meglio le tecniche del cinema, con una scelta di montaggio efficace a svariare i multipli piani della storia, quelli realistici e quelli più fiabeschi riuscendo alla fine a garantire una regia misurata e davvero molto matura nonostante sia solo il suo secondo film. Nel film ci sono molti omaggi e citazioni più o meno volontarie,una specie di regalo fatto da Ravello alle varie commedie romantiche d'autore che diventano spruzzate di colore in grado alla fine di dare respiro alla storia poichè non hanno nulla di artificioso. Ed è senza dubbio un merito ulteriore merito di Ravello che alla fine ci dona un prodotto allegro e leggero con venature di riflessione esistenziale,un vero miracolo davvero.
Molto spesso,soprattutto negli ultimi anni,sembra essere molte semplice dare vita ad una bella commedia (romantica) di successo; basta avere alla base una storia interessante, con collegamenti veri con la realtà e tanta voglia di sognare,basta sviluppare la storia con i tempi giusti, creare protagonisti accattivanti, meglio ancora se impersonificati da bravi attori con grande sintonia e infine consegnare l'intero pacchetto ad un regista in grado di dare all'opera una forma plausibile e allegra. Tutto ciò accade alla perfezione nel film Ti ricordi di me?, opera seconda di Rolando Ravello che assieme a Paolo Genovese e Edoardo Falconi ha deciso di girare per il grande schermo l'omonima opera teatrale di Massimiliano Bruno, anzi decidendo anche di utilizzare gli stessi interpreti teatrali, Edoardo Leo e Ambra Angiolini. Alla prima visione del film un chiaro primo elemento salta subito all'occhio e cioè il grande lavoro di rifinitura fatto su un materiale narrativo fortemente codificato e rigido, che è stato sapientemente raddoppiato per riempire il tempo cinematografico.
Mentre a teatro erano solo in due a muoversi sul palcoscenico, parlando ad un'ipotetica psicoterapeuta, Ravello decide di dare corpo a tutte le figure di contorno, a partire naturalmente dall'analista (Pia Englebert), fino al vicino impiccione di Roberto, Francesco (Paolo Calabresi), poliziotto che fa un lavoro d'ufficio ma vuole diventare uno 007. La presenza di questo gran numero di personaggi di contorno, tutti molto ben caratterizzati e interpretati dà sostanza e forma alla storia che si sviluppa sotto i nostri occhi con un realismo che però ci permette di volare in modo magico con la fantasia. Detto questo a primo impatto potrebbe sembrare un film leggero molto simile a tanti altri (e in effetti ci sono molte somiglianze) ma Ravello dimostra la particolare capacità di tenere sotto controllo la storia, mantendnedo un punto di vista originale, senza esagerare con scene macchiettistiche o descrizioni di situazioni strane collegate alla malattia dei protagonisti, ma anzi riesce anche a ritagliare spazio per alcune perfette pause drammatiche.
Il valore aggiunto di questo film è legato alla patina volutamente favolistica della storia con un principe azzurro molto particolare e una bella addormentata che ogni tanto si risveglia, strane fate turchine e grilli molto parlanti.Ravello azzarda spesso riflessioni in maniera però mai dogmatica o noiosa ma sfruttando al meglio le tecniche del cinema, con una scelta di montaggio efficace a svariare i multipli piani della storia, quelli realistici e quelli più fiabeschi riuscendo alla fine a garantire una regia misurata e davvero molto matura nonostante sia solo il suo secondo film. Nel film ci sono molti omaggi e citazioni più o meno volontarie,una specie di regalo fatto da Ravello alle varie commedie romantiche d'autore che diventano spruzzate di colore in grado alla fine di dare respiro alla storia poichè non hanno nulla di artificioso. Ed è senza dubbio un merito ulteriore merito di Ravello che alla fine ci dona un prodotto allegro e leggero con venature di riflessione esistenziale,un vero miracolo davvero.
G I R L - Pharrell Williams
di Valeria Piras
Quando il talento c'è tutto.E si vede.
Il nuovo disco da solista di Pharrell si intitola Girl ed è il secondo dopo l'esordio del lontano 2006, che fu battezzato “In my mind” e che, nonostante Pharrell fosse già un personaggio talentuoso e celebre non fu un successo come ci si aspettava.Il primo album da solista era una semplice raccolta di pezzi hip-hop senza pecche ma nemmeno senza grandi slanci.Adesso è tutto cambiato.Pharrell ha compiuto 40 anni, si è sposato, ha avuto figli,si è posto l'obiettivo di diventare il nuovo Michael Jackson,obiettivo non certo facile.Notando la cover del suo nuovo disco,ovvero una foto poco glamour e cool,con tre ragazze in accappatoio e non le solite sventole mezze nude,e lui insieme a loro,appagato, sicuro e consapevole di sé,si capisce la diversa immagine che Pharrell vuole dare.
Un disco con decisioni chiare e dirette,innanzittutto zero hip-hop. Nessuna contaminazione rap, zero featuring con gli amici di strada pieni di tatuaggi e catene.Unico ospite del giro è Hans Zimmer che inserisce in partenza (“Marilyn Monroe”) un gran bel tappeto orchestrale,che sarà prossimo singolo, tanto per far capire subito che il disco è roba di classe.In “Gust of Wind” (il primo singolo del disco) insieme a Zimmer collaborano i Daft Punk,nuovi amici del cantante e degno di nota il gran pezzo “Brand new” insieme a Justin Timberlake, l'unico artista che per talento e glamour può oggi competere con lui.Nel pezzo i due cantanti fanno a gara di falsetto ed è complicato davvero distinguerli.Bella potente invece la chitarrina del campionamento "I want you back” dei Jackson 5.
I NERD, la ex-band in cui militava il buon Pharrell ha anch'essa collaborato con ottime cose, miscelando sapientemente rock, psichedelia e funk come solo pochi (Sly Stone, Prince) sono riusciti a fare. In alcuni singoli come “Lost queen” e la finale “It girl” c'è una vera fase di sviluppo del sound originario di Prince ma declinato con selvaggi ritmi africani, lunghi assoli di chitarra e cowbells. Ed è davvero una gioia per la mente ascoltare quel suono.Insomma "G I R L " è un disco adulto per suoni e intenzioni,un album che mette in risalto il gran gusto musicale che accompagna il nuovo Pharrell, che come ogni artista black che si rispetti, a un certo punto della carriera si stacca dalla musica di gioventù,tipo il rap, e si avvicina verso ciò che vuole veramente essere da grande,compresi “temi spirituali”, anche se non approfonditi in modo adeguato.L'intero disco è un esplicito inno alla donna, definita forza fondamentale del mondo e pietra angolare dell'esistenza come lo stesso Pharrell afferma nel singolo Happy,vera forza che fa esplodere l'album.
Il nuovo disco da solista di Pharrell si intitola Girl ed è il secondo dopo l'esordio del lontano 2006, che fu battezzato “In my mind” e che, nonostante Pharrell fosse già un personaggio talentuoso e celebre non fu un successo come ci si aspettava.Il primo album da solista era una semplice raccolta di pezzi hip-hop senza pecche ma nemmeno senza grandi slanci.Adesso è tutto cambiato.Pharrell ha compiuto 40 anni, si è sposato, ha avuto figli,si è posto l'obiettivo di diventare il nuovo Michael Jackson,obiettivo non certo facile.Notando la cover del suo nuovo disco,ovvero una foto poco glamour e cool,con tre ragazze in accappatoio e non le solite sventole mezze nude,e lui insieme a loro,appagato, sicuro e consapevole di sé,si capisce la diversa immagine che Pharrell vuole dare.
Un disco con decisioni chiare e dirette,innanzittutto zero hip-hop. Nessuna contaminazione rap, zero featuring con gli amici di strada pieni di tatuaggi e catene.Unico ospite del giro è Hans Zimmer che inserisce in partenza (“Marilyn Monroe”) un gran bel tappeto orchestrale,che sarà prossimo singolo, tanto per far capire subito che il disco è roba di classe.In “Gust of Wind” (il primo singolo del disco) insieme a Zimmer collaborano i Daft Punk,nuovi amici del cantante e degno di nota il gran pezzo “Brand new” insieme a Justin Timberlake, l'unico artista che per talento e glamour può oggi competere con lui.Nel pezzo i due cantanti fanno a gara di falsetto ed è complicato davvero distinguerli.Bella potente invece la chitarrina del campionamento "I want you back” dei Jackson 5.
I NERD, la ex-band in cui militava il buon Pharrell ha anch'essa collaborato con ottime cose, miscelando sapientemente rock, psichedelia e funk come solo pochi (Sly Stone, Prince) sono riusciti a fare. In alcuni singoli come “Lost queen” e la finale “It girl” c'è una vera fase di sviluppo del sound originario di Prince ma declinato con selvaggi ritmi africani, lunghi assoli di chitarra e cowbells. Ed è davvero una gioia per la mente ascoltare quel suono.Insomma "G I R L " è un disco adulto per suoni e intenzioni,un album che mette in risalto il gran gusto musicale che accompagna il nuovo Pharrell, che come ogni artista black che si rispetti, a un certo punto della carriera si stacca dalla musica di gioventù,tipo il rap, e si avvicina verso ciò che vuole veramente essere da grande,compresi “temi spirituali”, anche se non approfonditi in modo adeguato.L'intero disco è un esplicito inno alla donna, definita forza fondamentale del mondo e pietra angolare dell'esistenza come lo stesso Pharrell afferma nel singolo Happy,vera forza che fa esplodere l'album.
QUELLO CHE VOGLIO DA TE di Beth Kery
di Valeria Piras
Capitolo finale di una storia ricca di eros e mistero.
Oggi parliamo del nuovo romanzo della scrittrice Beth Kery dal titolo Quello che voglio da te. Si tratta del suo terzo libro appartenente alla serie “Because you’re mine”, il seguito diretto del suo libro precedente “Quello che mi lega a te”, un vero best seller del 2012 e racconta la vicenda Ian Noble e Francesca Arno, la storia che fa da collegamento in tutti e tre i suoi libri.Questo libro sarà il capitolo conclusivo di questa serie, che è stata davvero molto apprezzata dal pubblico di lettori italiani.Il romanzo dopo un prologo, in cui assistiamo al profondo rapporto che Ian e Francesca hanno,veniamo lanciati nella storia a cusa delle rivelazioni che allontaneranno i due protagonisti; la narrazione riprende sei mesi dopo e la protagonista Francesca sarà distrutta e intenta a riprendersi dalla fine del suo amore.Ian infatti l’ha abbandonata a se stessa sparendo senz amotivo e lei non riesce a comprenderlo,entrando in un tunnel buio.Nella parte finale del libro si coglie bene il motivo dell'addio e chi sia veramente Ian capendo il suo lato insicuro, tenero e disperato.
Alla fine del romanzo ecco svelata la maschera fredda dell'uomo, un uomo, non solo bello ma anche pieno di purezza, di paure e di dolcezza,anche se rimane pur sempre un dominatore, soprattutto a letto.Anche Francesca subisce una forte evoluzione,lei ha fatto un bel percorso dal primo libro al terzo. All'inizio era un “brutto anatroccolo” insicuro poi si è tramutata in cigno e sul suo percorso ha incontrato la bellezza del lato oscuro e a lei è piaciuto così tanto che adesso ne avverte la mancanza,sente la necessità.Da questa esperienza è uscita fortificata.Il romanzo ha inoltre una sottotrama gialla, anche se non vi è l'esplicita ricerca di un colpevole da scoprire. La componente di eros è sempre presente anche se meno brutale che nel primo libro, stemperata dal sentimento e dai comportamenti dei due protagonisti che diventano via via più comprensibili.
Insomma, alla fine della lettura il romanzo ci lascia sensazioni buone, lo stile di scrittura della Kery è fluido e ricercato, usa un bel lessico coinvolgente e sporco che però è ben contestualizzato, utilizzato neglia ttimi di pathos giusti e ben dosato. Se abbiamo letto i due precedenti capitoli dobbiamo necessariamente leggere il terzo se invece non li abbiamo letti allora l'intera vicenda di Ian e Francesca andfrebbe letta tutta d'un fiato altrimenti l’amarezza e il cattivo sapore dei primi due romanzi non ci abbandonerà più.
Oggi parliamo del nuovo romanzo della scrittrice Beth Kery dal titolo Quello che voglio da te. Si tratta del suo terzo libro appartenente alla serie “Because you’re mine”, il seguito diretto del suo libro precedente “Quello che mi lega a te”, un vero best seller del 2012 e racconta la vicenda Ian Noble e Francesca Arno, la storia che fa da collegamento in tutti e tre i suoi libri.Questo libro sarà il capitolo conclusivo di questa serie, che è stata davvero molto apprezzata dal pubblico di lettori italiani.Il romanzo dopo un prologo, in cui assistiamo al profondo rapporto che Ian e Francesca hanno,veniamo lanciati nella storia a cusa delle rivelazioni che allontaneranno i due protagonisti; la narrazione riprende sei mesi dopo e la protagonista Francesca sarà distrutta e intenta a riprendersi dalla fine del suo amore.Ian infatti l’ha abbandonata a se stessa sparendo senz amotivo e lei non riesce a comprenderlo,entrando in un tunnel buio.Nella parte finale del libro si coglie bene il motivo dell'addio e chi sia veramente Ian capendo il suo lato insicuro, tenero e disperato.
Alla fine del romanzo ecco svelata la maschera fredda dell'uomo, un uomo, non solo bello ma anche pieno di purezza, di paure e di dolcezza,anche se rimane pur sempre un dominatore, soprattutto a letto.Anche Francesca subisce una forte evoluzione,lei ha fatto un bel percorso dal primo libro al terzo. All'inizio era un “brutto anatroccolo” insicuro poi si è tramutata in cigno e sul suo percorso ha incontrato la bellezza del lato oscuro e a lei è piaciuto così tanto che adesso ne avverte la mancanza,sente la necessità.Da questa esperienza è uscita fortificata.Il romanzo ha inoltre una sottotrama gialla, anche se non vi è l'esplicita ricerca di un colpevole da scoprire. La componente di eros è sempre presente anche se meno brutale che nel primo libro, stemperata dal sentimento e dai comportamenti dei due protagonisti che diventano via via più comprensibili.
Insomma, alla fine della lettura il romanzo ci lascia sensazioni buone, lo stile di scrittura della Kery è fluido e ricercato, usa un bel lessico coinvolgente e sporco che però è ben contestualizzato, utilizzato neglia ttimi di pathos giusti e ben dosato. Se abbiamo letto i due precedenti capitoli dobbiamo necessariamente leggere il terzo se invece non li abbiamo letti allora l'intera vicenda di Ian e Francesca andfrebbe letta tutta d'un fiato altrimenti l’amarezza e il cattivo sapore dei primi due romanzi non ci abbandonerà più.
NYMPH()MANIAC
di Valeria Piras
Un lungo e dolente percorso nella mente e nella carne di una donna.
Lars Von Trier lo conosciamo tutti,almeno si spera.La sua arte e il suo talento è pari alla sua voglia di stupire e spiazzare sempre anche su temi tabù ma di cui è importante parlare come droga,omosessualitò.depressione e dipendenza dal sesso.Il suo nuovo film Nymphomaniac non è un film hard,è un viaggio in mezzo a sofferenza,sesso e depressione,nell'anima di una donna che la vita ha turbato e ferito ma senza ucciderla.Nymphomaniac è, ancora una volta, un tassello della sincera e disarmante autoanalisi pubblica di Lars von Trier, che riprendendo il discorso di Antichrist confessa la sua fragilità di fronte all'essere femminile,al suo fascino e alla sua grande elevatezza di spirito.Le donne sono un mistero magico,pura illusione.La trama ruota intorno al rapporto d’analisi tra la Joe di Charlotte Gainsbourg e il personaggio del maturo Stellan Skarsgård.Nella prima parte del film c'è la storia poetica e folle di Joe (Charlotte Gainsbourg), una ninfomane, come lei stessa si proclama, che racconta con la sua voce la sua esistenza,dalla nascita fino all’età di 50 anni. In una gelida sera il vecchio e affascinante scapolo, Seligman (Stellan Skarsgård), trova Joe in un vicolo dopo che è stata picchiata. La porta a casa e la cura e le chiede di raccontargli la sua storia. Joe per nulla imbarazzata narra nei successivi 8 capitoli, la storia della sua vita, ricca di incontri e di avvenimenti e si definisce una ninfomane che ha utilizzato il sesso per combattere una forte solitudine nata dal vuoto familiare e interiore, per fuggire da quell’amore che la terrorizza, una donna che si autopunisce senza avere colpe.
Skarsgård, da parte sua, cerca di moderare, contenere, ricondurre tutto nell'alveo della razionalità in base alla quale lui è vissuto ma alla fine cede e crolla dinanzi alla passione e ai sensi.Contraddittorio come sempre, von Trier utilizza il cinema sia per analizzare la psiche sia per autoanalizzarsi e in questo film elimina ogni filtro e confine come non gli accadeva da tempo.Nel racconto orale che si fa cinematografico, nella divisione in capitoli, nel suo essere provocatorio Nymphomaniac guarda al modello dei romanzi di vita ottocenteschi alla Oscar Wilde, dando spazio e tempo a personaggi unici quasi letterari.Grandi attori hanno voluto prendere parte al film,oltre alla Gainsbourg,musa del regista,c'è uno splendido William Defoe,un trascinante Christian Slater,un misterioso Shia Labeouf,una intensa Jamie Bell e una Uma Thurman che ci regala la sua bellezza controversa come non faceva da tempo.
Il film è ricco di immagini forti,non mancano membri maschili e organi sessuali esposti in primo piano in modo quasi profetico, mai però sembrano fini a sé stesse né pruriginose ma servono a rendere espliciti i dilemmi che hanno a che fare con la psiche e con la carne, ingredienti di un melodramma contemporaneo e sincero pronto a catturare tematiche universali, e profonde nevrosi che paralizzano l’empatia e violentano l'intimità a favore di una sessualità meccanica.Il film di Lars von Trier alla fine svela la sua morale, parla non solo dei rapporti tra donna e uomo, ma anche dell’amore e delle sue svariate facce esistenti anche nella disperata assenza di sentimento che si ha nella successione infinita di rapporti sessuali privi di coinvolgimento emotivo della giovane Joe.Certo, per comprende bene Nymphomaniac serve svuotare la mente e non avere preconcetti,solo così si apprezza l'arte del regista danese e si capisce dove mira l’autoanalisi della protagonista.Alla fine negli occhi ci restano suggestioni fortissime, un senso di libertà quasi scandalosa, e sequenze davvero emozionanti e memorabili.Cose che solo la vera arte riesce a regalarci e a comunicare.
Lars Von Trier lo conosciamo tutti,almeno si spera.La sua arte e il suo talento è pari alla sua voglia di stupire e spiazzare sempre anche su temi tabù ma di cui è importante parlare come droga,omosessualitò.depressione e dipendenza dal sesso.Il suo nuovo film Nymphomaniac non è un film hard,è un viaggio in mezzo a sofferenza,sesso e depressione,nell'anima di una donna che la vita ha turbato e ferito ma senza ucciderla.Nymphomaniac è, ancora una volta, un tassello della sincera e disarmante autoanalisi pubblica di Lars von Trier, che riprendendo il discorso di Antichrist confessa la sua fragilità di fronte all'essere femminile,al suo fascino e alla sua grande elevatezza di spirito.Le donne sono un mistero magico,pura illusione.La trama ruota intorno al rapporto d’analisi tra la Joe di Charlotte Gainsbourg e il personaggio del maturo Stellan Skarsgård.Nella prima parte del film c'è la storia poetica e folle di Joe (Charlotte Gainsbourg), una ninfomane, come lei stessa si proclama, che racconta con la sua voce la sua esistenza,dalla nascita fino all’età di 50 anni. In una gelida sera il vecchio e affascinante scapolo, Seligman (Stellan Skarsgård), trova Joe in un vicolo dopo che è stata picchiata. La porta a casa e la cura e le chiede di raccontargli la sua storia. Joe per nulla imbarazzata narra nei successivi 8 capitoli, la storia della sua vita, ricca di incontri e di avvenimenti e si definisce una ninfomane che ha utilizzato il sesso per combattere una forte solitudine nata dal vuoto familiare e interiore, per fuggire da quell’amore che la terrorizza, una donna che si autopunisce senza avere colpe.
Skarsgård, da parte sua, cerca di moderare, contenere, ricondurre tutto nell'alveo della razionalità in base alla quale lui è vissuto ma alla fine cede e crolla dinanzi alla passione e ai sensi.Contraddittorio come sempre, von Trier utilizza il cinema sia per analizzare la psiche sia per autoanalizzarsi e in questo film elimina ogni filtro e confine come non gli accadeva da tempo.Nel racconto orale che si fa cinematografico, nella divisione in capitoli, nel suo essere provocatorio Nymphomaniac guarda al modello dei romanzi di vita ottocenteschi alla Oscar Wilde, dando spazio e tempo a personaggi unici quasi letterari.Grandi attori hanno voluto prendere parte al film,oltre alla Gainsbourg,musa del regista,c'è uno splendido William Defoe,un trascinante Christian Slater,un misterioso Shia Labeouf,una intensa Jamie Bell e una Uma Thurman che ci regala la sua bellezza controversa come non faceva da tempo.
Il film è ricco di immagini forti,non mancano membri maschili e organi sessuali esposti in primo piano in modo quasi profetico, mai però sembrano fini a sé stesse né pruriginose ma servono a rendere espliciti i dilemmi che hanno a che fare con la psiche e con la carne, ingredienti di un melodramma contemporaneo e sincero pronto a catturare tematiche universali, e profonde nevrosi che paralizzano l’empatia e violentano l'intimità a favore di una sessualità meccanica.Il film di Lars von Trier alla fine svela la sua morale, parla non solo dei rapporti tra donna e uomo, ma anche dell’amore e delle sue svariate facce esistenti anche nella disperata assenza di sentimento che si ha nella successione infinita di rapporti sessuali privi di coinvolgimento emotivo della giovane Joe.Certo, per comprende bene Nymphomaniac serve svuotare la mente e non avere preconcetti,solo così si apprezza l'arte del regista danese e si capisce dove mira l’autoanalisi della protagonista.Alla fine negli occhi ci restano suggestioni fortissime, un senso di libertà quasi scandalosa, e sequenze davvero emozionanti e memorabili.Cose che solo la vera arte riesce a regalarci e a comunicare.
OLD BOY - Giuliano Palma
di Valeria Piras
Torna uno degli artisti dalla voce unica ed inconfondibile.
In questi giorni è uscito il nuovo lavoro di inediti di Giuliano Palma,un nome cui non servono presentazioni,uno degli artisti della scena italiana più originale e talentuoso reduce da molti successi ed hit negli ultimi anni. Old Boy, è questo il titolo del nuovo album, è uscito sull'onda di SanRemo e della sua partecipazione alla gara.Già dal titolo è evidente che Giuliano Palma abbia creato un disco che riesce a mischiare le atmosfere della musica del passato con influenze e sfumature attuali; Old Boy è una sorta di flashback nella musica italiana nel periodo dove dalla radio e dal palcoscenico uscivano artisti che il mondo ci invidiava con canzoni apprezzate ovunque. Tutto il disco è dominato dalla grande eleganza sonora e compositiva tipica di Palma ma di nuovo c'è il tentativo di presentare il tutto in un contesto moderno e internazionale per meglio esaltare l'unicità della canzone italiana di una volta sempre però restando moderni nelle sonorità.Il disco inizia con Ora lo sai, una hit con un sound raffinato tipico delle Big Band con fiati, tastiere e percussioni; un brano allegro con tanti aspetti sonori ed intermezzi da applausi tra cantato e strumentale.
Ottimo l’arrangiamento dei fiati che dà spessore al pezzo creando un tappeto sonoro compatto e melodico, che non attacca la voce graffiante di Giuliano. Così Lontano è il brano presentato a Sanremo che ha passato la selezione del pubblico;si tratta di un brano molto più lento dominato dall’organo sintetizzato e dalla chitarra che accentuano il ritmo. Un Bacio Crudele è il secondo pezzo sanremese, ed è certamente un bel brano riuscitissimo.Suona come un boogie bello tirato e molto ballabile che sarà sicuramente la canzone manifesto del disco. 10 Passi è un singolo ancorà più ballabile, dilatato dove voce e musica si alternano in un’atmosfera che somiglia molto a quella delle colonne sonore dei Western con suoni che richiamano il primo “Sergio Leone” e poi ha un finale davvero geniale.Perfetti sbagliati è un pezzo jazz delicato e dal ritmo dolce,l’arrangiamento è leggero e sotto alcuni punti ci richiama ad alcuni pezzi sullo stile di Pino Daniele, assoli sparsi di chitarra o di sax riempiono le parti strumentali in maniera davvero raffinata.
L’Estate Arriverà è la canzone che cambia completamente il giro dell'album, un sound soffice riempito da flauti e violini, che ci ricorda un po’ i lavori di Lucio Dalla,Giuliano Palma ha voluto in molti pezzi dare il suo personale tributo ad alcuni mostri sacri della canzone italiana e ci è riuscito alla perfezione con classe e grande charme.Old Boy è un lavoro totalmente nuovo,suona come un disco di tanti anni fa e non è una critica bensì un elogio.Ogni brano ci dà una fotografia,un'atmosfera diversa che ci fa volare con la memoria, creando una linea sonora molto espansiva che spazia tra i generi mantenendo una linearità marcatamente jazz. Giuliano Palma ha dato alla luce un altro disco di spessore che non smentisce il suo grande talento e il suo buon gusto musicale.Un disco da comprare sicuramente che ci ricorda come il nostro paese sia ancora in grado di produrre musica di alto livello artistico.
In questi giorni è uscito il nuovo lavoro di inediti di Giuliano Palma,un nome cui non servono presentazioni,uno degli artisti della scena italiana più originale e talentuoso reduce da molti successi ed hit negli ultimi anni. Old Boy, è questo il titolo del nuovo album, è uscito sull'onda di SanRemo e della sua partecipazione alla gara.Già dal titolo è evidente che Giuliano Palma abbia creato un disco che riesce a mischiare le atmosfere della musica del passato con influenze e sfumature attuali; Old Boy è una sorta di flashback nella musica italiana nel periodo dove dalla radio e dal palcoscenico uscivano artisti che il mondo ci invidiava con canzoni apprezzate ovunque. Tutto il disco è dominato dalla grande eleganza sonora e compositiva tipica di Palma ma di nuovo c'è il tentativo di presentare il tutto in un contesto moderno e internazionale per meglio esaltare l'unicità della canzone italiana di una volta sempre però restando moderni nelle sonorità.Il disco inizia con Ora lo sai, una hit con un sound raffinato tipico delle Big Band con fiati, tastiere e percussioni; un brano allegro con tanti aspetti sonori ed intermezzi da applausi tra cantato e strumentale.
Ottimo l’arrangiamento dei fiati che dà spessore al pezzo creando un tappeto sonoro compatto e melodico, che non attacca la voce graffiante di Giuliano. Così Lontano è il brano presentato a Sanremo che ha passato la selezione del pubblico;si tratta di un brano molto più lento dominato dall’organo sintetizzato e dalla chitarra che accentuano il ritmo. Un Bacio Crudele è il secondo pezzo sanremese, ed è certamente un bel brano riuscitissimo.Suona come un boogie bello tirato e molto ballabile che sarà sicuramente la canzone manifesto del disco. 10 Passi è un singolo ancorà più ballabile, dilatato dove voce e musica si alternano in un’atmosfera che somiglia molto a quella delle colonne sonore dei Western con suoni che richiamano il primo “Sergio Leone” e poi ha un finale davvero geniale.Perfetti sbagliati è un pezzo jazz delicato e dal ritmo dolce,l’arrangiamento è leggero e sotto alcuni punti ci richiama ad alcuni pezzi sullo stile di Pino Daniele, assoli sparsi di chitarra o di sax riempiono le parti strumentali in maniera davvero raffinata.
L’Estate Arriverà è la canzone che cambia completamente il giro dell'album, un sound soffice riempito da flauti e violini, che ci ricorda un po’ i lavori di Lucio Dalla,Giuliano Palma ha voluto in molti pezzi dare il suo personale tributo ad alcuni mostri sacri della canzone italiana e ci è riuscito alla perfezione con classe e grande charme.Old Boy è un lavoro totalmente nuovo,suona come un disco di tanti anni fa e non è una critica bensì un elogio.Ogni brano ci dà una fotografia,un'atmosfera diversa che ci fa volare con la memoria, creando una linea sonora molto espansiva che spazia tra i generi mantenendo una linearità marcatamente jazz. Giuliano Palma ha dato alla luce un altro disco di spessore che non smentisce il suo grande talento e il suo buon gusto musicale.Un disco da comprare sicuramente che ci ricorda come il nostro paese sia ancora in grado di produrre musica di alto livello artistico.
MALDAMORE
di Valeria Piras
Una nuova e divertente commedia sui vizi dell'amore.
Il giovane regista Angelo Longoni definisce il suo nuovo film da pochi giorni nelle sale italiane come unacommedia sul tradimento e la capacità di perdonare, di andare oltre le apparenze. Il titolo del film è Maldamore e ha come brillanti protagonisti Luca Zingaretti, Luisa Ranieri, Ambra Angiolini e Alessio Boni. E’ un film che diverte che comunica una serie di verità, affrontate con schiettezza e che in modo allegro ci spiega i problemi che prima o poi ogni coppia deve affrontare. In ogni relazione infatti arriva il giorno che gli equilibri saltano, e solo con coraggio e buona volontà si può uscire dal caos che ne deriva.Altrimenti solo la fuga ci può salvare.Il demone di ogni coppia è la classica scappatella. O anche più di una.E cosa succede quando il tradimento viene scoperto? E’ possibile riparare oppure no?
Venendo alla storia,Ambra Angiolini,vera rivelazione comica di questi anni, interpreta una moglie nevrotica (ha il terrore soprattutto dell’età che avanza) e sistematicamente tradita dal consorte (Zingaretti), fedifrago seriale.Per vendetta Ambra si tramuta in una traditrice emotiva.Luisa Ranieri (al primo film in coppia col marito Zingaretti) si lascia tentare dal gusto della clandestinità, ma solo per poco, poi confessa tutto al coniuge (Alessio Boni); coniuge che a sua volta l'ha tradita occasionalmente.Senza troppi sensi di colpa.Il regista da vita ad una storia bella e azzeccata, perlopiù brillante, dal sapore che diventa amaro ma mai patetico, un film ricco di battute che strappano risate intense.Poi c'è la presenza di attori bravi che aiuta molto,come Luca Zingaretti, che nel film è un convintissimo traditore seriale, Alessio Boni, che recita un uomo intenso, riflessivo ma anche fragile, l'esilarante isteria e insicurezza di Ambra Angiolini e la divertente goffaggine messa in scena da Luisa Ranieri.
Il film è solido con una storia che va da sola,senza vuoti e come detto, nonostante il contesto comico ben riuscito, ci sono anche ampi spazi per la riflessione su argomenti delicati, che nella vita a due ognuno ha affrontato almeno una volta.Non solo l’infedeltà, ma anche la paura terribile di invecchiare, la consapevolezza che la passione giovanile può anche svanire, l’angoscia di non avere figli, la vita matrimoniale a volte monotona e ripetitiva.Ottimi inoltre i due camei,uno di Maria Grazia Cucinotta, produttrice della pellicola, che impersona una defunta zia di Marco che, come un grillo parlante in sexy autoreggenti, cerca di frena la dissolutezza del nipote; e l'altro cameo di Claudia Gerini che fa sorridere molto nella parte di un’ubriaca con stranissime abitudini sessuali.
Il giovane regista Angelo Longoni definisce il suo nuovo film da pochi giorni nelle sale italiane come unacommedia sul tradimento e la capacità di perdonare, di andare oltre le apparenze. Il titolo del film è Maldamore e ha come brillanti protagonisti Luca Zingaretti, Luisa Ranieri, Ambra Angiolini e Alessio Boni. E’ un film che diverte che comunica una serie di verità, affrontate con schiettezza e che in modo allegro ci spiega i problemi che prima o poi ogni coppia deve affrontare. In ogni relazione infatti arriva il giorno che gli equilibri saltano, e solo con coraggio e buona volontà si può uscire dal caos che ne deriva.Altrimenti solo la fuga ci può salvare.Il demone di ogni coppia è la classica scappatella. O anche più di una.E cosa succede quando il tradimento viene scoperto? E’ possibile riparare oppure no?
Venendo alla storia,Ambra Angiolini,vera rivelazione comica di questi anni, interpreta una moglie nevrotica (ha il terrore soprattutto dell’età che avanza) e sistematicamente tradita dal consorte (Zingaretti), fedifrago seriale.Per vendetta Ambra si tramuta in una traditrice emotiva.Luisa Ranieri (al primo film in coppia col marito Zingaretti) si lascia tentare dal gusto della clandestinità, ma solo per poco, poi confessa tutto al coniuge (Alessio Boni); coniuge che a sua volta l'ha tradita occasionalmente.Senza troppi sensi di colpa.Il regista da vita ad una storia bella e azzeccata, perlopiù brillante, dal sapore che diventa amaro ma mai patetico, un film ricco di battute che strappano risate intense.Poi c'è la presenza di attori bravi che aiuta molto,come Luca Zingaretti, che nel film è un convintissimo traditore seriale, Alessio Boni, che recita un uomo intenso, riflessivo ma anche fragile, l'esilarante isteria e insicurezza di Ambra Angiolini e la divertente goffaggine messa in scena da Luisa Ranieri.
Il film è solido con una storia che va da sola,senza vuoti e come detto, nonostante il contesto comico ben riuscito, ci sono anche ampi spazi per la riflessione su argomenti delicati, che nella vita a due ognuno ha affrontato almeno una volta.Non solo l’infedeltà, ma anche la paura terribile di invecchiare, la consapevolezza che la passione giovanile può anche svanire, l’angoscia di non avere figli, la vita matrimoniale a volte monotona e ripetitiva.Ottimi inoltre i due camei,uno di Maria Grazia Cucinotta, produttrice della pellicola, che impersona una defunta zia di Marco che, come un grillo parlante in sexy autoreggenti, cerca di frena la dissolutezza del nipote; e l'altro cameo di Claudia Gerini che fa sorridere molto nella parte di un’ubriaca con stranissime abitudini sessuali.
MORNING PHASE - Beck
di Valeria Piras
Il nuovo ed emozionante viaggio folk di Beck.
Precisamente venti anni fa esordiva con il disco “Mellow Gold”, il giovane Beck, un artista californiano che prometteva davvero tanto e infatti,ha mantenuto le attese. Fin dagli inizi Beck mostrò di essere vicino alle sonorità di cantanti come Cobain e i Clash, mirando ad essere una sorta di figura alla Dylan ma più ironico e un po’ naif con venature grunge e hip hop. In quell’album “Loser” in particolare era un vero inno, trascinante e melodico che segnò per sempre una generazione. Da allora Mr Hansen ne ha fatta di strada e col passare degli anni è divenuto un artista radicale,vero cardine del mondo musicale statunitense, con dei grandi lavori in studio seguendo contaminazioni e sincretismo stilistico di cui un esempio sublime fu “Sea Change”. Sotto questo aspetto proprio quella collezione di fluttuanti canzoni folk dal suono country e arricchite con arrangiamenti elaborati di Nigel Godrich, sembra essere molto vicino al nuovo album in uscita in questi giorni dal titolo, “Morning Phase”, con cui il musicista californiano ritorna, ben sei anni dopo il suo ultimo lavoro di inediti.
Al primo ascolto risulta evidente che il cuore di Beck è più leggero e solare,ma anche disincantato e non c’è quindi lo spazio per il torpore esistenziale di dieci anni prima. Nonostante ciò però le tracce sono di elevata qualità sia nei suoni che nelle composizioni: vero cantautorato adulto nella migliore accezione del termine. Il disco parte con un binomio meraviglioso grazie a “Cycle” e “Morning” che ci riporta alle atmosfere country di “Sea Change”, con ariosi tocchi di chitarra e sontuose accelerazioni dell’ orchestra. Sullo stesso piano acustico si collocano “Unforgiven” e l’algida “Wave”, forti singoli dall’abito elegante ma diretto. Il Beck più riflessivo spunta in stile folk con “Don’t let it go”, anche grazie ai raffinati cori da west coast ben delineati in tracce come “Blackbird chain” e “Turn away”.Nella splendida “Country down”si coglie un esplicito omaggio a Neil Young con in sottofondo un magico tocco di armonica con elementi metallici lontani. Nel pezzo “Blue Moon” invece si notano delle sorprese come alcune stranezze ritmiche che ci spingono verso un suono più anni settanta.
La fine dell’album si ha con “Waking Light”, una canzone romantica evidenziata da un pianoforte vibrante, in cui l’anima folk e quella barocca si alternano per esplodere in un finale melodico che ricorda l’arte dei Beatles.Il testo è una vera poesia dedicata alle illusioni giovanili ormai crollate nella realtà ma comunque raccontate con gioia. Beck ad alcuni fan fortunati ha svelato che forse tra qualche mese uscirà un suo lavoro live che seguirà con alcuni inediti la scia “eclettica” di Morning Phase,dedicato soprattutto alle performance acustiche. Quindi un disco questo che appare bellissimo,se sarà unico o meno lo dirà il tempo ma di sicuro è certamente emozionante da ascoltare, adatto anche a chi non ama Beck ma ama il folk acustico old style. Testi e musiche di una semplicità disarmante e artisticamente avanti, una vera novità nel panorama musicale americano. Un’unica cosa da fare. Godiamocelo tutto.
Precisamente venti anni fa esordiva con il disco “Mellow Gold”, il giovane Beck, un artista californiano che prometteva davvero tanto e infatti,ha mantenuto le attese. Fin dagli inizi Beck mostrò di essere vicino alle sonorità di cantanti come Cobain e i Clash, mirando ad essere una sorta di figura alla Dylan ma più ironico e un po’ naif con venature grunge e hip hop. In quell’album “Loser” in particolare era un vero inno, trascinante e melodico che segnò per sempre una generazione. Da allora Mr Hansen ne ha fatta di strada e col passare degli anni è divenuto un artista radicale,vero cardine del mondo musicale statunitense, con dei grandi lavori in studio seguendo contaminazioni e sincretismo stilistico di cui un esempio sublime fu “Sea Change”. Sotto questo aspetto proprio quella collezione di fluttuanti canzoni folk dal suono country e arricchite con arrangiamenti elaborati di Nigel Godrich, sembra essere molto vicino al nuovo album in uscita in questi giorni dal titolo, “Morning Phase”, con cui il musicista californiano ritorna, ben sei anni dopo il suo ultimo lavoro di inediti.
Al primo ascolto risulta evidente che il cuore di Beck è più leggero e solare,ma anche disincantato e non c’è quindi lo spazio per il torpore esistenziale di dieci anni prima. Nonostante ciò però le tracce sono di elevata qualità sia nei suoni che nelle composizioni: vero cantautorato adulto nella migliore accezione del termine. Il disco parte con un binomio meraviglioso grazie a “Cycle” e “Morning” che ci riporta alle atmosfere country di “Sea Change”, con ariosi tocchi di chitarra e sontuose accelerazioni dell’ orchestra. Sullo stesso piano acustico si collocano “Unforgiven” e l’algida “Wave”, forti singoli dall’abito elegante ma diretto. Il Beck più riflessivo spunta in stile folk con “Don’t let it go”, anche grazie ai raffinati cori da west coast ben delineati in tracce come “Blackbird chain” e “Turn away”.Nella splendida “Country down”si coglie un esplicito omaggio a Neil Young con in sottofondo un magico tocco di armonica con elementi metallici lontani. Nel pezzo “Blue Moon” invece si notano delle sorprese come alcune stranezze ritmiche che ci spingono verso un suono più anni settanta.
La fine dell’album si ha con “Waking Light”, una canzone romantica evidenziata da un pianoforte vibrante, in cui l’anima folk e quella barocca si alternano per esplodere in un finale melodico che ricorda l’arte dei Beatles.Il testo è una vera poesia dedicata alle illusioni giovanili ormai crollate nella realtà ma comunque raccontate con gioia. Beck ad alcuni fan fortunati ha svelato che forse tra qualche mese uscirà un suo lavoro live che seguirà con alcuni inediti la scia “eclettica” di Morning Phase,dedicato soprattutto alle performance acustiche. Quindi un disco questo che appare bellissimo,se sarà unico o meno lo dirà il tempo ma di sicuro è certamente emozionante da ascoltare, adatto anche a chi non ama Beck ma ama il folk acustico old style. Testi e musiche di una semplicità disarmante e artisticamente avanti, una vera novità nel panorama musicale americano. Un’unica cosa da fare. Godiamocelo tutto.
ALLACCIATE LE CINTURE
di Valeria Piras
Un bel film per una bella storia d'amore.
La nuova pellicola di Ferzan Ozpetek si intitola Allacciate le Cinture ed è un film romantico e delicato,un film tipicamente di Ozpetek con temi,scene e contesti subito riconoscibili,indissolubilmente legati allo stile unico del regista turco.Dall'enorme successo de Le Fate Ignoranti in poi, è andato amplificando e affinando il suo stile diretto, creando una vera evoluzione.Fin dall'inizio del film tutti attendiamo scene come la convivialità della tavola, la presenza di una famiglia sia essa tradizionale o alternativa, l'amico gay e la colonna sonora bella e sempre presente,con lo scopo di invadere le scene e creare enfasi.Il regista turco, anche se in passato si è dedicato a generi come la commedia ,ha una forte preferenza per il "melodramma" contemporaneo.Nel suo lavoro precedente Magnifica presenza si era dedicato al tema dei fantasmi visti con l'innocente stupore di Elio Germano,con Allacciate le cinture torna senza esitazione a raccontare un mondo che conosce bene che ha descritto varie volte,il tema della passione, dell'amicizia, dei tormenti di coppia e del confronto con la paura della morte.
La storia è ambientata ancora una volta per le bellissime strade di Lecce come successo per il film Mine vaganti. Il regista turco miscela molto temi ed emozioni e alla fine crea un film intenso ma un pò spiazzante con momenti forse dipinti con enfasi smisurata,anche se emozionante e per fortuna con la sua classica ironia capace di dare vita a scene di rara belezza. Ozpetek decide di essere molto lineare nella storia e già nei primi minuti ci si accorge che tra l'elegante e bella Elena e Antonio,ragazzo schietto e rude può scoccare la scintilla che infatti scocca.Il regista dà fuoco alla passione dei due e poi affida ai dettagli ed ai sospiri il compito di raccontarla e descriverla sottolineando la fusione tra due spiriti cosi diversi fino alla scoperta amara e drammatica della malattia di lei.Una novità di questo film rispetto agli altri di Ozpetek è l'insistenza sui primi piani dei protagonisti,qui la splendida Kasia Smutniak regge bene la sfida e comunica sentimenti mentre l'ex tronista Arca inciampa spesso con il suo sguardo monotematico.Anche se dobbiamo ammetterlo ci aspettavamo un attore cane ed invece Arca è sufficiente anche se il suo protagonista forse meritava ben altro spessore.La sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con Gianni Romoli e ci consegna alcuni ritratti umani fedeli,dominati da sarcasmo, ironia e senso della realtà,un mondo reale dove ad emergere nel bene è sempre e comunque la forza tutta al femminile che Ozpetek ama e celebra in ogni suo lavoro.
In questo film ogni donna è perfettamente inserita e si muove con grazia, seguendo il ritmo creato dalla sua natura e dominata non tanto dal coraggio ma dalla consapevolezza. E' grazie a questa consapevolezza che Elena,Kasia Smutniak, racconta la sua disavventura con un tono sempre equilibrato e calmo,mentre alla madre Carla Signoris e alla "zia" con crisi d'identità Elena Sofia Ricci viene affidato il ruolo della componente ironica e dissacrante. Ottime inoltre le prove di Luisa Ranieri,che impersona una carnale parrucchiera e la comica Paola Minaccioni che essendo amica stretta del regista è riuscita ad avere un personaggio a lei preciso ricco di dolore e umorismo usato per nascondere un' enorme solitudine nel corso del confronto con la morte. Il suo personaggio è per sua ammissione emblema del grande rimpianto e del bisogno disperato di vivere anche quando il proprio tempo è oramai finito.
La nuova pellicola di Ferzan Ozpetek si intitola Allacciate le Cinture ed è un film romantico e delicato,un film tipicamente di Ozpetek con temi,scene e contesti subito riconoscibili,indissolubilmente legati allo stile unico del regista turco.Dall'enorme successo de Le Fate Ignoranti in poi, è andato amplificando e affinando il suo stile diretto, creando una vera evoluzione.Fin dall'inizio del film tutti attendiamo scene come la convivialità della tavola, la presenza di una famiglia sia essa tradizionale o alternativa, l'amico gay e la colonna sonora bella e sempre presente,con lo scopo di invadere le scene e creare enfasi.Il regista turco, anche se in passato si è dedicato a generi come la commedia ,ha una forte preferenza per il "melodramma" contemporaneo.Nel suo lavoro precedente Magnifica presenza si era dedicato al tema dei fantasmi visti con l'innocente stupore di Elio Germano,con Allacciate le cinture torna senza esitazione a raccontare un mondo che conosce bene che ha descritto varie volte,il tema della passione, dell'amicizia, dei tormenti di coppia e del confronto con la paura della morte.
La storia è ambientata ancora una volta per le bellissime strade di Lecce come successo per il film Mine vaganti. Il regista turco miscela molto temi ed emozioni e alla fine crea un film intenso ma un pò spiazzante con momenti forse dipinti con enfasi smisurata,anche se emozionante e per fortuna con la sua classica ironia capace di dare vita a scene di rara belezza. Ozpetek decide di essere molto lineare nella storia e già nei primi minuti ci si accorge che tra l'elegante e bella Elena e Antonio,ragazzo schietto e rude può scoccare la scintilla che infatti scocca.Il regista dà fuoco alla passione dei due e poi affida ai dettagli ed ai sospiri il compito di raccontarla e descriverla sottolineando la fusione tra due spiriti cosi diversi fino alla scoperta amara e drammatica della malattia di lei.Una novità di questo film rispetto agli altri di Ozpetek è l'insistenza sui primi piani dei protagonisti,qui la splendida Kasia Smutniak regge bene la sfida e comunica sentimenti mentre l'ex tronista Arca inciampa spesso con il suo sguardo monotematico.Anche se dobbiamo ammetterlo ci aspettavamo un attore cane ed invece Arca è sufficiente anche se il suo protagonista forse meritava ben altro spessore.La sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con Gianni Romoli e ci consegna alcuni ritratti umani fedeli,dominati da sarcasmo, ironia e senso della realtà,un mondo reale dove ad emergere nel bene è sempre e comunque la forza tutta al femminile che Ozpetek ama e celebra in ogni suo lavoro.
In questo film ogni donna è perfettamente inserita e si muove con grazia, seguendo il ritmo creato dalla sua natura e dominata non tanto dal coraggio ma dalla consapevolezza. E' grazie a questa consapevolezza che Elena,Kasia Smutniak, racconta la sua disavventura con un tono sempre equilibrato e calmo,mentre alla madre Carla Signoris e alla "zia" con crisi d'identità Elena Sofia Ricci viene affidato il ruolo della componente ironica e dissacrante. Ottime inoltre le prove di Luisa Ranieri,che impersona una carnale parrucchiera e la comica Paola Minaccioni che essendo amica stretta del regista è riuscita ad avere un personaggio a lei preciso ricco di dolore e umorismo usato per nascondere un' enorme solitudine nel corso del confronto con la morte. Il suo personaggio è per sua ammissione emblema del grande rimpianto e del bisogno disperato di vivere anche quando il proprio tempo è oramai finito.
LE COSE CHE SAI DI ME di Clara Sànchez
di Valeria Piras
Romanzo pluripremiato che indaga sulla vita.
La splendida scrittrice spagnola Clara Sanchez è uscita nelle librerie il 6 febbraio con il suo nuovo romanzo dal titolo Le cose che sai di me pubblicato dalla Garzanti.Dopo poche settimane è già chiaro il grande successo di vendite.Il romanzo come i precedenti della stessa Clara Sanchez, è elaborato con leggerezza ma anche con una forte profondità che sin dal primo capitolo attira il lettore proiettandolo nel mondo della protagonista. In “Le cose che sai di me”, l’autrice analizza molto il labile confine fra realtà e menzogna, cercando di sollevare l'ambiguo velo delle apparenze. E’ un romanzo ricco di passioni che scandaglia un mondo fatto di mistero ma anche di vita e di relazioni umani. Ne “Le cose che sai di me” Clara Sanchez ci parla della storia di una giovane modella, Patricia, che pensa di aver raggiunto tutti gli obiettivi più importanti della vita: ha un marito che la ama e che molti le invidiamo, ha successo nel lavoro, una famiglia piena di affetto che le garantisce soldi e fama.
Tutto è davvero bello nella sua esistenza ma di ritorno da una sfilata in India l’aereo su cui si trova a causa di un guasto grave perde quota e rischia di precipitare.Una donna che siede accanto a lei le svela un segreto convinta che l'aereo stia precipitando.Le dice che qualcuno la desidera morta e che lei si salverà dall'incidente ma nella vita reale sarà inseguita da questa persona. L'aereo non si schianta al suolo e tornando nella sua quotidianità Patricia sembra aver dimenticato ma dopo qualche giorno da quello strano incontro con la donna che riconosce le vibrazioni delle persone, le succedono una serie di circostanze anomale che sembrano mettere in repentaglio la sua tranquillità esistenziale. La modella decide allora di vederci chiaro aprendo gli occhi sulle persone che le girano intorno per comprendere chi vuole farle male. Avvia una forma di analisi sulla gente che le sta intorno e scopre che tutti potrebbero avere un motivo per volerla morta.I dubbi si autoalimentano e crescono le ansie in lei giorno per giorno.
In poche pagine quindi assistiamo al crollo di tutte quelle certezze della protagonista che rendevano perfetta la sua vita. Patricia, così si mette in gioco per capire chi le sta accanto e guardarsi in profondità.La scrittrice ha conquistato con questo suo ultimo romanzo vari premi tra cui Premio Planeta 2013, il riconoscimento più importante che possa ricevere un autore spagnolo. In Italia ebbe un successo grande con i primi suoi libri Profumo delle foglie di limone e di Entra nella mia vita, conquistando rapidamente il cuore di un milione di lettori, dominando le classifiche. Questo suo ultimo romanso uscito in Spagna l'anno scorso è un vero incontrastato bestseller spagnolo, l'autrice prova ad espolorare la realtà nel profondo, lì dove la sicurezza vacilla e gli inganni si svelano. Una storia che è piaciuta a molti proprio per la forte intensità con cui la vicenda viene narrata.Scoperte e rivelazioni inaspettate, tradimenti ed emozioni nascoste in un romanzo che ci fa capire bene che ogni singolo fatto,ogni singola persona non hanno una sola sfacccettatura,ma molte e non tutte sempre piacevoli.
La splendida scrittrice spagnola Clara Sanchez è uscita nelle librerie il 6 febbraio con il suo nuovo romanzo dal titolo Le cose che sai di me pubblicato dalla Garzanti.Dopo poche settimane è già chiaro il grande successo di vendite.Il romanzo come i precedenti della stessa Clara Sanchez, è elaborato con leggerezza ma anche con una forte profondità che sin dal primo capitolo attira il lettore proiettandolo nel mondo della protagonista. In “Le cose che sai di me”, l’autrice analizza molto il labile confine fra realtà e menzogna, cercando di sollevare l'ambiguo velo delle apparenze. E’ un romanzo ricco di passioni che scandaglia un mondo fatto di mistero ma anche di vita e di relazioni umani. Ne “Le cose che sai di me” Clara Sanchez ci parla della storia di una giovane modella, Patricia, che pensa di aver raggiunto tutti gli obiettivi più importanti della vita: ha un marito che la ama e che molti le invidiamo, ha successo nel lavoro, una famiglia piena di affetto che le garantisce soldi e fama.
Tutto è davvero bello nella sua esistenza ma di ritorno da una sfilata in India l’aereo su cui si trova a causa di un guasto grave perde quota e rischia di precipitare.Una donna che siede accanto a lei le svela un segreto convinta che l'aereo stia precipitando.Le dice che qualcuno la desidera morta e che lei si salverà dall'incidente ma nella vita reale sarà inseguita da questa persona. L'aereo non si schianta al suolo e tornando nella sua quotidianità Patricia sembra aver dimenticato ma dopo qualche giorno da quello strano incontro con la donna che riconosce le vibrazioni delle persone, le succedono una serie di circostanze anomale che sembrano mettere in repentaglio la sua tranquillità esistenziale. La modella decide allora di vederci chiaro aprendo gli occhi sulle persone che le girano intorno per comprendere chi vuole farle male. Avvia una forma di analisi sulla gente che le sta intorno e scopre che tutti potrebbero avere un motivo per volerla morta.I dubbi si autoalimentano e crescono le ansie in lei giorno per giorno.
In poche pagine quindi assistiamo al crollo di tutte quelle certezze della protagonista che rendevano perfetta la sua vita. Patricia, così si mette in gioco per capire chi le sta accanto e guardarsi in profondità.La scrittrice ha conquistato con questo suo ultimo romanzo vari premi tra cui Premio Planeta 2013, il riconoscimento più importante che possa ricevere un autore spagnolo. In Italia ebbe un successo grande con i primi suoi libri Profumo delle foglie di limone e di Entra nella mia vita, conquistando rapidamente il cuore di un milione di lettori, dominando le classifiche. Questo suo ultimo romanso uscito in Spagna l'anno scorso è un vero incontrastato bestseller spagnolo, l'autrice prova ad espolorare la realtà nel profondo, lì dove la sicurezza vacilla e gli inganni si svelano. Una storia che è piaciuta a molti proprio per la forte intensità con cui la vicenda viene narrata.Scoperte e rivelazioni inaspettate, tradimenti ed emozioni nascoste in un romanzo che ci fa capire bene che ogni singolo fatto,ogni singola persona non hanno una sola sfacccettatura,ma molte e non tutte sempre piacevoli.
UNA DONNA PER AMICA
di Valeria Piras
Commedia italiana che brilla e diverte.
Giovanni Veronesi sfodera una commedia nuova di zecca in uscita oggi nelle sale italiane e dopo il film L’ultima ruota del carro,molto introspettivo ed esistenziale,torna al genere amoroso alla Manuale d’amore e ci parla adesso dell'annoso dilemma dell'amicizia tra uomo e donna e delle ambiguità che possono nascondersi dietro a tale amicizie. I due “migliori amici” di cui il film narra sono Francesco (Fabio De Luigi), avvocato e politico locale che vive a Lecce e la bella ed espansiva Claudia (Laetizia Casta), giovane veterinaria francese giunta in Puglia per ricostruire il rapporto con la sorella Anna (Valeria Solarino). Francesco è in segreto pazzo proprio di Claudia, ma non le svela il suo sentimento anche quando l’amica decide di sposare un poliziotto (Adriano Giannini).Svanita la storia con la sua ora migliore amica Francesco si consola con la bella collega Lia (Valentina Lodovini), ma dietro l'angolo il rimpianto spesso si manifesta apertamente.
La scenografia del film è una Puglia bellissima quasi da cartolina magistralmente descritta dalla fotografia.Veronesi crea sapientemente una commedia agrodolce, in cui Fabio De Luigi la fa da mattatore regalando risate , ma è comunque ben presente una bella digressione romantica arricchita dalla lacrima della malinconia.La parte comica del film è sicuramente la parte maggiore e migliore, vedi i duetti tra De Luigi e Virginia Raffaele o i battibecchi tra l’attore e il portiere condominiale impersonato da una verace signora dall’indecifrabile dialetto.E' presente anche Geppi Cucciari nei panni di una moglie stressata anche se la sua presenza è forse poco valorizzata.Sfaccettata e ricca di contrasti è il personaggio di Fabio De Luigi cui Veronesi regala forse uno dei suoi migliori ruoli per il grande schermo,l'attore è sicuramente ben circondato da un cast che lavora in sintonia, così la sua verve comica emerge gradevole e limpida riuscendo a regalarci anche alla fine una nota di dolce malinconia.
Una donna per amica è un film comico e la forza comica è sempre a pieno regime al contrario del tema amoroso che forse zoppica in qualche scena ma capace di ironizzare anche di queste particolari situazioni.In film del genere la base è la credibilità degli attori e delle situazioni che si creano sulla scena e nello specifico Veronesi e il suo cast ce la mettano tutta riuscendoci.Lo spettatore non sia annoia mai e lo stesso finale,non necessariamente impostato sul happy end ad ogni costo è un punto a suo favore. Veronesi esalta le sue scene con ottimi primi piani e movimenti che uniti alla meravigliosa fotografia di Arnaldo Catinari ci regalano una Puglia verace e unica spiegando la differenza fra fare film e fare fiction televisiva, una differenza che spesso in molte commedie italiane degli ultimi anni non si coglie (vedi Brizzi).Il film di Veronesi fa bene al cinema italiano e in più fa ridere,cosa volere di più.
Giovanni Veronesi sfodera una commedia nuova di zecca in uscita oggi nelle sale italiane e dopo il film L’ultima ruota del carro,molto introspettivo ed esistenziale,torna al genere amoroso alla Manuale d’amore e ci parla adesso dell'annoso dilemma dell'amicizia tra uomo e donna e delle ambiguità che possono nascondersi dietro a tale amicizie. I due “migliori amici” di cui il film narra sono Francesco (Fabio De Luigi), avvocato e politico locale che vive a Lecce e la bella ed espansiva Claudia (Laetizia Casta), giovane veterinaria francese giunta in Puglia per ricostruire il rapporto con la sorella Anna (Valeria Solarino). Francesco è in segreto pazzo proprio di Claudia, ma non le svela il suo sentimento anche quando l’amica decide di sposare un poliziotto (Adriano Giannini).Svanita la storia con la sua ora migliore amica Francesco si consola con la bella collega Lia (Valentina Lodovini), ma dietro l'angolo il rimpianto spesso si manifesta apertamente.
La scenografia del film è una Puglia bellissima quasi da cartolina magistralmente descritta dalla fotografia.Veronesi crea sapientemente una commedia agrodolce, in cui Fabio De Luigi la fa da mattatore regalando risate , ma è comunque ben presente una bella digressione romantica arricchita dalla lacrima della malinconia.La parte comica del film è sicuramente la parte maggiore e migliore, vedi i duetti tra De Luigi e Virginia Raffaele o i battibecchi tra l’attore e il portiere condominiale impersonato da una verace signora dall’indecifrabile dialetto.E' presente anche Geppi Cucciari nei panni di una moglie stressata anche se la sua presenza è forse poco valorizzata.Sfaccettata e ricca di contrasti è il personaggio di Fabio De Luigi cui Veronesi regala forse uno dei suoi migliori ruoli per il grande schermo,l'attore è sicuramente ben circondato da un cast che lavora in sintonia, così la sua verve comica emerge gradevole e limpida riuscendo a regalarci anche alla fine una nota di dolce malinconia.
Una donna per amica è un film comico e la forza comica è sempre a pieno regime al contrario del tema amoroso che forse zoppica in qualche scena ma capace di ironizzare anche di queste particolari situazioni.In film del genere la base è la credibilità degli attori e delle situazioni che si creano sulla scena e nello specifico Veronesi e il suo cast ce la mettano tutta riuscendoci.Lo spettatore non sia annoia mai e lo stesso finale,non necessariamente impostato sul happy end ad ogni costo è un punto a suo favore. Veronesi esalta le sue scene con ottimi primi piani e movimenti che uniti alla meravigliosa fotografia di Arnaldo Catinari ci regalano una Puglia verace e unica spiegando la differenza fra fare film e fare fiction televisiva, una differenza che spesso in molte commedie italiane degli ultimi anni non si coglie (vedi Brizzi).Il film di Veronesi fa bene al cinema italiano e in più fa ridere,cosa volere di più.
SOTTO UNA BUONA STELLA
di Valeria Piras
Il nuovo film di Verdone.Per ridere e riflettere.
Carlo Verdone ritorna nelle sale con la sua nuovissima commedia.Per il comico romana un triplice ruolo,attore,sceneggiatore e regista in una commedia che si differenzia dalla sua tipica e tradizionale narrazione basata su più protagonisit e temi come nei film precedenti (Io, loro e Lara; Posti in piedi in paradiso), la storia in questo caso si concentra solo su un protagonista unico Federico Picchioni (Carlo Verdone). Il film racconta di un ricco impiegato di una holding finanziaria, che all'improvviso deve affrontare la morte della ex-moglie ed il licenziamento in tronco a causa di uno scandalo. Viene costretto ad ospitare i propri figli, e vivere con la suacompagna Gemma (Eleonora Sergio).Nascerà una forzata convivenza dai toni tragicomici. La situazione però migliorerà grazie all'arrivo di una nuova vicina Luisa (Paola Cortellesi), che aiuterà con la sua allegria a dare a Federico una svolta alla propria vita, sia nel lavoro che nella relazione con i suoi figli. In Sotto una buona stella Verdone con sapiente abilità comica riesce a ben delineare temi seri nell’ambito della commedia,mantenendo leggerezza e simpatia.
Argomenti come la disoccupazione, le difficoltà giovanili, la fuga dei giovani all’estero e gli scandali finanziari sono ben raccontati ma arricchiti con scene comiche e momenti di riflessione più o meno profonda. Ogni protagonista nel film è a caccia di amore e di una persona con cui condividerlo, ognuno cerca insomma la sua “buona stella”. Un meritato applauso a Paola Cortellesi che riesce in modo egregio ad essere spalla di Verdone,senza però perdere peso comico anche grazie agli sketch ben realizzati con il regista. Una critica è che in molti momenti il film si abbandona a spunti rifllessivi seri che un pò allontanano dal sentiero tipico della commedia brillante. Pare come forzatamente profondo il tema con un picoclo rallentamento del ritmo narrativo e della vena comica che comunque esplode allegra.I figli di Verdone sono Lia (Tea Falco) e Niccolò (Lorenzo Richelmy) bravi e funzionali all’intreccio, ma in alcuni casi un pò apatici in personalità. Sembrano troppo stereotipati nei panni di una gioventù in difficoltà e alla lunga quindi quantomeno poco credibili.
Nel complesso si può affermare che il film arriva ad un buono spessore ma grazie solo alla forte presenza sia di Verdone che della Cortellesi, che come detto non si limita ad essere semplicemente spalla ma dà sostegno attivo allo stesso Verdone soprattutto nelle scene comiche, oltre ad avere un ruolo di collante nei confronti dei personaggi secondari, che altrimenti finirebbero con l'essere vuoti ed inconsistenti.Due grandi attori quindi che diventano due figure molto forti sullo schermo. La straordinaria comicità di Verdone insieme ad un’inedita Paola Cortellesi, ci consegnano comunque un film capace di divertire e far riflettere. Con Sotto una buona stella equivoci, incomprensioni e siparietti tipici della commedia verdoniana si affiancano a scene che fanno pensare lo spettatore, simbolo del nuovo percorso di un Verdone alla ricerca costante di una maturità di argomenti certamente convincente,perfettibile, ma convincente.
Carlo Verdone ritorna nelle sale con la sua nuovissima commedia.Per il comico romana un triplice ruolo,attore,sceneggiatore e regista in una commedia che si differenzia dalla sua tipica e tradizionale narrazione basata su più protagonisit e temi come nei film precedenti (Io, loro e Lara; Posti in piedi in paradiso), la storia in questo caso si concentra solo su un protagonista unico Federico Picchioni (Carlo Verdone). Il film racconta di un ricco impiegato di una holding finanziaria, che all'improvviso deve affrontare la morte della ex-moglie ed il licenziamento in tronco a causa di uno scandalo. Viene costretto ad ospitare i propri figli, e vivere con la suacompagna Gemma (Eleonora Sergio).Nascerà una forzata convivenza dai toni tragicomici. La situazione però migliorerà grazie all'arrivo di una nuova vicina Luisa (Paola Cortellesi), che aiuterà con la sua allegria a dare a Federico una svolta alla propria vita, sia nel lavoro che nella relazione con i suoi figli. In Sotto una buona stella Verdone con sapiente abilità comica riesce a ben delineare temi seri nell’ambito della commedia,mantenendo leggerezza e simpatia.
Argomenti come la disoccupazione, le difficoltà giovanili, la fuga dei giovani all’estero e gli scandali finanziari sono ben raccontati ma arricchiti con scene comiche e momenti di riflessione più o meno profonda. Ogni protagonista nel film è a caccia di amore e di una persona con cui condividerlo, ognuno cerca insomma la sua “buona stella”. Un meritato applauso a Paola Cortellesi che riesce in modo egregio ad essere spalla di Verdone,senza però perdere peso comico anche grazie agli sketch ben realizzati con il regista. Una critica è che in molti momenti il film si abbandona a spunti rifllessivi seri che un pò allontanano dal sentiero tipico della commedia brillante. Pare come forzatamente profondo il tema con un picoclo rallentamento del ritmo narrativo e della vena comica che comunque esplode allegra.I figli di Verdone sono Lia (Tea Falco) e Niccolò (Lorenzo Richelmy) bravi e funzionali all’intreccio, ma in alcuni casi un pò apatici in personalità. Sembrano troppo stereotipati nei panni di una gioventù in difficoltà e alla lunga quindi quantomeno poco credibili.
Nel complesso si può affermare che il film arriva ad un buono spessore ma grazie solo alla forte presenza sia di Verdone che della Cortellesi, che come detto non si limita ad essere semplicemente spalla ma dà sostegno attivo allo stesso Verdone soprattutto nelle scene comiche, oltre ad avere un ruolo di collante nei confronti dei personaggi secondari, che altrimenti finirebbero con l'essere vuoti ed inconsistenti.Due grandi attori quindi che diventano due figure molto forti sullo schermo. La straordinaria comicità di Verdone insieme ad un’inedita Paola Cortellesi, ci consegnano comunque un film capace di divertire e far riflettere. Con Sotto una buona stella equivoci, incomprensioni e siparietti tipici della commedia verdoniana si affiancano a scene che fanno pensare lo spettatore, simbolo del nuovo percorso di un Verdone alla ricerca costante di una maturità di argomenti certamente convincente,perfettibile, ma convincente.
SENZA PAURA - Giorgia
di Valeria Piras
Riecco la voce calda di Giorgia in un album perfetto.O quasi.
Quella di Giorgia si sa,è una delle voci più belle e potenti della musica italiana; una vocalità raffinata e profonda con una pura origine soul. Nella sua carriera musicale l'artista romana è giunta al suo ottavo lavoro in studio dal titolo Senza Pura.Un disco sentito pieno zeppo di canzoni delicate e vibranzi scritte da autori molto ispirati che ben si abbinano alla bellezza della voce di Giorgia.Nei 14 brani di Senza Paura, album produtto da Michele Canova, il suono è pieno ed evocativo e ben si mescolano testi diretti e voce nera ed elegante.Il pezzo di apertura Non mi ami e anche il primo singolo Quando una stella muore si distinguono ed evidenziano la bravura della cantante, che è bravissima a dare vita alle parole con una notevole verve interpretativa.
Ma forse le migliori vibrazioni ci giungono con i vari duetti con gli ospiti stranieri: in I Will Pray con Alicia Keys (un’altra voce meravigliosa che in parte somiglia a quella di Giorgia) viene fuori tutta l’intensità delle migliori ballate, mentre Did I Lose You, con la giovane artista inglese Olly Murs, è una innovativa canzone pop dal respiro internazionale, che palesa come Giorgia adesso riesca ad essere credibile anche quando canta in inglese.Un gradino sotto come spessore ci sono poi i singoli Perfetto e La mia stanza che in modo un pò accentuato rimarca un suono con toni dance un pò furbetti,che piacciono molto alle radio moderne. Ben altra profondità si ha invece con la canzone Oggi vendo tutto, un pezzo emozionante e toccante scritta da un autore sensibile come Ivano Fossati.
Giorgia dà al testo una forte interpretazione personale e i risultati si vedono (e si sentono). Nella parte finale dell'album vi sono poi un paio di ballate dolci ma non eccezionali come L’amore si impara e Vedrai com’è che anche se di poco fanno leggermente scendere la qualità del disco che comunque rimane complessivamente alta. Si tratta infatti di brani che suonano un po’ troppo riempitivi e semplici. Piccola critica,forse una tracklist ridotta e meno dispersiva avrebbe dato all'album una spinta notevole ma comunque il lavoro di Giorgia è ottimo.La regina del soul italiano nonostante lo scorrere del tempo resta sempre lei.
Quella di Giorgia si sa,è una delle voci più belle e potenti della musica italiana; una vocalità raffinata e profonda con una pura origine soul. Nella sua carriera musicale l'artista romana è giunta al suo ottavo lavoro in studio dal titolo Senza Pura.Un disco sentito pieno zeppo di canzoni delicate e vibranzi scritte da autori molto ispirati che ben si abbinano alla bellezza della voce di Giorgia.Nei 14 brani di Senza Paura, album produtto da Michele Canova, il suono è pieno ed evocativo e ben si mescolano testi diretti e voce nera ed elegante.Il pezzo di apertura Non mi ami e anche il primo singolo Quando una stella muore si distinguono ed evidenziano la bravura della cantante, che è bravissima a dare vita alle parole con una notevole verve interpretativa.
Ma forse le migliori vibrazioni ci giungono con i vari duetti con gli ospiti stranieri: in I Will Pray con Alicia Keys (un’altra voce meravigliosa che in parte somiglia a quella di Giorgia) viene fuori tutta l’intensità delle migliori ballate, mentre Did I Lose You, con la giovane artista inglese Olly Murs, è una innovativa canzone pop dal respiro internazionale, che palesa come Giorgia adesso riesca ad essere credibile anche quando canta in inglese.Un gradino sotto come spessore ci sono poi i singoli Perfetto e La mia stanza che in modo un pò accentuato rimarca un suono con toni dance un pò furbetti,che piacciono molto alle radio moderne. Ben altra profondità si ha invece con la canzone Oggi vendo tutto, un pezzo emozionante e toccante scritta da un autore sensibile come Ivano Fossati.
Giorgia dà al testo una forte interpretazione personale e i risultati si vedono (e si sentono). Nella parte finale dell'album vi sono poi un paio di ballate dolci ma non eccezionali come L’amore si impara e Vedrai com’è che anche se di poco fanno leggermente scendere la qualità del disco che comunque rimane complessivamente alta. Si tratta infatti di brani che suonano un po’ troppo riempitivi e semplici. Piccola critica,forse una tracklist ridotta e meno dispersiva avrebbe dato all'album una spinta notevole ma comunque il lavoro di Giorgia è ottimo.La regina del soul italiano nonostante lo scorrere del tempo resta sempre lei.
SMETTO QUANDO VOGLIO
di Valeria Piras
Quando una laurea è un ostacolo al lavoro.
Smetto quando voglio è il titolo della commedia d’esordio del giovane Sydney Sibilia,prodotta da RaiCinema; un film in cui si cerca di sorridere di temi importanti come il precariato e le terribili regole del mondo del lavoro in compagnia di giovani laureati squattrinati come Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti e Sergio Solli. Il film sembrerebbe una storia matta ed inventata invece il mondo della realtà spesso va ben oltre l’immaginazione ebbene si,quella qui raccontata è una storia realmente accaduta qualche anno fa in Italia quando un gruppo di ragazzi laureati in chimica per sbarcare il lunario decise di creare in laboratorio una sostanza stupefacente simile all’ecstasy ma con ingredienti prettamente legali. Questo è lo spunto da cui parte il film raccontando il tutto ovviamente in modo allegro e dissacrante anche con una corposa critica sociale che però non diventa il centro del film ma solo un’accusa,diretta,verso i baroni anziani che occupano le università senza dare spazio a chi meriterebbe.
Il film è una specie di Ocean's Eleven in salsa capitolina dove a tratti si ride davvero in modo sincero per il surreale di alcune situazioni che vengono a crearsi,un applauso ai dialoghi particolarmente ritmati e acuti simil Tarantino cui Sibilia dice da sempre di ispirarsi. La sceneggiatura risulta essere ben rimata con forti personalità compiute e perfettamente in parte. Il merito nella fattispecie va ai due giovani Andrea Garello e Valerio Attanasio che hanno anni di esperienza nel mondo delle serie televisive ma che approcciati al cinema hanno mostrato la loro innegabile bravura. Tornando alla trama tutto ruota intorno al ricercatore universitario e precario Pietro Zinni e tutto cambia quando questi viene licenziato. Come riuscire a sopravvivere se nella vita si ha sempre e solo studiato? L'idea è geniale. Formare una specie di banda reclutando i migliori tra i suoi ex colleghi, che nonostante la laurea cum lode vivono ai margini della società, facendo lavoro umilissimi e mal pagati.
Materie come Macroeconomia, Neurobiologia, Antropologia, Lettere Classiche e Archeologia diventeranno ottime per realizzare il loro piano criminoso che riesce perfettamente e in breve tempo dà ai protagonisti soldi, potere, donne e successo,poi inizieranno i veri problemi. Un cameo di un inedito Neri Marcoré pusher sfregiato toccherà l’apice della risata. Insomma Smetto Quando Voglio è una commedia brillante dove lo scopo di Sibilia, più che denunciare le conseguenze drammatiche del precariato, è provare a riderci su. Si parte da fatti e persone reali per scivolare sempre più in una vita fatta di situazioni esclusivamente surreali.
Smetto quando voglio è il titolo della commedia d’esordio del giovane Sydney Sibilia,prodotta da RaiCinema; un film in cui si cerca di sorridere di temi importanti come il precariato e le terribili regole del mondo del lavoro in compagnia di giovani laureati squattrinati come Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti e Sergio Solli. Il film sembrerebbe una storia matta ed inventata invece il mondo della realtà spesso va ben oltre l’immaginazione ebbene si,quella qui raccontata è una storia realmente accaduta qualche anno fa in Italia quando un gruppo di ragazzi laureati in chimica per sbarcare il lunario decise di creare in laboratorio una sostanza stupefacente simile all’ecstasy ma con ingredienti prettamente legali. Questo è lo spunto da cui parte il film raccontando il tutto ovviamente in modo allegro e dissacrante anche con una corposa critica sociale che però non diventa il centro del film ma solo un’accusa,diretta,verso i baroni anziani che occupano le università senza dare spazio a chi meriterebbe.
Il film è una specie di Ocean's Eleven in salsa capitolina dove a tratti si ride davvero in modo sincero per il surreale di alcune situazioni che vengono a crearsi,un applauso ai dialoghi particolarmente ritmati e acuti simil Tarantino cui Sibilia dice da sempre di ispirarsi. La sceneggiatura risulta essere ben rimata con forti personalità compiute e perfettamente in parte. Il merito nella fattispecie va ai due giovani Andrea Garello e Valerio Attanasio che hanno anni di esperienza nel mondo delle serie televisive ma che approcciati al cinema hanno mostrato la loro innegabile bravura. Tornando alla trama tutto ruota intorno al ricercatore universitario e precario Pietro Zinni e tutto cambia quando questi viene licenziato. Come riuscire a sopravvivere se nella vita si ha sempre e solo studiato? L'idea è geniale. Formare una specie di banda reclutando i migliori tra i suoi ex colleghi, che nonostante la laurea cum lode vivono ai margini della società, facendo lavoro umilissimi e mal pagati.
Materie come Macroeconomia, Neurobiologia, Antropologia, Lettere Classiche e Archeologia diventeranno ottime per realizzare il loro piano criminoso che riesce perfettamente e in breve tempo dà ai protagonisti soldi, potere, donne e successo,poi inizieranno i veri problemi. Un cameo di un inedito Neri Marcoré pusher sfregiato toccherà l’apice della risata. Insomma Smetto Quando Voglio è una commedia brillante dove lo scopo di Sibilia, più che denunciare le conseguenze drammatiche del precariato, è provare a riderci su. Si parte da fatti e persone reali per scivolare sempre più in una vita fatta di situazioni esclusivamente surreali.
SPLENDORE di Margaret Mazzantini
di Valeria Piras
Un viaggio sensibile e segreto nell'anima di due uomini.
Si chiama Splendore ed è il nuovo romanzo di questo 2014 scritto da Margaret Mazzantini. Il tema è delicato e complesso.In Italia è sempre difficile elaborare un romanzo su due omosessuali,anzi fino a qualche decennio orsono era quasi un tema tabù di cui non se ne poteva parlare. A partire dalle prime pagine del libro però ci accorgiamo di come il grande talento di una grande scrittrice, malgrado tutto e tutti,riesca ad argomentare e raccontare con imbarazzante naturalezza un argomento ostico e temuto. La Mazzantini a partire dal grande successo di Non ti muovere sembra davvero molto propensa a scrivere di uomini, ma altro è trattare le emozioni e i sentimenti d’amore di due uomini, prima giovani e poi adulti. La trama di Splendore è però unica una sorta di miscela tra il primo e malinconico Tondelli di Camere separate e la recente filmografia americana sul tema.
Una storia tra due uomini che scoprono l'amore nascosto nelle pieghe della loro stessa virilità, che si rincorrono tutta una vita, tra matrimoni e figli, lutti e dolori, spiagge e aeroporti. Accanto ad una trama davvero chiara e lineare,accanto alla ricchissima scrittura, densa di violente contrapposizioni semantiche, tipiche del suo stile degli ultimi anni,oltre la miriade di metafore e aggettivi, si rivela la profonda sensibilità di un muto spettatore, di chi in silenzio vede cosa accade intorno e poi ricostruisce e rielabora. Il critico più cattivo potrebbe domandarsi cosa sa la Mazzantini dell'amore omosessuale? Mentre l’ingenuo lettore rimanendo spaesato nelle pagine del romanzo potrebbe chiedersi: come fa a dire ciò che io non ho mai avuto il coraggio di dire? Di questo romanzo salta subito agli occhi non solo la finezza dell'introspezione o la ricchezza verbale, ma la sensibilità dell’autrice, la pietas che accompagna il suo protagonista lungo tutta la sua vita, che da solo trascina i suoi sentimenti, i suoi lutti e i suoi dolori.
Quando la Mazzantini parla dei riflessi del protagonista, del suo mare interiore, della sterminata assenza che è per lui l'amore omosessuale, è come se attivasse un'eco e uno specchio. Splendore si tramuta nel leggerlo in un'esperienza sensoriale sulle contraddizioni della vita: lettura non adatta agli ipocriti e ai vigliacchi. Nonostante il peso di dolori e lutti il protagonista va avanti senza mai piegare il capo, e nelle ultime pagine si coglie appieno il senso della vita per l’autrice. Alla fine ci si rende conto che lo splendore del titolo è la forza e l'irriducibilità di una vita che non si fa né abbattere né tormentare,come se fosse una sorta di ultima luce nell’oscurità di tutto l'universo.
Si chiama Splendore ed è il nuovo romanzo di questo 2014 scritto da Margaret Mazzantini. Il tema è delicato e complesso.In Italia è sempre difficile elaborare un romanzo su due omosessuali,anzi fino a qualche decennio orsono era quasi un tema tabù di cui non se ne poteva parlare. A partire dalle prime pagine del libro però ci accorgiamo di come il grande talento di una grande scrittrice, malgrado tutto e tutti,riesca ad argomentare e raccontare con imbarazzante naturalezza un argomento ostico e temuto. La Mazzantini a partire dal grande successo di Non ti muovere sembra davvero molto propensa a scrivere di uomini, ma altro è trattare le emozioni e i sentimenti d’amore di due uomini, prima giovani e poi adulti. La trama di Splendore è però unica una sorta di miscela tra il primo e malinconico Tondelli di Camere separate e la recente filmografia americana sul tema.
Una storia tra due uomini che scoprono l'amore nascosto nelle pieghe della loro stessa virilità, che si rincorrono tutta una vita, tra matrimoni e figli, lutti e dolori, spiagge e aeroporti. Accanto ad una trama davvero chiara e lineare,accanto alla ricchissima scrittura, densa di violente contrapposizioni semantiche, tipiche del suo stile degli ultimi anni,oltre la miriade di metafore e aggettivi, si rivela la profonda sensibilità di un muto spettatore, di chi in silenzio vede cosa accade intorno e poi ricostruisce e rielabora. Il critico più cattivo potrebbe domandarsi cosa sa la Mazzantini dell'amore omosessuale? Mentre l’ingenuo lettore rimanendo spaesato nelle pagine del romanzo potrebbe chiedersi: come fa a dire ciò che io non ho mai avuto il coraggio di dire? Di questo romanzo salta subito agli occhi non solo la finezza dell'introspezione o la ricchezza verbale, ma la sensibilità dell’autrice, la pietas che accompagna il suo protagonista lungo tutta la sua vita, che da solo trascina i suoi sentimenti, i suoi lutti e i suoi dolori.
Quando la Mazzantini parla dei riflessi del protagonista, del suo mare interiore, della sterminata assenza che è per lui l'amore omosessuale, è come se attivasse un'eco e uno specchio. Splendore si tramuta nel leggerlo in un'esperienza sensoriale sulle contraddizioni della vita: lettura non adatta agli ipocriti e ai vigliacchi. Nonostante il peso di dolori e lutti il protagonista va avanti senza mai piegare il capo, e nelle ultime pagine si coglie appieno il senso della vita per l’autrice. Alla fine ci si rende conto che lo splendore del titolo è la forza e l'irriducibilità di una vita che non si fa né abbattere né tormentare,come se fosse una sorta di ultima luce nell’oscurità di tutto l'universo.
TUTTA COLPA DI FREUD
di Valeria Piras
Una commedia elegante che fa anche divertire.
Il nuovissimo film di Paolo Genovese si intitola Tutta Colpa di Freud ed è la storia divertente di uno psicoanalista romano che deve vedersela coi casi della vita comprese tre figlie tutte diverse ed impegnative con vite alquanto movimentate. Il regista di Una Famiglia Perfetta ha deciso di rimanere nel genere commedia brillante e in questo film sembra aver deciso di avvicinarsi al moderno Woody Allen dei suoi ultimi film. Non si tratta ovviamente di una vera sfida al grande regista newyorkese ma di affinità come il decidere di trattare un po’ di psicanalisi (di cui Sigmund Freud è il padre) e ambientando le scene nel vero centro di Roma, Genovese sembra essersi innamorato dello stile di Allen soprattutto del recente To Rome with Love. Ma Tutta colpa di Freud parte da queste similitudini ma si incammina poi nel raccontare in maniera nuova e geniale l’argomento basilare delle commedie: l’amore.
Il nucleo centrale del film è lo studio di uno psicanalista al quale dà corpo Marco Giallini. Lo studio è frequentato ogni giorno dalle sue tre figlie e da un cinquantenne in crisi con la moglie, che viene obbligato alle sedute analitiche se vuole continuare ad avere una relazione con la figlia più giovane dell’analista. Tutta colpa di Freud non è incentrato sugli aspetti psicologici dei personaggi ma su quelli sentimentali, disegnando ironicamente le grandi complicazioni che possono nascere dalle relazioni dei personaggi femminili. Le tre figlie infatti sono innamorate di uomini insoliti come appunto un cinquantenne ed un ragazzo sordo-muto,mentre la terza si dichiara lesbica ma vogliosa di diventare etero col primo che passa. Quasi come se ogni personaggio avesse una sotto-trama all’interno del film.
E’ davvero palese lo scopo del regista di creare una commedia che fosse non solo divertente ma anche raffinata. Dalla confezione alla fotografia, dalle musiche ai dialoghi, il film di Genovese è indubbiamente una vera commedia italiana di livello superiore, anche grazie alle performance brillanti di un gruppo di attori mai eccessivi nei modi. Forse anzi in alcune scene è la ricerca dell’eleganza ad essere un peso smorzando l’ilarità del momento ma si tratta di minuzie da critici. La sostanza è che ci troviamo dinanzi ad un bel film italiano,una commedia ben costruita senza essere eccessiva e grossolana. Finalmente sembra ritornare la cara vecchia commedia all’italiana che ebbe in Dino Risi l’emblema cinematografico.
Il nuovissimo film di Paolo Genovese si intitola Tutta Colpa di Freud ed è la storia divertente di uno psicoanalista romano che deve vedersela coi casi della vita comprese tre figlie tutte diverse ed impegnative con vite alquanto movimentate. Il regista di Una Famiglia Perfetta ha deciso di rimanere nel genere commedia brillante e in questo film sembra aver deciso di avvicinarsi al moderno Woody Allen dei suoi ultimi film. Non si tratta ovviamente di una vera sfida al grande regista newyorkese ma di affinità come il decidere di trattare un po’ di psicanalisi (di cui Sigmund Freud è il padre) e ambientando le scene nel vero centro di Roma, Genovese sembra essersi innamorato dello stile di Allen soprattutto del recente To Rome with Love. Ma Tutta colpa di Freud parte da queste similitudini ma si incammina poi nel raccontare in maniera nuova e geniale l’argomento basilare delle commedie: l’amore.
Il nucleo centrale del film è lo studio di uno psicanalista al quale dà corpo Marco Giallini. Lo studio è frequentato ogni giorno dalle sue tre figlie e da un cinquantenne in crisi con la moglie, che viene obbligato alle sedute analitiche se vuole continuare ad avere una relazione con la figlia più giovane dell’analista. Tutta colpa di Freud non è incentrato sugli aspetti psicologici dei personaggi ma su quelli sentimentali, disegnando ironicamente le grandi complicazioni che possono nascere dalle relazioni dei personaggi femminili. Le tre figlie infatti sono innamorate di uomini insoliti come appunto un cinquantenne ed un ragazzo sordo-muto,mentre la terza si dichiara lesbica ma vogliosa di diventare etero col primo che passa. Quasi come se ogni personaggio avesse una sotto-trama all’interno del film.
E’ davvero palese lo scopo del regista di creare una commedia che fosse non solo divertente ma anche raffinata. Dalla confezione alla fotografia, dalle musiche ai dialoghi, il film di Genovese è indubbiamente una vera commedia italiana di livello superiore, anche grazie alle performance brillanti di un gruppo di attori mai eccessivi nei modi. Forse anzi in alcune scene è la ricerca dell’eleganza ad essere un peso smorzando l’ilarità del momento ma si tratta di minuzie da critici. La sostanza è che ci troviamo dinanzi ad un bel film italiano,una commedia ben costruita senza essere eccessiva e grossolana. Finalmente sembra ritornare la cara vecchia commedia all’italiana che ebbe in Dino Risi l’emblema cinematografico.
L' ANIMA VOLA - Elisa
di Valeria Piras
Nuovo lavoro di Elisa.Mix di emozioni e raffinatezze.
E’ uscito in questi mesi il nuovo disco di inediti di Elisa,una delle cantautrici più intense e talentuose dell’attuale generazione musicale italiana. Il suo lavoro si intitola L’Anima Vola e dal titolo già intuiamo le particolari tematiche affrontate. Da molti anni la critica sottolineava che per raggiungere il grande successo la nostra Elisa dovesse realizzare un album interamente in italiano,eccolo allora. L’ottavo lavoro discografico sin dalla prima nota ci avvolge di emozioni forti e risulta evidente la maturità e la solidità di un suono reso ora inconfondibile,ancora più elegante col passare del tempo. La consapevolezza di Elisa è bilanciata da un forte spirito che pervade il disco,un‘anima personale che non è mutata con gli anni. Stile ed anima,ecco il segreto di questo album,un senso che molti altri artisti hanno provato ad imitare e ripetere con risultati scadenti.Il timbro di Elisa è davvero inconfondibile, unico.
In “L’anima vola” troviamo molti punti di forza tipici degli ultimi lavori,emozioni finemente elaborate,canzoni di elevata eleganza, raffinatezza e forza senza mai andare oltre la sua stessa sensibilità. In questo disco c’è anche una nutrita squadra di artisti italiani che hanno deciso di partecipare,nomi importanti come Tiziano Ferro che ha regalato il pezzo “E scopro cos’è la felicità”,il leader dei Negramaro Giuliano Sangiorgi che ha scritto il testo di “Ecco che”, canzone finale che chiude con dolcezza una lista di pezzi dalle ricche emozioni. Non poteva mancare Luciano Ligabue che rinnova la sua collaborazione con “A modo tuo”, brano interamente scritto da Luciano, una specie di lungo e dolce carillon che parla della vita. All’interno dei brani la voce chiara e cristallina di Elisa,una voce pura che ipnotizza. Le altre tracce,tutte realizzate da Elisa sono liriche particolari anche surreali e sognatrici ma con arrangiamenti dal forte suono english,equilibrato e basato su voce e strumenti che si inseguono e si fondono di continuo.
Emblema è il brano iniziale “Pagina bianca”, ma anche “Un filo di seta negli abissi”,che anticipano alla perfezione le sonorità del disco. Veri singoli in puro stile Elisa sono “Lontano da qui”, “Specchio riflesso” (con grande assolo pianoforte nelle strofe) e “Non fa niente ormai”, con un tono di voce anche più basso del solito ma sempre apprezzato. Una linea nuova ci arriva con “Maledetto labirinto” dove la forte componente elettronica è la novità della tracklist,compreso un giro di chitarra finale che lascia il segno. Un disco bello ed emozionante. Un disco di Elisa,molto semplicemente.
E’ uscito in questi mesi il nuovo disco di inediti di Elisa,una delle cantautrici più intense e talentuose dell’attuale generazione musicale italiana. Il suo lavoro si intitola L’Anima Vola e dal titolo già intuiamo le particolari tematiche affrontate. Da molti anni la critica sottolineava che per raggiungere il grande successo la nostra Elisa dovesse realizzare un album interamente in italiano,eccolo allora. L’ottavo lavoro discografico sin dalla prima nota ci avvolge di emozioni forti e risulta evidente la maturità e la solidità di un suono reso ora inconfondibile,ancora più elegante col passare del tempo. La consapevolezza di Elisa è bilanciata da un forte spirito che pervade il disco,un‘anima personale che non è mutata con gli anni. Stile ed anima,ecco il segreto di questo album,un senso che molti altri artisti hanno provato ad imitare e ripetere con risultati scadenti.Il timbro di Elisa è davvero inconfondibile, unico.
In “L’anima vola” troviamo molti punti di forza tipici degli ultimi lavori,emozioni finemente elaborate,canzoni di elevata eleganza, raffinatezza e forza senza mai andare oltre la sua stessa sensibilità. In questo disco c’è anche una nutrita squadra di artisti italiani che hanno deciso di partecipare,nomi importanti come Tiziano Ferro che ha regalato il pezzo “E scopro cos’è la felicità”,il leader dei Negramaro Giuliano Sangiorgi che ha scritto il testo di “Ecco che”, canzone finale che chiude con dolcezza una lista di pezzi dalle ricche emozioni. Non poteva mancare Luciano Ligabue che rinnova la sua collaborazione con “A modo tuo”, brano interamente scritto da Luciano, una specie di lungo e dolce carillon che parla della vita. All’interno dei brani la voce chiara e cristallina di Elisa,una voce pura che ipnotizza. Le altre tracce,tutte realizzate da Elisa sono liriche particolari anche surreali e sognatrici ma con arrangiamenti dal forte suono english,equilibrato e basato su voce e strumenti che si inseguono e si fondono di continuo.
Emblema è il brano iniziale “Pagina bianca”, ma anche “Un filo di seta negli abissi”,che anticipano alla perfezione le sonorità del disco. Veri singoli in puro stile Elisa sono “Lontano da qui”, “Specchio riflesso” (con grande assolo pianoforte nelle strofe) e “Non fa niente ormai”, con un tono di voce anche più basso del solito ma sempre apprezzato. Una linea nuova ci arriva con “Maledetto labirinto” dove la forte componente elettronica è la novità della tracklist,compreso un giro di chitarra finale che lascia il segno. Un disco bello ed emozionante. Un disco di Elisa,molto semplicemente.
THE WOLF OF WALL STREET
di Valeria Piras
Tornano Scorsese e Di Caprio.Ed è grande cinema.
Tra pochi giorni arriva nelle sale il nuovo film di Martin Scorsese,The Wolf of Wall Street basato sulla biografia di Warren Buffett il consulente che negli anni ’80 accumulò una fortuna enorme in borsa compiendo anche azioni non prettamente legali. Il protagonista è un bravo e molto convincente Leonardo Di Caprio,davvero diventato un grande attore negli ultimi anni anche grazie a film con registi di talento come Nolan,Tarantino e ovviamente lo stesso Scorsese. Il regista italo-americano ci racconta e fornisce la sua personale visione venefica di quel periodo. Non lesinando critiche e senza timore e tanto meno alcun freno. The Wolf of Wall Street è una vera esplosione sincera di situazioni, personaggi, paradossi umani e sociali proiettati sullo schermo con talentuoso istrionismo. Come già fatto in passato con alcuni film minori Scorsese si dirige contro lo yuppismo rampante di quella generazione,una generazione superficiale, ingorda, sprezzante le regole.
Molte di quelle persone negli anni ’80 dietro a maschere per bene e formali nascondevano assenza di etica, e questo lavoro ci narra proprio ciò. Nel film il regista decide di non auto-censurarsi con freni inibitori o filtri stilistici ed estetici,ma vuole far esplodere il film affinchè alla fine riesca ad arrivare il grande vuoto cosmico di quell’epoca scintillante solo all’apparenza. Proprio per queste finalità il film in alcuni momenti sembra un’opera di altri registi tipo John Landis o addirittura alcune visioni goliardiche del miglior Tarantino. La storia come detto racconta la scalata e la caduta del protagonista, dedito all’eccesso e all’autodistruzione, in alcuni momenti si potrebbe trovare un punto di contatto con Toro scatenato o Casinò ma è un contatto relativo perché Scorsese volontariamente decide di non riprendere la grande eleganza d’immagine di quei film.
The Wolf of Wall Street è un film che quasi si compiace del mostro che racconta ma diventa poi un film quasi gioioso, immorale, repellente, senza la voglia di dare una redenzione necessaria al protagonista. La durata del film è enorme,quasi tre ore ma il pubblico senza pausa e senza tregua avrà di che impressionarsi e divertirsi sia grazie ad un montaggio frizzante che sembra più di un ventenne che di un regista settantenne sia per la recitazione divertita e grandiosa di un Di Caprio reduce dai successi di Django Unchaind e The Great Gatsby e che con maestria passa da movimenti drammatici e raffinati a situazioni divertenti e pop. Un film dunque vero e sincero e non un esercizio di stile semplice sui ruggenti anni ’80. Da non perdere.
Tra pochi giorni arriva nelle sale il nuovo film di Martin Scorsese,The Wolf of Wall Street basato sulla biografia di Warren Buffett il consulente che negli anni ’80 accumulò una fortuna enorme in borsa compiendo anche azioni non prettamente legali. Il protagonista è un bravo e molto convincente Leonardo Di Caprio,davvero diventato un grande attore negli ultimi anni anche grazie a film con registi di talento come Nolan,Tarantino e ovviamente lo stesso Scorsese. Il regista italo-americano ci racconta e fornisce la sua personale visione venefica di quel periodo. Non lesinando critiche e senza timore e tanto meno alcun freno. The Wolf of Wall Street è una vera esplosione sincera di situazioni, personaggi, paradossi umani e sociali proiettati sullo schermo con talentuoso istrionismo. Come già fatto in passato con alcuni film minori Scorsese si dirige contro lo yuppismo rampante di quella generazione,una generazione superficiale, ingorda, sprezzante le regole.
Molte di quelle persone negli anni ’80 dietro a maschere per bene e formali nascondevano assenza di etica, e questo lavoro ci narra proprio ciò. Nel film il regista decide di non auto-censurarsi con freni inibitori o filtri stilistici ed estetici,ma vuole far esplodere il film affinchè alla fine riesca ad arrivare il grande vuoto cosmico di quell’epoca scintillante solo all’apparenza. Proprio per queste finalità il film in alcuni momenti sembra un’opera di altri registi tipo John Landis o addirittura alcune visioni goliardiche del miglior Tarantino. La storia come detto racconta la scalata e la caduta del protagonista, dedito all’eccesso e all’autodistruzione, in alcuni momenti si potrebbe trovare un punto di contatto con Toro scatenato o Casinò ma è un contatto relativo perché Scorsese volontariamente decide di non riprendere la grande eleganza d’immagine di quei film.
The Wolf of Wall Street è un film che quasi si compiace del mostro che racconta ma diventa poi un film quasi gioioso, immorale, repellente, senza la voglia di dare una redenzione necessaria al protagonista. La durata del film è enorme,quasi tre ore ma il pubblico senza pausa e senza tregua avrà di che impressionarsi e divertirsi sia grazie ad un montaggio frizzante che sembra più di un ventenne che di un regista settantenne sia per la recitazione divertita e grandiosa di un Di Caprio reduce dai successi di Django Unchaind e The Great Gatsby e che con maestria passa da movimenti drammatici e raffinati a situazioni divertenti e pop. Un film dunque vero e sincero e non un esercizio di stile semplice sui ruggenti anni ’80. Da non perdere.
AVRIL LAVIGNE - Avril Lavigne
di Valeria Piras
Nuovo album e nuovo tentativo di crescita per Avril.
Avril Lavigne presenta il suo nuovo album dal titolo omonimo e da subito,al primo ascolto capiamo che l'ex ragazzaccia canadese è molto indecisa se crescere o rimanere la punk adolescente che urlava in faccia i suoi pensieri confusi.Non per forza questo deve essere un difetto ma neppure un vero pregio.I precedenti album della cantante erano in parte stati criticati proprio per un approccio poco maturo più finalizzato alla ricerca insensata del caos pop,soprattutto sul tema degli arrangiamenti.Persino l'ultimo disco che dal titolo “Goodbye Lullaby”, doveva far pensare all'addio dell'essere immatura verso una via più intima e consapevole in realtà era sempre pieno di ritornelli leggeri e di plastica da urlare a squarciagola ad un pubblico fatto più di adolescenti che di ragazzi maturi.A salvarsi erano solo le ballate dirette e semplici spesso solo con voce e chitarra acustica,senza ampollosa e chiassosa elettricità.
Quella è la direzione verso cui Avril adesso tende.Cambiando casa discografica e cambiando anche manager l'artista ha tentato di voltar pagina e provare ad avere una minor pressione addosso.Dare il proprio nome al disco di solito è sintomo che l'artista ha racchiuso nell'album tutta la sua vera essenza,senza filtri o finzioni.Infatti questo è il tentativo di Avril.All'ascolto si possono scorgere momenti gradevoli,spesso i testi non sono elevati o altro ma diretti e ricchi di arrangiamenti semplici come “Hush Hush”, “Give You What You Like” e la delicata e pacata “I’m Falling Fast”,musica pop non incitante le masse.
Analizzando i sette album di Avril Lavigne questo è forse il disco più da adulta che non vuole per forza stordire un pubblico di ragazzini ma comunicare delle emozioni di una ragazza-donna in un'epoca non sempre facile.In alcuni casi la bionda ex skater forse eccede con la filosofia come in “You Ain’t Seen Nothing Yet”, dove ci si perde in periodi lunghi e senza grande senso.Ma la musica è virtuosa e non eccessiva.Molto bello infine il pezzo "17" dove la cantante parla dei suoi diciassette anni spensierati e guardandoli con malinconia è indecisa se rivolerli o no. Insomma Avril cerca in questo lavoro di non perdere la sua naturalezza di ex adolescente ma provando a dare un senso più profondo alla sua musica senza ricorrere ai deep elettrici e da punk.Tutti crescono,per fortuna.
Avril Lavigne presenta il suo nuovo album dal titolo omonimo e da subito,al primo ascolto capiamo che l'ex ragazzaccia canadese è molto indecisa se crescere o rimanere la punk adolescente che urlava in faccia i suoi pensieri confusi.Non per forza questo deve essere un difetto ma neppure un vero pregio.I precedenti album della cantante erano in parte stati criticati proprio per un approccio poco maturo più finalizzato alla ricerca insensata del caos pop,soprattutto sul tema degli arrangiamenti.Persino l'ultimo disco che dal titolo “Goodbye Lullaby”, doveva far pensare all'addio dell'essere immatura verso una via più intima e consapevole in realtà era sempre pieno di ritornelli leggeri e di plastica da urlare a squarciagola ad un pubblico fatto più di adolescenti che di ragazzi maturi.A salvarsi erano solo le ballate dirette e semplici spesso solo con voce e chitarra acustica,senza ampollosa e chiassosa elettricità.
Quella è la direzione verso cui Avril adesso tende.Cambiando casa discografica e cambiando anche manager l'artista ha tentato di voltar pagina e provare ad avere una minor pressione addosso.Dare il proprio nome al disco di solito è sintomo che l'artista ha racchiuso nell'album tutta la sua vera essenza,senza filtri o finzioni.Infatti questo è il tentativo di Avril.All'ascolto si possono scorgere momenti gradevoli,spesso i testi non sono elevati o altro ma diretti e ricchi di arrangiamenti semplici come “Hush Hush”, “Give You What You Like” e la delicata e pacata “I’m Falling Fast”,musica pop non incitante le masse.
Analizzando i sette album di Avril Lavigne questo è forse il disco più da adulta che non vuole per forza stordire un pubblico di ragazzini ma comunicare delle emozioni di una ragazza-donna in un'epoca non sempre facile.In alcuni casi la bionda ex skater forse eccede con la filosofia come in “You Ain’t Seen Nothing Yet”, dove ci si perde in periodi lunghi e senza grande senso.Ma la musica è virtuosa e non eccessiva.Molto bello infine il pezzo "17" dove la cantante parla dei suoi diciassette anni spensierati e guardandoli con malinconia è indecisa se rivolerli o no. Insomma Avril cerca in questo lavoro di non perdere la sua naturalezza di ex adolescente ma provando a dare un senso più profondo alla sua musica senza ricorrere ai deep elettrici e da punk.Tutti crescono,per fortuna.
IL CAPITALE UMANO
di Valeria Piras
Un piccolo capolavoro del nuovo cinema italiano.
Paolo Virzì è senza dubbio uno dei registi più bravi ed intensi del nostro paese e questo suo nuovo film dal titolo Il Capitale Umano ne è l’ennesima dimostrazione dopo il suo precedente Tutti i santi giorni,anch’esso distintosi per bellezza ed intensità. Il genere cambia notevolmente rispetto allo scorso lavoro,non più il genere commedia seppur malinconica, ma un noir spietato, anche se venato qua e là di humour. Il capitale umano è tratto da un romanzo di un narratore statunitense ambientato in California (che qui diventa la Brianza).Ma il pregio del regista è quello di non tentare mai di imitare gli altri o il cinema straniero per copiarlo o darsi un atteggiamento internazionale. In modo molto diretto Virzì osserva gli altri e fa suoi i pregi e le cose che nota per raccontare nel migliore dei modi una storia. Questo è il motivo che spinge il regista a descrivere la Brianza gelida, cupissima, terribile e quasi mai vista sullo schermo.
Il capitale umano è composto da tre capitoli, più un’apertura e un capitolo conclusivo. Il film parte con una splendida scena iniziale dove un ciclista viene messo sotto da un Suv lungo una strada provinciale nei pressi di Ornate. Con un veloce flash-back si torna poi indietro per raccontare con un metodo alla Scorsese una storia che dura e narra le vicende di un periodo di circa 6 mesi da tre punti di vista diversi. L’incidente del ciclista sulla strada è una sorta di punto d’incontro dei destini di tutti i personaggi, una specie di simbolica svolta della trama. Una volta giunti alla fine del film abbiamo la fotografia amara e cattiva di personaggi piccoli e ambigui. Emblematica una frase di Carla,una delle protagoniste dal carattere sognatore ed ingenuo: “Avete scommesso sulla rovina di questo paese. E avete vinto”.Una specie di giudizio definitivo da cui nessuno sfugge.
Attraverso Il capitale umano, Paolo Virzì non ci descrive solo l’insaziabile fame di potere e ricchezza dell’animo umano, agghiacciante e spietato contro tutto e tutti quando meno te l’aspetti. Ci parla soprattutto della morale poco chiara di un paese che ha ormai le fondamenta in disfacimento. Davvero raggelante è la parte finale del film una sorta di pugno nello stomaco,un emblema di come una parte del paese stia miserabilmente riducendosi. Questo film è una specie di medicina contro i film natalizi italiani che in questi giorni hanno invaso le sale cinematografiche,non per la sua qualità complessiva indubbiamente superiore ma perché ci dà l’idea che esiste un’Italia gelida e terribile,senza remore né scrupoli e non solo l’Italia buonista e spensierata che si intuisce dai cinepanettoni.Un ritratto diretto che la crisi,la vera crisi del paese non è economica ma morale.
Paolo Virzì è senza dubbio uno dei registi più bravi ed intensi del nostro paese e questo suo nuovo film dal titolo Il Capitale Umano ne è l’ennesima dimostrazione dopo il suo precedente Tutti i santi giorni,anch’esso distintosi per bellezza ed intensità. Il genere cambia notevolmente rispetto allo scorso lavoro,non più il genere commedia seppur malinconica, ma un noir spietato, anche se venato qua e là di humour. Il capitale umano è tratto da un romanzo di un narratore statunitense ambientato in California (che qui diventa la Brianza).Ma il pregio del regista è quello di non tentare mai di imitare gli altri o il cinema straniero per copiarlo o darsi un atteggiamento internazionale. In modo molto diretto Virzì osserva gli altri e fa suoi i pregi e le cose che nota per raccontare nel migliore dei modi una storia. Questo è il motivo che spinge il regista a descrivere la Brianza gelida, cupissima, terribile e quasi mai vista sullo schermo.
Il capitale umano è composto da tre capitoli, più un’apertura e un capitolo conclusivo. Il film parte con una splendida scena iniziale dove un ciclista viene messo sotto da un Suv lungo una strada provinciale nei pressi di Ornate. Con un veloce flash-back si torna poi indietro per raccontare con un metodo alla Scorsese una storia che dura e narra le vicende di un periodo di circa 6 mesi da tre punti di vista diversi. L’incidente del ciclista sulla strada è una sorta di punto d’incontro dei destini di tutti i personaggi, una specie di simbolica svolta della trama. Una volta giunti alla fine del film abbiamo la fotografia amara e cattiva di personaggi piccoli e ambigui. Emblematica una frase di Carla,una delle protagoniste dal carattere sognatore ed ingenuo: “Avete scommesso sulla rovina di questo paese. E avete vinto”.Una specie di giudizio definitivo da cui nessuno sfugge.
Attraverso Il capitale umano, Paolo Virzì non ci descrive solo l’insaziabile fame di potere e ricchezza dell’animo umano, agghiacciante e spietato contro tutto e tutti quando meno te l’aspetti. Ci parla soprattutto della morale poco chiara di un paese che ha ormai le fondamenta in disfacimento. Davvero raggelante è la parte finale del film una sorta di pugno nello stomaco,un emblema di come una parte del paese stia miserabilmente riducendosi. Questo film è una specie di medicina contro i film natalizi italiani che in questi giorni hanno invaso le sale cinematografiche,non per la sua qualità complessiva indubbiamente superiore ma perché ci dà l’idea che esiste un’Italia gelida e terribile,senza remore né scrupoli e non solo l’Italia buonista e spensierata che si intuisce dai cinepanettoni.Un ritratto diretto che la crisi,la vera crisi del paese non è economica ma morale.
COLPI DI FORTUNA
di Valeria Piras
Ecco il nuovo cine-panettone.L'effetto è il solito.
A Natale non possiamo esimerci dal parlare e dal recensire il classico cinepanettone che quest'anno compie trent'anni: era nel 1983 infatti che uscì nelle sale il mitico Vacanze di Natale di Carlo Vanzina, che inaugurò un filone lunghissimo di film natalizi classici come il panettone sotto l'albero.Christian De Sica è l'unico superstite di quei comici dell'epoca e dopo la fine della collaborazione storica con Massimo Boldi e quella più recente con Massimo Ghini, dopo aver girato molte location in giro per il mondo (India, Miami, New York, Rio), il regista Neri Parenti, che dirige il film dal lontano 2002 e il produttore Aurelio De Laurentiis, hanno deciso dall'anno scorso che era arrivato il momento di rinverdire il tema e la struttura.Nel 2012 era nato infatti Colpi di Fulmine una commedia ad episodi, due in questo caso, il cui tema di fondo era l'amore, per il nuovo film per il 2013 il titolo è Colpi di Fortuna,nel chiaro scopo di portare avanti un nuovo filone, gli episodi in questo caso diventano tre e il tema che li unisce è la fortuna.
Nel cast oltre all'inevitabile De Sica,qui in coppia con Francesco Mandelli,ci sono la riconferma di Pasquale Petrolo e Claudio Gregori,calebri come Lillo e Greg (che furono i meno peggio nel film dell'anno scorso),in più troviamo la new entry assoluta di Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu. Alla fine del film si ride poco e non è certo un bene per un film comico. Soprattutto nel primo episodio, il più deludente dei tre, dove Luca e Paolo, sempre divertenti di solito, non sembrano a loro agio e non brillano prechè bloccati in una storia banale e obbligati a piegarsi in gag viste e riviste. Non si ride mai in questo episodio nonostante la presenza dei comici del successo televisivo Made in Sud tra i comprimari. Poco meglio va nel secondo episodio con De Sica e Mandelli in un tipico duello tra lo scaramantico e lo iettatore: tra corna e toccate di parti intime la sensazione è che non essendoci una vera storia solida alla base tutto si regge sulle gag e sulle infantili scene,davvero un'offesa per la vera commedia leggera.
L'episodio con Lillo e Greg è ovviamente il migliore dei tre ed è anche l'unico che funziona, forse perché i due comici padroneggiano i loro ruoli e viaggiano indipendenti quasi dalla sceneggiatura:la loro è verve surreale in stile Monty Python, fatta di nonsense, di gag e tempi veramente comici e perfetti. Usciti dal cinema sono proprio Lillo e Greg i soli che restano e viene quasi voglia di andarli a vedere nei loro spettacoli teatrali. Come Colpi di Fulmine anche Colpi di Fortuna cerca nobilmente di rivalutare il genere comico ad episodi abbandonando lo schema volgare del cinepanettone.Ma gli esiti sono completamente insufficienti.
A Natale non possiamo esimerci dal parlare e dal recensire il classico cinepanettone che quest'anno compie trent'anni: era nel 1983 infatti che uscì nelle sale il mitico Vacanze di Natale di Carlo Vanzina, che inaugurò un filone lunghissimo di film natalizi classici come il panettone sotto l'albero.Christian De Sica è l'unico superstite di quei comici dell'epoca e dopo la fine della collaborazione storica con Massimo Boldi e quella più recente con Massimo Ghini, dopo aver girato molte location in giro per il mondo (India, Miami, New York, Rio), il regista Neri Parenti, che dirige il film dal lontano 2002 e il produttore Aurelio De Laurentiis, hanno deciso dall'anno scorso che era arrivato il momento di rinverdire il tema e la struttura.Nel 2012 era nato infatti Colpi di Fulmine una commedia ad episodi, due in questo caso, il cui tema di fondo era l'amore, per il nuovo film per il 2013 il titolo è Colpi di Fortuna,nel chiaro scopo di portare avanti un nuovo filone, gli episodi in questo caso diventano tre e il tema che li unisce è la fortuna.
Nel cast oltre all'inevitabile De Sica,qui in coppia con Francesco Mandelli,ci sono la riconferma di Pasquale Petrolo e Claudio Gregori,calebri come Lillo e Greg (che furono i meno peggio nel film dell'anno scorso),in più troviamo la new entry assoluta di Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu. Alla fine del film si ride poco e non è certo un bene per un film comico. Soprattutto nel primo episodio, il più deludente dei tre, dove Luca e Paolo, sempre divertenti di solito, non sembrano a loro agio e non brillano prechè bloccati in una storia banale e obbligati a piegarsi in gag viste e riviste. Non si ride mai in questo episodio nonostante la presenza dei comici del successo televisivo Made in Sud tra i comprimari. Poco meglio va nel secondo episodio con De Sica e Mandelli in un tipico duello tra lo scaramantico e lo iettatore: tra corna e toccate di parti intime la sensazione è che non essendoci una vera storia solida alla base tutto si regge sulle gag e sulle infantili scene,davvero un'offesa per la vera commedia leggera.
L'episodio con Lillo e Greg è ovviamente il migliore dei tre ed è anche l'unico che funziona, forse perché i due comici padroneggiano i loro ruoli e viaggiano indipendenti quasi dalla sceneggiatura:la loro è verve surreale in stile Monty Python, fatta di nonsense, di gag e tempi veramente comici e perfetti. Usciti dal cinema sono proprio Lillo e Greg i soli che restano e viene quasi voglia di andarli a vedere nei loro spettacoli teatrali. Come Colpi di Fulmine anche Colpi di Fortuna cerca nobilmente di rivalutare il genere comico ad episodi abbandonando lo schema volgare del cinepanettone.Ma gli esiti sono completamente insufficienti.
PER DIECI MINUTI di Chiara Gamberale
di Valeria Piras
Una scrittrice intensa per un romanzo riuscitissimo.
Chiara Gamberale si è sempre distinta per romanzi intimi ed introspettivi, libri che provano a solcare nel profondo della propria anima e anche nel suo ultimo lavoro,Per Dieci Minuti,la situazione è la medesima.La storia è incentrata su Chiara G. personaggio palesemente autobiografico che è in analisi da anni da una psicoterapeuta la quale per raggiungere determinati obiettivi analitici le propone un gioco,che riprende il pensiero pedagogico di Rudolf Steiner: per dieci minuti al giorno, per un mese dovrà dedicarsi a fare qualcosa mai fatto prima di allora.Lo scopo analitico è quello di evitare i tipici schemi e sfidare direttamente le proprie paure interiori. Chiara accetta la sfida e inizia il suo gioco, in effetti lei è ben disposta dopo aver visto naufragare il proprio matrimonio ed essersi trasferita in un’altra città per dimenticare, e dopo essersi vista sostituita alla radio dove lavorava,da una collega raccomandata, questo le sembra semplice da fare. Così comincia a fare le cose mai fatte prima: inizia a cucinare, essere sempre pronta per la madre per ascoltarla, si dedica anche al ballo.
Chiara vuole uscire dalla sua crisi e inizia una nuova fase,lo fa a piccoli passi, giocando in modo bizzarro e soprattutto decidendo di mettersi in gioco in campi e situazioni totalmente nuove per lei .“Per dieci minuti” è un romanzo dagli sfondi allegri nonostante Chiara Gamberale inizi il libro sulla base del dolore,di una perdita e della paura del fallimento. Usando il sistema che la psicoterapeuta le consiglia Chiara riesce a ritornare alla vita.Il romanzo è come detto in parte “ autobiografico,molto sincero e diretto,un libro in cui uomini e donne di tutte le età si possono identificare.L'autrice in modo schematico divide l'opera in capitoli e ognuno è dedicato alla cosa nuova mai fatta prima,quei dieci minuti da impiegare nell'attività che si è scelta: si comincia da cose all'apparenza piccole e stupide come il mettersi sulle unghie uno smalto di un colore bizzarro, abbonarsi a una palestra o iniziare a cucinare seriamente un dolce.
Trascorrendo i giorni però Chiara alza la sua meta e le cose nuove da fare si fanno sempre più importanti e utili,coinvolgendo anche i familiari e gli amici, tanto che, alla fine del mese, riuscirà a capire cose nuove non solo su stessa ma anche su amici dei quali sembrava sapere tutto.Scoperte continue anche sul mondo circostante, in cui aveva vissuto fino ad allora in una maniera forse un pò egoistica e poco coinvolta perché troppo assorbita dalla sua vita e dai suoi problemi esistenziali.Finito il romanzo si è davvero spinti Al termine della lettura si è invogliati a provare l'esperimento di Chiara personalmente perché spesso anche noi che leggiamo sovente siamo rinchiusi nelle nostre esistenze e quasi sempre evitiamo di sperimentare qualcosa di nuovo, o perchè pigri o perchè spaventati dalle cose che non conosciamo bene.Un libro che può valere come una vera cura psicoterapeutica.
Chiara Gamberale si è sempre distinta per romanzi intimi ed introspettivi, libri che provano a solcare nel profondo della propria anima e anche nel suo ultimo lavoro,Per Dieci Minuti,la situazione è la medesima.La storia è incentrata su Chiara G. personaggio palesemente autobiografico che è in analisi da anni da una psicoterapeuta la quale per raggiungere determinati obiettivi analitici le propone un gioco,che riprende il pensiero pedagogico di Rudolf Steiner: per dieci minuti al giorno, per un mese dovrà dedicarsi a fare qualcosa mai fatto prima di allora.Lo scopo analitico è quello di evitare i tipici schemi e sfidare direttamente le proprie paure interiori. Chiara accetta la sfida e inizia il suo gioco, in effetti lei è ben disposta dopo aver visto naufragare il proprio matrimonio ed essersi trasferita in un’altra città per dimenticare, e dopo essersi vista sostituita alla radio dove lavorava,da una collega raccomandata, questo le sembra semplice da fare. Così comincia a fare le cose mai fatte prima: inizia a cucinare, essere sempre pronta per la madre per ascoltarla, si dedica anche al ballo.
Chiara vuole uscire dalla sua crisi e inizia una nuova fase,lo fa a piccoli passi, giocando in modo bizzarro e soprattutto decidendo di mettersi in gioco in campi e situazioni totalmente nuove per lei .“Per dieci minuti” è un romanzo dagli sfondi allegri nonostante Chiara Gamberale inizi il libro sulla base del dolore,di una perdita e della paura del fallimento. Usando il sistema che la psicoterapeuta le consiglia Chiara riesce a ritornare alla vita.Il romanzo è come detto in parte “ autobiografico,molto sincero e diretto,un libro in cui uomini e donne di tutte le età si possono identificare.L'autrice in modo schematico divide l'opera in capitoli e ognuno è dedicato alla cosa nuova mai fatta prima,quei dieci minuti da impiegare nell'attività che si è scelta: si comincia da cose all'apparenza piccole e stupide come il mettersi sulle unghie uno smalto di un colore bizzarro, abbonarsi a una palestra o iniziare a cucinare seriamente un dolce.
Trascorrendo i giorni però Chiara alza la sua meta e le cose nuove da fare si fanno sempre più importanti e utili,coinvolgendo anche i familiari e gli amici, tanto che, alla fine del mese, riuscirà a capire cose nuove non solo su stessa ma anche su amici dei quali sembrava sapere tutto.Scoperte continue anche sul mondo circostante, in cui aveva vissuto fino ad allora in una maniera forse un pò egoistica e poco coinvolta perché troppo assorbita dalla sua vita e dai suoi problemi esistenziali.Finito il romanzo si è davvero spinti Al termine della lettura si è invogliati a provare l'esperimento di Chiara personalmente perché spesso anche noi che leggiamo sovente siamo rinchiusi nelle nostre esistenze e quasi sempre evitiamo di sperimentare qualcosa di nuovo, o perchè pigri o perchè spaventati dalle cose che non conosciamo bene.Un libro che può valere come una vera cura psicoterapeutica.
INDOVINA CHI VIENE A NATALE?
di Valeria Piras
Per un Natale leggero e comico ecco il film adatto.
Fausto Brizzi sta diventando un'abitudine della cinematografia italiana natalizia,anche per questo 2013 decide di essere presente con una commedia nel solco della sua tradizione,un film leggero e divertente con una storia leggera e allegra.Ma poco altro.La trama è piuttosto tipica: Giulio (Diego Abatantuono) è un ricco imprenditore del nord che ha superato la crisi economica grazie alle sue capacità e all'appoggio della moglie Marina (Angela Finocchiaro).Per Natale ha invitato la famiglia in un grande chalet di montagna per passare insieme le feste di Natale.La sera della vigilia arrivano Valentina (Cristiana Capotondi), figlia di Giulio e Marina, che presenterà ai genitori il nuovo fidanzato,disabile,(Raoul Bova), la sorella Chiara (Claudia Gerini) separata e con prole molto vivace al seguito accompagnata dal nuovo amante Domenico (Claudio Bisio) e,infine a sorpresa anche il fratellastro Antonio (Carlo Buccirosso) con moglie e tre figli.
Peripezie e malintesi saranno a bizeffe ma alla fine il magico momento delle feste rappresenterà l'occasione buona per riflettere sui propri errori e riscoprire il calore vero della famiglia.Dopo anni e anni di apprendistato come sceneggiatore dei cinepanettoni di Neri Parenti Fausto Brizzi sembra volerne prendere il posto e si butta nella mischia dei film di Natale provando a fare concorrenza al suo maestro.E Indovina chi viene a Natale? è la tipica via di mezzo tra le commedie sentimentali dirette dal regista romano e gli esasperati e surreali cinepanettoni,da molti odiati. Pur seguendo le linee guida della cinematografia natalizia Brizzi da al pubblico una commedia iperleggera dal sentore finale dolciastro; un film corale che però non rischia poichè si tratta di grandi attori dalla sicura popolarità. Il film si regge tutto sulle spalle dei singoli personaggi e mai solo sulla storia nel suo complesso.
Ci sono vari momenti divertenti anche se la struttura appare scarna e non solida come dovrebbe.Qualche risata a denti stretti ma almeno il finale convince con la figura gigioneggiante ed istrionica di un grande comico ossia Gigi Proietti che si presta ad un cammeo davvero spassoso. Un film per tutti, senza grande verve comica nè guizzi,molto stereotipato ma che alla fine non annoia anche grazie alla durata non eccessiva.Una commendia natalizia che si vede e passa veloce e non è certo un elogio per un regista promettente come Brizzi che sembra essersi perso nei meandri dell'industria del cinema e degli incassi a tutti i costi.
Fausto Brizzi sta diventando un'abitudine della cinematografia italiana natalizia,anche per questo 2013 decide di essere presente con una commedia nel solco della sua tradizione,un film leggero e divertente con una storia leggera e allegra.Ma poco altro.La trama è piuttosto tipica: Giulio (Diego Abatantuono) è un ricco imprenditore del nord che ha superato la crisi economica grazie alle sue capacità e all'appoggio della moglie Marina (Angela Finocchiaro).Per Natale ha invitato la famiglia in un grande chalet di montagna per passare insieme le feste di Natale.La sera della vigilia arrivano Valentina (Cristiana Capotondi), figlia di Giulio e Marina, che presenterà ai genitori il nuovo fidanzato,disabile,(Raoul Bova), la sorella Chiara (Claudia Gerini) separata e con prole molto vivace al seguito accompagnata dal nuovo amante Domenico (Claudio Bisio) e,infine a sorpresa anche il fratellastro Antonio (Carlo Buccirosso) con moglie e tre figli.
Peripezie e malintesi saranno a bizeffe ma alla fine il magico momento delle feste rappresenterà l'occasione buona per riflettere sui propri errori e riscoprire il calore vero della famiglia.Dopo anni e anni di apprendistato come sceneggiatore dei cinepanettoni di Neri Parenti Fausto Brizzi sembra volerne prendere il posto e si butta nella mischia dei film di Natale provando a fare concorrenza al suo maestro.E Indovina chi viene a Natale? è la tipica via di mezzo tra le commedie sentimentali dirette dal regista romano e gli esasperati e surreali cinepanettoni,da molti odiati. Pur seguendo le linee guida della cinematografia natalizia Brizzi da al pubblico una commedia iperleggera dal sentore finale dolciastro; un film corale che però non rischia poichè si tratta di grandi attori dalla sicura popolarità. Il film si regge tutto sulle spalle dei singoli personaggi e mai solo sulla storia nel suo complesso.
Ci sono vari momenti divertenti anche se la struttura appare scarna e non solida come dovrebbe.Qualche risata a denti stretti ma almeno il finale convince con la figura gigioneggiante ed istrionica di un grande comico ossia Gigi Proietti che si presta ad un cammeo davvero spassoso. Un film per tutti, senza grande verve comica nè guizzi,molto stereotipato ma che alla fine non annoia anche grazie alla durata non eccessiva.Una commendia natalizia che si vede e passa veloce e non è certo un elogio per un regista promettente come Brizzi che sembra essersi perso nei meandri dell'industria del cinema e degli incassi a tutti i costi.
LA STRADA VERSO CASA di Fabio Volo
di Valeria Piras
La maturazione definitiva del Fabio Volo scrittore.
La Strada Verso Casa è il nuovo attesissimo romanzo di Fabio Volo,scrittore,attore,conduttore e chi ne ha più ne metta. E’ la storia di due fratelli che allontanatisi si riavvicinano per forza maggiore e tornano a capirsi di nuovo. Sono custodi di emozioni e di un inconfessabile segreto di famiglia nascosto da sempre dentro di loro. Il romanzo narra anche di una lunga e tormentata storia d'amore che vive per decenni e che è densa di eventi belli e brutti. Infine racconta il dolore che spacca il cuore per una perdita importante e i momenti di felicità che nascono a sorpresa. La scrittura di Fabio Volo ha sempre mantenuto una sorta di venatura filosofica che traspare e dà emozioni quotidiane e naturali,quasi istintive, metafore che semplificano registri e schemi complessi in modo perfetto con sottile ironia e spesso anche amara consapevolezza che dona ai suoi romanzi un forte senso agrodolce. Il romanzo a detta dell’autore è semi-autobiografico,eventi come il rapporto col fratello,la malattia dl padre sono tutti elementi veri in cui Volo mette se stesso e si sente.
La storia è sentita e forte,ricca di sentimenti anche se in alcuni momenti si fa pesante quasi schiacciante per la ricchezza di emozioni controverse e contenute nelle pagine. Emblematico il rapporto col fratello,si vogliono bene, sanno di volersene, ma non lo mostrano,semplicemente perché non ce né bisogno alcuno. Il modo in cui vengono descritte le attenzioni al padre e l’intera vicenda ha il sentore dolce/amaro delle famiglie divise ma che desiderano essere unite perché ne avrebbero bisogno. Volo ci narra tutti i sintomi di un' amore incondizionato verso quell’universo familiare che,anche se sfumato nel tempo,prova a ricomporsi.Come detto la famiglia porta dentro di se un segreto inconfessabile, seppellito per anni che alla fine viene fuori in modo quasi naturale. Alcuni critici hanno evidenziato la necessità di inserire nel romanzo capitoli più leggeri da un punto di vista emozionale per non stressare emotivamente il lettore,per smorzare un po' l'intero dramma. Forse è vero che Volo non dà respiro a chi legge,getta nelle pagine tutti i suoi sentimenti forti senza curarsi dell’impatto,ma forse è un pregio di sincerità.
Un racconto non studiato ma spontaneo. E’ vero che il libro tratta comunque di cose già sentite nella storia bibliografica di Volo,amori,dolori,tradimenti,drammi familiari,sono cose che già sono state lette in alcuni degli stessi romanzi dello scrittore ma un forte impulso drammatico non si era mai visto come adesso. Fermo restando che il bisogno di una ventata di novità è comunque utile. La scrittura lineare e semplice,senza complessità strutturali,argomenti chiari e facilmente individuabili nella vita di ognuno di noi,un sano approccio ironico e anche filosofico all’esistenza umana,sono i pregi da sempre del Fabio Volo scrittore. Sono i motivi che fanno della Strada Verso Casa un romanzo da leggere.
La Strada Verso Casa è il nuovo attesissimo romanzo di Fabio Volo,scrittore,attore,conduttore e chi ne ha più ne metta. E’ la storia di due fratelli che allontanatisi si riavvicinano per forza maggiore e tornano a capirsi di nuovo. Sono custodi di emozioni e di un inconfessabile segreto di famiglia nascosto da sempre dentro di loro. Il romanzo narra anche di una lunga e tormentata storia d'amore che vive per decenni e che è densa di eventi belli e brutti. Infine racconta il dolore che spacca il cuore per una perdita importante e i momenti di felicità che nascono a sorpresa. La scrittura di Fabio Volo ha sempre mantenuto una sorta di venatura filosofica che traspare e dà emozioni quotidiane e naturali,quasi istintive, metafore che semplificano registri e schemi complessi in modo perfetto con sottile ironia e spesso anche amara consapevolezza che dona ai suoi romanzi un forte senso agrodolce. Il romanzo a detta dell’autore è semi-autobiografico,eventi come il rapporto col fratello,la malattia dl padre sono tutti elementi veri in cui Volo mette se stesso e si sente.
La storia è sentita e forte,ricca di sentimenti anche se in alcuni momenti si fa pesante quasi schiacciante per la ricchezza di emozioni controverse e contenute nelle pagine. Emblematico il rapporto col fratello,si vogliono bene, sanno di volersene, ma non lo mostrano,semplicemente perché non ce né bisogno alcuno. Il modo in cui vengono descritte le attenzioni al padre e l’intera vicenda ha il sentore dolce/amaro delle famiglie divise ma che desiderano essere unite perché ne avrebbero bisogno. Volo ci narra tutti i sintomi di un' amore incondizionato verso quell’universo familiare che,anche se sfumato nel tempo,prova a ricomporsi.Come detto la famiglia porta dentro di se un segreto inconfessabile, seppellito per anni che alla fine viene fuori in modo quasi naturale. Alcuni critici hanno evidenziato la necessità di inserire nel romanzo capitoli più leggeri da un punto di vista emozionale per non stressare emotivamente il lettore,per smorzare un po' l'intero dramma. Forse è vero che Volo non dà respiro a chi legge,getta nelle pagine tutti i suoi sentimenti forti senza curarsi dell’impatto,ma forse è un pregio di sincerità.
Un racconto non studiato ma spontaneo. E’ vero che il libro tratta comunque di cose già sentite nella storia bibliografica di Volo,amori,dolori,tradimenti,drammi familiari,sono cose che già sono state lette in alcuni degli stessi romanzi dello scrittore ma un forte impulso drammatico non si era mai visto come adesso. Fermo restando che il bisogno di una ventata di novità è comunque utile. La scrittura lineare e semplice,senza complessità strutturali,argomenti chiari e facilmente individuabili nella vita di ognuno di noi,un sano approccio ironico e anche filosofico all’esistenza umana,sono i pregi da sempre del Fabio Volo scrittore. Sono i motivi che fanno della Strada Verso Casa un romanzo da leggere.
UN FANTASTICO VIA VAI
di Valeria Piras
Pieraccioni finalmente raggiunge la maturità cinematografica.
Come spesso accade il periodo natalizio che si avvicina ci porta in dono oltre ai classici cinepanettoni anche una serie di commedie leggere e spensierate di cui Leonardo Pieraccioni è oramai un tipico protagonista.Il suo nuovo film in uscita il 12 dicembre è Fantastico Via Vai,una commedia incentrata sui ricordi della giovinezza passata.La trama è molto semplice ma interessante: Arnaldo (Leonardo Pieraccioni) è un impiegato dalla vita tranquilla che si barcamena tra lavoro,amici e colleghi come Esposito e Giovannelli (Marco Marzocca e Maurizio Battista) e soprattutto la dolce famiglia con la bella moglie Anita (Serena Autieri) e le sue due gemelle Martina e Federica.Per un equivoco viene accusato di avere un'amante e cacciato di casa.In attesa che tutto si risolva Arnaldo prende in affitto una stanza insieme a quattro giovani e baldi universitari: Camilla (Marianna Di Martino), Edoardo (David Sef), Anna (Chiara Mastalli) e Marco (Giuseppe Maggio).
Gli studenti accetteranno “l’attempato” nuovo coinquilino senza farsi troppi problemi.Arnaldo in questo modo comincerà un nostalgico viaggio a ritroso nel tempo,sulla sua giovinezza e sul periodo universitario,non senza rimpianti ma anche con solide certezze.Leonardo Pieraccioni con questo film produce una delle sue migliori tappe nella maturità registica,un film divertente con un filo diretto e nostalgico che fa sempre presa sul pubblico.Alcune reminiscenze ci rimandano spesso al suo debutto registico ne I Laureati e anche alcune scene sembrano autocitazioni.E' importante evidenziare che mentre,dopo il successo del Ciclone,pellicola senza dubbio divertente,il regista si era immesso su una strada comoda e ripetitiva,coccolato dagli incassi; il risultato sono stati film zoppicanti,con una formula noiosetta,ricca di gag dialettali, romanticismo superficiale e una poetica scialba.
Io & Marilyn è la tappa che ha segnato un cambiamento importante per Pieraccioni regista e autore, il film conteneva una qualità surreale che sconfinava nel fantastico e faceva ben sperare in un cambio di rotta per il comico toscano.Purtroppo il successivo film Finalmente la felicità ha segnato un passo indietro evidente,con ammiccamenti ai cinepanettoni con stampo nazional-popolare.Con questo nuovo film qualcosa sembra cambiare,una maggiore profondità,nei limiti della commedia,sembra esserci.Più riflessione e meno confusione.Ecco perchè Fantastico Via Vai è un film da vedere,per ridere con un minimo di pensiero.Se riuscisse questo a Pieraccioni sarebbe già un piccolo grande successo.
Come spesso accade il periodo natalizio che si avvicina ci porta in dono oltre ai classici cinepanettoni anche una serie di commedie leggere e spensierate di cui Leonardo Pieraccioni è oramai un tipico protagonista.Il suo nuovo film in uscita il 12 dicembre è Fantastico Via Vai,una commedia incentrata sui ricordi della giovinezza passata.La trama è molto semplice ma interessante: Arnaldo (Leonardo Pieraccioni) è un impiegato dalla vita tranquilla che si barcamena tra lavoro,amici e colleghi come Esposito e Giovannelli (Marco Marzocca e Maurizio Battista) e soprattutto la dolce famiglia con la bella moglie Anita (Serena Autieri) e le sue due gemelle Martina e Federica.Per un equivoco viene accusato di avere un'amante e cacciato di casa.In attesa che tutto si risolva Arnaldo prende in affitto una stanza insieme a quattro giovani e baldi universitari: Camilla (Marianna Di Martino), Edoardo (David Sef), Anna (Chiara Mastalli) e Marco (Giuseppe Maggio).
Gli studenti accetteranno “l’attempato” nuovo coinquilino senza farsi troppi problemi.Arnaldo in questo modo comincerà un nostalgico viaggio a ritroso nel tempo,sulla sua giovinezza e sul periodo universitario,non senza rimpianti ma anche con solide certezze.Leonardo Pieraccioni con questo film produce una delle sue migliori tappe nella maturità registica,un film divertente con un filo diretto e nostalgico che fa sempre presa sul pubblico.Alcune reminiscenze ci rimandano spesso al suo debutto registico ne I Laureati e anche alcune scene sembrano autocitazioni.E' importante evidenziare che mentre,dopo il successo del Ciclone,pellicola senza dubbio divertente,il regista si era immesso su una strada comoda e ripetitiva,coccolato dagli incassi; il risultato sono stati film zoppicanti,con una formula noiosetta,ricca di gag dialettali, romanticismo superficiale e una poetica scialba.
Io & Marilyn è la tappa che ha segnato un cambiamento importante per Pieraccioni regista e autore, il film conteneva una qualità surreale che sconfinava nel fantastico e faceva ben sperare in un cambio di rotta per il comico toscano.Purtroppo il successivo film Finalmente la felicità ha segnato un passo indietro evidente,con ammiccamenti ai cinepanettoni con stampo nazional-popolare.Con questo nuovo film qualcosa sembra cambiare,una maggiore profondità,nei limiti della commedia,sembra esserci.Più riflessione e meno confusione.Ecco perchè Fantastico Via Vai è un film da vedere,per ridere con un minimo di pensiero.Se riuscisse questo a Pieraccioni sarebbe già un piccolo grande successo.
MONDOVISIONE - Ligabue
di Valeria Piras
Un disco semplicemente bello.Ligabue non tradisce mai.
Questa settimana per la musica italiana contemporanea è stata una settimana importante.E' infatti uscito il nuovo album di inediti di Luciano Ligabue,la più importante star musicale,forse insieme a Vasco,della nostra musica.Si intitola Mondovisione ed è formato da 14 tracce intense,profonde ed energiche,in una parola sola,belle.Un album sincero e diretto com'è Ligabue da sempre,un artista che ben interpreta il concetto di rock in chiave attuale ed italiana.Dopo tre lunghi anni dal disco precedente “Arrivederci, Mostro”, e dopo un radicale cambio sia di look che di casa di produzione Ligabue ritorna alla grande,per narrarci un viaggio personale ed intimo fra paure,indignazioni e felicità,un viaggio di emozioni vere.
La copertina del disco è tutto un programma,con la scritta Mondovisione su un mondo accartocciato e malinconico.Un mondo che spesso sembra tradire chi lo vive e lo ama ma alla fine nell'amore si trova la speranza.Si tratta di un album di canzoni,tutte di forte impatto,tutte potenziali singoli.Con esse Ligabue si capisce che ha voglia di raccontare e di raccontarsi,un invito a lasciarsi andare e vivere liberi i propri rapporti.Rimanere sempre coi piedi per terra è il mantra di Luciano e questo lo si intuisce sia dal suono scelto,un suono potente e rock sia dai testi,vere istantanee di vita e di ricordi.Dal singolo iniziale “Il sale della terra”, si comprende l'indignazione per una realtà negativa e disprezzata,ma il disco è denso di messaggi positivi.
“Il muro del suono” (brano in apertura del disco) è puro rock,sincero e sonoro che incita alla speranza; "Sono sempre i sogni a dare forma al mondo”, invita invece a sognare sempre anche un futuro migliore.Molte le tracce d'amore come le classiche ballate tipo "Tu sei lei" e "Per sempre" che colpiscono e ci raccontano un Ligabue finalmente in pace con il cuore ma in ogni traccia troviamo frammenti di sentimenti ben avvolti in note rock e folk.Ligabue fa ancora centro,un artista che col passare del tempo dimostra sempre intensità e ispirazione, un cantante che parla del suo mondo e di persone reali, che sa anche accusare senza lanciare proclami. Non è facile e non è da tutti.Un applauso,l'ennesimo,per Luciano Ligabue,il rocker di Correggio.
Questa settimana per la musica italiana contemporanea è stata una settimana importante.E' infatti uscito il nuovo album di inediti di Luciano Ligabue,la più importante star musicale,forse insieme a Vasco,della nostra musica.Si intitola Mondovisione ed è formato da 14 tracce intense,profonde ed energiche,in una parola sola,belle.Un album sincero e diretto com'è Ligabue da sempre,un artista che ben interpreta il concetto di rock in chiave attuale ed italiana.Dopo tre lunghi anni dal disco precedente “Arrivederci, Mostro”, e dopo un radicale cambio sia di look che di casa di produzione Ligabue ritorna alla grande,per narrarci un viaggio personale ed intimo fra paure,indignazioni e felicità,un viaggio di emozioni vere.
La copertina del disco è tutto un programma,con la scritta Mondovisione su un mondo accartocciato e malinconico.Un mondo che spesso sembra tradire chi lo vive e lo ama ma alla fine nell'amore si trova la speranza.Si tratta di un album di canzoni,tutte di forte impatto,tutte potenziali singoli.Con esse Ligabue si capisce che ha voglia di raccontare e di raccontarsi,un invito a lasciarsi andare e vivere liberi i propri rapporti.Rimanere sempre coi piedi per terra è il mantra di Luciano e questo lo si intuisce sia dal suono scelto,un suono potente e rock sia dai testi,vere istantanee di vita e di ricordi.Dal singolo iniziale “Il sale della terra”, si comprende l'indignazione per una realtà negativa e disprezzata,ma il disco è denso di messaggi positivi.
“Il muro del suono” (brano in apertura del disco) è puro rock,sincero e sonoro che incita alla speranza; "Sono sempre i sogni a dare forma al mondo”, invita invece a sognare sempre anche un futuro migliore.Molte le tracce d'amore come le classiche ballate tipo "Tu sei lei" e "Per sempre" che colpiscono e ci raccontano un Ligabue finalmente in pace con il cuore ma in ogni traccia troviamo frammenti di sentimenti ben avvolti in note rock e folk.Ligabue fa ancora centro,un artista che col passare del tempo dimostra sempre intensità e ispirazione, un cantante che parla del suo mondo e di persone reali, che sa anche accusare senza lanciare proclami. Non è facile e non è da tutti.Un applauso,l'ennesimo,per Luciano Ligabue,il rocker di Correggio.
DON JON
di Valeria Piras
Una commedia provocatoria sul modo di guardare le donne.
Il film che qui recensiamo è un film davvero particolare,una rappresentazione di come certi tipi di uomini guardano le loro donne.Ma forse,come il protagonista ci dimostra,c'è redenzione per tutti. Jon Martello è un don Giovanni moderno che tratta le donne come oggetti.E' detto Don Jon per la grande capacità di rimorchio ogni sera: ha una vera dipendenza per il sesso che però lo ha in parte reso insoddisfatto perciò inizia un approccio diverso con l'altro sesso allo scopo di sentirsi meglio.Alla fine molto cambierà ed egli molto imparerà da due donne particolari.Joseph Gordon-Levitt è regista ed attore protagonista,prova a criticare l'uomo contemporaneo, la donna e la coppia contemporanea, quella cioè in cui spesso si finge ed ostenta felicità,ma poi ognuno fa egoisticamente quello che gli pare,basta non farsi beccare dal proprio partner.Nel film Johnny mente a Barbara, prova a trovare giustificazioni in ogni momento senza riuscirci più di tanto.
Barbara risulta essere troppo accondiscendente e alla fine anche lei è colpevole come Jon assecondando troppo capricci e vizi maschili.Il film in effetti dona molti istanti di divertimento ma anche critiche da elargire al pubblico sul modo errato di vivere le donne.Forse il regista e attore poteva osare di più senza rifugiarsi troppo alla visione stereotipata del maschio che poi è anche oggetto delle sue critiche.Nel finale ad esempio eccede nella morale arrivando ad avvicinarsi quasi alla commedia romantica.Nel suo film d'esordio Gordon-Levitt ha ben usato comparse ed attori secondari azzeccatissimi spesso delineati in modo tipico ma convincente che danno al film una bella aria giocosa.Notevoli le performance offerte dalle due attrici protagoniste,ossia Scarlett Johansson e Julianne Moore,perfette nei ruoli loro disegnati.
In definitiva non sarà certo il film rivelazione di questo 2014 ma l'opera prima di Joseph Gordon-Levitt, così come il personaggio da lui interpretato, sono molto originali e spontanei,ricchi di leggerezza e ispirati nella simpatia.L'unica pecca,lo abbiamo detto,è un maggiore coraggio nella critica e nella poca profondità della sintesi psicologica del protagonista.Il pregio è che il film non si pone in modo pretenzioso nel suo intento di insegnamento ma stimoli il pubblico con divertimento e battute surreali.In definitiva è quindi promettente l'esordio di Gordon-Levitt e anche il tema trattato.Promosso anche se il rusultato poteva essere migliore,allontanandosi dalla commedia e contraddistinguendosi per una patina maggiormente corrosiva.
Il film che qui recensiamo è un film davvero particolare,una rappresentazione di come certi tipi di uomini guardano le loro donne.Ma forse,come il protagonista ci dimostra,c'è redenzione per tutti. Jon Martello è un don Giovanni moderno che tratta le donne come oggetti.E' detto Don Jon per la grande capacità di rimorchio ogni sera: ha una vera dipendenza per il sesso che però lo ha in parte reso insoddisfatto perciò inizia un approccio diverso con l'altro sesso allo scopo di sentirsi meglio.Alla fine molto cambierà ed egli molto imparerà da due donne particolari.Joseph Gordon-Levitt è regista ed attore protagonista,prova a criticare l'uomo contemporaneo, la donna e la coppia contemporanea, quella cioè in cui spesso si finge ed ostenta felicità,ma poi ognuno fa egoisticamente quello che gli pare,basta non farsi beccare dal proprio partner.Nel film Johnny mente a Barbara, prova a trovare giustificazioni in ogni momento senza riuscirci più di tanto.
Barbara risulta essere troppo accondiscendente e alla fine anche lei è colpevole come Jon assecondando troppo capricci e vizi maschili.Il film in effetti dona molti istanti di divertimento ma anche critiche da elargire al pubblico sul modo errato di vivere le donne.Forse il regista e attore poteva osare di più senza rifugiarsi troppo alla visione stereotipata del maschio che poi è anche oggetto delle sue critiche.Nel finale ad esempio eccede nella morale arrivando ad avvicinarsi quasi alla commedia romantica.Nel suo film d'esordio Gordon-Levitt ha ben usato comparse ed attori secondari azzeccatissimi spesso delineati in modo tipico ma convincente che danno al film una bella aria giocosa.Notevoli le performance offerte dalle due attrici protagoniste,ossia Scarlett Johansson e Julianne Moore,perfette nei ruoli loro disegnati.
In definitiva non sarà certo il film rivelazione di questo 2014 ma l'opera prima di Joseph Gordon-Levitt, così come il personaggio da lui interpretato, sono molto originali e spontanei,ricchi di leggerezza e ispirati nella simpatia.L'unica pecca,lo abbiamo detto,è un maggiore coraggio nella critica e nella poca profondità della sintesi psicologica del protagonista.Il pregio è che il film non si pone in modo pretenzioso nel suo intento di insegnamento ma stimoli il pubblico con divertimento e battute surreali.In definitiva è quindi promettente l'esordio di Gordon-Levitt e anche il tema trattato.Promosso anche se il rusultato poteva essere migliore,allontanandosi dalla commedia e contraddistinguendosi per una patina maggiormente corrosiva.
J O B S
di Valeria Piras
Apologia riuscita sulla vita del fondatore di Apple.
Nelle sale in questi giorni in Italia è arrivato Jobs,il film autobiografico su Steve Jobs,il padre di Apple.Lo aspettavamo con ansia questo biopic: Jobs infatti,volenti o nolenti è stato l'ultimo eroe globale,un genio capace di cambiare noi e le nostre abitudini. Ammettiamolo,le invenzioni dell'iPod prima e poi dell'iPhone dopo hanno mutato il nostro modo di comunicare,persino le relazioni sociali e professionali si sono modificate radicalmente.Jobs col suo modo di essere imprenditore non solo ha cambiato il destino del capitalismo o del mercato ma ha fatto dell'informatica il nuovo linguaggio, il nuovo simbolo della modernità.All'inizio il computer era solo un insieme di componenti elettronici, con lui è diventato oggetto elegante,strumento con cui imporre la propria identità.Nessuno potrebbe raccontare Apple e Steve Jobs, se non lui stesso,ecco perchè c'era attesa e ansia nel vedere il film sulla sua vita.
Il regista Joshua Michael Stern, si è molto impegnato e malgrado in alcuni punti prevalga una visione quasi televisiva del racconto,il risultato è tutto somma buono.Buono e azzeccati gli attori,compreso un Ashton Kutcher davvero somigliante a Jobs,buona la fotografia e lineare la direzione registica.La storia epocale della Apple è narrata con attenzione e dovizia di aneddoti,anche se forse la grande complessità del carattere di Jobs avrebbe dovuto essere analizzata meglio,ma forse sarebbero servite tre ore di film.Lo sceneggiatore Matt Whiteley azzecca, in scrittura, l'arco di tempo da raccontare: da quel garage mitico in California in cui nacque col socio Wozniak il sogno della mela morsa fino al ritorno nella sua azienda. Affascinante la scena iniziale della prima presentazione dell' iPod con un Kutcher che fin da subito sorprende per la sua somiglianza mimica davvero incredibile e coinvolgente.Lode anche alla colonna sonora che è raffinata e che sembra davvero essere rubata da uno dei walkman tanto usati negli anni ottanta dagli adolescenti americani.
Pezzi bellissimi, come quello dei Led Zeppelin, dei Clash e dei Metallica.In definitiva Jobs è un film che non incanta ma che riesce nel suo intento,mostrare il fuoco iniziale che mosse Steve Jobs alla ricerca della sua meta.Le sfaccettature del suo carattere sono mostrate solo in parte ma ben descritte,il contesto è perfetto e calzante,certo non siamo dinanzi ad un capolavo come la vita di Zuckerberg di David Fincher narrata in The social network,ma il lavoro autobiografico è ben fatto.In altri film del passato la storia di Jobs era stata ripresa,ad esempio nel 1999 I pirati di Silicon Valley,ma si trattava di film adolescenziali.Qui c'è grande differenza artistica invece.Si sarebbe potuto fare meglio certo,ma anche molto peggio.Quindi bene così.Da vedere.
Nelle sale in questi giorni in Italia è arrivato Jobs,il film autobiografico su Steve Jobs,il padre di Apple.Lo aspettavamo con ansia questo biopic: Jobs infatti,volenti o nolenti è stato l'ultimo eroe globale,un genio capace di cambiare noi e le nostre abitudini. Ammettiamolo,le invenzioni dell'iPod prima e poi dell'iPhone dopo hanno mutato il nostro modo di comunicare,persino le relazioni sociali e professionali si sono modificate radicalmente.Jobs col suo modo di essere imprenditore non solo ha cambiato il destino del capitalismo o del mercato ma ha fatto dell'informatica il nuovo linguaggio, il nuovo simbolo della modernità.All'inizio il computer era solo un insieme di componenti elettronici, con lui è diventato oggetto elegante,strumento con cui imporre la propria identità.Nessuno potrebbe raccontare Apple e Steve Jobs, se non lui stesso,ecco perchè c'era attesa e ansia nel vedere il film sulla sua vita.
Il regista Joshua Michael Stern, si è molto impegnato e malgrado in alcuni punti prevalga una visione quasi televisiva del racconto,il risultato è tutto somma buono.Buono e azzeccati gli attori,compreso un Ashton Kutcher davvero somigliante a Jobs,buona la fotografia e lineare la direzione registica.La storia epocale della Apple è narrata con attenzione e dovizia di aneddoti,anche se forse la grande complessità del carattere di Jobs avrebbe dovuto essere analizzata meglio,ma forse sarebbero servite tre ore di film.Lo sceneggiatore Matt Whiteley azzecca, in scrittura, l'arco di tempo da raccontare: da quel garage mitico in California in cui nacque col socio Wozniak il sogno della mela morsa fino al ritorno nella sua azienda. Affascinante la scena iniziale della prima presentazione dell' iPod con un Kutcher che fin da subito sorprende per la sua somiglianza mimica davvero incredibile e coinvolgente.Lode anche alla colonna sonora che è raffinata e che sembra davvero essere rubata da uno dei walkman tanto usati negli anni ottanta dagli adolescenti americani.
Pezzi bellissimi, come quello dei Led Zeppelin, dei Clash e dei Metallica.In definitiva Jobs è un film che non incanta ma che riesce nel suo intento,mostrare il fuoco iniziale che mosse Steve Jobs alla ricerca della sua meta.Le sfaccettature del suo carattere sono mostrate solo in parte ma ben descritte,il contesto è perfetto e calzante,certo non siamo dinanzi ad un capolavo come la vita di Zuckerberg di David Fincher narrata in The social network,ma il lavoro autobiografico è ben fatto.In altri film del passato la storia di Jobs era stata ripresa,ad esempio nel 1999 I pirati di Silicon Valley,ma si trattava di film adolescenziali.Qui c'è grande differenza artistica invece.Si sarebbe potuto fare meglio certo,ma anche molto peggio.Quindi bene così.Da vedere.
PRISM - Katy Perry
di Valeria Piras
Torna la regina del pop Usa.Ed è rinascita.
Katy Perry,la terribile ed esplosiva californiana,icona pop degli ultimi anni è tornata. Si intitola Prism il suo nuovo album di inediti nei negozi da pochi giorni. Si tratta del suo quarto lavoro in studio e mai titolo fu più azzeccato per definire l’artista. Katy Perry infatti anche in questo album si dimostra ricca di sfaccettature,stili e caratteristiche con un unico comun denominatore,il grande talento musicale. Non si tratta di un disco con significati nascosti o criptici come spesso accade,fin dalla cover del disco si colgono apertamente le intenzioni della cantante,il prisma infatti è un oggetto che provoca fascino per la sua peculiarità di dividere la luce bianca in tutte le altre tonalità che la compongono. E proprio tale è lo scopo che Katy Perry si pone con i suoi pezzi, prendere tutti sentimenti, le sfaccettature e le peculiarità della vita e tentare di rifrangerli alla perfezione. Ogni canzone è una chiara istantanea del mondo musicale dell’artista che l’ha scritto, un vero e proprio collage che ad un primo impatto potrebbe anche sembrare troppo disomogeneo, ma è grazie alla ricca personalità di Katy Perry, tutti i brani riescono a restare uniti e collegati ad un’idea di fondo.
Ascoltando i 13 pezzi del disco si viaggia dentro generi, epoche storiche, persino culture provenienti dai più svariati Paesi del mondo. Un grande percorso musicale che comincia dal pop per passare poi a stili ed atmosfere che sembrano slegate fra loro,ma solo all’apparenza. Proprio come i colori dell’arcobaleno, che guardandoli sembrano tutti diversi e inconciliabili tra loro, ma una volta uniti danno un’unica luce. La stessa Katy ha raccontato che questo disco segna la sua rinascita emotiva dopo il complicatissimo periodo personale vissuto lo scorso anno (un episodio su tutti il divorzio dal marito Russell Brand). In “Prism” la cantante infila tutta la sua visione positiva della vita ed il coraggio di riprendere in mano la propria vita ed guardare il futuro dritto negli occhi senza paure né angosce negative. Non è casuale che il primo singolo lanciato sia stato il brano Roar, che, anche se non brilla troppo per originalità a livello testuale, rappresenta comunque benissimo l’approccio nuovo e positivo dell’album. Grande solarità ed allegria che del resto sono due sentimenti che spesso ricorrono nella musica di Katy Perry ed anche in “Prism” ne troviamo numerosi esempi. I primi sette pezzi del disco sono potenti e allegri,davvero densi di emozioni,la seconda parte invece volta verso la riflessione, con brani più sommessi e ballate dolci e romantiche.
Ecco allora la vera essenza del suo nuovo album, un disco in parte da ballare grazie a canzoni come “Walking On Air” (pubblicato in anteprima nel countdown al rilascio), ma anche alla funky “Birthday” che subito rimanda agli anni ’70, “This Is How We Do”, con forti incursioni r’n'b e “Dark Horse” realizzata con Juicy J e dalle sonorità hip hop cupe ed in cui in vari momenti si riesce addirittura a confondere la voce della Perry con quella di Ke$ha. E ancora “International Smile”, prototipo del tipico tormentone estivo, che ci fa ricordare hit del passato più recente come “Teenage Dream”. L’altro lato della medaglia è caratterizzato,come detto, da brani più intimi e morbidi, come “Unconditionally”, che sarà il secondo singolo estratto ma anche “Ghost”, delicata ed intensa ballata arricchita con un quartetto d’archi superbo ed alla quale si avvicina musicalmente “Double Rainbow”, ed il brano di chiusura “By The Grace Of God”, con un forte ritmo di tamburi che subito si spegne e poi riprende per evidenziare ed esaltare la voce graffiante della cantante,forse il brano migliore dell’album. Insomma Katy è tornata alla ribalta e promette di dominare le scene pop per tutto il 2014.
Katy Perry,la terribile ed esplosiva californiana,icona pop degli ultimi anni è tornata. Si intitola Prism il suo nuovo album di inediti nei negozi da pochi giorni. Si tratta del suo quarto lavoro in studio e mai titolo fu più azzeccato per definire l’artista. Katy Perry infatti anche in questo album si dimostra ricca di sfaccettature,stili e caratteristiche con un unico comun denominatore,il grande talento musicale. Non si tratta di un disco con significati nascosti o criptici come spesso accade,fin dalla cover del disco si colgono apertamente le intenzioni della cantante,il prisma infatti è un oggetto che provoca fascino per la sua peculiarità di dividere la luce bianca in tutte le altre tonalità che la compongono. E proprio tale è lo scopo che Katy Perry si pone con i suoi pezzi, prendere tutti sentimenti, le sfaccettature e le peculiarità della vita e tentare di rifrangerli alla perfezione. Ogni canzone è una chiara istantanea del mondo musicale dell’artista che l’ha scritto, un vero e proprio collage che ad un primo impatto potrebbe anche sembrare troppo disomogeneo, ma è grazie alla ricca personalità di Katy Perry, tutti i brani riescono a restare uniti e collegati ad un’idea di fondo.
Ascoltando i 13 pezzi del disco si viaggia dentro generi, epoche storiche, persino culture provenienti dai più svariati Paesi del mondo. Un grande percorso musicale che comincia dal pop per passare poi a stili ed atmosfere che sembrano slegate fra loro,ma solo all’apparenza. Proprio come i colori dell’arcobaleno, che guardandoli sembrano tutti diversi e inconciliabili tra loro, ma una volta uniti danno un’unica luce. La stessa Katy ha raccontato che questo disco segna la sua rinascita emotiva dopo il complicatissimo periodo personale vissuto lo scorso anno (un episodio su tutti il divorzio dal marito Russell Brand). In “Prism” la cantante infila tutta la sua visione positiva della vita ed il coraggio di riprendere in mano la propria vita ed guardare il futuro dritto negli occhi senza paure né angosce negative. Non è casuale che il primo singolo lanciato sia stato il brano Roar, che, anche se non brilla troppo per originalità a livello testuale, rappresenta comunque benissimo l’approccio nuovo e positivo dell’album. Grande solarità ed allegria che del resto sono due sentimenti che spesso ricorrono nella musica di Katy Perry ed anche in “Prism” ne troviamo numerosi esempi. I primi sette pezzi del disco sono potenti e allegri,davvero densi di emozioni,la seconda parte invece volta verso la riflessione, con brani più sommessi e ballate dolci e romantiche.
Ecco allora la vera essenza del suo nuovo album, un disco in parte da ballare grazie a canzoni come “Walking On Air” (pubblicato in anteprima nel countdown al rilascio), ma anche alla funky “Birthday” che subito rimanda agli anni ’70, “This Is How We Do”, con forti incursioni r’n'b e “Dark Horse” realizzata con Juicy J e dalle sonorità hip hop cupe ed in cui in vari momenti si riesce addirittura a confondere la voce della Perry con quella di Ke$ha. E ancora “International Smile”, prototipo del tipico tormentone estivo, che ci fa ricordare hit del passato più recente come “Teenage Dream”. L’altro lato della medaglia è caratterizzato,come detto, da brani più intimi e morbidi, come “Unconditionally”, che sarà il secondo singolo estratto ma anche “Ghost”, delicata ed intensa ballata arricchita con un quartetto d’archi superbo ed alla quale si avvicina musicalmente “Double Rainbow”, ed il brano di chiusura “By The Grace Of God”, con un forte ritmo di tamburi che subito si spegne e poi riprende per evidenziare ed esaltare la voce graffiante della cantante,forse il brano migliore dell’album. Insomma Katy è tornata alla ribalta e promette di dominare le scene pop per tutto il 2014.
REFLEKTOR - Arcade Fire
di Valeria Piras
Sempre spiazzante il nuovo lavoro degli eredi dei Clash.
Gli Arcade Fire sono stati per anni una vera novità nel panorama rock internazionale,una vera gioia ascoltare la verve delle loro vibrazioni,graffianti e intense.Gli ultimi album sono stati un vero successo,con essi la band è divenuta una band di altissimo livello.Il quarto album del gruppo canadese non delude certo le attese ma secondo molti è davvero complesso farlo oggetto di una vera catalogazione.Il titolo del disco è Reflektor ed è un'opera che mostra grande complessità di livelli nata da stimoli diversissimi tutti racchiusi poi nei pezzi che lo compongono.Nonostante le voci messe in giro il disco non è un omaggio alla poliritmia o all’influsso etnico come si credeva,limitate sono le sperimentazioni.La band usa in modo strategico molti elementi per arricchire un mood che rimane comunque facilmente riconoscibile e al cento per cento Arcade Fire. Nessuna grande sorpresa quindi anche se in brani come Awful Sound (Oh Eurydice) o Flashbulb Eyes l'elemento ritmico tribale acquista una certa importanza, in altri pezzi come Here Comes The Night Time è un elemento a scomparsa e nel singolo Reflektor poco più di una cornice.
C'è poi la grande figura di James Murphy,anche se Reflektor non è “il disco di James Murphy”. E' comunque vero che canzoni come Porno e Supersymmetry sono vere espressioni della sua estetica e le vibrazioni synth unite ai riverberi delle chitarre testimoniano il suo grande talento.Comunque sia i suoni dell'album non si tramutano in quel post-punk inglese che in passato aveva caratterizzato.Reflektor un disco che anche se possiede una forte ballabilità generica in stile DFA, rimane un lavoro paradossalmente conservatore e pieno di riferimenti storicizzati: primo fra tutti i Rolling Stones come nel If I Was A Dancer (Dance Pt 2) e tranne alcune influenze anni '80 i riff dei fiati e persino certi cambi di accordi restano di forte impatto.Il pezzo Flashbulb Eyes ha forti echi dei primi Clash e da al disco il marchio di fabbrica anche se resta in alcuni punti la spruzzata synth, simil Prince col suo electro-funk solido e tiratissimo.Forti influenze anche dei Blondie e dei Cure e il tutto sembra ricollegarsi alla storia di Orfeo e Euridice che è presente sulla copertina stessa del disco.Anche il fronte dei testi è caratteristico e spazia molto dalla relazionalità tra individui, di rapporti affettivi, di disillusione. Un vero labirinto letterario oltre che musicale.Reflektor è una vera stanza degli specchi difficile da delineare.
Ma è tutto tipico di un gruppo originale che ha dato vita ad un lavoro ambizioso ed esteticamente potente, il cui scopo principe sembra riposizionare lo status della band e elevare l'amore per la scoperta musicale ai massimi livelli.Il punto forte dell'album è una scrittura che possiede il grande impatto e la coesione del precedente disco The Suburbs, ma aumenta anche in fascino e verve evocativa.Reflektor è un album davvero pieno di particolari, che necessita di un ascolto profondo e attento.Una vera giostra di suoni che promette e mantiene e soprattutto non solo musicalmente intenso ma anche sorprendentemente popular.
Gli Arcade Fire sono stati per anni una vera novità nel panorama rock internazionale,una vera gioia ascoltare la verve delle loro vibrazioni,graffianti e intense.Gli ultimi album sono stati un vero successo,con essi la band è divenuta una band di altissimo livello.Il quarto album del gruppo canadese non delude certo le attese ma secondo molti è davvero complesso farlo oggetto di una vera catalogazione.Il titolo del disco è Reflektor ed è un'opera che mostra grande complessità di livelli nata da stimoli diversissimi tutti racchiusi poi nei pezzi che lo compongono.Nonostante le voci messe in giro il disco non è un omaggio alla poliritmia o all’influsso etnico come si credeva,limitate sono le sperimentazioni.La band usa in modo strategico molti elementi per arricchire un mood che rimane comunque facilmente riconoscibile e al cento per cento Arcade Fire. Nessuna grande sorpresa quindi anche se in brani come Awful Sound (Oh Eurydice) o Flashbulb Eyes l'elemento ritmico tribale acquista una certa importanza, in altri pezzi come Here Comes The Night Time è un elemento a scomparsa e nel singolo Reflektor poco più di una cornice.
C'è poi la grande figura di James Murphy,anche se Reflektor non è “il disco di James Murphy”. E' comunque vero che canzoni come Porno e Supersymmetry sono vere espressioni della sua estetica e le vibrazioni synth unite ai riverberi delle chitarre testimoniano il suo grande talento.Comunque sia i suoni dell'album non si tramutano in quel post-punk inglese che in passato aveva caratterizzato.Reflektor un disco che anche se possiede una forte ballabilità generica in stile DFA, rimane un lavoro paradossalmente conservatore e pieno di riferimenti storicizzati: primo fra tutti i Rolling Stones come nel If I Was A Dancer (Dance Pt 2) e tranne alcune influenze anni '80 i riff dei fiati e persino certi cambi di accordi restano di forte impatto.Il pezzo Flashbulb Eyes ha forti echi dei primi Clash e da al disco il marchio di fabbrica anche se resta in alcuni punti la spruzzata synth, simil Prince col suo electro-funk solido e tiratissimo.Forti influenze anche dei Blondie e dei Cure e il tutto sembra ricollegarsi alla storia di Orfeo e Euridice che è presente sulla copertina stessa del disco.Anche il fronte dei testi è caratteristico e spazia molto dalla relazionalità tra individui, di rapporti affettivi, di disillusione. Un vero labirinto letterario oltre che musicale.Reflektor è una vera stanza degli specchi difficile da delineare.
Ma è tutto tipico di un gruppo originale che ha dato vita ad un lavoro ambizioso ed esteticamente potente, il cui scopo principe sembra riposizionare lo status della band e elevare l'amore per la scoperta musicale ai massimi livelli.Il punto forte dell'album è una scrittura che possiede il grande impatto e la coesione del precedente disco The Suburbs, ma aumenta anche in fascino e verve evocativa.Reflektor è un album davvero pieno di particolari, che necessita di un ascolto profondo e attento.Una vera giostra di suoni che promette e mantiene e soprattutto non solo musicalmente intenso ma anche sorprendentemente popular.
UNA PICCOLA IMPRESA MERIDIONALE
di Valeria Piras
Una commedia agrodolce sulla vita e i cambiamenti.
Rocco Papaleo oltre che un ottimo attore comico si è già cimentato nell'arte registica con il suo esordio Basilicata Coast to Coast,che suscitò ammirazione e simpatia.Papaleo avrebbe potuto adagiarsi su quella falsa riga e sul successo ottenuto e decidere, furbescamente, di replicarne la formula.Invece nulle di tutto questo con il suo secondo film da regista dal titolo Una piccola impresa meridionale,il registro è totalmente mutato e chiaro è il tentativo dell' attore/regista lucano di cercare strade nuove.Si tratta di una storia dal forte taglio personale (che è divenuta anche un romanzo, attualmente in libreria) che racconta con maestria una serie complessa di temi quali la fede, le relazioni familiari, il bisogno di radici e la necessità di ristrutturare/reinventare la propria vita. Protagonista è Costantino (Papaleo) ex prete molto religioso ma in conflitto con la fede.
Nel suo percorso personaggi ben delineati come Rosa Maria, che ha appena lasciato suo marito Arturo, fuggendo con un non meglio identificato amante e Raffaele (Scamarcio) e Jennifer, con al seguito la piccola Mela; i due sono gli eccentrici proprietari di una ditta di ristrutturazioni, chiamata da Costantino per la manutenzione di un edificio.Davvero un tentativo di novità che va applaudito per il simpatico artista, e che rappresenta in realtà un ritorno al classico, alle radici di certa commedia all'italiana, al suo tono sottilmente malinconico ma pregnante, alla sua galleria di personaggi in cui si ritrovano vizi e virtù dell'italiano medio.La storia narrata forse sembrerebbe una normalizzazione rispetto alla struttura frammentata, sincopata e narrativamente originalissima del film precedente,una specie di passo indietro davanti a quel mainstream a cui, in fondo, lo stesso Papaleo non ha mai negato di appartenere. Però sarebbe un'analisi errata: perché la sincerità di questo progetto, unita (malgrado i suoi difetti) all'evidente simpatia che ispira, sono una caratteristica innegabile. Come detto forse per il regista sarebbe stato molto più facile, cercare di replicare l'alchimia anche di immagini e suoni che aveva davvero sorpreso tutti nel suo film d'esordio, col rischio di trasformarne l'estetica in un eccesso di maniera.
Ma aldilà di questi ragionamenti, Papaleo resta un talento comico naturale, pure molto versatile nel riprodurre personaggi diversi, mantenendo una linea personale e sopra le righe sempre presente. La esperienza dei tempi comici, e la buona sicurezza mostrata, anche qui, nella gestione del cast, fanno di questo film un prodotto comunque originale e godibile. Un plauso va dato anche alla colonna sonora, qui meno integrata nella struttura filmica rispetto al film precedente, un pò ridotta semplice "tappeto di note", tendente solo a sottolineare le singole sequenze: un lavoro comunque di tutto rispetto, con la presenza di molte band della scena jazz nazionale e lucana.Ad esempio ascoltando la canzone Dove cadono i fulmini della cantautrice Erica Mou, scritto precedentemente al film e fortemente voluto da Papaleo, la colonna sonora si alza su tutto il resto e da corpo e potenza all'intera pellicola.
Rocco Papaleo oltre che un ottimo attore comico si è già cimentato nell'arte registica con il suo esordio Basilicata Coast to Coast,che suscitò ammirazione e simpatia.Papaleo avrebbe potuto adagiarsi su quella falsa riga e sul successo ottenuto e decidere, furbescamente, di replicarne la formula.Invece nulle di tutto questo con il suo secondo film da regista dal titolo Una piccola impresa meridionale,il registro è totalmente mutato e chiaro è il tentativo dell' attore/regista lucano di cercare strade nuove.Si tratta di una storia dal forte taglio personale (che è divenuta anche un romanzo, attualmente in libreria) che racconta con maestria una serie complessa di temi quali la fede, le relazioni familiari, il bisogno di radici e la necessità di ristrutturare/reinventare la propria vita. Protagonista è Costantino (Papaleo) ex prete molto religioso ma in conflitto con la fede.
Nel suo percorso personaggi ben delineati come Rosa Maria, che ha appena lasciato suo marito Arturo, fuggendo con un non meglio identificato amante e Raffaele (Scamarcio) e Jennifer, con al seguito la piccola Mela; i due sono gli eccentrici proprietari di una ditta di ristrutturazioni, chiamata da Costantino per la manutenzione di un edificio.Davvero un tentativo di novità che va applaudito per il simpatico artista, e che rappresenta in realtà un ritorno al classico, alle radici di certa commedia all'italiana, al suo tono sottilmente malinconico ma pregnante, alla sua galleria di personaggi in cui si ritrovano vizi e virtù dell'italiano medio.La storia narrata forse sembrerebbe una normalizzazione rispetto alla struttura frammentata, sincopata e narrativamente originalissima del film precedente,una specie di passo indietro davanti a quel mainstream a cui, in fondo, lo stesso Papaleo non ha mai negato di appartenere. Però sarebbe un'analisi errata: perché la sincerità di questo progetto, unita (malgrado i suoi difetti) all'evidente simpatia che ispira, sono una caratteristica innegabile. Come detto forse per il regista sarebbe stato molto più facile, cercare di replicare l'alchimia anche di immagini e suoni che aveva davvero sorpreso tutti nel suo film d'esordio, col rischio di trasformarne l'estetica in un eccesso di maniera.
Ma aldilà di questi ragionamenti, Papaleo resta un talento comico naturale, pure molto versatile nel riprodurre personaggi diversi, mantenendo una linea personale e sopra le righe sempre presente. La esperienza dei tempi comici, e la buona sicurezza mostrata, anche qui, nella gestione del cast, fanno di questo film un prodotto comunque originale e godibile. Un plauso va dato anche alla colonna sonora, qui meno integrata nella struttura filmica rispetto al film precedente, un pò ridotta semplice "tappeto di note", tendente solo a sottolineare le singole sequenze: un lavoro comunque di tutto rispetto, con la presenza di molte band della scena jazz nazionale e lucana.Ad esempio ascoltando la canzone Dove cadono i fulmini della cantautrice Erica Mou, scritto precedentemente al film e fortemente voluto da Papaleo, la colonna sonora si alza su tutto il resto e da corpo e potenza all'intera pellicola.
INNOCENTS - Moby
di Valeria Piras
Ritorno dall'inferno per il talentuoso Moby.
Moby dopo il folgorante successo iniziale era lentamente sparito dalla scena e caduto in una sorta di oblio musicale,gravissimo per un artista del suo calibro.Quasi nessuno quindi si sarebbe sognato di comprare il suo nuovo album “Innocents” a scatola chiusa, sicuro di potervi trovare qualcosa di interessante e stimolante. Anche chi ha amato molto Moby in buona parte delle sue incarnazioni era titubante sulla nuova verve del musicista americano. E invece, il suo nuovo disco è un'inattesa inversione di rotta, un colpo di coda,una vera luce musicale. Un balzo da capogiro, una forte impennata sul suo percorso artistico.Quello stesso che dopo l'ultima, eccitante sbornia arrivata con “Last Night” avevacome detto,iniziato la direzione dapprima di una malinconia radente il cantautorato (“Wait For Me”, canto del cigno delizioso quanto preoccupante) per poi accomodarsi su una forma di bedroom music scipata e passiva nell'ultimo disco “Destroyed”,un mezzo fiasco.
Sembrava un classico calo progressivo, di quelli lenti ma inesorabili,che stavano sottraendo la linfa vitale del newyorkese.Ma proprio mentre il crollo era dietro l'angolo, eccoci di fronte alla resurrezione, che passa attraverso l'abbandono dell'autocontemplazione in favore del cammino che porta alla contaminazione: Moby abbandona la classica solitudine nella quale aveva partorito i due predecessori e chiama a sé, per la prima volta, un cameo di ospiti di lusso, ricalcando il successo ottenuto da Trentemøller in “Lost” con un'operazione analoga. Ma forse il vero ingrediente della rinascita sta nel ritorno al ricorso, in dosi massicce, a quella che è sempre stata la sua arma in più, il suo asso nella manica: il cuore.Nell'album c'è un non tanto velato omaggio ai Massive Attack di “Unfinished Sympathy” in una “Saints” gradevole ma che è forse l'unico brano a non brillare di luce propria, sono presenti però tre autentici capolavori che garantiscono la rinascita del timido Richard: “The Lonely Night”, notturno noir dove Mark Lanegan gioca il ruolo del cantastorie sotto la luna piena; l'apoteosi desolata di “The Dogs” - unico brano cantato dall'autore – e soprattutto la bella e disarmante “Almost Home”, immersione in una nostalgia paradisiaca cullata dalla splendida voce di Damien Jurado, dovci sono lacrime amalgamate con sorrisi.
Nessuno ci avrebbe scommesso, nessuno ci ha davvero creduto. Nessuno tranne lui, Moby, l'artista dal cuore grande con la sublime semplicità della sua arte.Moby ha messo da parte critici e detrattorinon aveva colpe se non quella di non essere abbastanza spavaldo, abbastanza strafottente, abbastanza personaggio. Molti gli devono invece adesso un inchino profondo. Un grazie che arriva da chi ascolta,direttamente dal cuore.
Moby dopo il folgorante successo iniziale era lentamente sparito dalla scena e caduto in una sorta di oblio musicale,gravissimo per un artista del suo calibro.Quasi nessuno quindi si sarebbe sognato di comprare il suo nuovo album “Innocents” a scatola chiusa, sicuro di potervi trovare qualcosa di interessante e stimolante. Anche chi ha amato molto Moby in buona parte delle sue incarnazioni era titubante sulla nuova verve del musicista americano. E invece, il suo nuovo disco è un'inattesa inversione di rotta, un colpo di coda,una vera luce musicale. Un balzo da capogiro, una forte impennata sul suo percorso artistico.Quello stesso che dopo l'ultima, eccitante sbornia arrivata con “Last Night” avevacome detto,iniziato la direzione dapprima di una malinconia radente il cantautorato (“Wait For Me”, canto del cigno delizioso quanto preoccupante) per poi accomodarsi su una forma di bedroom music scipata e passiva nell'ultimo disco “Destroyed”,un mezzo fiasco.
Sembrava un classico calo progressivo, di quelli lenti ma inesorabili,che stavano sottraendo la linfa vitale del newyorkese.Ma proprio mentre il crollo era dietro l'angolo, eccoci di fronte alla resurrezione, che passa attraverso l'abbandono dell'autocontemplazione in favore del cammino che porta alla contaminazione: Moby abbandona la classica solitudine nella quale aveva partorito i due predecessori e chiama a sé, per la prima volta, un cameo di ospiti di lusso, ricalcando il successo ottenuto da Trentemøller in “Lost” con un'operazione analoga. Ma forse il vero ingrediente della rinascita sta nel ritorno al ricorso, in dosi massicce, a quella che è sempre stata la sua arma in più, il suo asso nella manica: il cuore.Nell'album c'è un non tanto velato omaggio ai Massive Attack di “Unfinished Sympathy” in una “Saints” gradevole ma che è forse l'unico brano a non brillare di luce propria, sono presenti però tre autentici capolavori che garantiscono la rinascita del timido Richard: “The Lonely Night”, notturno noir dove Mark Lanegan gioca il ruolo del cantastorie sotto la luna piena; l'apoteosi desolata di “The Dogs” - unico brano cantato dall'autore – e soprattutto la bella e disarmante “Almost Home”, immersione in una nostalgia paradisiaca cullata dalla splendida voce di Damien Jurado, dovci sono lacrime amalgamate con sorrisi.
Nessuno ci avrebbe scommesso, nessuno ci ha davvero creduto. Nessuno tranne lui, Moby, l'artista dal cuore grande con la sublime semplicità della sua arte.Moby ha messo da parte critici e detrattorinon aveva colpe se non quella di non essere abbastanza spavaldo, abbastanza strafottente, abbastanza personaggio. Molti gli devono invece adesso un inchino profondo. Un grazie che arriva da chi ascolta,direttamente dal cuore.